Nel porto c’erano le quattro barche. Le barche prendevano il nome da una nazione, una strada, un’emozione e una ragazza. Lei le vide per la prima volta al tramonto. Splendide erano, e tranquille, barche bianche ben distanziate, coccolavano il porto. Sull’altra sponda una montagna. Lilla in quel momento. Sembrava fatta di un materiale pieghevole tanto era inconsistente. Fra le barche e la montagna un faro, su un’isola.

Qualcuno disse che il faro non aveva piú niente della bellezza di un tempo, quand’era abitato dalla guardia costiera e andava a gas. Adesso era automatico e molto piú luminoso. Fra loro e il mare c’erano quattro campi coltivati ad alberi di fico. Aridi campi gialli che sembravano esalare polvere. Niente erba. Lei guardò di nuovo le quattro barche, i campi, gli alberi di fico, il mare soave; guardò la casa alle sue spalle e pensò: «Può essere mia, mia», e il cuore fece una piccola capriola. Lui capí il suo turbamento e sorrise. La casa esercitava una specie di incantesimo su chiunque la frequentasse. La prese per mano e le fece salire la scala principale. Una scala di pietra con il corrimano malfermo. La parte inferiore di ogni gradino era azzurro sgargiante. – Ferma, – le disse dove diventava buio quasi in cima, e prima di accendere la luce.

Un domestico le aveva disfatto i bagagli. Nella stanza c’erano i fiori. Odoravano di caramella. Nel bagno una grande urna di vetro piena di borotalco. Lei si accostò al bordo e annusò. La fece starnutire tre volte. Ovaie di sapone viola scuro estratte dall’involucro di carta, per vari minuti ne tenne una per mano. Sí. Aveva fatto bene ad andare. Non c’era bisogno di aver paura; lui aveva bisogno di lei, la sua espressione e le loro mani strette lo confermavano.

Si accomodarono in terrazza a prendere un aperitivo preparato da lui. Era fatto con rum e limone e si rivelò fortissimo. Uno degli ospiti disse che l’angolazione della luce sulla montagna era all’apice dello sfarzo. Lui si portò le dita alle labbra e mandò un bacio alla montagna. Lei contò le cime, tredici in tutto, con un altipiano fra le prime quattro e le ultime nove.

Le cime sfioravano il cielo. Piú giú sulla parete rocciosa risaltavano varie sporgenze che tracciavano ombre sulle sporgenze vicine. Le dissero come si chiamava la montagna. Nello stesso istante le arrivò all’orecchio la domanda rivolta a una donna giovane: – Le interessa Maria Stuarda? – La donna, che aveva la pelle di una radiosità ammaliante, rispose di sí con troppa prontezza. Era possibile che tanta radiosità le venisse da una costante fornitura di sperma maschile. L’uomo aveva la fronte alta e pallida e un aspetto mortuario.

Bevvero. Fumarono. Tutti e dodici i fumatori buttavano i mozziconi sulle tegole del tetto inclinato verso gli annessi della fattoria. Cominciarono i lampi estivi. Erano sporadici, silenziosi e vagamente teatrali. Sembravano concepiti per il loro divertimento. Illuminavano una parte del cielo, poi un’altra. C’era anche uno svolazzare di pipistrelli e quelle sagome scure unite alle fuggevoli scariche sporadiche dei lampi estivi erano una distrazione e una cosa verso cui puntare il dito. – Se avessi un cavallo lo chiamerei Lampo Estivo, – disse una delle femmine, e il maschio che le stava accanto disse: – Che bello –. Lei sapeva che avrebbe dovuto parlare. Voleva parlare. Per il bene di lui e per il proprio. La sua mente aveva un piccolo guizzo, s’immobilizzava e aveva un altro guizzo; le parole lottavano per liberarsi, per dire qualcosa, una cosetta simpatica che la rendesse parte di loro. Solo che aveva la lingua legata. Loro dovevano conoscere chi l’aveva preceduta. Dovevano fare paragoni particolareggiati: l’aspetto, l’accento, il modo in cui lui la trattava. Dovevano sapere meglio di lei quanto gli fosse cara, se era una cosa seria o una breve parentesi. Avevano letto tutti nella cronaca rosa come si erano incontrati, che lui era andato a fare una radiografia e l’aveva conosciuta lí, la radiografa vestita di bianco, confinata in una stanza buia con i negativi di polmoni e apparati respiratori.

– Dovrai prendere lezioni di nuoto, dico bene? – chiese uno dei maschi, scegliendo il momento in cui si era appoggiata allo schienale a fissare un grande pino.

– Sí, – disse lei, rammaricata che gliel’avessero detto.

– Non ci vuole niente: entri e nuoti, – disse lui.

Erano tutti cosí sorpresi, sorpresi e divertiti. Le chiesero dove avesse vissuto e se fosse proprio vero.

– Non riesco a immaginare uno che non nuota da piccolo.

– Non riesco a immaginare uno che non nuota, punto e basta.

– Che ci vuole, basta che colpisci, colpisci.

Il sole filtrato dagli aghi verdi calò e si mise a giocare su un folto grappolo di nocciole marrone. Loro non ridicolizzano mai la natura, pensò lei, non si azzardano mai. Lui le si portò dietro e le batté la mano sulla pallida spalla nuda. Uno che non aveva la macchina fotografica finse di scattare una foto. Quanto sarebbe durata? Questa la domanda che doveva dominare i loro pensieri.

– Domani ti portiamo in barca, – disse lui. Evviva. Si prodigarono, si sperticarono tutti per descriverle il cabinato. Facevano a gara. In realtà era con lui che parlavano. Lei pensò: «Dovrei essere onesta, dire che non mi piace il mare, dire che sono una di terra, che mi piacciono la pioggia e le rose in un prato, la pioggerella sottile che offusca le rose e la vegetazione, che per me il mare è scuro come le valve delle cozze, e significa catastrofe». Ma non poteva.

– Dev’essere meraviglioso, – ecco cosa disse.

– È davvero qualcosa di spettacolare, – disse lui timidamente.

A cena lei sedette a un capo del tavolo a forma d’uovo e lui all’altro. Sei candele bianche nei portacandele di vetro a separarli. La segretaria aveva assegnato i posti. Una cicciona alla destra di lui aveva tantissimi braccialetti d’argento ed era velata di crespo. Cominciarono con una vellutata fredda. Era guarnita con cose tagliate cosí sottili che le riconoscevi soltanto dal sapore. Lei si sfilò le scarpe. Uno che stava raccontando del suo viaggio in India si dilungò per un tempo spropositato su quanto si mangiava male. Era andato per vedere i templi. Un altro, che faceva di tutto per tenere alto l’umore, rivolse la domanda all’intera tavolata: – In quale porto del Mediterraneo è meglio attraccare? – Ognuno aveva il suo preferito. Alcuni scelsero porti dov’erano successe cose emozionanti, altri scelsero porti che ammaliavano chiunque si avvicinasse, confrontando, tanto per sapere, le tasse portuali; quello che aveva sollevato la domanda li divertí raccontando che una volta era andato in crociera con la figlia e quand’erano arrivati a Venezia non era riuscito a sbarcare tanto era ubriaco. A lei toccò ammettere che non conosceva nemmeno un porto. Una confessione che li commosse.

– Li proveremo tutti, – disse lui dall’altro capo del tavolo, – e terremo un diario di bordo –. I commensali spostarono lo sguardo da lui a lei con un sorriso smaliziato.

Quella notte dietro le persiane chiuse inscenarono il loro rito. Erano tutti e due impazienti di arrivarci. Molto prima che venisse servito il caffè si erano allontanati da tavola e avevano trovato il modo di restare soli, scegliendo il sedile di pietra che cingeva il grande pino. Il sedile era tutto macchiato dalla gomma trasparente dell’albero. Le nocciole dondolavano accostate con un rumore sordo di nacchere. Rimasero quel tanto prescritto dalla buona educazione, poi si ritirarono. A letto lei si sentí di nuovo al sicuro, unita a lui non solo dalla passione e dal piacere ma anche da un coinvolgimento piú radicale. Non sapeva dare un nome a quell’emozione sconcertante che era piú dell’amore, o forse meno, che non era semplicemente sessuale, anche se il sesso era imprescindibile e la teneva unita come i fili di ferro tengono insieme un vaso rotto. Nessuno dei due era nuovo alle rotture e perciò amavano con cauta superstizione.

– Che cosa mi fai, – disse lui. – Come mi conosci, tutte le mie vibrazioni.

– Mi sa che siamo legati nell’intimo, – disse lei sottovoce. Pensava spesso che lui la odiasse perché lo coinvolgeva in qualcosa di troppo tenero. Adesso però non la stava odiando.

Alla fine le toccò tornare in camera sua, perché lui aveva promesso di alzarsi presto per andare a pescare insieme ai maschi con la fiocina.

Mentre lo salutava con un bacio si intravide sulla superficie cromata del thermos per il caffè poggiato sul comodino, e a fissarla di rimando vide due occhi che emanavano soddisfazione, disappunto e panico. Ogni volta che lo lasciava si aspettava di non vederlo mai piú; ogni separazione prometteva di essere l’ultima.

I maschi andarono via poco dopo le sei; lei sentí gli sportelli delle auto perché non aveva chiuso occhio.

La mattina prese la prima lezione di nuoto. Avevano deciso che si sarebbe tenuta mentre gli altri facevano colazione. Avevano portato l’istruttore dall’Inghilterra. Lei gli chiese se aveva dormito bene. Dove, non glielo chiese. I domestici sparivano di casa la sera tardi e si avviavano verso l’agglomerato di edifici col tetto basso. Il cane andava con loro. L’istruttore le disse di girarsi al contrario e scendere la scaletta di metallo. C’era uno svolazzare di vespe e lei pensò che se l’avessero punta avrebbe evitato la lezione. Nessuna vespa si prestò.

I bambini avevano già usato la piscina lasciandoci dentro giocattoli di plastica: un salvagente giallo che si allungava disegnando il collo e la testa di una papera. La papera aveva un’espressione disgustata. C’erano anche un delfino azzurro con sopra dipinto un nome e corazzate di vario genere. Erano i figli degli ospiti. I piú grandicelli, tutti maschi, ignoravano gli adulti in blocco e si aggiravano, rumorosi e invadenti, approfittando di tutto quanto avevano a disposizione: la sera guardavano pazientemente le lucertole per ore, con la canicola del giorno restavano in acqua, la mattina presto raccoglievano mandorle ricevendo da lui una commissione sul lavoro. Sul fondo della piscina era appostata una pinna nera. Lei la occhieggiò toccandola con la punta del piede. Furono gli ultimi istanti di autonomia, gli istanti prima che cominciasse la lezione.

L’istruttore le disse di sedersi, di sedersi dentro come se fosse nella vasca da bagno. Lui si accovacciò e piano piano si accovacciò anche lei. – Ora si turi il naso e metta la testa sott’acqua, – le disse. Lei calcò bene la cuffia sopra le orecchie e la fronte per proteggere la pettinatura e stringendo troppo forte il naso andò sott’acqua. – La sente? – disse lui tutto entusiasta. – La sente l’acqua che la sostiene? – Lei non la sentiva. Sentiva l’acqua travolgerla. Lui le disse di togliersi l’acqua dagli occhi. Era la gentilezza in persona. Poi si immerse, fece qualche bracciata e si alzò in piedi, scuotendo i capelli grigi. Le prese le mani e arretrò finché non ebbero tutti e due le braccia tese. Le chiese di stendersi a pancia sotto e di affidarsi a lui. Promise di non lasciarle le mani. Ogni volta, sul punto di dargli retta, lei si bloccava: prima il corpo e poi la mente si rifiutavano. Sentiva che se avesse staccato i piedi da terra sarebbe successo l’indicibile. «Di che cosa ho paura?» si chiese. «Della morte», si disse, eppure non era cosí. Le sembrava che dovesse succederle qualcosa di terribile prima di morire per davvero. Forse perché si sarebbe dibattuta per non annegare, pensò.

Quando riuscí a stendersi per un solo disperato minuto, lui esultò di gioia. Ma per quanto la riguardava quella prima lezione era stata un disastro. Tornando verso casa capí che era stato un errore lasciare che portassero un istruttore. Creava troppe aspettative. Le imponeva di riuscirci. Gli altri si sarebbero interessati ai suoi progressi, non perché ci tenessero ma perché, al pari dei lampi estivi o del passaggio degli yacht, era un argomento di conversazione. Ma non potevano spedire l’istruttore a casa. Era anziano e non era mai stato all’estero. Era già stregato dal paesaggio. Le toccava continuare. Tornando alla terrazza le parve di camminare nel vuoto, sentí il terreno mancarle sotto i piedi; aveva l’impressione di barcollare e le ginocchia tremavano in modo incontrollabile.

Sedendosi per fare colazione scoprí che qualcuno le aveva sbucciato un piattino di mandorle. Erano dolci e fresche, evocavano la dolcezza e la freschezza di una mattinata in campagna. Sapevano di nocciole. Lo disse. Nessuno concordò. Nessuno dissentí. Stavano leggendo il giornale. Ogni tanto qualcuno leggeva un pezzo a voce alta, pezzi divertenti su qualche loro conoscente che aveva commesso una scempiaggine degna di finire sui giornali. I bambini leggevano il termometro e discutevano sul filo d’ombra della meridiana. La temperatura sfiorava già i trenta gradi. Le donne stavano progettando di andare in motoscafo per abbronzarsi a torso nudo. Lei rifiutò. Lui la chiamò nella serra e le chiese se poteva dedicare un po’ del suo tempo all’organizzazione dei pasti perché la segretaria aveva tantissimo da fare.

Le foglie della passiflora si distendevano sul tetto come cavi di salvataggio di spago verde. Ogni foglia simile alle cinque dita di una mano. Foglie gialle e verdi nella stessa mano. Niente fiori. I fiori dopo. Fiori che avrebbero vissuto un giorno. Almeno a sentire il giardiniere. Lei disse: – Mi auguro che saremo qui per vederli. – Se vorrai, ci saremo, – disse lui, ma se gli fosse preso l’estro se ne sarebbe andato. Non sapeva nemmeno lui quello che era capace di fare. Nessuno lo sapeva.

Vedendola entrare nella grande cucina, la servitú per prima cosa sorrise. Donne vestite di nero, le scarpe con la para morbida, tutte sorridenti, non un briciolo di complicità in uno solo di quei sorrisi. Si era portata dietro un frasario, un quaderno e un libro inglese di ricette. La cucina sembrava un laboratorio: diversi macchinari bianchi accostati alle pareti, frigoriferi che pigolavano a varie velocità, una cappa sopra ogni cucina elettrica, le luci verdi e rosse sulle manopole vagamente minacciose, come se stessero per far partire un allarme. Sul tavolo c’era un pesce enorme. L’avevano preso i maschi quella mattina con la fiocina. Aveva la bocca aperta; gli occhi cosí ravvicinati da diventare quasi uno solo; il labbro inferiore penosamente pendulo. Le pinne erano nere e arruffate dall’olio. Lo guardarono tutte, lei e le sette o otto volenterose dalle quali doveva farsi capire. Quando si sedette a copiare la ricetta dal libro inglese e a tradurla nella loro lingua, loro accesero un’altra cappa. Stavano già tagliuzzando per la cena. Tre ragazze tagliuzzavano cipolle, pomodori e peperoni. Sembravano trarre piacere dal loro compito; sembravano sorridere ai cumuli di verdure che tagliuzzavano con tanta diligenza.

C’erano otto cestini da picnic da portare in barca. E una quantità di asciugamani. I bambini vollero a tutti i costi portare gli asciugamani. Lui aveva la borsa con la zip dove c’erano le bottiglie di vino. La agitò facendo sbatacchiare le bottiglie nel letto di ghiaccio. Gli ospiti sorrisero. Aveva la capacità di trasmettere il suo stato d’animo agli altri senza dire né fare granché. Aveva anche la capacità opposta di escludere gli altri. Due cose che affascinavano. Attraversarono i quattro campi che portavano al mare. I fichi erano duri e verdi. Il sole le giocava come una fiamma ossidrica sul collo e la schiena. Lui le disse che avrebbe fatto meglio a cospargersi di olio solare. Suonò stranamente ostile detto cosí a voce alta, davanti a tutti. Avvicinandosi all’acqua lei sentí il cuore prendere la fuga. L’acqua era tutto uno scintillio. Alcuni andarono a nuoto, altri salirono sulla barca a remi. Strusciando la mano sulla superficie increspata lei pensò: «Non è dei crampi, delle meduse o dei cocci di vetro che ho paura, ma di qualcos’altro». Calarono una scaletta sul lato della barca per far salire i nuotatori. Entrando bisognava togliersi i sandali. Il pavimento era di legno chiaro e rovente. I nuotatori dovettero farsi controllare i piedi nel caso ci fossero tracce di catrame. Il marinaio stava lí con un batuffolo di cotone impregnato nella trementina pronto a cancellarle. I maschi si misero all’opera: uno aiutò ad avviare il motore, un paio montarono i tendoni, altri portarono fuori grossi cuscini a strisce spargendoli sotto i tendoni. Due bambini rifiutarono di salire a bordo.

– Mi piace picchiare il mio fratellino sott’acqua, – disse un bimbetto, la voce minacciosa e melodiosa a un tempo.

Lei sorrise e scese i gradini che portavano a una cucina e alla zona notte con quattro posti letto. Lui la seguí. Poi la guardò, fece un respiro profondo e un mormorio.

– Tiralo fuori, – disse lei, – lo voglio adesso, subito –. Timorosa e pazza di desiderio. A lui piaceva da morire. Gli piaceva da morire quel tono imperioso. Chiuse la porta e lei lo guardò annaspare per abbassarsi i calzoncini, incapace di slegare il cordino. Adesso era lui quello goffo. Come barcollava. Lei aspettò per un momento straziante e fece aspettare lui. Poi si inginocchiò e quando cominciò lo sentí borbottare tra i denti serrati. Lui, che sapeva domare gli animali, in quello era indifeso. Lei ce la mise tutta e succhiò, succhiò, succhiò con tutta la fame che aveva e tutta la fame simulata che le piaceva fargli credere di avere. Minacciava di mutilarlo ma si limitava sempre soltanto a graffiarlo col bordo dei bei denti squadrati. Non s’intromise nessuno. Bastò qualche minuto. Lei attese un intervallo decente prima di seguirlo. Aveva sete. Sul davanzale c’erano libri tascabili e boccette di olio solare. E anche un paio di calzoncini di ricambio con sopra stampati i nomi di tutte le possibili cose al mondo: nomi di bevande e di capitali e le bandiere di ogni nazione. Il mare visto dall’oblò era un globulo di azzurro piccolo e innocuo.

Lasciarono il porto allontanandosi dalle altre tre barche e dalla macchia di pini. Ben presto ci furono soltanto mare e scogli, nessuna insenatura sprofondata tra le canne, nessuna cittadina. Chilometri e chilometri di allucinante mare. La follia dei marinai la contagiò, l’illusione che fosse terraferma e si potesse attraversare. Terraferma che non portava da nessuna parte. Gli scogli si erano ridotti a qualunque forma l’occhio e la mente fossero in grado di abbracciare. Vicino all’acqua c’erano varchi aperti a viva forza dal mare, alcuni rapaci, altri grandi abbastanza da permettere a una piccola imbarcazione di scivolarci sotto, altri ancora piccoli e inquietanti quanto le orbite degli occhi. Gli alberi sulle pareti a picco di quegli scogli erano soltanto lo sforzo di essere alberi. Gli uccelli non ci si potevano appollaiare, e men che mai fare il nido. Lei cercò di non ricordare la lezione di nuoto, di posticipare il ricordo fino al pomeriggio, fino alla lezione successiva.

Uscí e li raggiunse. Una ragazza seduta a poppa, fra i cuscini, suonava la chitarra. Aveva lunghi orecchini d’argento a forma di spatola. Una zingara per scelta. I bambini giocavano a «Indovina, indovinello, cosa vedo sul battello?», ma la disponibilità di oggetti era limitata. Dovevano accontentarsi di quello che avevano attorno. Si accorse che se stava in piedi il vento e gli schizzi d’acqua le davano freschezza. Le montagne lontane sembravano inconsistenti mentre quelle vicine scintillavano quando il sole ne trafiggeva le pietre aguzze.

– Lo trovo un po’ irreale, – disse a uno dei maschi. – Bellissimo ma irreale –. Le toccò urlare perché il motore faceva rumore.

– Irreale in che senso? – replicò lui.

Il loro repertorio era limitato ma efficace. Era nell’intonazione che stava l’aculeo. Spaventosamente impalpabile. Impossibile difendersi. Anzi, la cosa fastidiosa era lo stupore terribile che provocava. Era intenzionale o no? Lei ricordava benissimo che una volta le era sembrato di avere sul viso la trina di una ragnatela ma non era riuscita a sentirla sotto le dita, e non riuscire a toccare con mano il loro marciume le dava la stessa identica sensazione. Si tiravano frecciatine anche fra loro e poi cambiavano discorso. Parlavano per lo piú dei posti dov’erano stati e delle persone che ci avevano trovato e, anche se parlavano all’infinito, non dicevano mai niente di sé.

Fecero il picnic su una spiaggetta rosa. Lui mangiò pochissimo e dopo si allontanò. Lei pensò di seguirlo, ma poi non lo fece. I bambini andarono al largo con un lungo ceppo di legno sbiancato e una delle femmine lesse a tutti la mano. A lei assicurò una malattia. Lui tornando le porse controvoglia la grande mano olivastra. A lui assicurò un figlio maschio. Lei lo guardò in cerca di una gratificazione ma non la ottenne. Lui in quel momento stava raccontando a uno dei maschi di uno sloop nero di cui si era innamorato da piccolo. Lei pensò: «Che cosa vede in me lui che ama il mare, gli sloop, le barzellette, le messinscene e i rinvii? Che cosa vede in me che non amo nessuna di queste cose?»

L’istruttore portò delle tavolette bianche. Lui teneva un’estremità e lei l’altra. Gli guardò attentamente le mani. A furia di stare in acqua erano diventate bianchissime. Lei si stese a pancia sotto, strinse la tavoletta e guardò quelle mani per assicurarsi che non mollassero la presa. La tavoletta ballonzolava alimentando la sua incertezza. Lui disse che una corda sarebbe stata meglio.

Il pescione era stato privato della lisca e poi ricomposto. Un inganno perfetto. La testa e gli occhi troppo ravvicinati non c’erano piú. Lei aveva consigliato alla governante di togliere i limoni dal frigo e adesso sembravano limoni anziché spugne congelate. Qualcuno apprezzò e lei provò un piacere infantile. Un vento del sud scatenò una strana euforia serale. Bevvero molto. Parlarono di serate splendide. Serate che resuscitavano in loro grazie al vino, al vento e a una benevolenza passeggera. Uno parlò dei fagiani dorati che aveva visto aggirarsi impettiti nel cortile di una casa; uno parlò di certi polli bantam posati su un cancello all’imbrunire, le forme che sembravano note musicali su un rigo vuoto; nessuno accennò all’amore o alla famiglia, erano solo il panorama, la natura o un levriero a lasciare in loro i ricordi migliori e piú sereni. Lei rivisse un temporale notturno con un asino che ragliava in un campo e un ramo scagliato in strada dal vento. Dopo cena varie coppie andarono a fare una passeggiata, o un bagno, o a sentire dov’erano i bambini. I tre maschi non accoppiati andarono in paese per un giro di ricognizione. Le femmine si confidarono le diete che stavano seguendo, o le creme facciali che trovavano piú benefiche. Una divorziata disse all’anfitrione: – Devi assolutamente venire a letto con me, non sento ragioni, – e lui sorrise. Era soltanto un convenevole, una delle tante sparate nello strano andamento della serata che includeva anche i grilli, tre rane e un rumore di baci clandestini. I non accoppiati tornarono quasi subito riferendo che l’unico bar era pieno di tedeschi e che il whiskey non valeva niente. Quello che era stato piú sprezzante con le lezioni di nuoto si sedette ai suoi piedi dicendole quant’era carina. Le chiese particolari sulla sua vita, sul lavoro, sugli studi che aveva fatto. Un atteggiamento amichevole che serví solo a rafforzare il suo senso di solitudine, il suo isolamento. Rispose a ogni domanda in modo serio e meticoloso. Rispondendo assecondava il desiderio di inserirsi. Lui le dava l’impressione di essere un po’ geloso, perciò si alzò e lo raggiunse. Nemmeno lui era veramente uno di loro. Si divertiva soltanto a fare il direttore artistico. Lei lontano dagli altri riusciva quasi a raggiungerlo. Sembrava stretto da un nodo che lei forse, forse, era in grado di sciogliere, per un lungo tratto, vivendo la loro vita, coltivando una vera emozione, indipendente dagli altri. Ma si sarebbero mai allontanati? Non osava chiederlo. A quel tipo di discorsi le toccava sopperire con il silenzio.

Lei entrò di nascosto nelle varie camere a cercare indizi delle loro identità private, a vedere se avevano portato cerotti, pillole per l’indigestione, salviette per il viso, cose di ordinaria amministrazione. Su un comò c’era un portaparrucca con dei capelli biondi arricciati ad arte. Sulla faccia erano sparsi lustrini colorati che riproducevano i tratti di un’antica regina egiziana. La divorziata aveva un cuscinetto da neonato in una scatola di mussolina gialla. Alcuni avevano portato delle bottiglie di vino rimaste intatte dov’erano. La servitú toccava solo quello che veniva gettato in terra o messo nel cestino dei rifiuti. I vestiti da lavare venivano gettati in terra. Era una delle regole della casa, come l’aperitivo in terrazza la sera. Qualcuno aveva scritto cartoline che lei lesse avidamente. Le cartoline dicevano soltanto che era tutto superlativo.

La segretaria di lui, un’introversa, la evitava. Forse sapeva troppo. I progetti che lui aveva per il futuro.

Lei scrisse al proprio medico:

Sto prendendo i tranquillanti ma non mi sento per niente rilassata. Potrebbe mandarmene altri?

Strappò il foglio.

La salsedine le arruffava i capelli. Comprò un arricciacapelli.

Una, che era incinta, passava la giornata a spruzzarsi e spalmarsi il talco per bambini sulla pancia. Prendevano sempre il tè insieme. Erano amiche. Lei pensò: «Se questa donna non fosse incinta sarebbe cosí affabile?» Il loro modo di pensare cominciava a mettere radici dentro di lei.

L’istruttore le passò una corda sopra la testa. Lei se la fece scendere fino alla vita. Sentirono un qua qua. Lei era sicura che l’avesse intonato la papera di plastica. Rise sistemandosi il nodo scorsoio. Rise anche l’istruttore e afferrò saldamente la corda. Lei si dimenò nell’acqua cercando di non pensare a dov’era. Certe volte ci riusciva bene; certe volte doveva essere trascinata come un legno vecchio. Non riusciva mai a prevedere il risultato di un’immersione; non sapeva mai come sarebbe andata o quali pensieri l’avrebbero improvvisamente ostacolata. Ma ogni volta lui diceva: – Benissimo, benissimo, – e in quell’esuberanza lei trovava consolazione.

Una che si chiamava Iris raggiunse a nuoto il loro yacht. Rimase in acqua aggrappata con una mano al fianco dell’imbarcazione. Lo smalto era perfetto e le unghie avevano il lucore denso, intenso di una perla. Il bianco castigato delle lunule contrastava con lo smalto perlaceo. Anche la sua personalità era cosí: piena di lucore. Riservò un sorriso a ciascuna faccia, e un paio di parole a chi conosceva già. Uno dei maschi le chiese se era innamorata. Ma quale amore!, lo rimbeccò. Disse che il buonumore le veniva dalla respirazione. Disse che nella vita tutto sta a respirare correttamente. Era andata per invitarli a bere qualcosa ma lui rifiutò perché dovevano tornare a casa. Avevano invitato a pranzo il suo avvocato. La donna gli rimproverò di essere troppo impegnato, poi tornò a nuoto verso la riva dove il suo barboncino l’aspettava fra i guaiti. A pranzo parlarono tutti di Iris. Accennarono alle sue trascorse scappatelle, alle liti col marito, alla morte di lui, si diceva per suicidio, e alla faccenda incresciosa della sepoltura, che non si era potuta tenere in suolo consacrato. Alla fine l’avevano seppellito nel piccolo recinto attiguo al cimitero pubblico. Una storia spiacevole, eppure a pavoneggiarsi nell’acqua c’era una donna radiosa che non dava segno di aver sofferto.

– Sí, Iris ha una forza d’animo incredibile, incredibile, – disse lui.

– Per che cosa? – chiese lei dal capo opposto del tavolo.

– Per vivere, – disse lui in tono caustico.

Agli altri non sfuggí. Lei sentí i muscoli della mascella contrarsi.

Si fece un discorsetto, rimproverandosi quel dolore: «Ci provo, ci provo, voglio inserirmi, far parte del gruppo, essere una che s’insinua tra la folla di manifestanti a manifestazione cominciata, ma in me c’è qualcosa che chiamerei buonsenso e si ritrae davanti ai vostri modi. Si direbbe che sto qui soltanto per farmi ferire dalle vostre critiche». Rifugiandosi nei sogni e nel monologo.

Posò per una foto. Posò accanto alla signora scolpita. Imitò la posa della signora. Le mani sovrapposte poggiate sulla spalla sinistra, la testa inclinata verso le mani. Lui scattò. Clic, clic. La signora di marmo era stata moglie dello scultore ed era morta in circostanze tragiche. Le mani con le unghie di una lunghezza innaturale erano la parte migliore. Clic, clic. Mentre lei non guardava, lui ne scattò un’altra.

Trovò il libro contabile in un cassetto della scrivania e le voci che vide la stupirono. Bisognava dare conto di cose come il latte e i fiammiferi. Pensò: «Sarà generoso, di fondo?» La governante aveva lasciato un lavoro di cucito nel libro. Aveva abitudini antiquate e avversava molti degli strumenti da cucina moderni. Teneva il latte in piccoli bricchi con il coperchietto di mussolina. Levava la panna con le dita cicciottelle, versava la panna nelle piccole caraffe per il caffè del mattino. Chissà loro cosa avrebbero detto! La sera, dopo aver sbrigato tutti i compiti, la governante si sedeva nella veranda sul retro con il marito a rammendare. Sul tetto avevano poggiato dei rami di pino che crescendo erano diventati forti come cavi. Il marito ricavava delle figure dai pezzi morbidi di legno bianco giovane e quand’era buio metteva via il temperino e si sollazzava con la moglie. Lei li sentiva quando entrava di nascosto a prendere i fichi in frigorifero. Era commovente e disdicevole allo stesso tempo.

L’istruttore mollò la corda. Lei si fece prendere dal panico e smise di usare gambe e braccia. L’acqua la stava sommergendo. L’acqua la travolgeva. Sapeva che stava urlando in modo convulso. All’istruttore toccò buttarsi in acqua, coi vestiti e tutto. Dopo si sedettero nella stanza della biancheria a bere brandy con una coperta addosso. Giurarono di non dirlo a nessuno. A lui il brandy salí dritto alla testa. Disse che di sicuro in Inghilterra pioveva e la gente faceva la fila per prendere l’autobus e gli brillarono gli occhi perché aveva la fortuna di trovarsi all’estero.

Piú di un ospite si chiamava Teddy. Uno dei Teddy le disse che la mattina, prima che la moglie si svegliasse, leggeva Proust nello spogliatoio. Cosí poteva masturbarsi. Come se le avesse detto che sentiva la mancanza del bacon a colazione. A colazione c’erano frutta e uova strapazzate. Il bacon era una rarità sull’isola. Lei disse ai bambini piú grandi che la papera di plastica era paranormale e aveva squittito. Loro risero. Una risata vera, che però si trascinò a lungo dopo che lo scherzo era finito. Una bambina disse: – Vuoi che ti racconto una storiella sporca? – I maschi sembrava che volessero impedirglielo. La bambina disse: – C’era una volta una signora, e un cieco suonava ogni sera alla sua porta per chiederle una moneta, e un giorno mentre era nella vasca da bagno suonarono alla porta, lei si mise la vestaglia, aprí e vide che era il lattaio, poi tornò nella vasca da bagno, suonarono alla porta ed era il panettiere, poi alle sei suonarono alla porta e lei pensò: «È inutile che mi metto la vestaglia, tanto è il cieco», e quando aprí la porta il cieco disse: «Signora, sono venuto a dirle che ho recuperato la vista» –. E la risata che non si era mai del tutto spenta ripartí daccapo, riecheggiando. Non si sentivano insetti né canti d’uccello lungo il viottolo. Doveva tenere d’occhio l’orologio. La sera i bambini cenavano prima. Mangiavano nella veranda sul retro e lei spesso andava a rubare un’acciuga o un pezzo di pane per evitare di ubriacarsi troppo a digiuno. La cena poteva tardare all’infinito. Dipendeva da lui, se si annoiava o meno. Ogni sera per l’aperitivo c’era qualche ospite in piú venuto dalle case vicine. Movimentavano la scena. Si parlava di navigazione e di velocità, oppure di giardini, oppure di piscine. Sembravano tutti incuriositi da quegli argomenti, perfino le donne. Uno patito della neve sapeva dov’erano le migliori superfici innevate ogni settimana di ogni anno. Quello era un argomento che non la annoiava troppo. Almeno era bello pensare alla neve, friabile e azzurra, come diceva quell’uomo, che raschiava sotto gli sci. Spesso si sentivano i bambini urlare, ma dopo l’aperitivo sparivano dalla circolazione. Lei era convinta che il matrimonio e i figli avrebbero aggiustato le cose. Le avrebbero permesso di farsi accettare. Che impostura: creaturine minuscole generate senza sforzo che cementano un rapporto, eppure era cosí. Accennavano tutti a quanto lui desiderasse un figlio maschio. Era sulla soglia dei sessanta. Lei aveva smesso di prendere gli anticoncezionali e lui aveva smesso di chiederglielo. Forse era cosí che lui decideva le cose o che la accettava, finalmente.

Portarono in tavola uova di gabbiano, già sgusciate. Gli albumi di un giallo delicatissimo. – Dove sono i gusci? – chiese la cicciona velata di crespo. Dovettero portare i gusci. Erano ridotti quasi in polvere ma li portarono lo stesso. – Dove sono i nidi? – chiese lei. Come non detto. Se l’avessero sentita forse avrebbero riso, ma si era alzato il vento e stavano correndo tutti a portare la roba dentro. Il vento infuriava. Strappò i gerani dalle foglie e fece impazzire le fiamme delle candele, che presero a soffiare di qua e di là nei portacandele di vetro. Quella notte fecero l’amore con tutta la dolcezza e il sollievo che deve provare la terra ricevendo la sospirata pioggia. Lui era un altro uomo, con un’altra voce: amorevole, intima e incantatoria. La sua freddezza, il suo rifiuto per lei quasi inconcepibili. Forse, se avessero litigato, le liti, come il sesso, li avrebbero avvicinati. Ma non litigavano mai. Lui sosteneva di non aver mai litigato con nessuna delle sue donne. Lei ne dedusse che aveva lasciato le mogli quando il rapporto si era esaurito. Lui non lo disse, ma lei sentiva che doveva essere stato cosí perché una volta le aveva detto che tutti i suoi matrimoni erano stati felici. Che con i maschi aveva avuto degli scontri ma non gli erano dispiaciuti. Aveva un rapporto piú profondo con i maschi; con le donne era affascinante ma era un fascino concepito per tenerle a bada. Non aveva fratelli né figli maschi. Il suo era stato un padre tiranno che l’aveva privato dell’eredità piú a lungo del dovuto. Questo lei lo venne a sapere da uno dei maschi, che lo conosceva da quarant’anni. Il padre l’aveva fatto soffrire, e tanto. Lei non sapeva come né poteva chiederglielo, perché erano notizie che non sarebbero mai dovute arrivarle all’orecchio.

Dopo la gita alle grotte romane, i bambini tornarono a casa affamati. Un bambino protestò perché il cibo era freddo. La domestica colse il lato simpatico e lo riferí al padrone, e a pranzo si sbellicarono tutti dalle risate. La storiella fu ripetuta varie volte. Lui le lanciò una voce per chiederle se l’aveva sentita. Certe volte si rivolgeva esclusivamente a lei. Erano i rari casi in cui gli ospiti intravedevano il legame fra loro. Sí, l’aveva sentita. – Carina, carina, – disse. Ormai quella parola figurava spesso nel suo repertorio. Stava imparando la loro lingua. E il loro servilismo. Lontano da casa, dove pascolava il bestiame. Il bestiame aveva interi campi per vagare, e una vasca d’acqua vicino alla casa. La terra intorno alla vasca dell’acqua sempre smossa, sempre sudicia a furia di calpestarla. Erano gente di campagna, loro, il pasto principale era il pranzo, e litigavano. Il padre era sparito una sera dopo cena, aveva detto che andava a contare il bestiame, si era portato una torcia e nessuno l’aveva piú visto. Gli altri le avevano consolate, ma lei e la madre sotto sotto erano contente. Forse si era suicidato in uno dei tanti laghi paludosi nei dintorni, o aveva cambiato nome e si era trasferito in una città. In ogni caso non aveva fatto buffonate come impiccarsi a un albero.

Stava a pancia in su mentre l’istruttore la portava per tutta la piscina, tenendole una mano sotto la spina dorsale. Il cielo di un azzurro innocente e senza macchia, con le scie dov’erano passati gli aerei. Lei lasciò ricadere la testa all’indietro. Pensò: «Se dovessi abbandonarmi del tutto, sarebbe un piacere e una conquista», ma non ci riusciva.

Le mimose pendevano dagli alberi come bucce di banana annerite. I maschi le raccoglievano la mattina presto e le mettevano nei sacchi per il foraggio invernale. Nel fienile dove riponevano i sacchi c’era puzza di marcio. E una vecchia macina per le olive. Nella stanza della biancheria lí accanto, un buon odore di bucato. La servitú usava troppa candeggina. Il colore dei vestiti perdeva intensità dopo un solo lavaggio. Lei si sedeva sempre nell’una o nell’altra stanza a leggere. Andava nella biblioteca a prendere un libro. Lui era seduto su una delle sedie Regency foderate di bordatino. Come su un trono. Una sedia era originale e l’altra una copia ma lei non riusciva mai a distinguerle. – Ti ho vista ieri, per poco non andavi sotto, – disse lui. – Ho ancora un bel po’ di lezioni, – disse lei, e si allontanò come previsto, ma senza il libro che era andata a prendere.

La figlia che lui aveva avuto dal terzo matrimonio aveva il vitino di vespa. La prima sera indossò un tailleur pantaloni bianco. Stava a gambe larghe e le piegoline si aprivano a fisarmonica. A tavola si sedette accanto al padre guardandolo con la dovuta adorazione. Lui raccontò la storia di una pericolosa caccia al leopardo. Per l’occasione venne servita aragosta. Le code di aragosta s’inarcavano da un coperto all’altro stabilendo un contatto molto piú cordiale della conversazione. Lei si sforzò di ricordare una cosa che aveva letto quel giorno. Aveva scoperto che a tavola riusciva a rendersi simpatica grazie a quello che imparava a memoria.

– Il gorilla mangia, beve o si gratta per superare l’ansia, – disse piú tardi. Risero tutti.

– Ma va’, – disse lui con un ghigno. Le venne da pensare che se fosse diventata troppo sicura di sé a lui non sarebbe piaciuto lo stesso. O forse l’aveva detto per rassicurare la figlia.

In certi momenti acquistava sicurezza. Dentro di sé sapeva quali movimenti doveva fare per solcare l’acqua. Non ci riusciva, ma sapeva cosa andava fatto. Muoveva le mani sotto il tavolo, cercando di fare incursioni sempre piú profonde nell’atmosfera. Non se ne accorgeva nessuno. Non riusciva a togliersi dalla testa la parola «plancton». Ne vedeva fitte masse, grigie e sinuose, le infiacchivano le dita. Ne sentiva quasi il sapore.

L’ultima moglie aveva cucito una scacchiera da backgammon verde e rossa. Era bellissima. La cicciona giocava con lui dopo cena. Proseguivano il gioco da una sera all’altra. Erano molto contenti di giocare. La donna sfoggiava ogni volta una diversa combinazione di anelli e lui non mancava mai di ammirarli e di complimentarsi con lei. Era particolarmente affascinante con chi non aveva il dono della bellezza.

Il suo arricciacapelli fece saltare l’intero sistema elettrico. Gli altri uscirono di corsa dalle stanze per sapere cos’era successo. Lui non lasciò trapelare la rabbia ma lei l’avvertí. La mattina dopo dovettero spedire un telegramma per far venire l’elettricista. All’ufficio dei telegrammi c’erano due impiegati, uno piegava i foglietti azzurri, l’altro metteva la colla con un pennello sottile, poggiava dei bordini bianchi sull’azzurro e premeva con le mani. Sulle strisce bianche erano già stampati il nome e l’indirizzo. Nell’ufficio c’era una motocicletta, per proteggere gli pneumatici dal sole, o per evitare che la rubassero. Quando bisognava mandare un telegramma, i due facevano a turno. Lei risparmiò all’uno o all’altro un viaggio perché mentre aspettava arrivò il telegramma di uno degli ospiti andati via. Diceva semplicemente: «Tutto meraviglioso, Harry». Gli ospiti dimenticavano puntualmente qualcosa e nelle lettere di ringraziamento indicavano le cose dimenticate. Secondo lei alcuni dei cappelli infilati uno dentro l’altro e appoggiati sul davanzale di pietra erano cappelli dimenticati o gettati via. Si era affezionata moltissimo a uno verde che aveva perso i nastrini.

L’istruttore chiese di essere portato in un negozio di souvenir. Comprò un soprammobile di vetro e un collare per il suo cane. Al ritorno il benzinaio regalò un uccello a uno dei bambini. Lo misero nella cappella. Gli fecero il nido. La domestica lo buttò col nido e tutto nel secchio della spazzatura. Quella sera a cena non si parlò d’altro. Lui ricordò la storia del suo pesce e la raccontò ai nuovi arrivati: una mattina gli era toccato abbandonare l’arpione perché si erano aggrovigliati i fili e il giorno dopo, tornando, aveva scoperto che lo squalo si era rintanato nella grotta e aveva in bocca due grossi pezzi di scoglio, chiaramente azzannati per liberarsi. La cosa l’aveva molto colpito.

– La nave prende il nome da tua madre? – chiese lei alla figlia. La madre si chiamava Beth e la nave si chiamava Miss Beth. – Lui non l’ha mai detto, – rispose la figlia. Spariva sempre dopo pranzo. Forse per fare un favore a loro due. Nonostante il caldo s’incaponivano ad andare nella camera di lui. Come s’incaponivano a essere inventivi. Lei provò uno stelo verde e robusto, per eccitarlo, e ne rimase ammirata, paragonandolo a lui. Lui guardava. Non sopportava la concorrenza. Lei, la testa all’ingiú a un soffio dal pavimento, vedeva tutti gli oli e le pomate sulla mensolina del bagno di lui e cercava di leggerne le etichette al contrario. Mi piace fare cosí spesso l’amore?, si chiese. Le toccò ammettere che forse non le piaceva, che andava troppo per le lunghe, che lei cercava il coinvolgimento, il coinvolgimento e la minaccia.

Si scambiarono i sogni. Era stata lei ad avere l’idea. Cominciò lui. Stavano tutti attenti ad assecondarlo. Lui disse che in un sogno perdeva un cane e gli dispiaceva da morire. Per un attimo sembrò che volesse dire di piú ma non lo fece, o non ci riuscí. Anzi, ripeté la stessa cosa. Quando toccò a lei, raccontò un sogno diverso da quello che intendeva raccontare. Un piccolo sogno breve e senza complicazioni.

La notte sentiva un’ospite singhiozzare. La mattina quella stessa ospite indossava una vestaglia di fuoco e lodava la marmellata, che mangiava con parsimonia.

Lei chiese di aumentare il numero di lezioni. Arrivò a tre al giorno e non andava in barca con gli altri. Tra una lezione e l’altra passeggiava in riva al mare. I tronchi di pino erano chiari, come se li avessero passati al tornio. I venti invernali erano il tornio. In inverno si sarebbero trasferiti; per rimettersi in pari con gli amici, le riunioni d’affari, le mostre d’arte, per comprare regali, fare spese. Lui odiava le valigie, gli piaceva trovare i vestiti ad aspettarlo ovunque andasse, e li trovava. Lei vide un guardaroba con i vestiti invernali riposti con ordine, vide il mantello di lana grezza con il bavero di astrakan nero, e le venne una nostalgia fortissima per quella stagione impossibile, per quella città impossibile, e per il corpo di lui dentro il mantello mentre uscivano al freddo per andare a teatro. Camminando in riva al mare faceva mentalmente i movimenti del nuoto. Dominavano i pensieri. Invadevano i sogni. Sogni atroci sulla madre, il padre, e uno dove lei era stesa su un’amaca circondata da cuccioli di leone. I cuccioli aspettavano solo che accennasse un movimento per saltarle addosso. L’amaca, ovviamente, era instabile. Ogni volta che si svegliava da uno di quei sogni era sicura che le sue grida riproducessero le grida dell’infanzia, e allora mangiava i fichi che aveva portato di sopra.

Lui le mise un fazzoletto, ripiegato come una lettera, davanti al piatto sul tavolo. Aprendolo lei trovò dei ramoscelli di menta fresca, freddi e con le foglie grandi. Li aveva sicuramente messi prima in frigorifero. Lei li annusò e li fece girare. Poi s’alzò d’impulso e andò a dargli un bacio e tornando indietro per poco non inciampò nella domestica con la zuppiera in mano, tanto era su di giri.

L’istruttore le era amico. – Stiamo vincendo, stiamo vincendo, – diceva. Camminava dall’alba in poi, camminava per le colline e vedeva la terra coperta di rugiada. Si metteva in testa un fazzoletto che legava sopra le orecchie ma, avvicinandosi alla casa, se lo toglieva. Lei lo incontrò durante una di quelle camminate mattutine. Il grande momento si avvicinava e lei non riusciva a dormire né a fare l’amore. – Stiamo vincendo, stiamo vincendo –. Lo diceva sempre, dovunque si incontrassero.

Uscirono per andare a comprare gli sciacquadita. Nella fabbrica del vetro c’erano dei ragazzi magri con la pelle bianchissima che afferravano i pezzi di vetro con l’attizzatoio e li ficcavano nei forni. C’era un forte odore di legna. I ciocchi erano impilati negli angoli. In cima al muro avevano praticato dei buchi circolari tra una finestra quadrata con le grate e l’altra. Il tetto era alto eppure sembrava di essere in una fornace. Cinque gattini con la coda da topo erano ammassati in un cumulo immobile. Un ragazzo si lavò in un secchio d’acqua e raccolse i gattini uno a uno immergendoli dentro. Lei la prese per una gentilezza. Dopo le depositò davanti una bolla azzurra rovente all’estremità di un attizzatoio. Col placarsi della fiamma divenne malva e, raffreddandosi un po’ di piú, quasi incolore. Era a forma di serpente marino, con la coda di una lunghezza innaturale. Il colore e l’aspetto definitivo erano casuali mentre il regalo era chiaramente intenzionale. Lei non poté fare altro che sorridere. Quando se ne andarono trovò il ragazzo ad aspettare vicino alla macchina e lei, salendo a bordo, gli accennò un vago saluto. Quella sera c’erano gli asparagi, perciò si erano presi il disturbo di cercare gli sciacquadita. Erano azzurri con tante piccole bolle, e anche se le bolle forse erano un difetto davano a quel vetro spesso un che di arioso.

C’era un cane nuovo, un bastardino, che lo lasciava indifferente. Disse che i domestici prendevano nuovi cani per il semplice fatto che destinava dei soldi anche per loro. Ma siccome non avevano nessuna voglia di dar da mangiare a piú di un animale, il cane dell’anno prima l’avevano ucciso o abbandonato sulla montagna. Erano tutti cani della stessa specie, mezzi lupi; lei si domandò se quando li lasciavano in montagna tornassero lupi. Lui dichiarò solennemente a tutti i commensali che non si sarebbe mai permesso di affezionarsi a un altro cane. Lei gli chiese senza mezzi termini: – È possibile stabilirlo in anticipo? – Lui disse: – Sí –. Lei capí di averlo innervosito.

Lui venne tre volte e dopo tossí tantissimo. Lei gli si sedette accanto e gli accarezzò la schiena, ma quando la tosse prese il sopravvento lui si allontanò. Si piegò in avanti, tenendo un cuscino contro la bocca. Lei vide un film dei suoi polmoni, forme arancioni con intarsi scuri che presagivano la malattia. Avrebbe voluto fare una cosa semplice e domestica come dargli la medicina, ma lui la mandò via. Tornando dalla terrazza sentí gli uccelli. Gli uccelli erano indaffarati con il canto. Incontrò la cicciona. – Ti hanno mandato a spasso, – disse, – anche a me –. E fecero un inchino scherzoso.

Un archeologo era stato agli scavi dove avevano scoperto un tempio di legno. – Raccontami del tempio, – disse lei.

– Direi che è del Quattrocento avanti Cristo, – disse lui, nient’altro. Asciutto asciutto.

Un ragazzo che si chiamava Jasper e portava camicie color malva riceveva lettere a nome John. Le lettere erano distribuite sul tavolo nell’ingresso, una pietra su quelle di ognuno. La madre di lei scrisse che aspettavano con ansia la buona notizia. Si augurava che prima si fidanzassero ma ammise di essere pronta a sentirsi dire che il matrimonio era già avvenuto. Sapeva quanto lui fosse imprevedibile. La madre dirigeva un’azienda avicola in Inghilterra ed era una mangiatrice compulsiva.

Arrivarono dei ragazzi a chiedere se c’era Clay Sickle. Erano vestiti di stracci, ma sembravano stracci consumati a bella posta che miravano a fare colpo. Le scarpe erano pezzi di copertone tenuti insieme con lo spago. Scesero tutti dalla macchina, anche se per fare la domanda ne bastava uno. Lui stava tornando dalla piscina e dopo aver chiacchierato con loro due minuti li invitò a cena. Traeva linfa dalle persone nuove. Quella sera la ribalta fu tutta loro: i tre ragazzi scarmigliati e la ragazza dai capelli lunghi. La ragazza aveva occhi folgoranti, che puntava ora su un maschio ora sull’altro. Era decisa a comprometterne uno. I ragazzi parlarono della loro vacanza, dei soldi finiti, dei guai con la macchina, che apparteneva a una ditta di vendite rateali londinese. Dopo cena ci fu un imprevisto. La ragazza seguí uno dei maschi in bagno. – Voglio vedere cos’hai lí sotto, – disse, e insistette per guardarlo mentre faceva pipí. Disse che potevano scopare come gli pareva. Disse che sarebbe stato un coglione a non provarci. Era troppo tardi per metterli alla porta perché oramai li avevano invitati a dormire e i letti erano pronti nella stanza della biancheria. La ragazza fu l’ultima ad andarci. Si mise a cantare una canzone: – Tutt’intorno al cazzo ha un eczema tricolore, – e continuò a urlarla mentre attraversava il cortile e scendeva le scale, brandendo una bottiglia.

La mattina lei decise di nuotare da sola. Non è che non si fidasse dell’istruttore, ma si avvicinava il grande momento ed era disperata. Andando alla piscina vide spuntare uno dei ragazzi che mangiava una banana, con un paio di calzoncini bianchi presi in prestito. Lei lo salutò con allegria esitante. Lui disse che era divertente stare fuori prima degli altri. Aveva la testa grande e i capelli rasati, il collo corto e il naso larghissimo.

– È soprattutto sulle spiagge che voglio stare, dove tutto ha avuto inizio, – disse il ragazzo. Lei pensò che si riferisse alla creazione, ma quello sentendoglielo dire sbottò in una risata profana. – Mettiamo che un gruppo di ragazzi cazzeggiano con una palla e hanno tutte le dimensioni sensoriali attive…

– Eh? – fece lei.

– Un’erezione…

– Ah…

– Allora, la palla finisce in acqua e io la seguo e lei segue me e mi toglie la palla di mano e una fitta pioggia di energia, di amore, se vuoi, passa da me a lei e viceversa, una reciprocità in altre parole…

Idiota sentenzioso. Lei pensò: «Perché alla gente piace stazionare sotto il suo tetto? Dove ce l’ha il giudizio quell’uomo, dove?» Rientrò in casa, furiosa per aver sprecato l’occasione di nuotare.

Cara mamma,

non è quel genere di rapporto. Sposata o non sposata ho gli stessi privilegi e in nessuno dei due casi ho qualche certezza. La casa è bellissima ma stare qui è davvero un’impresa. Ti massacrano come se niente fosse. Succede, tra amici. Si mangia bene. Cucinano gli altri ma il menu del giorno è una mia responsabilità. Per fare la spesa ci vogliono ore. I negozi hanno un odore particolare impossibile da descrivere. Sono tutti bui, cosí la roba non va a male. Una vecchia gira le strade con un carretto per vendere il pesce. Fa un urlo molto penetrante. Sembra l’attacco di una canzone. Con lei ci sono sempre sei o sette bambine, tutte con i fori alle orecchie e una bella tutina dorata. Intorno al carretto sciamano le mosche, anche quand’è riposto in verticale nella piazza. Si vede che si nutrono di scarti e di squame. Noi non compriamo da lei, andiamo al porto a comprare direttamente dal pescatore. Gli ospiti – tutti tranne una – mangiano piccole porzioni. Tu non lo sopporteresti. Tutti pezzi da novanta. Hanno un istinto di conservazione imbattibile; sanno quanto mangiare, quanto bere, fin dove spingersi; si direbbe che l’hanno inventato loro Shakespeare, tanto si sono impossessati del suo genio. Non sono mica scemi, anzi. C’è una scacchiera cosí grande da non aver bisogno di un tavolino. Intorno ci hanno messo delle sedie dell’altezza giusta.

Tanto tempo fa, nella mia lontana infanzia, mamma, ricordo che la notte tossivi; in realtà era piú un lamento e lo odiavo. All’epoca non sapevo di odiarlo e questo dimostra quanto siano inaffidabili i sentimenti. Non sappiamo quello che proviamo sul momento, è sconcertante. Perdonami se ho accennato a quella tosse, è solo che secondo me ormai è tempo di parlare senza peli sulla lingua di qualsiasi cosa. Ma sta’ tranquilla. Tu sei secoli avanti rispetto alla gente che c’è qui. In parole povere, se uno è inoffensivo passa per idiota. Ci sono leggi della giungla che non mi hai mai insegnato; e come facevi: non le conoscevi nemmeno tu. Vabbè!

Ti porterò un regalo. Probabilmente un capo scamosciato. Lui dice che qui con l’ago sono un disastro e che le cose cadono a pezzi ma puoi sempre farle aggiustare. Avevamo degli stampini di porcellana per la gelatina cosí belli quand’ero piccola. Che fine hanno fatto? Con affetto.

Come la lettera al dottore, non fu imbucata. Non è che la strappò, rimase lí nella busta e passarono i giorni senza che la spedisse. Quella nuova tendenza la turbava. L’abitudine di rinviare tutto. Sembrava che prima dovesse concludere qualcosa di vitale. Attribuí la colpa al nuoto.

Il giorno in cui svuotarono la piscina saltò le tre lezioni. Sentiva gli operai sfregare, ogni tanto scendeva a piantonarli come se bastasse la sua presenza a velocizzare i lavori e a riempire la vasca d’acqua con un solo getto miracoloso. Lui si accorse che stava sulle spine, disse che avrebbero dovuto far costruire due piscine. Le chiese di andare in barca con loro. I libri e l’olio solare erano dove li aveva visti la prima volta. Le scogliere stuzzicanti come sempre. – Ciao, scogliera, posso cadere dalla tua cima? – ne salutò allegramente una. In un porticciolo videro un altro milionario con la sua ragazza. Erano soli, senza nemmeno l’equipaggio. Chissà perché le si strinse il cuore. A cena i maschi scommisero su chi fosse la ragazza. Ne commentarono la bellezza anche se l’avevano appena intravista. L’acqua che riempiva la piscina faceva il rumore di un ruscello su una collina lontana. Lui disse che la mattina dopo la vasca sarebbe stata piena.

Le altre case avevano oggetti bellissimi ma la loro era imbattibile quanto a buongusto. La cosa che a lei piaceva di piú era il lampadario di ottone opaco venuto dal Portogallo. La sera quand’era acceso i coni di luce si affusolavano verso le travi del soffitto ricordandole il fumo di legna e l’incessante frullio delle ali d’uccello. Votivi. Per farle piacere lui teneva un fuoco acceso in una stanza lontana semplicemente per diffondere l’odore di legna bruciata nell’aria.

La zuppa di crescione che doveva essere una specialità sapeva di acqua salata. Nessuno diede la colpa a lei ma dopo rimase seduta al tavolo a chiedersi come mai fosse venuta male. Si sentiva sconfitta. Su richiesta lui portò un’altra bottiglia di vino rosso ma le chiese se era sicura di voler bere ancora. Lei pensò: «Non capisce i miei meccanismi mentali». Ma del resto non li capiva nemmeno lei. Era ubriaca. Sollevò il bicchiere. Guardando il vino, lasciando che si inclinasse da una parte all’altra, si chiese quanto sarebbe stata ubriaca una volta in piedi. – Racconta, – disse, – cos’è che ti interessa? – Era la prima domanda a bruciapelo che gli avesse mai rivolto.

– Tutto, direi, – disse lui.

– Ma nel profondo, – disse lei.

– La scoperta, – disse lui, e se ne andò.

Non la scoperta di sé però, pensò lei, quella proprio no.

Un neurologo si ubriacò e suonò jazz all’organo della cappella. Disse che non resisteva, c’erano tante di quelle cose da pigiare. L’organo era irrigidito dall’inattività.

Lei andò a dormire presto. Il giorno dopo doveva nuotare per loro. Pensò che lui sarebbe andato a trovarla. In tal caso si sarebbero stesi a parlare una fra le braccia dell’altro. Lei gli avrebbe massaggiato quel povero scroto consumato facendogli domande sul mondo sottomarino dove lui si immergeva ogni giorno, gli avrebbe chiesto di quegli abissi e se laggiú ci fossero fiori di sorta, e lui per raccontarglielo sarebbe stato costretto a raccontarle di sé. Lei continuava a sperare che l’organista si addormentasse. Sapeva che non l’avrebbe raggiunta finché ogni singolo ospite non fosse andato a dormire, perché aveva una strana reticenza riguardo al suo amore.

Ma la musica continuava. Anzi, il musicista acquistava impeto e vigore. Quando finalmente si addormentò, lei aprí le persiane. Le luci della terrazza erano tutte accese. La notte immobile senza una bava di vento. Di là dai campi veniva lo sciabordio del mare e poi lo scampanellio di una pecora, incerto e intercettato. Perfino una pecora riconosceva la notte fonda. Il faro lavorava affidabile come un battito cardiaco. Il cane era steso sulla poltrona, addormentato ma con le orecchie tese. Su un’altra poltrona c’erano maglioni, libri e asciugamani, resti delle attività giornaliere. Lei guardò e attese. Lui non si fece vedere. Rimpianse di non poterlo cercare la sera in cui aveva piú bisogno di lui.

Per la prima volta pensò ai crampi.

La mattina prese tre pillole per il mal di testa e le mandò giú con un caffè bollente. Si disintegrarono in bocca. Dopo le annaffiò con l’acqua brillante. Non c’era lezione perché si sarebbe esibita nel nuoto subito dopo colazione. Provò un costume da bagno, poi un altro; poi, rendendosi conto di quanto era assurdo, mise di nuovo il primo che aveva indossato e rimase in camera finché non fu quasi ora.

Scendendo in piscina scoprí che l’avevano preceduta tutti. Formavano un bel pubblico: i venti ospiti della casa e sei bambini indispettiti costretti a uscire dall’acqua. Perfino la governante stava in piedi sulla panchina di pietra sotto l’albero, per avere una buona visuale. Alcuni sorridevano, alcuni erano un po’ in imbarazzo. La donna incinta le diede una medaglietta come portafortuna. Era attaccata a una spilla. Allora erano amiche. L’istruttore era all’inizio della piscina, la corda legata intorno alla vita per ogni evenienza. I bambini erano gli unici a dare leggerezza a quel momento. Lei si girò al contrario e scese la scaletta senza guardare nessuna faccia in particolare. Si accovacciò immergendosi fino alle spalle poi fece un balzello e si abbandonò. Capí quasi subito che ce l’avrebbe fatta. Le mani, non piú restie a immergersi a fondo, spalavano l’acqua e le gambe scalciavano con una ferocia che non credeva possibile. Sapeva di rendersi ridicola ma non le importava. Nuotò, come promesso, da un lato all’altro dell’estremità dove si toccava. Fu di una brevità patetica ma i patti erano quelli. Dopo un bambino disse che aveva il viso distrutto. I fiori di gomma si erano staccati ormai da un pezzo dalla cuffia, lei se la sfilò, si raddrizzò e si aggrappò alla scaletta. Gli altri applaudirono. Dissero che bisognava festeggiare. Lui non disse niente ma lei capí che era contento. L’istruttore era il piú felice di tutti.

Per organizzare la festa andarono nello studio, dove potevano sedersi e stilare gli elenchi. Lui disse che avrebbero ordinato gitani e fiori e avrebbero servito il caviale nei cigni di vetro pieni di ghiaccio. Lei non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla. Avrebbero incaricato qualcuno. Scrissero in tutto venti telegrammi. Lui le chiese come si sentiva. Lei ammise che tra saper nuotare e non saperlo fare c’era un abisso. Erano due sensazioni inconciliabili. Il vero brivido, disse, era stato quando aveva capito che ce l’avrebbe fatta ma il corpo non l’aveva ancora assecondata. Lui disse che non vedeva l’ora che entrasse e uscisse dall’acqua come un coltello. Fece un abile movimento con la mano. Disse che ora doveva imparare a cavalcare. Gliel’avrebbe insegnato lui stesso o gliel’avrebbe fatto insegnare da qualcuno. A lei tornò in mente la giumenta castana con la testa sollevata, le narici che fiutavano l’aria e lei che non riusciva ad accarezzarla, non riusciva a starle vicino senza sprizzare paura.

– Tu non hai paura di niente? – gli chiese, troppo spaventata per entrare nel merito dell’incontro con la giumenta, avvenuto nella stalla di lui.

– Certo, come no.

– Non lo dài mai a vedere.

– Lí per lí sono troppo spaventato.

– Ma dopo, dopo… – disse lei.

– Cerchi di metterci una pietra sopra, – disse lui e la guardò affrettandosi ad abbracciarla. Lei pensò: «Non dev’essere mai stato piú vicino di cosí a un essere vivente, eppure non è tanto vicino, non è vicino affatto». Sapeva che, se lui l’avesse scelta, non avrebbero sondato la parte profonda della piscina, quella che lei temeva e sognava. Lui quando si trattava di interiorità non correva rischi.

Era stanca. Stanca della vita in cui aveva scelto di avventurarsi e delusa dall’uomo che aveva messo su un piedistallo. Una stanchezza che veniva da dentro e, come un respiro profondo che fuoriesce lentamente, le strappava le viscere. Era stanca del proprio debole per la tirannia. Le sembrava di accostarsi sempre le persone all’orecchio, come la madre si accostava le uova, scuotendole per verificare se fossero marce ma, a differenza della madre, lei sceglieva proprio quelle che avrebbe fatto bene a buttare via. Lui parve intuire la sua tristezza, ma non disse niente; la tenne fra le braccia stringendola ogni tanto per rassicurarla.

L’abito, regalato da lui, era steso sul letto, le ampie maniche bianche pendevano ai lati. Era traforato e aveva l’aspetto inquietante di un cadavere. C’erano uno scialle, le scarpe e la borsa. La cameriera stava aspettando. Accanto alla vasca da bagno il suo libro, un portacenere, le sigarette e una confezione a libretto di cerini difficili da accendere. Accese una sigaretta e aspirò a fondo. Rimpianse di non essersi portata da bere. Aveva una gran voglia di bere e gustò mentalmente quello che avrebbe bevuto. La cameriera si inginocchiò per mettere il tappo. Lei le chiese di aspettare a far scorrere l’acqua. Poi prese l’asciugamano piú grande, lo mise sopra il costume da bagno, uscí in corridoio e scese le scale di servizio. Non c’era bisogno di accendere le luci; avrebbe saputo arrivare alla piscina anche bendata. I giocattoli erano tutti in acqua, come animali della fattoria appena messi a letto. Lei li prese uno a uno e li appoggiò sul bordo vicino alla pila di bottiglie di cloro vuote. Si girò al contrario e scese la scaletta.

Nuotò nella parte dove si toccava, lasciando che l’orribile pensiero venisse a galla. Pensò: «Lo faccio o non lo faccio», e quei due pareri opposti parvero confermare l’idea che non fosse cosí importante. Chiunque, anche il bambino piú piccolo, l’avrebbe persuasa a non farlo perché non ne era convinta. Sembrava semplicemente piú facile, tutto qui, piú facile dello sforzo, dell’amore incompleto e delle gite che si prospettavano.

– È questo che voglio, è qui che voglio andare, – disse, tenendo a freno la parte di lei che si sarebbe messa a urlare. Scese una volta in profondità, e si sottomise, l’acqua raccolta tutt’intorno in un grande, bellissimo, generoso battesimo. Scendendo in quella regione fredda ed elettrizzante pensò: «Non lo sapranno mai, non lo sapranno mai e poi mai con certezza».

A un certo punto cominciò a lottare e a dibattersi, e urlò, anche se non poteva sapere dove sarebbero arrivate le sue urla.

Riprese i sensi a terra, accanto alla piscina, ottenebrata e con la nausea. Aveva un dolore lancinante al petto, come se una cesoia le lacerasse le viscere. Con lei c’erano la servitú, due ospiti e lui. I riflettori intorno alla piscina erano accesi. Si portò le mani ai seni per esserne sicura; sí, era nuda sotto la coperta. Dovevano averle strappato il costume. Era stato chiaramente lui a farle la respirazione bocca a bocca, perché aveva l’affanno e le maniche arrotolate. Lo guardò. Lui non sorrise. Si sentiva una musica, forte, allegra e animata. Le tornò in mente prima la festa e poi tutto il resto. Quella piacevole vaghezza la abbandonò e guardò lui, vergognandosi. Guardò tutti quanti. Che cosa aveva urlato mentre la riportavano in vita? Quali pensieri aveva espresso in quei momenti cruciali? Quanto c’era voluto? La preoccupazione piú immediata fu che non la portassero in casa, doveva impedire quell’ultimo smacco. Ma non ci riuscí. Mentre lui e il giardiniere la trasportavano vide i fiori, le ostriche, i piatti in gelatina e i maialini arrosto su tutte le tavolate, come il banchetto di un sogno, solo che era spaventosamente lucida. Rimasta sola in camera sua vomitò.

Per due giorni non si fece vedere al piano di sotto. Lui mandò una pila di libri e ogni volta che l’andava a trovare le portava qualcosa. Professava grande interesse per i romanzi che lei aveva letto e le chiedeva di raccontargli la trama. Quando si decise a scendere, gli ospiti furono educati, disinvolti e sempre infidi, ma ora in aggiunta erano anche cauti e profondamente contrariati. I loro modi lasciavano intendere che aveva commesso un gesto stupido e agghiacciante, e se fosse andato a buon fine li avrebbe coinvolti tutti in quello stupido e agghiacciante pasticcio. Lei avrebbe tanto voluto tornare a casa senza commiati. I bambini la guardavano e ogni tanto ridevano apertamente. Un maschietto le disse che una volta suo fratello aveva cercato di annegare nella vasca da bagno. A parte questo e l’inevitabile lettera al giardiniere, non se ne fece parola. Il giardiniere era quello che l’aveva sentita gridare e aveva dato l’allarme. Ai loro occhi era un eroe.

Andavano meno a fare il bagno. Pianificavano la partenza. Avevano la scusa pronta: il lavoro, il tempo che era cambiato, le prenotazioni aeree. Lui le disse che sarebbero rimasti finché non se ne fosse andato l’ultimo ospite, dopodiché sarebbero partiti subito. La segretaria avrebbe viaggiato con loro. Lui le chiedeva ogni giorno come stava ma poi, quand’erano soli, leggeva o faceva un solitario. Sembrava calmo, a parte gli occhi lucidi come se avesse la febbre. Erano occhi giovani. L’azzurro sembrava intensificarsi appena la rabbia veniva resuscitata. Era sgarbato con la servitú. Lei sapeva che al ritorno a Londra avrebbero trovato due auto separate ad aspettarli all’aeroporto. Era piú che naturale. La casa, le pietre calde del lastricato, lo scintillio dell’acqua di sicuro ogni tanto si sarebbero riaffacciati alla memoria; di lui invece si sarebbe dimenticata, riponendolo nella soffitta della mente, dove si apposta la sconfitta.