5.
LA VIA DEL SENTIMENTO
La maggior parte degli uomini è legata al sentimento alimentato nella prima infanzia: l’attaccamento alla madre ne è la sostanza. Il mondo persiste nell’assetto impresso all’inizio della vita cosciente, si sente che ogni forza proviene da Dio o dagli dèi. L’amore è la forza maggiore, decisiva, il nucleo universale.
Nel Ṛgveda si attribuisce a ogni dio una porzione (bhakta) dell’energia cosmica che il dio poi largisce al devoto e si afferma che costui (VIII, 48, 14), gli strumenti rituali e le offerte (X, 15, 5; I, 85, 7) divengono cari (priya) agli dèi, e così s’instaura con loro l’amicizia (mitra, «amico», da mi-: «fissare, edificare», anche «sapere»).
La bevanda inebriante, soma, fa esultare chi è caro al dio dell’ebbrezza Soma. Fra gli dèi il più misericordioso verso chi gli si rivolga è Varuṇa, dimorante nelle acque primordiali. Il rapporto con Indra, fonte d’ogni atto e pensiero, sostituito poi da Varuṇa, si tramuta in eros: «I miei pensieri ti toccano, Indra possente, come mogli innamorate dei mariti amanti» (Ṛgveda, I, 62, 11; X, 43, 1).
La parola bhakti significa «distribuzione, porzione, suddivisione, serie», anche «appartenenza, attaccamento» e «devozione», «fede». La via della devozione o bhaktimārga sorge dall’amorevolezza che pervadeva l’officiante dei riti vedici. Bhakti incluse la carità spontanea e devota del fratello, dell’innamorato rapito; il beneficiario di bhakti si denominò bhagavat (bhaga indica il potere spirituale, -vat è il suffisso di possesso). C’è anche una bhakti buddhista, puro afflato senza desiderio.
Nel secolo XIX si pretese che la via del sentimento provenisse dal cristianesimo, oggi nessuno oserebbe riproporre questa tesi. G.A. Grierson attribuì a bhakti una genesi tutta particolare: i guerrieri viṣṇuiti, desiderosi di assimilare il culto dei demoni yakṣa e dei nāga, gli esseri-serpente, avrebbero adottato questa inclinazione al sentimento. Invece R.G. Bhandarkar congetturò la nascita d’una fede nuova, monoteistica (ekāntika dharma) ed emotiva, avviata da Kṛṣṇa Vāsudeva fra il III e il IV secolo.
Bhakti nelle Upaniṣad comporta l’affondo nel piano impersonale dell’essere, ma designa a volte anche l’amore di un dio personale. La Bṛhadāraṇyaka (I, 4, 8) insegna che tutti gli amori rinviano al desiderio dell’Assoluto, simboleggiato dal tamburo divino il cui rullo genera tutte le cose. È al tamburo che il devoto si rivolge invece di fissarsi sulle mille manifestazioni che ne provengono. Chi sa riflettere comprende che l’interiorità è il luogo dell’Assoluto e che chi lo cerca nel mondo esteriore non lo trova. A questo processo Śaṅkara dà il nome di meditazione, Rāmānuja quello di bhakti. Per Śaṅkara bhakti è il frutto finale del processo: la comunione con il sé interiore che coincide con la somma verità inafferrabile dalla ragione, questa infatti s’intrattiene con gli opposti e i contrari, allestendo antinomie dispiegate nel tempo e nello spazio; invece è una rivelazione dell’Assoluto il lampo che fuga ogni distinzione fra noi e l’essere, coinvolgendoli l’uno nell’altro, e ci trasmuta; questo risultato non proviene dal nostro sforzo, ma è l’autorivelarsi dell’essere a se stesso.
Śaṅkara spiega che, dal punto di vista dell’Assoluto, l’essere non può che apparire impersonale benché lo si determini attribuendogli un nome e una forma. La tradizione attribuisce a Śaṅkara, sommo maestro del pensiero ma anche devoto di bhakti, la composizione di inni poetici.
La Muṇḍaka Upaniṣad (III, 1, 3) si rivolge all’essere al maschile singolare come sommo (parama), creatore luminoso, persona cosmica (puruṣa, «persona» e īś o īśvara, «signore»: īś deriva dalla stessa radice del tedesco eigen e dell’inglese own, «proprio»).
L’Upaniṣad dai toni più bhaktici è la Śvetāsvatara, che innalza questa preghiera: «Io, desideroso di liberazione, prendo rifugio nel Signore, nella luce (prakāśa) della sua conoscenza di sé» (VI, 18; alcuni redattori al posto di prakāśa leggono prasāda: «colui che si rende noto mercè la sua grazia»).
Nel Mahābhārata bhakti non è esattamente sinonimo di «liberazione», ma il grande saggio Nārada Nārāyaṇa rivela che chi si fa penetrare dall’amore bhaktico è liberato. E ugualmente nella Bhagavad Gītā, Kṛṣṇa esorta: «bhajasva mām!» (IX, 33), «partecipa di me, amami!». Bhandarkar spiegò l’incitazione come un tentativo di compromesso fra i primi seguaci della via del sentimento e l’ortodossia brahmanica.
La pratica del bhaktiyoga da parte del fedele comporta due momenti: la rinuncia al frutto delle azioni e all’identificazione con l’io personale, e il prendere dimora in Kṛṣṇa con piena e ardente devozione (bhajana), sicché il dio e lui diventano cari (prīya) l’uno all’altro. Grazie a questo yoga, lo sgomento, l’illusione e l’oblio si dissolvono e le percezioni grossolane sono sottomesse. All’apice della devozione bhaktica l’occhio del fedele, del tutto interiorizzato, diventa capace di scorgere l’intero universo nel corpo di Kṛṣṇa, una visione stupefacente che fa drizzare i capelli (hṛṣṭaroman), largendo una gioia sfrenata. Nel Nāradapañcarātra Kṛṣṇa è adorato come un dio fanciullo dalle gopī, le bovare innamorate e le mucche divine; la bhakti si sviluppa come il ricordo di lui, come evocazione del suo nome, come prostrazione dinanzi alla sua immagine e ascolto delle sue lodi, infine l’associazione (sakhya) con Kṛṣṇa conduce l’anima alla capitolazione totale. Il testo canonico della bhakti, il Bhāgavata Purāṇa, redatto forse nel Tamilnādu, risale presumibilmente ai secoli IX e X: vi si narra del dio il cui culto è esaltato al di sopra dei sacrifici vedici. Il devoto è incitato a imitare il trascinamento estatico delle bovare devote al dio fanciullo, tanto da abbandonare l’obbedienza al dharma, la tassativa norma sociale, arrendendosi all’amore bhaktico. La liberazione è dunque la semplice conseguenza dell’esperienza beatifica, appuntata estaticamente sul Signore. L’amor Dei si esplicita come l’intensificazione estrema del sentire e la bhakti sostituisce la liberazione come scopo dell’esistenza. La via del sentimento si radicò nelle grandi ondate di bhakti che spazzarono l’India meridionale fra il VI e il X secolo, ad opera di menestrelli e bardi chiamati āl-vār, gli «immersi», i «profondi», succeduti all’età della morte leggendaria di Kṛṣṇa, attorno al 3102 a.C. secondo la tradizione. I canti degli āl-vār, che formano il Veda tamilo, erano innalzati al Signore Kṛṣṇa con la foga trascinante di donne innamorate; si vuole che Āṇṭāḷ, la poetessa nuda, celebrasse perfino le nozze con Lui.
Un canto bhaktico di Poykaiyāl-vār recita così: «Quando fu frullato il mare? Da quale terra è stata ricevuta l’acqua? Non ne capisco nulla. Ma quello è il mare su cui Tu giaci nel sonno dopo averlo sbarrato con un ponte che hai fatto poi a pezzi! Questa è la terra che hai creato, sollevato, inghiottito e vomitato!» dice il poeta nella versione di Emanuela Panattoni, e conclude: «Hai visto, cuore mio? Māl [Viṣṇu] dai rossi occhi è merito e insieme colpa. Egli è ogni apparenza esteriore, è questa terra, è il mare ondoso, il vento, il cielo. Comprendilo indefettibilmente!».
Un altro bardo, Pūtattāl-vār, descrive l’emblematico gioco universale: la conoscenza ha una coppa, l’amore; ha un olio, il desiderio, e infine uno stoppino, «la mente incendiata di beatitudine». Di qui procede con travolgente allegria a inneggiare alla vita di Kṛṣṇa.
Tirumalicaiyāl-vār adotta a sua volta un gergo quasi identico a quello della mistica cristiana: «Investighiamo, e la risposta sarà che Dio è uno solo. Nessuno può conoscere la sua grandezza […] Per chi pratica l’ascesi, quale che sia, il frutto è la grazia accanto al Signore armato del disco». Mercè la grazia divina lo schiavo di Dio si tramuta come un cibo amarognolo in curry.
Kulacēkaran appunta invece lo sguardo sugli innamorati di Dio e ne assorbe lo stato estatico:
I servitori sono storditi d’amore per il Sire di Araṅkam, nostro sovrano, e si levano, danzano, cantano, vagano ammaliati da Lui dagli occhi di loto e il vasto petto inghirlandato dal fiore profumato di tulāy in cui frugano le api […] Dalla loro ebbrezza il mio cuore è ammaliato. Schiavi del Sire di Araṅkam, Padre, mio Signore, i devoti si prostrano, danzano estatici, cadono in deliquio, languiscono, rabbrividiscono, piangono lacrime copiose.
Pazzo è chiunque sia diverso da loro.
Tirumaṅkaiyāl-vār indugia sul motivo della vita trascorsa nella libidine e nella stoltezza e quindi celebra l’incontro redentore: «In questo corpo di carne, impastato di terra, acqua, fuoco, aria e cielo corso da nubi, piangevo, languivo, mi sfinivo. Ma sono venuto a rifugiarmi presso di Te, o Signore del Vēṅkaṭam colmo di profumi, dai picchi così elevati che riempiono il cielo». Tirumaṅkaiyāl-vār si china su un insettino:
O minuscolo calabrone striato e maculato che ad ali spiegate, inseparabile dalla tua compagna, calpesti i fiori e ti cibi del loro nettare quando si schiudono! Di’ la mia condizione al Signore armato di arco crudele e di freccia, che sta ad Āli, la città dei famosi brahmani che coltivano i Veda mentre i fuochi sacri divampano!
Oppure si accosta ad uccelli e prorompe:
Venera, o mente mia, il Maṇimāṭakkōyil di Nāṅkūr, dove sui cornicioni dei palazzi splendidi dai pinnacoli alti fino al cielo, i colombi dalle zampe robuste simili a colonne di corallo si uniscono alle tenere compagne: questo è il luogo del Signore che un tempo, perché cessasse l’immane ferocia del coccodrillo nelle antiche acque del lago e l’elefante dagli occhi vermigli trovasse salvezza, porse aiuto a lui tremante, liberandolo dalla sofferenza.
Nammāl-vār infine è il poeta dalla vena più filosofica:
Sradicate da voi i concetti di io e mio – esclama – e unitevi al Signore. Non c’è per lo spirito un appagamento paragonabile! […] Esente da attaccamento il Signore esiste in ogni cosa: acquista il distacco anche tu, sottomettiti a Lui interamente! […] Pensiero, parola, azione: rifletti su questi tre fattori, annullali e rifugiati nel Signore!
Nammāl-vār convoca insetti e volatili come intermediari: «Il vento freddo mi strazia come se mille aghi mi trafiggessero le ossa. O pappagallino intento a rosicchiare un osso, rivolgi una sola schietta parola a Tirumāl». Se ci si allontana, Dio è lontano, se ci si avvicina, è vicino, esclama il poeta lanciando l’ultimo grido di ogni devoto di bhakti:
Lasciate da parte sussiego e vergogna, fugate l’ignoranza, parlate come forsennati, saltate, danzate col cuore in fiamme, e figgetevi in mente soltanto questo: il sovrano degli dèi, Māl dagli occhi rubizzi, il Signore color zaffiro, causa prima dell’universo, è l’agire e il frutto dell’azione.
Gli āl-vār insegnano che quando il cuore è colmo di an-pu – l’equivalente tamilo per bhakti (secondo il dizionario dravidico di Burrow ed Emeneau), nel senso anche di «amore, attaccamento, amicizia, benevolenza, pietà» – fiottano lacrime, affiora alle labbra il nome del Signore e si giunge alla liberazione: non si agogna più il frutto delle buone azioni né ci si dispera per i peccati, tutto dilegua quando si sia sommersi dall’onda del Signore.
Tra i sapienti che seguirono gli āl-vār primeggia Rāmānuja († 1137). Ritenne che lo yoga della conoscenza (jñāna) fosse solo un preludio alla bhakti, definita la durevole rimembranza (dhruvā smṛti) che fa vedere il Signore, oceano di tenerezza al di là della stessa liberazione. A Lui si perviene purificando il corpo con la castità, le pratiche assidue, il rito, l’esercizio della virtù, la speranza e il ritegno dalle esultanze. Quanto distanti da Rāmānuja sono le frenesie delle bovare esaltate!
Si presenta così un nuovo sentiero aperto a tutti, prapatti, privo di sfondi esoterici, già presente nella poesia di Nammāl-vār e nei sūtra di Śāṇḍilya e Nārada attorno al XII secolo; l’intento in sintesi è una capitolazione totale, disarmati, fidenti nella protezione del Signore, ignari del buon agire e della conoscenza. Per Nārada questo tipo di bhakti è come ambrosia, un nettare d’immortalità (amṛta).
Madhva († 1276) invece definì bhakti la consapevolezza ferma del Signore quale grandezza massima, a cui introducono l’attaccamento e l’ammirazione per Lui. Il bhakta si sente nelle mani del Signore e grazie al suo atto di ossequio può procedere in direzione della conoscenza, premessa logica della stessa bhakti e preludio all’estasi nel paradiso Vaikuṇṭha, posto in cima alla montagna cosmica o al fondo dell’oceano, ornato di ori e gemme come la Gerusalemme ebraica ideale. Secondo Madhva, la percezione del Signore si schiude grazie al disgusto verso i divertimenti, la parificazione di ogni cosa e il dominio di sé. La tradizione bhaktica implica la resa totale al Signore, il servizio al maestro ponendo il suo insegnamento al di sopra dei libri, la devozione ai guru, l’amor di Dio.
Dal secolo VII in poi una nuova tendenza di poesia devozionale e di commenti filosofici si diffonde nelle lingue kannaḍa, marāṭhī, gujarātī, hindī, bengālī, assāmī e pañjābī. Nel Bengala l’imitazione delle bovare estatiche ispirò nel secolo XI il poema d’amore di Jayadeva, Gītāgovinda («Canto del pastore»), una messe di liriche ardenti sull’amore di Kṛṣṇa e Rādhā. In lingua marāṭhī, Jñāneśvar († 1293) scrisse un commento in versi alla Bhagavad Gītā. Al culmine di questa trafila risplende Gorakh Nath, vissuto tra l’VIII e il XIII secolo. Suoi sono questi versi tradotti in italiano da Donatella Dolcini:
Nell’orbita celeste la parola s’è fatta luce. Là hai ascoltato la rivelazione della scienza impercettibile.
Attraverso la parola del maestro si può scorgere l’Inconoscibile.
Il nostro maestro ha profferito il verbo, abbiamo becchettato i rubini.
Oppure:
Nell’orbita celeste la parola s’è fatta luce. Là hai ascoltato la scienza impercettibile.
La scienza impercettibile ha formato due luci e queste due luci i tre mondi.
Se si pensa a queste, i tre mondi divengono visibili, si cominciano a becchettare perle e rubini.
L’amore fuori del matrimonio (adārakrīyarati) divenne la metafora dell’amor divino, e il poeta Niṃbārka, forse contemporaneo di Madhva, indicò la via delle bovare innamorate come quella che «mette sotto gli occhi» (samakṣāktara) la visione del Signore.
Madhva sarà la fonte della poesia di Kabīr († 1518), il quale disdegna ogni legame con le istituzioni sociali: soltanto l’amor di Dio e lo yoga violento si salvano nei suoi versi. Tutta la religione sikh si fonda sulla bhakti kabīriana di guru Nānak († 1539). Egualmente, il culto di Rāma al centro dei versi di Rāmānanda († 1470) esclude qualsiasi rito; basta il culto a svincolare il devoto da ogni pregiudizio di casta e perfino di sesso, facendone un avadhūta, un uomo sciolto da ogni obbligo e distinzione sessuale.
Anche Tulsī Dās († 1623) adottò il culto di Rāma. Suo è il poema epico in hindī Rāmcaritmānas, dove non l’eros ma la devozione e il servizio ispirano l’eroe. Tulsī Dās era un seguace dell’advaita Vedānta, e allo stesso tempo un devoto di Rāma, di Kṛṣṇa e tutti gli altri dèi.
Vidyapāti († 1450), autore della Padāvalī, un poema che rinarra gli amori di Kṛṣṇa, mette in luce la mediazione (dūtī) fra Rādhā e Kṛṣṇa, equivalente al maestro o alla fede mediatrice fra l’anima e Dio.
Invece Vallabha († 1531), che dichiarò di avere avuto l’impulso a rettificare la sua bhakti alla vista di una statuina dissepolta di Kṛṣṇa, esortava all’amore come uno stato superiore alla norma sociale (dharma); le due vie per lui erano disciplina e grazia (margadājīva e puṣṭijīva). Quando grazia soccorre, il devoto mangia, beve, gode liberamente del bello, prono alla devozione amorosa (premabhakti) che si suddivide in tre fasi: l’amor di Dio, l’attaccamento e la passione intensa per Lui sfocianti nella beatitudine. Tutta l’arte moghul si può leggere come il dispiegamento di questa devozione sorretta dalla grazia.
Nel Bengala dal X secolo era fiorita una tradizione poetica senza precedenti, fondata sulla spontaneità o sahaja, «stato congenito, connaturato» (jan-, «essere nati»; saha, «insieme»). Nel XIV secolo culminò con Caṇḍidās. L’amore per Dio diventa ora la sostanza primordiale dell’universo; la spontaneità viṣṇuita insegna che il Signore ha la potenza di esistere, di conoscere (saṃvid) e di esultare (hlādin), e questa esultanza s’incarna in Rādhā assorta nel gioco (līlā) della beatitudine. Il devoto partecipa della natura di Rādhā, condividendo i suoi strazi d’amore e il trepido sentire delle compagne.
L’amore totale è la pura spontaneità, il mondo ne emerge e vi ritorna. La pratica di sahaja consistette nel culto adorante di una fanciulla (kumarīpūjā), tuttora perdurante nel suo sfarzo a Kathmandu. Con i poeti itineranti bengalesi baūl (un vocabolo bengali che forse deriva dal sanscrito vātula, «folle»), la scuola nell’ultima sua fase si identificò con la via della conoscenza e con il Tantra. Sono poemi dal timbro insieme indù e buddhista. Eccone uno:
La mente è un albero i cui rami sono i cinque sensi: le fronde copiose sono il desiderio, i frutti l’angoscia.
Con l’ascia, la parola del sommo maestro, lo si taglia e Kāṇha dice: esso non ricresce.
L’albero cresce dall’acqua del peccato e della virtù, ma il saggio ligio al maestro lo taglia.
Chi non conosce il segreto del taglio, scivolando e cascando, folle, lo scambia per l’esistenza.
Il vuoto è l’albero, il cielo è l’ascia, abbatti l’albero, non rimarranno né radici né rami1.
Chi vive nello stato di sahaja diventa come un infante, si distanzia dalle funzioni mentali e si mette nelle mani del maestro: l’arresto della mente accresce per lui la realtà della vita.
Nel XVI secolo Caitanya ripristinò nel Bengala il culto integrale di Viṣṇu, con processioni di musici inneggianti a Kṛṣṇa, suscitando uno slancio d’amore in grado di legare a Dio. Il fondo oceanico dell’amore nascostamente presente in ogni anima, è il nocciolo dell’esultanza (hlādinīrasa preman). Māyā, la forza magica di seduzione, copre questo fondo, ma il devoto appassionato, che ignora logica e scrittura, riesce a scoperchiarlo nella propria intimità, vivendo l’amore che è la somma di tutti i sentimenti e ne è anche la forza generatrice. Il contatto con esso fa impazzire, si diventa come un canovaccio vuoto, i sentimenti si accendono e ardono al calor bianco: è bere un veleno e insieme un nettare, l’oceano immortale della beatitudine (ānandāmṛtasāgara) fa drizzare i capelli. Questo è lo stato grandioso (mahābhava) di smisurata intensità, base e fine dell’esistenza. Così afferma lo Śrīmad Bhagavatam, un capolavoro della bhakti bengalese: «Puro è l’amante di Dio, il suo cuore si fonde nella gioia e si eleva alla consapevolezza trascendente grazie all’incendio delle emozioni, dimentico di se medesimo e delle circostanze, ride, canta, balla».
Questo amor di Dio culmina nello scatenamento di un sentire plenario.
I discepoli di Caitanya precisarono nei particolari questa condizione di vetta che Rūpa Gosvāmin († 1591), nel Bhaktirāsamṛtasindhu («Oceano di nettare della devozione») ricondusse al sentimento sfrenato: per lui bhakti è una beatitudine colma, esente da ogni desiderio, perfino quello della liberazione; cognizioni e volontà non le si frappongono, la sua potenza attira come un magnete lo stesso Kṛṣṇa perché bhakti riassume e include ogni sentimento e ogni sapore di cui Lui è il massimo gustatore. I sentimenti malvagi non sono che un amor di Dio deviato nella direzione sbagliata; invece sono ben diretti i sentimenti di servizio, amicizia, amorevolezza e soprattutto il sommo amore (śṛṅgāra) per Dio, quando l’emozione si solleva in un’ebbrezza simile a una droga; quando l’afflato plenario per Kṛṣṇa mobilita nella danza, suscita convulsioni, il canto sfrenato, il pianto urlato, contorcimenti, ululati, sbadigli, sospiri e indifferente all’opinione altrui il devoto ha la bava alla bocca, ride fragorosamente, è scosso da singhiozzi e vertigini.
In questo giubilo spiccano i nove sentimenti e i loro sapori fondamentali (rasa) che l’estetica indiana così elenca:
Sentimenti: | Sapori: |
amore | erotico |
allegria | comico |
dolore | compassionevole |
ira | furibondo |
energia | virile |
terrore | tremendo |
disgusto | sgradevole |
ammirazione | meraviglioso |
serenità | quieto |
La quiete sfocia talvolta in una visione che spiana e ricolma la mente, mentre gli altri sapori si diversificano in svariati andamenti: affetto, confidenza, familiarità ed eros aprono al profondo, virilità e meraviglia espandono, pathos e furia distruggono, terrore e disgusto respingono.
Il trattato Ujjvalanīlamaṇi illustra i piaceri di Kṛṣṇa e delle bovare innamorate, il seme è l’amore che si sviluppa nell’affetto (sneha), nello sciogliersi dei nodi del cuore, negli atti di ripulsa scaturiti dalla piena delle emozioni e il loro esito è la fiducia che si nutre di amicizia e affabilità, la trasmutazione del dolore in gioia nella costanza amorosa.
Tutti i sentimenti hanno il loro vertice nello stato supremo, che altera il senso del tempo, genera l’oblio di sé stessi, avvortica in una divina follia.
Nella tarda letteratura marāṭhi va menzionato almeno Tukaram († 1649). A lui Caitanya apparve in sogno esortandolo alla bhakti: benché seguace dell’advaita Vedānta, Tukaram si spinse fino ad accettare la reincarnazione, purché pervasa di bhakti; arrivò a bestemmiare il Signore, tale fu la veemenza del suo amore.
La reviviscenza bhaktica bengalese moderna è incentrata su Ramakrishna († 1886), devoto di Kālī, la dea che gli concesse una presenza costante. Ramakrishna percorse tutti i sentieri a lui noti, e una volta varcata la via dell’Assoluto impersonale, infranse l’immagine della Madre nonostante l’amore sviscerato per lei. Come Kabīr, Ramakrishna fu ubiquo in tutte le fedi, ma ahimé s’è fatto di lui un ritratto «virtuoso» con accorte reticenze, errori decisivi di traduzione e cruciali omissioni.
Il suo discepolo Swami Vivekānanda (1863-1902), che praticò il karmayoga, l’applicazione rigorosa di ogni dovere, seppe anche scrivere un trattato impeccabile di bhaktiyoga.
Si potrebbe affermare che il movimento politico promosso da Śri Aurobindo (1872-1950) e proseguito dal mahātma Gandhi (1869-1948) contenesse un’ispirazione bhaktica: Gandhi spirò invocando Rāma. La rinascenza induista si appellò a un culto rinnovato della Madre. Infine una stupenda fusione di advaita Vedānta come via della conoscenza e di purissima bhakti avvenne nella vita di Ramana Maharshi (1879-1950), il cui influsso perdura.
Proprio le risorse della bhakti potrebbero congiungere, oggi come ai tempi di Akbar, le vie indù, giaina, buddhiste e la via islamica avvinta al sufismo.
1 Si veda Kvaerne, An Anthology of Buddhist Tantric Songs, cit., p. 248.