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LA VIA DELLA CONOSCENZA

Non nutre illusioni, non ha ombra di fede il puro conoscitore. Si limita a sapere o a non sapere o a sapere dubitando. Non crede a niente.

A ciò che sa lo conduce non un sentimento, ma una semplice valutazione. Conosce perché verifica.

Inoltre riconosce di vivere morendo, di recedere insensibilmente nel nulla a ogni istante. La morte sarà per lui la dilatazione all’infinito di questa quotidiana esperienza. Non concede una stilla di fiducia a una vita anteriore alla nascita o posteriore alla morte. Perfino con l’intero sistema cerebrale in azione, la sua persona è uno sfasciarsi e ricomporsi senza tregua. Dà prova così di non essere.

La persona è comunque sempre un inganno. Mutevole, insidiata, basta un’inezia a capovolgerla: un innamoramento, un’infatuazione, un’allucinazione. È perennemente erosa dall’oblio, una forza che ne sfibra e usura il nucleo più intimo, l’unico avallo possibile: la memoria. Rammentare è una facoltà in frana costante. Si torni a un luogo prediletto dell’infanzia o della giovinezza: tutto il suo sfarzo apparirà assente, dileguato. Chi semplicemente ricordi, scopre di essere un abissale ciarlatano.

Infine il puro conoscitore non sa che farsene della speranza. Gli basta calcolare le probabilità. Ha piena coscienza di svanire via via che i suoi ricordi si vanno contraffacendo e sfaldando.

In India al puro conoscitore si dischiude una via specifica. La si può illustrare riferendo i ragionamenti inesorabili dei classici più onorati: Gauḍapāda e Śaṅkara, ma esiste, modesto e disponibile, l’insegnamento impartito dai sapienti di villaggio che sono migliaia. Due di questi sono emersi nell’India moderna, affascinando il mondo intero.

Ramana Maharshi (1879-1950) ammaestrò ai piedi dell’Annapūrṇa, ripetendo senza tregua che non siamo il nostro corpo, perfettamente in grado di funzionare da sé, col quale potremmo e dovremmo convivere in un sonnambulismo perpetuo; nemmeno siamo la nostra persona, che è un infinito rinvio: quando ce ne accorgiamo già siamo due. Che cosa rimane? La pura, immutevole attenzione beatifica, che coincide con la nostra identità senza forma, è di tutti e tutti costituisce; essa rende noto ciò che è in quanto è ciò che è, forma lo schermo che permette la sfilata d’immagini cinematografiche che compone l’esistenza, il punto dal quale veglia, sogno e sonno si possono intendere senza parole come un’unica entità.

Basterà ripetersi «chi sono?» eliminando ogni altro pensiero e anche la domanda si estinguerà, come il bastoncino che rimesta le spoglie del cadavere poi buttato sul rogo1.

L’altro maestro, Nisargadatta Mahārāj (1897-1981), tenne lezione nell’appartamentino di Bombay dove fu scovato da Maurice Friedman, un ebreo polacco, europeo peculiare, dalla vita imperniata sull’asse dell’impegno politico. Senonché tutte le sue pie intenzioni andarono a infrangersi sulla razionalità inflessibile di Nisargadatta. Ne risultò un primo, squisito volume di dialoghi, I Am That, pubblicato da Chetana a Bombay2. In seguito Dunn e Balsekar trascrissero altri dialoghi.

Nisargadatta non prendeva quasi mai la parola per primo, lasciava che la gente accorsa nella sua stanza gli ponesse domande. Immancabilmente le repliche riconducevano ogni questione nell’alveo della scuola filosofica attestata in India attorno al 700 d.C., l’advaita Vedānta o conoscenza non duale. Basterebbe un solo scambio di battute e qualsiasi dialettica, a rigore, cesserebbe; eppure no, la ripetizione incessante e senza sorprese affascina, esalta, commuove, acquieta più di qualunque animata narrazione. L’assenza totale di pathos fa vibrare più della poesia lirica, la monotonia assomiglia a una bufera giacché Nisargadatta proietta immediatamente e senza esitare al cuore della filosofia advaita, compiendo ogni volta il miracolo di trasferire in un’aria purissima che pochi riescono a respirare, ma che risveglia nell’intimo una strana nostalgia: la non-separazione dell’io dal Tutto.

La densità con cui talvolta argomenta è inesorabile: la luce del sole, osserva, è il sole, tu sei il tuo mondo, tu ne sei testimone e gli dai l’essere, e aggiunge: «La testimonianza di questa esistenza, di questa coscienza, è la testimonianza del principio eterno, l’assoluto»: sole e luna esistono perché noi siamo; immergiamoci in questa osservazione fino a gioirne.

Contempliamo noi stessi: siamo simili «al daino che si riposa all’ombra d’un albero», in un’ombra né chiara né scura, né opaca né brillante, simile al tono turchino di certe nuvole. Nisargadatta si rifà qui a una metafora poetica molto diffusa: la mente devota è come un daino insidiato dai cacciatori – le iatture della vita; sua colpa è la sua stessa carne – le costruzioni mentali che producono l’illusione della realtà. Ogni cosa fluisce dalla mente-daino; essa non pretende nulla, non si fa influenzare dalle sue operazioni: è «lo stato più alto e naturale». In questa condizione estatica c’è la consapevolezza: non so chi sono e che cosa sono, ma so di essere.

L’aprirsi al puro essere è beatifico, largisce una pienezza eccelsa. Ci si avvede che in quell’aprirsi si contiene tutto il mondo circostante, l’intero stuolo dei fenomeni rispetto ai quali il dischiudimento è principio e causa. Questa è la prima certezza. Noi però siamo abituati a metterci dalla parte dei fenomeni molteplici e per questo siamo tormentati e confusi, crediamo di essere nati e di dover morire, senza renderci conto che questi eventi sono il risultato, la conseguenza di due idee che abbiamo applicato alla realtà arbitrariamente a partire dalla prima infanzia: tempo e spazio. Il tempo non è un’esperienza, e non lo è lo spazio: sono concetti che imprimiamo su ciò che ci appare. Nell’io sono, privo di qualsivoglia qualifica, vivo in un eterno istante.

Si potrebbe osservare che in Kant è presente la stessa concezione di tempo e spazio, ma egli non ne trae risolute deduzioni. Invece Nisargadatta non si accontenta di ricondurre incessantemente all’io sono, obbliga a procedere alla radice dell’io sono: il non-essere, la non-identità poiché, prima di essere, non si è o almeno lo si è senza saperlo.

Il passo al di là è terribilmente arduo, occorre arrestarsi fino a quando sentiremo di sprofondare al di sotto dell’io sono. L’istinto naturale è di aprirci al mondo, di correre innanzi, viceversa bisogna retrocedere, meditare sul fatto che pensiamo e siamo coscienti solo grazie alla vita nel corpo e il corpo non è che cibo trasformato: dobbiamo indietreggiare allo «stato dell’infante ignaro di sé». Tornare al momento in cui si accese in noi bambini piccoli il primo indizio di consapevolezza, spogliati di ogni concetto, ritraendoci in ciò da cui ogni concetto emerge. Puoddarsi che una volta ritratti alla radice di noi stessi, comprenderemo di essere come l’attore che interpreta un ruolo sul palcoscenico del teatro universale.

Si torni indietro al punto in cui si entrò nella realtà, si acquisti il volto che si ebbe prima di nascere, esorta la tradizione indù3.

Si raccolgono bacche, semi, foglie, erbe, carni, e si mangiano. Le tante vivande diventano parte di noi, dominandoci. Uno storico indù di oggi, K.N. Chaudhuri, ha esplorato l’importanza del cibo in L’Asia prima dell’Europa (1991), mostrando come le regole alimentari siano determinate dall’identità religiosa e morale, seppure inconscia. Nisargadatta non smette di affermare che noi siamo cibo, e ciò facendo ravviva una verità primordiale, quella per cui i Maya si erano sentiti granturco e i Giapponesi piante di riso.

Nell’India tradizionale non è in gioco solo la bocca; l’intera epidermide vibra ai profumi e agli odori, brezze la avvolgono, oli la penetrano, e il massaggio quotidiano la tende, la rolla, l’accarezza.

Il corpo, dai piedi alla cima del cranio, si imbeve di alimenti, pelle e mucosa inghiottono la natura circostante fino a diventare tutt’uno con essa.

Ciò che plasma e articola il carattere di una casta è l’alimento, principio centrale del sistema indù, come dimostra C. Malamoud in Cuocere il mondo4. Soltanto vivande di pura natura vegetale si addicono al brahmano, il quale può essere il cuoco di tutti, perché lui solo bada al fuoco con scrupolo e attenzione rituale. Spezie e cibi aggressivi aizzano la furia del guerriero. Cereali, carni e vini suscitano nel contadino laboriosità e piacere. Nisargadatta Mahārāj non smette di ripetere che dai succhi – che sono la sintesi del cibo – sorge la consapevolezza dell’«io sono»: «L’ātman, il vero Sé, vede l’io sono attraverso i succhi o l’essenza del cibo». L’essenza nascosta del cibo è l’io sono, l’esistenza in quanto tale. Questa si esplica nel mondo attraverso l’azione e va fiera attribuendosene la paternità. Tutto questo gioco promana dal cibo, base dell’esistenza.

Sei attivo e operoso perché sei consapevole dell’io sono. Al mattino, al risveglio ottieni quella prima garanzia, la convinzione dell’io sono. Poi, siccome non sei in grado di reggere alla muta evidenza dell’io sono, ti agiti, ti sposti di qua e di là, ti fai coinvolgere nella veglia in tutto ciò che fai. Quando ti addormenti, l’io sono finalmente si dimentica di sé nel sonno profondo. Solo allora sei in pace.

Per affrancarsi dalla conseguenza dell’essere cibo, occorre non considerarsi l’agente delle proprie azioni. Certo, ne siamo il tramite ma non appena ci persuadiamo di non averne piena responsabilità, di non esserne i padri assoluti, un primo soffio di liberazione ci può investire.

Bisognerà rimuovere ogni nome e forma, ogni parola e immagine e si sarà fuori della stretta.

L’io sono o esistenza è il principio dell’esperienza del mondo; c’è la possibilità di esserne i testimoni, è come essere testimoni del sonno profondo. Soltanto da questa condizione di vertice si capirà che la veglia e il sogno non differiscono se non perché il sogno appena mi desto dilegua, mentre nella realtà di veglia m’intestardisco a investire la mia capacità di fede.

Finché ci si ritiene delle persone, si è condannati a morire; una volta spersonalizzati, identificati con l’io sono, la morte perde realtà. Ma anche l’io sono è un’illusione, la prima e primaria illusione che i Veda chiamano «uovo cosmico», perché in essa tutto è contenuto; soltanto nel sonno profondo la si dimentica.

L’attenzione è l’ultima illusione, al di là di essa c’è la consapevolezza del sonno profondo: una volta raggiunto questo vertice, si è liberati. Si cessa di ripetere «sono questo», «sono quello», e di farsi coinvolgere dalla coscienza di questo e di quello.

Io sono è la puntura di spillo o la stretta delle chele dello scorpione da cui tutto proviene: attenzione a quel dolore primario! Scavalca l’io sono, e sarai libero. L’io sono è simile al punto geometrico, non occupa spazio ma determina ogni costruzione spaziale: discioglilo, scancellalo!

Come? Tornando fanciullo: «Prima di afferrare l’io sono, c’è l’infante ignaro Bālakṛṣṇa. In seguito, quando l’ignoranza acquista coscienza di sé, si chiama conoscenza. La conoscenza scancella Bālakṛṣṇa, l’ignoranza. In questo stato di kṛṣṇa il Signore Kṛṣṇa espose la conoscenza per poi riassorbirsi nell’Assoluto, il suo stato originale.

Mentre Nisargadatta così parlava all’età di settantaquattro anni, diceva di sentirsi un infante ed esortava a tornare allo stato originale – quando l’io sono non è ancora segnato dal sono questo o sono quello, fino ad abolire da ultimo l’io sono. A quel punto finalmente si ripeterà col maestro: «Sto parlando da un punto di vista in cui non conosco me stesso e non so di essere. Non appartengo al mondo della veglia e del sonno».

Da questa condizione egli rammenta senza tregua che ci si identifica con i propri pensieri, ma questi sono generati dal corpo e il corpo è generato dal cibo, è cibo nato dal sole.


1 Si veda H. Zimmer, Der Weg zum Selbst. Lehre und Leben des Indischen Heiligen Shri Ramana Maharshi aus Tiruvannamalai, Zürich, Rascher Verlag, 1944.

2 Io sono Quello. I dialoghi di un sapiente di villaggio uscivano in prima versione italiana a cura di G. Marchianò nella collana «Paràmita» diretta da E. Zolla, 2 voll., Milano, Rizzoli, 1982 (N.d.C.).

3 La frase citata da Zolla rispecchia in modo del pari inequivocabile la prospettiva buddhista al cui fondo, com’è noto, c’è la dissoluzione dell’idea di persona: ātman si converte in anatta = non sé (N.d.C.).

4 C. Malamoud, Cuocere il mondo, tr. it., Milano, Adelphi, 1994 (N.d.C.).