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IL TANTRA BUDDHISTA

Fin qui si è presentato il Tantra come un’eresia induista, terza fra le vie alla liberazione. Il buddhismo lo condannò quanto l’induismo ortodosso ma ne fu altresì compenetrato e lo assunse come dottrina maggiore a Nālandā, la massima università del tempo che i sovrani Gupta dotarono di una biblioteca vastissima. Lì nacque e fiorì la scuola vajrayāna, la via del forte e duro, dello scoppio che porta a conoscere la vacuità del reale, rimasta viva tuttora nel Tibet, nel Nepal e nella Bali indù. Tre missionari tantrici dall’India raggiunsero il tempio di forma mandalica a Famen nello Shaanxi di dove il Tantra, dopo cent’anni di segretezza, si diffuse nella Cina dei Tang. Vi si avvicendarono le scuole tantriche Zhenyanzong, Jushezong, Chengshizong, ma nessuna di esse riuscì a impiantarsi.

La straordinaria civiltà tantrica indiana fu spezzata da stragi e incendi dell’invasione islamica del 1200.

Nel vajrayāna la coppia Śakti-Śiva è sostituita da prajñā e upāya: la conoscenza del vuoto – donna – e il mezzo per raggiungerla, che è il linguaggio metaforico, il rito, la finzione – uomo. Il sesso femminile è conoscenza e il mezzo di conoscenza è il fallo. Upāya, «mezzo» (anche «espediente»), porta alla luce ciò che nella conoscenza del vuoto è implicito e latente. Dasgupta invita a osservare il significato di bhaga: «fortuna, amore, piacere, sesso femminile»;, denota il godimento sessuale ma anche il principio dell’essere verso il quale ci indirizza la conoscenza, e il mezzo per conseguirla è il fallo. L’idea nuova che il buddhismo introduce nel Tantra è il «pensiero dell’illuminazione», bodhicitta, o piuttosto la volontà di raggiungere il risveglio. Nāgarjuna lo interpreta come l’affrancamento da qualsiasi determinazione, vuota universalità, e Vasubandhu paragona il bodhicitta all’oceano da cui ogni gemma è scaturita; è descritto illimitato, smisurato, indistruttibile, al di là dell’idea di origine. Lo rappresenta il vajra, fulmine, diamante, fallo. La scuola sahaja lo identificò nello sperma che sale ritualmente fino al cranio.

Fra le opere tantriche buddhiste primeggiano lo Hevajratantra dell’VIII secolo e il commentario Yogaratnamālā o Hevajrapañjikā nel secolo successivo. Snellgrove tradusse lo Hevajratantra. Più tardi aggiunse una versione dei commenti.

L’inizio è un compendio stringato: «Così ho udito: un tempo il Signore [Bhagavat, il seme] sostò nel grembo della Dama Fulmine [Sapienza, vulva], corpo, verbo e mente di tutti i Buddha».

Il trattato insegna che ogni realtà è creata dalla mente e che lo si apprende solo al di là del linguaggio e della coscienza di sé, congiunti a una compagna, una volta che si siano unificati i condotti sottili del corpo: fantasia, mente dipendente e mente manifesta appieno. Ogni forma è un errore che la mente proietta nella veglia e nel sogno. Ma che cos’è la mente? Si definisce come la totalità dell’esperienza consapevole, che a sua volta non è una sostanza ma si prospetta e configura per ottenere un piano dal quale eliminare l’attaccamento alle forme: la mente di per sé non esiste, è un mero mezzo. Chi partorisce l’universo è la Madre: è impossibile immobilizzarla perche lei danza il mondo, ed è senza casta perché non è parte delle cose classificabili. Si chiama «Entrata in un cadavere»: e torna così in essere l’antico concetto indù illustrato nel mito in cui Prajāpati incorpora la propria morte al modo in cui l’officiante del rito vedico incorpora il suo decesso offrendo in sacrificio i propri beni, in attesa che altri compia lo stesso sacrificio e inviti a condividerlo in un circuito di scambio perenne. Nel Tantra la «preziosa morte» (una tra le espressioni per mokṣa) assume l’aspetto di un’avvenente compagna dagli occhi glauchi come il loto azzurro, misericordiosa e consacrata, che nel piacere erotico porge un infinito istante.

Svincolati da ogni norma, coscienti di emanare l’universo e di non esistere come persona, sono queste le certezze intimate dallo Hevajratantra.

Nell’VIII secolo un sovrano vide librarsi nell’alto del cielo il maestro kashmiro Padmasaṃbhava, circondato da terrificanti ḍākinī: volle nominarlo suo erede, ma il maestro rifiutò preferendo al regno un cimitero dove convertì al buddhismo le ḍākinī che infestavano quel luogo. Quindi s’inoltrò in un boschetto di alberi di sandalo, specchio della seduzione delle apparenze, e scorse al centro un palazzo di teschi. Un’ancella era in procinto di entrarvi, ma Padmasaṃbhava con la potenza del suo yoga, la blocca. Lei si volta e squarciandosi le membra, gli mostra all’interno tutti gli dèi, i pacifici e gli iracondi.

Questa suddivisione del corpo in divinità corrisponde alla meditazione prescritta nel trattato Visuddhimagga (XI, 2): «Così come sezionando una mucca, essa cessa di esistere, chi desideri sbarazzarsi dei concetti di natura, uomo, individuo, basta che si suddivida nei suoi elementi, terra, acqua, fuoco, aria».

Padmasaṃbhava penetrò nel palazzo e s’imbatté nella somma ḍākinī assisa in trono fra sole e luna: lei lo ingoiò dopo averlo trasformato nella formula OṂ MANI PADME HŪM, gemma-fallo nel vuoto-vulva. Lui le scese dentro, assimilando l’impeto di ciascuno dei suoi centri d’energia, fino al vortice velocissimo che tutto regge, all’altezza dell’ano.

Questa narrazione è conforme alla dottrina che fa del bodhicitta il fuoco emerso da sole e luna, lo sperma prodotto tra fallo e vulva, il germe che sorge dalla mescolanza di seme e sangue mestruale, la sillaba che si forma quando una vocale si unisce a una consonante, la giuntura dei due condotti paralleli che collegano il coccige al cranio. Bodhicitta è l’essenza dei cinque elementi e dei cinque Buddha:

  1. Splendente (Vairocana), bianco, centrale, situato nella testa, che diverrà Mahāvairocana, principio e somma del cosmo;
  2. Incrollabile (Akṣobhya), azzurro, orientale, aria, tatto, cuore;
  3. Matrice di gioie (Ratnasaṃbhava), giallo, meridionale, fuoco, visione, ombelico;
  4. Luce sconfinata (Amitābha), rosso, occidentale, acqua, gusto, bocca;
  5. Perfezione infallibile (Amoghasiddhi), verde, settentrionale, olfatto, terra, gambe.

Il bodhicitta relativo è l’essenza dell’esistente; in quanto assoluto è la beatitudine che si ottiene invertendo il flusso dello sperma e spingendolo alla sommità del cranio attraverso i vari centri: il trasformativo (nirmāṇa) o cakra dell’ombelico, il sussistente (dharma) o cakra del cuore, il gaudioso (saṃbhoga) o cakra del collo, e da ultimo il cakra della testa – incontenibile gioia (mahāsukhā).

Quest’esultanza finale si raggiunge nel kuṇḍalinīyoga con la percezione di un calore traboccante, sensazioni acutissime, e all’orecchio un rimbombo di mare, di tuono o cascata, infine il suono sottile d’un flauto. A questo punto si barcolla, il cuore si attenua e sfilano vampate, colori, nubi, i cosiddetti nimitta, ai quali subentra una costante luce uniforme.

Nāropā, che insegnò all’Università monastica Nālandā nel X secolo, fu discepolo del maestro Tilopā, il quale gli insegnò che pensare senza fine alcuno è il «grande gesto» (mahāmudrā) con cui ci si svincola dalla realtà fenomenica, trascendendo ogni cogitazione diretta a uno scopo, portandosi al di là del dualismo e di ogni linguaggio. Il capolavoro di Nāropā, il trattato Kālacakra, fu tradotto in italiano nel 1994 da Raniero Gnoli dopo che il Dalai Lama aveva iniziato negli anni folle di fedeli al rito dallo stesso nome, in cui ci si immagina neonati, posti dinanzi a un maṇḍala che rappresenta l’universo. Si cresce progressivamente grazie all’aiuto del maestro e della sua compagna, fino al momento in cui i due concedono di partecipare al loro abbraccio e si assaggia il seme in forma di latte cagliato e le secrezioni vaginali in forma di tè. Quindi il maestro porge la compagna e, a lei congiunti, si perviene al vuoto, disciolti nel suo grembo come un pugno di sale nell’acqua.

Il testo di Nāropā fornisce una trattazione integrale dei riti e delle loro premesse teoriche, espone la condizione preliminare dell’iniziatore, dotato di una vista e un udito soprannaturali, che gli consentono di penetrare nella mente, di rammentare le vite anteriori proprie e altrui, e di volare. La capacità di volo è stata accordata nella premessa all’iniziazione maggiore, quando si è subìto l’invasamento dell’ira, frantumando ogni cosa, percuotendo i presenti, ballando e saltando, fino a esplodere in una risata fragorosa senza traccia di vergogna e ritegno gridando HUṂ. A questo punto e in uno stato forse allucinato ci si inoltra nelle regioni sotterranee, sviluppando un’eloquenza duttile e il potere di penetrare nelle menti altrui. Dopo questa prova il maestro, acquietato il discepolo, introduce l’adepta, e con lei s’intratterrà come gli esseri terrifici raffigurati nelle t’aṅka tibetane s’intrattengono con le dee accoccolate in grembo. Il discepolo parteciperà al loro amoreggiare e quindi offrirà al maestro una sua fanciulla. Maestro e discepolo apprenderanno infine a proiettare e a trattenere il seme nell’uretra mentre con l’immaginazione concepiranno il Buddha che si estende nei tre mondi e li colma. Segue lo yoga sestuplice, che si suddivide nella ritrazione dal mondo esterno, nella contemplazione di se stessi, nella concentrazione sul soffio immoto, fatto risalire al cranio e quivi arrestato, sino all’unificazione totale.