La signora Reinhardt
La signora Reinhardt aveva tracciato l’itinerario. Inchiostro blu per le strade principali, rosso se voleva deviare. Un sistema, e un voto. Doveva divertirsi, doveva riposare, doveva recuperare, doveva ingrassare, e magari rifiorire un minimo. Doveva guarire. In fin dei conti il mondo era verde, soleggiato e incantevole. Stavano raccogliendo il fieno e le mucche pezzate, cosí lucide da sembrare cani dalmata, si muovevano nei prati con la pigrizia dei sonnambuli. Gli uomini e le donne al lavoro nei campi sembravano non conoscere agitazione né fretta. Era giugno in Bretagna, poco prima che calassero le orde di turisti, e le strade erano relativamente sgombre. Il vento impazzava ma lei dall’auto vedeva i rari sprazzi di sole illuminare gli alberi, l’erba rigogliosa e gli acquitrini. I semi e il polline sulla superficie degli acquitrini erano di un giallo senape luminoso. Il ciglio della strada era costellato di ginestre in fiore e, a intervalli regolari, un telefono di emergenza arancio sgargiante rapiva la sua attenzione. Questo non le piaceva. Non le piaceva l’emergenza e non le piaceva il telefono. Da evitare.
Assorta com’era nella guida, la signora Reinhardt aveva il cuore relativamente sereno. Non si sarebbe detto che ne aveva appena passate di cotte e di crude e che l’aspettava anche di peggio. Quella era una tregua. Osserva il ciglio della strada, le margherite nei campi, il rosso e il rosa dei tulipani, e i lupini sonnacchiosi come le mucche; osserva i segnali stradali e se proprio devi pensa agli inglesi morti nell’ultima guerra i cui spettri aleggiavano da queste parti, gli inglesi morti di cui in quel momento in qualche casa a schiera inglese accarezzavano una fotografia, un cimelio, un pensiero smozzicato. Pensa al cibo, pensa ai crostacei, pensa a come si dice mirtillo in francese, pensa a quello che ti pare, basta che tieni la mente impegnata.
Doveva essere un bell’albergo. Aveva visto le foto, una colombaia sulla riva di un lago, l’essenza stessa dell’immobilità, della bellezza, dell’isolamento. Un posto dove ritrovare il dio della pace. I pini ai lati della strada erano giovani e allampanati mentre le mucche erano pendule, le mammelle grosse e piene all’inverosimile. Pensò che era ancora mattina e che le avevano appena munte: chissà come sarebbero state al tramonto! Che rabbia, le mammelle di quelle mucche le fecero tornare in mente il pensiero proibito. Una volta nel loro cottage di campagna una mucca si era impigliata nel recinto di filo spinato e lei e il signor Reinhardt avevano passato un brutto quarto d’ora prima per cercare aiuto e poi per liberare quella povera bestia, mettendo in subbuglio la comunità delle mucche. Dopo avevano bevuto champagne per festeggiare qualcosa. O per nascondere qualcosa? Il signor Reinhardt aveva detto che non dovevano mettere una distanza fra loro, eppure aveva litigato con lei per il Mercato comune e a letto le aveva tolto gli occhiali mentre leggeva un racconto di Flaubert. L’inizio della fine, lo sapeva ora e lo sapeva allora, ma lo sapeva veramente, lo sappiamo veramente, esiste veramente una cosa del genere oppure è l’ennesimo inizio dell’ennesima fine ora e per sempre?
– Accidenti, – disse la signora Reinhardt e accelerò proprio a pochi metri da una profusione di segnali con le frecce grandi e i nomi blu. Si era confusa. Svoltò a destra e si accorse subito di aver preso l’uscita non per la cittadina principale ma per quella a est. Cosí imparava a distrarsi. Levati quell’uomo dalla testa. Il peggio era passato. Si lanciò un’occhiata alle spalle e vide il duomo della cittadina, già alla ricerca di un modo per svoltare a destra.
Il peggio era passato, il peggio era stato quando all’altra donna, una ragazza in realtà, era stato concesso di indossare la camicia da notte e la collana della signora Reinhardt. Per scherzo. «È giovane», aveva detto lui. E a quanto pareva lo era davvero quella rivale, o meglio, quel rimpiazzo. Cosí giovane da inveire contro gli altri automobilisti dal finestrino della macchina, da girare con un grosso ombrello sgargiante, da ingozzarsi di patatine e pastiglie per la tosse mentre il signor Reinhardt la portava nei migliori ristoranti. Una vera peste.
La signora Reinhardt girò intorno a una città murata e imprecò contro un sistema di segnali che non riportavano il nome del paese con i mulini a vento che cercava lei. C’erano altre cose, come un orologio, un panettiere e qualche passeggino e accostando nella piazza orlata di alberi vide un ragazzo a torso nudo davanti a un cavalletto, chiaramente intento a ritrarre la cattedrale. Lei si allargò la cartina sulle ginocchia e aprí lo sportello per far entrare un po’ d’aria. Lui la guardò. Lei gli sorrise. Doveva pur sorridere a qualcuno. Tutt’a un tratto provò il desiderio irrazionale di avere un figlio, un figlio accanto a sé in quel momento a consolarla, a darle sicurezza, a prendere le sue parti. In realtà un figlio ce l’aveva, solo che era cresciuto, era andato in America e non sapeva niente di quella storia né doveva saperlo.
Un tizio le spiegò che aveva sbagliato a entrare nella cittadina con la cattedrale ma lei si disse che aveva visto la cittadina, aveva visto il ragazzo che dipingeva e gli aveva rivolto un utile sorriso che lui aveva ricambiato, e questo non era poco. Per il resto del viaggio non si distrasse, vide gli alberi, le case con i tetti spioventi, qualche mulino a vento, vide i denti di leone, oltrepassò vari paesini, vide i panni stesi ad asciugare e capí che stava andando nella direzione giusta.
L’arrivo fu ammantato di magia. Alberi, il gorgoglio dell’acqua, fiori, fiori di campo e la sensazione di trovarsi in un posto che avrebbe richiesto tempo per lasciarsi conoscere, per lasciarsi scoprire. Ad accrescere il mistero, gli appartamenti erano chalet di pietra disseminati qua e là nel parco. In realtà era un comprensorio, ma dominato dalla natura. Scese qualche gradino seguendo l’indicazione per la reception e non appena si presentò la invitarono a sbrigarsi perché stavano per servire il pasto. Trovare la sala da pranzo fu una piccola spedizione a sé: su per le scale, giú per altre scale e poi dentro un saloncino esterno dove i tavoli rotondi avevano tovaglie di pizzo e un vaso di fiori di campo ciascuno. Lei si chinò ad annusare le viole del pensiero. Un odore puro, dolce e setoso, con la consistenza dell’infanzia. Si sentí grata. Era il marito a coprire le spese ed era un peccato che ora, come lei, non fosse lí a scendere altri scalini per approdare a un tavolo dietro un séparé di raso apparecchiato per due e vicino a una finestra aperta, col gorgoglio dell’acqua come accompagnamento. Prese mezza bottiglia di champagne, pâté d’anatra e un pesce piatto e bianco alla griglia su un letto di porri scottati a striscioline. La salsa olandese era perfetta e piú gialla del normale perché ci avevano aggiunto la senape. Era da sola, a parte la ragazza che serviva e una coppia anziana qualche tavolo piú in là. Non sentiva che cosa dicevano. L’uomo beveva Calvados. La ragazza che serviva aveva un bel faccino e i capelli ricci castani legati con un nastro. Un ricciolo civettuolo le ricadeva a bella posta sulla fronte. Aveva innocenza da vendere, e anche un sogno. La signora Reinhardt non riuscí a guardarla a lungo e pensò che probabilmente non era mai stata a Parigi, non era mai stata nemmeno a Nantes ma sperava di andarci e un giorno ci sarebbe andata. Quella la storia che portava scritta negli occhi, nei riccioli dei capelli, in ogni cosa che faceva. Quella la sete.
Dopo pranzo accompagnarono la signora Reinhardt in camera. Era al fondo di una strada polverosa costeggiata da felci e romice. Le rose selvatiche di un rosa pallidissimo ricadevano sull’arco che sovrastava la porta, e quando lei si affacciò a una dalle strette finestrelle del bovindo in camera da letto vide proprio quelle rose e la distesa d’erba, mentre dal lato opposto giungeva lo scroscio impetuoso dell’acqua, due immagini che le ricordavano sé stessa e tutti quelli che aveva conosciuto. Una era verde, silenziosa e quieta, l’altra torrenziale. Dovevano per forza essere in conflitto fra loro? Si svestí, disfece i bagagli, aprí il piccolo frigorifero per vedere quali delizie contenesse. C’erano birra, champagne, bottigline di whiskey, acqua di Vichy e cordiale rosso. Le sembrava di essere tornata bambina e di guardare dentro la casetta giocattolo. Pianse un po’. Perché piangeva la signora Reinhardt: per la bellezza, per la bruttezza, per sé stessa, per il figlio in America, per il signor Reinhardt che aveva perso la ragione. Il signor Reinhardt era talmente innamorato di quella ragazza, Rita, che si era fatto trascinare a conoscere tutti i suoi amici per informarsi su com’era Rita a sedici anni, a diciassette, come si vestiva Rita, com’era Rita alla festa per il diciottesimo compleanno e perché Rita aveva smesso di frequentare la scuola d’arte, e aveva preso nota di tutto. Bella figura, aveva fatto. Sí, piangeva proprio per quello, e piangendo le sembrava che le lacrime fossero come le stratificazioni della terra, che avessero tanti livelli e tanti strati, e che gli strati fossero diversi fra loro e che adesso il suo pianto dipendesse da piú di una cosa alla volta, che le sue lacrime fossero tutte mischiate. Piangeva anche per la vecchiaia, per due ciuffetti grigi nel pelo pubico, piangeva perché certe volte non si era impegnata di piú, per esempio quando il signor Reinhardt tornava a casa aspettandosi l’eccitazione o il riposo e invece si ritrovava la tipica storia dell’impiegato del gas che non si era presentato all’appuntamento. Si era lasciata risucchiare dal vortice stanco e ipnotico della vita domestica. Con lei le riviste dovevano essere in ordine e la polvere spolverata, lí aveva riversato tutto il suo perfezionismo anziché in cose piú grandi, o nel signor Reinhardt. Dove abbiamo sbagliato? Non spetterebbe agli angeli prenderci per mano e riportarci indietro?
Piangeva anche per la sera in cui gli aveva tirato addosso un piatto da portata, mentre lui stava lí catatonico e diceva di sapere che stava rovinando la vita a lei e a sé stesso, ma non poteva impedirlo, diceva sarà pure follia o la menopausa maschile o quello che voleva lei, ma le cose stavano cosí, cosí come stavano, come stavano. Le aveva perfino rivolto un appello. Le aveva raccontato una storia, le aveva raccontato che proprio quel giorno, andando a un’asta a comprare dei quadri per la galleria, aveva portato con sé Rita e mentre guidava in autostrada si era augurato di avere un incidente, tanto era terribile la sua situazione e impossibile per lui separarsi da quella ragazza che, doveva ammetterlo, gli aveva fatto perdere la testa, ma l’aveva reso Felice, Felice, continuava a ripetere.
Era quell’impotenza degli esseri umani a farla piangere piú di tutto e quando, molto piú tardi, cioè al tramonto, la signora Reinhardt si asciugò gli occhi e indossò l’abito color ostrica con la collana cinese, si andava ancora ripetendo la storia dell’impotenza. Allo stesso tempo ricordava a sé stessa che aveva una vita davanti, e tante avventure, che non era finita, aveva semplicemente cambiato direzione e non conosceva ancora la strada nuova.
Andò a cena. Le diedero un altro tavolo. Stavolta guardava il lago che era un affresco di meraviglie: gli alberi ai due lati, i rami sporgenti, le foglie verdi con la parte inferiore argentata e un grosso ramo caduto che le anatre usavano come posatoio. Gli ospiti erano quasi tutti anziani a parte una donna con i capelli arancioni e gli occhiali da sole borchiati. La donna esaminò una rivista per tutta la cena senza mai rivolgere la parola al suo accompagnatore.
La signora Reinhardt guardava il panorama, sorseggiava il vino, masticava una crosta di quel pane leggero come un’ostia. D’un tratto girò lo sguardo e vide una vasca con le bolle d’acqua dove c’erano svariati astici. Erano cosí belli che lí per lí li scambiò per modellini, per astici ornamentali. I carapaci avevano meravigliose sfumature blu, il blu dei lapislazzuli, e anche se i movimenti dei crostacei sulle prime la innervosirono, poco alla volta si lasciò irretire dalle loro movenze dimenticando quello che le avveniva intorno. Si muovevano in modo bellissimo e con un intento preciso. Si muovevano per toccarsi, almeno alcuni, mentre gli altri aspettavano, erano beneficiari, per cosí dire, di quel protendersi, di quel toccarsi. I loro movimenti avevano tutta la magnificenza della parola, priva però della follia. Ma le intenzioni erano chiare. La signora Reinhardt era cosí assorta che non sentí la ragazza carina dirle che la desideravano al telefono e in effetti quella le dovette toccare il braccio nudo facendola sobbalzare. Naturalmente uscí dalla sala un po’ turbata, mise un piede in fallo prendendo una storta ma per fortuna senza slogarsi la caviglia. Era la caviglia debole, quella su cui cadeva sempre. Entrando nella piccola cabina si fece forza. Forse lui era pentito o ubriaco, oppure c’era stato un incidente, oppure era il figlio che si sposava. Di sicuro era qualcosa di importantissimo. Disse un «Pronto?» calmo ma vivace. Lo ripeté. Era la voce di un estraneo, uno che voleva Rachel. Rachel chi, chiese lei. Dopo qualche istante di forte nervosismo la signora Reinhardt tornò al tavolo molto delusa e tremante. Che stupida quella ragazza a chiamare lei! Fortuna che gli astici salvarono la situazione.
Ora sí che li guardò con la massima attenzione. Ora sí che dimenticò l’errore telefonico e si godette lo spettacolo. Un astice lungo e imponente sembrava il padrone della vasca. Le chele erano coperte da elastici neri ma questo non gli impediva di aggirarsi tutto tronfio nell’acqua, ingaggiando battaglie frontali con alcuni ma cercando per lo piú di stuzzicarne un altro: una femmina che dormiva ed era chiaramente il suo amore. Le inviava richiami ipnotizzanti. Le faceva il solletico con le antenne, le appoggiava le chele sul dorso, poi gliene infilava una sotto a mo’ di leva per sollevarla appena appena, poi la lasciava un attimo in pace ripartendo subito dopo con un assalto piú impetuoso, piú esplicito. Ogni tanto, per forza di cose, era costretto a desistere, a tenere a bada gli altri che insidiavano la sua bella, e lo faceva con la stessa determinazione, affrontandoli con occhi feroci ma allo stesso tempo immobili come perle. Si avventava nell’acqua spingendoli indietro, spingendoli altrove, e tornava dalla sua amata, dal suo oracolo. Ovviamente nella vasca c’erano anche movimenti secondari ma la signora Reinhardt seguiva lo spettacolo principale. Immaginò che quell’astice fosse un maschio e decise di chiamarlo Napoleone. In certi momenti era cosí preso dalla smania sessuale che si portava una lunga antenna sotto il sedere e si toccava la piccola gorgiera di membrane grigiastre per eccitarsi e ripartire in tromba con la dama dormiente. Perché non aveva dubbi che lei avrebbe ceduto. La signora Reinhardt la battezzò la Dama Giapponese per via del languore, del rifiuto di lasciarsi provocare da lui e da tutti gli altri, e la signora Reinhardt pensò: «Oh, chissà che scena quando lei si deciderà ad alzarsi e si concederà al suo abbraccio, oh, chissà che matrimonio!» La signora Reinhardt pensò anche che con ogni probabilità sarebbero rimasti in quella vasca poche ore e che in quelle ore dovevano interpretare la commedia della loro vita. Li guardò premendo una mano contro l’altra e sperò, come i bambini, che quel corteggiamento avesse un lieto fine.
Era ancora in corso quando fu costretta a lasciare la sala da pranzo, ma aveva come la sensazione che a luci spente e senza ospiti i due protagonisti, al sicuro nella loro vasca e protetti dalle bolle d’aria, si sarebbero segretamente trovati. Aveva bevuto un po’ troppo e risalí la strada polverosa che portava al suo chalet barcollando appena. Si sentiva euforica. Aveva visto una cosa che l’aveva commossa. Aveva visto l’istinto, aveva visto le effusioni e aveva visto la volontà che rifiuta di essere rifiutata. Aveva visto la tenerezza.
In camera mise la collana nella scatola di vimini a forma di cuore e la nascose sotto il cuscino del secondo letto. Un bellissimo collier di giada che aveva rubato al marito. Era stato della madre di lui. Valeva diecimila sterline. Era il suo regalo di benservito. Gliel’aveva estorto. Prima di chiuderlo nella scatola morse le perle come fossero frutti.
«Se mi dài la collana me ne vado». Questo gli aveva detto, e sapeva di averlo ferito mortalmente al cuore, in qualche angolo recondito. Per lui era la collana di famiglia nonché quello che considerava il suo unico portafortuna. E poi suo marito era del Cancro e quando si attaccava, si attaccava. Quel monile li accomunava e lei prendendolo gli diceva che andava via per sempre, e portava via una parte di lui, il suo talismano piú importante, cimelio della madre, cimelio della loro vita insieme. Oramai si era talmente legata a quel gioiello che quando lo aveva indosso si toccava la gola di continuo per assicurarsi che ci fosse, e quando se lo toglieva lo baciava, e la notte lo sognava, e una notte sognò che per sicurezza se l’era infilato dentro la vagina, l’aveva nascosto lí dentro. Altre volte pensava di andare al casinò e di giocarsi la fortuna di lui e la propria. C’era un casinò lí nei paraggi e quel sabato era prevista una gara ciclistica e lei pensò che una sera, magari proprio sabato, sarebbe uscita, e magari avrebbe giocato d’azzardo e magari avrebbe vinto. E si addormentò.
Il terzo giorno la signora Reinhardt fece un giro in macchina. Aveva bisogno di cambiare scenario. Aveva bisogno di aria di mare e di scogli. Aveva bisogno di rinvigorirsi. Il piccolo nido era stucchevole. Il qua-qua delle anatre e il gorgoglio dell’acqua andavano benissimo ma cominciavano a fare il verso alle sue brame e questo non le piaceva. Perciò dopo colazione lesse la Preghiera di una monaca inglese del XVII secolo, quella che chiede al Signore di liberarci dall’eccessiva facondia, di renderci riflessivi ma non musoni, di concederci qualche amico e di conservarci ragionevolmente dolci. Pensò a Rita. Ai luminosi occhi blu di Rita, occhi zaffiro, e ai suoi piccoli orecchini in tinta. Rita era sgraziata come una puledra. Rita era tipo da passare la notte in bianco, buttarsi in mare all’alba e poi dormire come una bambina tutto il giorno anche in una stanza senza tapparelle. Beata gioventú. Eppure guarda caso la signora Reinhardt aveva un ammiratore. Monsieur, il proprietario dell’albergo, era pieno di premure. Le bastava girare l’angolo per ritrovarselo davanti, ed escogitava sempre qualche scusa per trattenerla un istante e mangiarsela con gli occhi. Una volta era una lepre che correva nella vegetazione, un’altra il suo cane che seguiva le anatre, un’altra ancora il camioncino dell’elettricista venuto a riparare i cavi telefonici. Il temuto telefono. Era proprio contenta che non funzionasse. Era anche contenta di fare ancora colpo, e guai a chi diceva che la signora Reinhardt non era una rubacuori.
Suo marito aveva conosciuto Rita esaminando la mostra d’arte di alcuni giovani talenti. Rita, che si era resa conto di essere la peggiore, in un attacco di rabbia aveva distrutto la propria opera. Lui rientrando a casa aveva raccontato alla signora Reinhardt quanto gli fosse dispiaciuto per quella ragazza, anche se aveva dimostrato di avere un bel fegato. Era il ventidue febbraio. Il giorno dopo erano successe due cose: lui aveva comprato svariate camicie di seta e le aveva proposto un weekend a Parigi.
«Magari potessi chiudere la porta a chiave e tornare quando sarò vecchia, magari». Questo si diceva la signora Reinhardt allontanandosi in macchina da quel nido verde, dagli uccelli cinguettanti e dai moscerini a mezz’aria, dalle ricche salse olandesi e dal letto con la trapunta, dall’eccessiva comodità di tutto quanto. Pensò che forse aveva soffocato il marito allo stesso modo. Perché, anche se la signora Reinhardt con gli altri era fredda e manteneva rapporti distaccati con uomini e donne, non era quella la sua vera natura, era una sovrastruttura, uno scudo di riserbo a protezione delle sue paure. A casa era romantica, faceva un milione di cose per compiacere il signor Reinhardt, per assecondarlo. Gli scaldava il suo lato del letto mentre lui si svestiva, guardava un disegno che aveva appena comprato o passeggiava per la stanza. Le passeggiate si erano fatte piú febbrili. Quando gli faceva ai ferri le calze a trecce ne faceva sempre tre casomai una si fosse strappata o rovinata. Quando lui andava a pescare oppure ad agosto, quando andava a caccia in Scozia, lo seguiva soltanto per stargli vicino anche se odiava quelle scorribande. Troppa vita pubblica. Una residenza di campagna stipata di ospiti per una settimana frenetica e alla buona. Niente vita privata. Alcune delle donne partecipavano come battitrici, mentre altre si accomodavano in uno dei salotti per scambiarsi ricette o parlare di lifting facciali, di bei vestiti o delle agenzie che fornivano personale di servizio. Il paesaggio e il gallo cedrone avevano lo stesso colore meraviglioso: quello del metallo arrugginito. Gli uccelli abbattuti davano spesso l’idea di essersi stesi in terra per scherzo, tanto poco sembravano morti. Perfino le rare gocce di sangue parevano irreali, teatrali. Lei amava la brughiera, il colore arrugginito della cascina e del sottobosco. Amava i cani e l’entusiasmo ma non sopportava il rumore degli spari. Un’improvvisa violenza in quella brughiera incontaminata e poi la gioia dei cacciatori alla ricerca della preda abbattuta. Quando si riunivano intorno al tavolo capitava che lui le facesse l’occhiolino o le passasse una tazza di brodo ma non la coinvolgeva mai nei discorsi. Non ce n’era bisogno. La signora Reinhardt pensava spesso che il vero segreto del loro amore fosse che lei teneva la propria interiorità perennemente al caldo per lui, come si tiene un uovo sotto un nido di paglia. Quando amava, amava senza riserve, lei, come un cocker. Aveva gli occhi dello stesso marrone giallognolo. Una volta da ragazza mentre cuciva una cosa a macchina si era infilata per sbaglio l’ago dentro l’indice, e invece di chiamare i genitori che erano nell’altra stanza aveva aspettato che arrivasse la madre. La madre vedendo quel disastro aveva lanciato un urlo. Un attimo dopo ecco arrivare il padre, che l’aveva liberata dall’ago dando un colpetto alla leva e poi le aveva rivolto uno sguardo, uno sguardo cosí carico d’amore. All’epoca la signora Reinhardt era semplicemente Tilly, figlia unica e anima bella. Era convinta che prima ami tuo padre e tua madre, e ami tuo fratello, poi amerai tuo marito e al di sopra di tutto amerai i tuoi figli. I genitori l’avevano viziata, l’avevano portata al Ritz per festeggiare i compleanni, le avevano lasciato ninnoli d’oro sul cuscino la vigilia di Natale, l’avevano consolata quando piangeva. A ventun anni le avevano fatto fare un costoso ritratto e l’avevano appeso in bella vista cosí gli ospiti entrando in casa dicevano: «Ma tu guarda! E quella chi è?» sperticandosi poi in complimenti.
Per il trentesimo compleanno anche il marito aveva fatto dipingere un suo ritratto che in quel preciso istante era nel salotto di casa loro, a guardare lui e Rita, a meno che lui non l’avesse girato al contrario, o che Rita non l’avesse imbrattato di vernice. Rita era una ribelle, a quanto pareva. La sua gelosia era piú dirompente dei rari sottomarini di gelosia che la signora Reinhardt aveva varato nei diciassette anni del loro matrimonio, e sempre indirizzati a donne grossomodo della sua età, donne posate, donne sposate, donne scaltre, donne che di professione facevano le girovaghe ma alle sei in punto tornavano a casa. Essere gelosa di Rita era piú un’astrazione; si erano viste una sola volta, sui gradini di un teatro. Rita lo aveva seguito fin lí, aveva salito i gradini di corsa, gli aveva dato un biglietto ed era scappata via. Essere gelosa di Rita significava essere gelosa della giovinezza, della libertà e della spontaneità. Rita non voleva il matrimonio o un anello di fidanzamento. Voleva andare a Firenze, voleva andare a un ballo, al parco con i pattini a rotelle. Rita aveva carattere. Una volta a un ricevimento di suo padre aveva buttato venti sedie d’oro dalla finestra. Se loro due avessero avuto una figlia, forse le cose sarebbero andate diversamente. E se il figlio fosse rimasto a casa, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ci sarebbero state quattro persone sedute al tavolo bianco sotto l’ombrellone rosso, a guardare il lago marrone, il colore stemperato da un folto di alberi e arboscelli. Ci sarebbero stati quattro bicchieri, uno di Coca-Cola, uno o forse due di whiskey e quello della signora Reinhardt con vino bianco e acqua brillante. Una voce giovane avrebbe detto: «Che cos’è?» indicando un cesto di vimini sformato su un basamento di legno in mezzo al lago, e lei avrebbe guardato con attenzione per capire cosa fosse, e mentre cercava di stabilire se fosse un nido di cigni o di anatre avrebbe sentito ripetere la domanda con una punta di impazienza: «Mamma, che cos’è?» e forse avrebbe risposto. Mannaggia, quel quadretto familiare l’aveva distrutta.
La signora Reinhardt era talmente assorta nel pensiero della famigliola felice riunita in albergo che attraversò gli scogli coperti di muschio e poi la sabbia bagnata fra gli scogli come una sonnambula. Era diretta alle lontane rocce scoscese. Le calotte di alghe sulla sabbia erano cosí verdi e cosí simili a una nuca da sembrare parrucche teatrali. Ne guardò una, si chinò a meditare su quel verde e, alzandosi, se lo ritrovò davanti. Un tipo sui venticinque anni con la camicia azzurra e le labbra socchiuse sembrava dirle qualcosa di simpatico, anche se forse era soltanto un saluto. Aveva l’accento americano. Se si fossero incontrati in un cocktail bar o nell’atrio di un aeroporto difficilmente si sarebbero rivolti la parola, ma lí la situazione lo imponeva. Era d’obbligo che l’una o l’altro esprimessero o confermassero l’ammirazione per il mare, le barche, le case bianche in lontananza, il biancore della luce, il panorama; e poi che lui, con la massima spontaneità, la prendesse per il polso e dicesse: – Guardi, guardi, – indicando un uccello che si tuffava in acqua, risaliva di volata e si rituffava per riemergere poi con un pesce.
– Un predatore, – disse la signora Reinhardt, sul polso ancora quella mano, come se niente fosse. Discussero dell’uccello, lei disse che era una sula e lui disse che era una specie di falco. Lei disse con dolcezza di conoscere la natura meglio di lui. Lui glielo concesse. Disse che se vieni da Main Street, nell’Iowa, non sai niente di niente, sei un burino e basta. Risero.
Tornando indietro lungo la spiaggia, lui le raccontò che stava da certi amici lí nei paraggi ma aveva deciso di andarsene perché non scopri niente se non sei da solo. Si sarebbe trattenuto un altro paio di notti e poi se ne sarebbe andato, con la Turchia come destinazione finale. Non era un giro delle capitali europee e nemmeno un viaggio gastronomico il suo, visitava semplicemente le zone selvatiche della Bretagna e aveva scovato un albergo sull’altro versante che nessuno conosceva. – Il versante selvaggio, – disse.
Quando lei accettò di andare a mangiare una crêpe si erano già scambiati quelle informazioni di base. Lui confessò di non parlare bene il francese. Lei confessò di aver fatto un corso accelerato e che pensava di passare tre mesi a Parigi per seguire un corso di cucina. Quando entrarono nel locale lei si tolse il foulard e lui fu subito rapito dalla bellezza di quella massa di capelli castani. Mentre cercavano un tavolo lei li agitò, spinta da un recondito impeto di vanità.
– Di’ un po’, – disse lui, – sei o non sei sposata?
– Sí e no… – Si era tolta la fede e l’aveva messa nella scatolina di cuoio con la chiusura a scatto.
Lui fu incuriosito dalla risposta. Lei si affrettò a spiegare che lo era stata ma che presto non lo sarebbe stata piú. Lui allungò la mano senza però toccarla e lei pensò che c’era qualcosa di delizioso in quel gesto, in quel delicato accenno di solidarietà. Lui disse sottovoce di essersi lasciato sfuggire l’occasione di sposarsi e avere figli. A lei sembrò sincero. Disse di essere stato un gatto randagio, di aver tradito, e perso, ogni brava ragazza che aveva incontrato. Non riusciva a mettere la testa a posto.
– È meglio perdermi che trovarmi, – disse, e rise, e c’era un che di cosí malizioso in lui che la signora Reinhardt ne fu conquistata.
A conoscerlo meglio le toccò ammettere che era di una bellezza impeccabile. Perciò il carattere non doveva essere terribile come lui lo dipingeva. Lei lo stimolava a raccontarle le cose, cose puerili come la sua prima vacanza in Grecia, la sua prima ragazza, la sua prima chitarra, e poco alla volta si accorse che quelle storie le interessavano anche se non avevano niente di originale. Erano piú il calore e il piacere che metteva nel raccontarle che la spingevano a chiederne altre. La signora Reinhardt era come una appena sbarcata da un viaggio che vuole sapere tutto quello che è successo sulla terraferma. Le raccontò di aver girato un cortometraggio che gli sarebbe piaciuto tantissimo farle vedere. Potendo sarebbe salito su un aereo quella sera stessa per andarlo a prendere! Parlava di motociclismo e l’aveva girato con grande anticipo rispetto a chiunque avesse girato film o scritto libri sull’argomento. Le descrisse alcune scene. In una era il crepuscolo in un posto deserto e un tizio dopo aver bucato dice: «Ma sí, chi se ne frega…» e si siede a fumare una sigaretta. Lei avvertiva come una purezza in lui, oltre a tutto quanto il resto. Era uno che amava il deserto e la prateria però, ebbene sí, si faceva mantenere dalle donne, e aveva bevuto tanto e dormito dove capitava e fumato qualunque erba esistesse al mondo, e gli dispiaceva non aver conosciuto Aldous Huxley, che Aldous Huxley non fosse suo padre.
– Sono ancora in fase di ricerca, – disse.
– È la nuova moda, – disse lei in tono un po’ sardonico.
– E dài, sposiamoci, – disse lui, e batterono le mani fingendo che fosse vero. Inscenarono uno spettacolino come se si fosse appena presentato qualcuno dicendo: «Fate finta che sia vero, ragazzi». Per scherzo accostarono le guance, per scherzo intrecciarono le dita, per scherzo si strinsero le nocche e per scherzo si alzarono in piedi, andarono nell’angolino dove si ballava e ballarono vicini come due gemelli siamesi alla musica del juke-box. Per scherzo, o forse no, la signora Reinhardt sentí attraverso le bellissime pieghe dell’abito color ostrica la pressione del sesso di lui, e girarono, girarono, girarono, i due fidanzati per scherzo che erano lontani da casa e si erano vicendevolmente attirati in quel vortice di eccitazione. Com’era elettrizzante e come ringiovaniva ballare torno torno e sentire la forza e il bisogno di quell’uomo premere sempre piú contro di lei che pure continuava a mantenere il suo riserbo. Che bellissimo sorriso estatico le si era dipinto sul viso. Sorrideva di sé stessa. Lui le fece scivolare l’altra mano sul sedere ma la signora Reinhardt l’allontanò con una scrollata. Appena finí il ballo si separarono.
Poco dopo essere tornati al tavolo lei guardò il minuscolo orologio che aveva al polso, e lui vedendola strizzare gli occhi accese subito l’accendino di plastica azzurra per permetterle di leggere quelle lancette nere minuscole come insetti. Poi le tenne l’accendino davanti al viso per ammirarla, per ammirare gli occhi, il naso lungo, la bocca sensuale, la collana.
– Sono vere, – disse, sollevando le grosse perle verdi che avevano assunto un ruolo cosí coinvolgente e profondo nella vita di lei.
– Credo di sí, – disse la signora Reinhardt, pentendosene all’istante. In fin dei conti il mondo pullulava di ladri e mascalzoni e non era uno scherzo portare al collo diecimila sterline. Aveva letto di donne come lei che avevano stretto amicizia con uomini, giovani o anziani che fossero, ed erano state derubate, ripulite, dissanguate. Le si gelò il sangue e inventò lí per lí la scusa che aspettava una telefonata in albergo. Quando si congedò lui si alzò cavallerescamente e uscí con lei scortandola giú per le scale e lungo il vialetto di ghiaia che portava al parcheggio. Non si diedero il bacio della buonanotte.
La mattina il mondo era pulito e luminoso. Aveva piovuto ed era tutto lavato, i mulini a vento, le anatre, le rose, gli alberi, i lupini e i sentierini sinuosi. I sentierini sinuosi erano ovviamente disseminati di fiori bianchi, rosa e azzurri. Perciò le parve di vedere la neve quando aprí le finestre, si affacciò e spezzò una rosa umida che non aveva ancora riacquistato tutto il suo profumo. Il profumo era soffocato da quello della pioggia, di per sé meraviglioso. Com’erano meravigliosi i suoi seni nudi poggiati sul davanzale della finestra. E la vita, il benessere fisico, il proprio corpo, le rose, l’incontro, la promessa, il ballo. Si ritrasse all’istante vedendo che sotto c’era Monsieur che piantava pigramente qualche chiodo nel muro. Sembrava impegnato a fare un graticcio per le rose ma non aveva fretta, e guardava nella sua direzione. Aveva la capacità di scovarla ovunque fosse. Quando la sera prima era rientrata tardi l’aveva trovato che l’aspettava nel parcheggio per dirle che le avevano tenuto un tavolo per la cena. In tasca aveva un menu. Non la guardava soltanto lui ma anche il cagnone nero. Il biancore della signora Reinhardt e la parvenza lattea dei suoi seni contrastavano con il nero del cane e lei li vide divisi ma raggruppati in un bellissimo quadro, opposti, uno lungo, nero e con il muso, l’altro bianco e rotondo come una lampada. Le piaceva quel quadro e le sarebbe piaciuto aggiungerlo ai quadri che aveva visto durante gli anni del suo sonnambulismo. Ora non era piú sonnambula. La vita era cosí, sognavi tantissimo o piangevi tantissimo o sentivi tantissimo prurito, e poi tutto passava per essere sostituito da qualcos’altro.
La signora Reinhardt se la prese comoda. Indossò un vestito poi un altro, sollevò un portacenere placcato in argento e scoprí che sotto c’era uno sciame di formichine, prese l’acqua frizzante dal frigorifero, la bevve, ingoiò due compresse di ferro e per associazione di idee si abbassò la palpebra inferiore per vedere se era ancora anemica. Si rese conto di una cosa meravigliosa. Per un certo numero di minuti non aveva pensato una sola volta al signor Reinhardt e questo segnava l’inizio della guarigione. Era cosí che succedeva: dimenticavi per due minuti e ricordavi per venti. Dimenticavi per tre minuti e ricordavi per quindici, ma poi ricordo e oblio poco alla volta si equilibravano come un pendolo che poi, un bel giorno, cominciava a oscillare dall’altra parte decretando la vittoria dell’oblio. Che cosa poteva volere di piú una donna. La signora Reinhardt ballò per la stanza, balzò sul letto, tirò in aria un cuscino e si sentí viva e allegra come il giorno in cui si era fidanzata sapendo che avrebbe vissuto felice e contenta. Che cosa poteva volere di piú una donna. Lei voleva quell’americano anche se forse era un mascalzone. Forse no. L’avrebbe avuto, ma a tempo debito e come diceva lei. Non gli avrebbe permesso di trasferirsi nella sua stanza in albergo perché la riservatezza era sacra. A dire il vero cominciava proprio a divertirsi. Ma tu pensa, poteva prendere il caffè a mezzogiorno anziché alle nove e mezzo, poteva mangiare un bignè, poteva tirarsi le sopracciglia, poteva cantare note alte e note basse, poteva vagare senza meta.
– Libertà! – disse la signora Reinhardt alla donna bella e flessuosa con la vestaglia a fiori che sorrideva nel lungo specchio mentre l’altra signora Reinhardt diceva alla bella donna che l’acquavite di prugne bevuta la sera prima le frusciava ancora nel cervello.
Dopo colazione fece una passeggiata nel bosco. Su un ponticello si tolse i sandali e camminò in punta di piedi per non disturbare i rumori e l’operato della natura. Non era mai entrata in un bosco cosí buio. Tutti gli alberi si avviluppavano in cielo disegnando una volta verde a tanti strati. Le felci crescevano con prodigiosa abbondanza e tra una felce e l’altra erano tante le cose che lottavano per mettersi in mostra circondate da farfalle e da insetti. I funghi commestibili e velenosi prosperavano alla base di ogni albero e lei si inginocchiò ad annusarli. Adorava quell’odore umido. I cinguettii di ogni nota e varietà trafiggevano l’aria mentre gli uccelli sfrecciavano al suolo o risalivano di volata. La fecondità della natura, quel coro di uccelli e il lontano tubare dei colombi nella colombaia la misero in fibrillazione, seguiti da un’altra cosa che accelerò il suo desiderio. Le giunse all’orecchio il fischio sommesso, allusivo e smanioso di un maschio. Lo aveva quasi calpestato. Le vedeva le gambe nude sotto il vestito. Lei si ritrasse. Lui era steso a terra con la camicia aperta. Non si alzò per salutarla.
– Tu, – gli disse.
Lui sollevò il piede in segno di saluto. Lei rimase impalata cercando di decidere se quella presenza fosse la benvenuta o un’intrusione.
– Incredibile, – disse lui, e tese le mani assecondando l’abbondanza della natura che lo circondava. Si scusò della sua presenza e disse di essere passato da lei in bicicletta per salutarla e lasciarle i croissant appena sfornati, ma quando gli avevano detto che dormiva ancora aveva deciso di fare un giro nel bosco. I croissant li aveva dati agli uccelli. Usò qualche parola francese per fare colpo su di lei, che dissipò con una risata il proprio disappunto. In fondo il bosco non era mica suo, lui non aveva bussato alla sua porta e se fosse andato via senza averla vista ci sarebbe rimasta male. Allargò la gonna come un cuscino sotto di sé e si sedette ripiegando le gambe dall’altra parte. Fu allora che parlarono. Parlarono per tanto tempo. Parlarono del coraggio, del coraggio degli uomini che è diverso da quello delle donne. Del coraggio che dimostri quando un cavallo s’imbizzarrisce o l’auto che hai davanti si schianta, del coraggio logorante di tutti i giorni. Lei disse che gli uomini non sono mai capaci di mettere un punto. – Cazzarola, se hai ragione, – disse lui e quell’uscita gergale le sembrò comica in confronto alla pace e alla maestà del bosco.
– Hai un buon odore, – le diceva ogni tanto e anche questo apparteneva a un altro ambiente, ma lui la colpiva soprattutto per la sincerità e perché si prendeva il tempo per dire le cose che voleva dire. Entro la fine della settimana lo avrebbe portato nel proprio letto. Sarebbe stato semplice e inaspettato, un invito buttato lí all’ultimo momento come quando prendi un fiore o un fazzoletto e lo lanci nell’arena della corrida. Lei avrebbe abbandonato ogni pudore, come non faceva da anni. Rimasero quasi un’ora a parlare e ogni tanto uno dei due si alzava, camminava o correva verso il ponticello e fingeva di scattare una foto. Alla fine si alzarono insieme e andarono a recuperare la bicicletta. Lui volle fargliela provare a tutti i costi. Lei dopo qualche incertezza sfrecciò lungo il sentiero e lo sentí applaudire. Poi smontò, girò la bici e tornò indietro. Lui le disse che la prossima volta doveva fare la curva restando in sella e lei gli diede una pacca dicendo che non andava in bicicletta da anni. Aveva il viso arrossato e si era sporcata la gonna col grasso della bicicletta. Lui la fece salire per scherzo sulla canna, montò in sella e infilarono il viale a velocità spaventosa cantando: – Daisy, Daisy, give me your answer do, I’m half crazy all for the love of you…
Lui non si fermò nemmeno sentendola giurare che da un momento all’altro sarebbe caduta.
– Vai benissimo… – le diceva infilando la curva successiva. Dopo poco lei smise di urlare e si godette il rimescolio che sentiva nello stomaco.
La signora Reinhardt era nell’angusta doccia con il disco verde di sapone ficcato sotto un’ascella quando vide un ramo di rosa dondolare dentro la stanza. Come in un miraggio i petali cadevano dove capitava. Chi era dei due? Lui o Monsieur? Aveva i sensi tutti accesi. Lui entrò dalla finestra e andò dritto da lei. Non disse una parola. L’afferrò in modo brutale, senza togliersi i vestiti, ed era cosí intento a possederla da non accorgersi che si stava inzuppando. La doccia scrosciava ma nessuno dei due si prese la briga di chiudere il rubinetto. La lampo dei pantaloni le faceva male ma a lui non importava. Il fatto era che l’aveva desiderata fin dal primo istante e adesso le stava riversando dentro tutta la sua arroganza di galletto e lei l’accoglieva volentieri, anzi, con voracità. Stava riconquistando il suo orgoglio di donna, e di donna desiderabile, per di piú. Era questo che le era mancato da morire negli ultimi dieci mesi. Eppure la sorprendeva quel suo bisogno smodato di pareggiare i conti con la vita, o forse di guarire. Si appoggiò alla parete della doccia, tutta bagnata e scivolosa, e prese a dondolare per sentirlo in ogni parte. Non si preoccupava di lui, che pure sembrava smanioso di dimostrarsi all’altezza e di soddisfarla e che andava ripetendo le peggiori sconcezze chiamandola troia, puttana, zoccola e compagnia bella. Fu tale l’intensità che pensò perfino di concepire e l’unico altro pensiero che le sfiorò la mente fu quello degli astici con la dama che non batteva ciglio mentre tutti la corteggiavano.
Quando lui venne lei rifiutò di dichiararsi soddisfatta e con poche carezze brusche volle che lui la riempisse di nuovo e sondasse ogni suo anfratto. Il tutto senza una parola, a parte gli appellativi che le bofonchiò quando gli spremette succhi di cui aveva ormai esaurito le riserve. Ora sí che si stava riscattando.
Dopo essersi lavata lo lasciò steso senza fiato sul pavimento del bagno e andò in camera a riposarsi. Si sentiva una regina e quando si sdraiò sul letto l’intero corpo era una nave armata di bellezza. Che vittoria! Aveva chiuso la porta della camera da letto a chiave. Lui poteva aspettare, poteva sudare. Lo avrebbe raggiunto a cena. Glielo aveva detto in francese sapendo di confonderlo il doppio. Si predispose a dormire imponendosi sogni piacevoli, sogni colorati, i colori del sole e dei lampi, del sole giallo e dei lampi zaffiro.
Lui si presentò all’appuntamento per la cena. La signora Reinhardt lo vide dal ballatoio, in fondo al saloncino dove c’erano i tavoli con le tovaglie di pizzo e i vasi di fiori di campo che aveva visto il primo giorno. Beveva un Pernod. Era in un angolino quasi buio, illuminato soltanto dalle candele sui tavoli. Era una sala piuttosto tetra. I disegni sulle pareti ritraevano tutti monaci o asceti e a una croce di legno era inchiodato un uccello, sembrava un fagiano morto. Lui era vestito di verde, con una giacca da sera di seta verde… non l’aveva già vista da qualche parte? Sí, era esposta nella piccola vetrina dell’albergo dove vendevano anche gioielli e abbigliamento da mare.
Le bastò avvicinarsi al tavolo per percepire il cambiamento in lui. Il ragazzo indolente e bonario aveva ceduto il posto al seduttore un po’ suscettibile che non mosse una sedia né un muscolo quando lei si sedette. Urlò a Michele, la ragazza con i capelli ricci, di portare un altro Pernod, anzi, di portarne due. La signora Reinhardt pensò che era soltanto un trucco per dimostrarle che era un uomo di mondo. Gli disse che aveva dormito bene.
– Dov’è il malloppo? – le chiese, guardandole il collo. L’aveva lasciato in camera e al suo posto aveva messo le perle. Lei per tutta risposta alzò il libro tascabile per dimostrargli che aveva letto.
– Leggi quella roba? – disse lui. Era D. H. Lawrence. – Io ho smesso quando avevo dodici anni, – disse. Era ubriaco. Brutto segno. Lei si chiese se liquidarlo su due piedi, sapendo per esperienza che quando le cose si mettevano molto male diventava una stupida, diventava un’incapace. Lui fece l’occhiolino alla cameriera e la prese per la mano sinistra dove aveva un braccialetto. Quella si allontanò con la languidezza di sempre.
– Sei una bambola, – le disse.
– Non parla inglese, – disse la signora Reinhardt.
– Il mio inglese lo parla, – disse lui.
La cena si aprí dunque tra rabbia, fastidio e agitazione. Lui esaminò i quattro menu scegliendo i piatti piú costosi e si disse proprio contento che lei fosse una battona riccona.
– Battona riccona, – disse, e rise.
Lei lasciò correre. Lui le chiese perché non lo portava a Pamplona a vedere le corride e poi si fece prendere dall’entusiasmo parlando di corride e toreri del passato.
– Ah, allora hai letto Ernest Hemingway, – disse lei, incapace di resistere alla tentazione di punzecchiarlo.
– Ah, la signora è un po’ banderuola, – disse lui tenendo la lista dei vini rivestita di velluto davanti a sé. La vasca degli astici era mezza vuota. Ne erano rimasti soltanto tre, tutti assolutamente immobili. Forse, scioccati dalle incursioni, stavano a testa bassa muovendosi il meno possibile per non dare nell’occhio. Lei per poco non si mise a piangere. Lui ordinò una bottiglia di vino d’annata e la ragazza dovette chiamare Monsieur, il quale prese la chiave, andò in cantina, portò cerimoniosamente il vino al tavolo, mostrò l’etichetta, lo aprí, lo fece decantare e aspettò. La cameriera si era cambiata per andare alla gara di ciclismo. Al posto del grembiule nero aveva un vestito blu con le pieghe colorate. Era incantevole. Pronta per il profluvio di baci e di complimenti.
– Che ne diresti se ti scopassi? – disse lui alla ragazza che provvedeva a versare il vino.
– Questo è troppo, – disse la signora Reinhardt e lui, forse temendo una scenata, le si avvicinò e disse: – Non preoccuparti, a te ci penso io.
Lei chiese scusa, piú alla cameriera che a lui, e corse fuori. Non era mai stata cosí arrabbiata in vita sua. Si sedette sull’amaca in giardino e chiese alle stelle, alle belle lampade esagonali e alle anatre addormentate di aiutarla per favore a uscire da quell’incubo. Pensò al conto dell’albergo e capí che si sarebbe aggiunta anche la giacca, e pianse come una bambina arrabbiatissima che non può raccontare a nessuno cos’è successo. Che disonore! Dondolò sull’amaca tra una maledizione e un’imprecazione, poi pregò di non perdere la calma. L’importante era non doverlo mai piú rivedere. Tremava ed era sotto shock quando tornò in camera. Voleva mettersi un cardigan e ordinare un panino o una minestra. E se lo ritrovò davanti con addosso la sua vestaglia da camera. Le disse di aver mollato la cena perché lei era stata cosí maleducata da andarsene. Anche lui stava per ordinare un panino. Entrando gli aveva sentito chiudere lo sportello del frigorifero. Ovviamente aveva bevuto di tutto e si vedeva che era fuori di sé.
Non si sarebbe lasciato sfuggire quel lusso, quel lassismo. Si alzò barcollando.
– Primo round, – disse, e la afferrò.
– Vattene, – disse lei.
– Chi, io? Guarda che sono qui per il liquore.
La signora Reinhardt si convinse che stava per essere spettatrice, e artefice, di un sordido pasticcio. L’alacrità si impossessò di lei, che pensò: prendilo con le buone, dimostrati matura, ridi, distrailo. Ma vedendo la follia nei suoi occhi, ricorse d’istinto a misure piú drastiche e le scappò un urlo che lei stessa trovò sbalorditivo. Nel giro di qualche secondo, ecco Monsieur impegnato in un corpo a corpo con lui. La signora Reinhardt capí che doveva averla tenuta d’occhio fin dall’inizio e che, diversamente da lei, era preparato a quell’evenienza. Monsieur gli stava dicendo in francese di vestirsi e sparire. Sembrava quasi una messinscena.
– Okay, okay, – diceva lui. – Fatemi vestire, fatemi uscire da questo letamaio.
Lei era contenta della barriera linguistica. Poi le cose si misero male e, non appena Monsieur mollò la presa per lasciarlo andare, lui ricorse a un bieco trucchetto. Prese una bottiglia di champagne vuota e la brandí sulla testa dell’avversario. Un attimo dopo erano avvinghiati e la signora Reinhardt si lambiccò il cervello per capire cosa fosse meglio fare. Sollevò una sedia, ma era come se si muovesse al rallentatore perché mentre i due cercavano di mettersi al tappeto lei teneva la sedia per aria senza fare niente. Era la bottiglia rotta a spaventarla di piú. Allora suonò il campanello dell’allarme e quando caddero tutti e due a terra arrivò l’aiuto cuoco con un coltello. Doveva essersi precipitato dalla cucina. Tra tutti e due riuscirono a gestire la situazione e lui, alzandosi, scosse la testa come un pugile conciato male.
Monsieur le disse di aspettarlo alla reception. Quando lei uscí dalla stanza le diede la sua giacca. La signora Reinhardt risalí il vialetto con il corpo che tremava come gelatina. La giacca continuava a scivolarle. Era consapevole di essere appena sfuggita a un orrore indescrivibile. Di quelli che si leggono sui giornali. Capí quanto fosse protetta la vita che aveva fatto, ma questo non le fu d’aiuto. Quello che desiderava davvero era sedersi con qualcuno e parlare di qualsiasi cosa. Il salone dell’albergo era un perfetto esempio di decoro. Un’altra ragazza, anche lei con una rosa nei capelli, preparava con tutta calma un vassoio di bevande. Un gruppo di olandesi sedeva in un angolo, il cane azzannava le mosche e dalla sala accanto arrivava la musica di una festa nuziale. La signora Reinhardt sprofondò in una poltrona di cuoio lasciandosi lambire da tutte quelle cose gradevoli. Sentí discorsi e battimani e poi le note dolci e bellissime della fisarmonica e, anche se non sapeva spiegarsi il perché, quei suoni la facevano sentire enormemente al sicuro, la facevano sentire come se fosse lei a sposarsi e capí che erano i piacevoli postumi dello shock.
La mattina dopo erano tutti in fermento per la nascita di sette anatroccoli. Le bestiole erano state scaricate nell’impetuosa acqua marrone al cospetto di un pubblico estasiato. Le altre anatre stavano raggomitolate sulle pietre, forse col broncio perché erano ignorate a vantaggio di una madre fiera delle sue stupide bestiole implumi. Anche le colombe sventolavano la coda scocciatissime mentre tutti guardavano l’acqua anziché loro. Lei si sedette a sorseggiare un caffè. Monsieur si sedette a breve distanza distribuendo la sua ammirazione fra lei e gli anatroccoli. Si sbriciolò il pane fra le mani, aprí la porta scorrevole e lo lanciò fuori. Poi la guardò e sorrise. Parlare era al di sopra delle sue possibilità. Si era innamorato di lei, o era infatuato, o si fingeva infatuato. Delle tre l’una. Forse stava solo salvando l’orgoglio della signora Reinhardt. Eppure lo sguardo era sinceramente dolce, perfino adorante. La deglutizione ne risentiva, le guance erano rosse come tulipani rossi e faceva gesti come caricare l’orologio o aggiustarsi l’orlo dei calzini a beneficio esclusivo della signora Reinhardt. Una volta le mise la mano sulla spalla per avvisarla di qualche nuova minuzia nel comportamento delle anatre, premendo tanto da farle male.
«Se lo scoprisse Madame!» pensò lei, e tutto il suo essere tremò alla prospettiva di altre brutture. Del mascalzone non chiese, però dopo chiese di dare un’occhiata al conto e in effetti c’era il veston, il veston maschile da milleseicento franchi. Dopo colazione si sedette sul prato a osservare il comportamento delle altre anatre. «Passano il tempo in modo piacevolissimo, – pensò, – sonnecchiano molto, poi si grattano o si puliscono, poi risonnecchiano, poi fanno una passeggiatina e magari si stiracchiano», ma dubitava che un’anatra facesse piú di duecento metri in tutta la sua vita. Poi scrisse al figlio sulla bella carta intestata dell’albergo. Scrisse una lettera volutamente allegra, una lettera sulle anatre, gli alberi e la natura. Due bicchieri con dentro una mezza fetta succhiata di arancia erano riposti in una nicchia del muro e glieli descrisse pensando che di lí a poco si sarebbe concessa di ordinare un cocktail allo champagne. Non scrisse: «Io e tuo padre ci siamo separati». Glielo avrebbe detto dopo, quando il dolore si fosse placato e non avrebbe piú avuto importanza. Quando sarebbe successo? La signora Reinhardt guardò il cuscino su cui era seduta e vide che era cento per cento fibranne, e per quanto la riguardava quella era l’unica cosa al mondo di cui fosse assolutamente certa.
Tornò in camera prima di pranzo e decise di indossare un abito di georgette e le perle. Lo doveva a Monsieur. Doveva essere bella anche se non riusciva a sorridere. Doveva fingere, e forse cosí sarebbe diventata la persona che simulava. Tutti i pensieri che le bruciavano e tutte le recenti ferite potevano assopirsi dentro di lei permettendole di assumere un’aria calma e imperturbabile come un lago estivo con le foglie di ninfee e i fiori stellati. La carpa sotto la superficie non attira il pescatore. La tenerezza di Monsieur significava molto per lei, significava che era ancora una persona degna di attenzioni e perfino di amore.
Poveri astici, pensò, e le tornarono in mente quelle mosse imploranti. Quando aprí la scatola a forma di cuore dove nascondeva le perle, la signora Reinhardt lanciò un urlo. Sparite. Sparite. Il suo talismano, la sua assicurazione sulla vita, l’ultimo filo che la legava al marito Harold, spariti. La loro unica possibilità di ricongiungersi. Sparita. Risalí di corsa la strada che portava alla reception. Era fuori di sé. Madame si seccò molto sentendo che era stata cosí superficiale da lasciare in giro una cosa di grande valore. Di furto, poi, non voleva nemmeno sentir parlare. Era una volgarità riservata a tutt’altro genere di esercizi, non certo al suo bellissimo tre stelle. Gestiva una struttura perfetta, lei, una struttura che era il suo vanto oltre che un rifugio dal mondo esterno. Come osava il mondo esterno intrufolarsi nel suo territorio? La faccia di Monsieur si dissolse in un rossore dalle sfumature sempre piú intense e in un’espressione dispiaciutissima. Non aprí bocca. Madame disse che era stato chiaramente l’ospite, il signore americano, e va’ a sapere cos’altro aveva preso. Per quanto riguardava Madame, la feccia della terra era entrata nel suo nido e fece un gesto piccolo ma eloquente quando prese un vaso di fiori, lo mise in un altro posto e nell’appoggiarlo fece cadere l’acqua sul conto che stava preparando. Questo accentuò il suo fastidio. Si creò un momento molto antipatico e il povero Monsieur, nell’impossibilità di rendersi utile all’una o all’altra, tirò le orecchie al cane. La signora Reinhardt doveva telefonare al marito. Assolutamente. Davanti a tutti, mentre Madame scarabocchiava numeri sulla pagina e Monsieur tirava le orecchie al cane, la signora Reinhardt disse al marito Harold in Inghilterra che le avevano rubato la collana, che gli avevano rubato la collana, che avevano rubato la loro collana, e si mise a piangere. Lui non fu di nessun aiuto. Chiese se c’era speranza di recuperarla e lei disse che ne dubitava.
– È stata una toccata e fuga, – disse, augurandosi che lui capisse al volo. E forse capí, perché subito dopo disse che a quanto pareva le stavano succedendo tante cose. Lei disse di essere in uno stato pietoso e pregò Dio che le chiedesse di tornare a casa. Lui non glielo chiese. Disse che avrebbe contattato quelli dell’assicurazione.
– Vaffanculo all’assicurazione, – disse la signora Reinhardt e sbatté giú il telefono. Monsieur si girò dall’altra parte. Lei se ne andò. Non aveva un solo amico al mondo.
La signora Reinhardt visse uno di quei momenti capaci di sconvolgerti per sempre. Il mondo diventò nero. Il nero le invase il cuore. Sembrava che i topi le raschiassero il cervello. Era una crudeltà. Le espressioni: «Come stai?», oppure: «Ti amo», oppure: «Mia cara», erano una beffa bella e buona. Le poche facce estranee che la circondavano si mascherarono da animali. Il mondo nel quale si reggeva ancora in piedi e dove sarebbe caduta era verde e bello, ma da un momento all’altro l’avrebbe sostituito un pozzo senza fondo nel quale la signora Reinhardt sarebbe precipitata per l’eternità. Svenne.
Dovevano averla soccorsa perché quando rinvenne non aveva piú le décolleté, i bottoni della camicetta erano slacciati e c’era una tazza di tisana calda sullo sgabello accanto a lei. Una presenza era appena svanita. O un fantasma. Era appena scivolato via. Le parve che fosse una donna e forse era sua madre che le imponeva le ceneri e pensò che fosse il Mercoledí delle Ceneri. – Perché ormai dispero di vivere ancora, – disse, ma per fortuna nessuno parve capire. Si sollevò a sedere, mandò giú un sorso di tisana bollente, si scusò per la collana e per la piazzata che aveva fatto. Non sapeva fin dove si fosse spinta. Le venne in mente re Lear che sfiora la veste di Cordelia e chiese a Dio se i morti potevano davvero rivivere, se, se anche lei poteva assistere al miracolo a cui avevano assistito i tre apostoli quando all’arrivo avevano visto la pietra rotolare via dal sepolcro di Cristo. – Ritorna, – sussurrò e fu come se si prendesse per mano da sola riportandosi in vita. A guidarla era la sé stessa con la testa sulle spalle e a essere guidata era una bambina che voleva bene a Dio, voleva bene ai genitori, voleva bene agli alberi e alla campagna e desiderava che non cambiasse mai niente. Quelle due parti vacillavano nel mezzo. Furono momenti estremi per la signora Reinhardt, e se avesse ceduto avrebbe preso una gran brutta strada. Chiese un po’ d’acqua. Il bicchiere che aveva in mano si rammollí nella stretta e la bambina spaventata che c’era in lei ebbe come il ricordo di carne che cadeva, ma la donna che c’era in lei sorrise assicurando a tutti quanti che la crisi era passata, che poi era vero. Si stese un po’ ad ascoltare l’acqua che si infrangeva di continuo contro la macina nero corvino e decise che nel pomeriggio sarebbe partita, dicendo addio a quella parentesi fatta di incanto, vendetta, vergogna e della tenerezza di Monsieur.
Andandosene in macchina lo vide spuntare da dietro la casa sull’albero con un mazzetto di viole del pensiero fresche. Erano multicolore ma i due colori predominanti erano il giallo e il bordò. Odoravano di pelle giovane e avevano la stessa delicatezza. La signora Reinhardt lo ringraziò assaporando quell’istante. Era come un lenimento. Gli sorrise, si guardarono dritto negli occhi, anche per lui era un momento di felicità vera, fuggevole ma vera, un momento di benessere.
Il nuovo albergo affacciava su una darsena e per la seconda volta in quattro giorni lei si ritrovò a camminare sui massi incrostati di muschio. Ai piedi altri ciuffi di alghe variopinte che sembravano parrucche teatrali, ma stavolta vedeva chi aveva davanti e chi aveva alle spalle. Era padrona della situazione. A farla arrabbiare era che le donne facevano sempre quello che aveva fatto lei senza per questo rimetterci l’orgoglio, o i gioielli. O forse non lo raccontavano in giro. Bisognava essere cosí furbi, cosí ipocriti.
Guardando le barche lungo la baia, gli alberi maestri e le rare doppie vele, capí che adesso la sua nuova vita era cominciata davvero, una vita di adattamenti e di cambiamenti. La vita con un punto interrogativo. Qual è il tuo ideale di vita?, si chiese. Nessuno, fu la risposta. Era sempre stato suo marito, il loro rapporto, la sua galleria d’arte, il loro cottage in campagna e i loro progetti. Una cosa soprattutto le venne in mente e cioè le migliaia di petali di fiori che aveva messo sotto il tappeto dell’ingresso per stirarli. Quei fiori stirati erano i momenti della loro vita e che fine avrebbero fatto?... sarebbero rimasti lí per anni oppure qualcuno li avrebbe spazzati via. Le sembrava di vederli, migliaia di simpatici petali colorati, ricordo dei momenti che avevano condiviso. Prima della passeggiata aveva letto Ruskin, aveva letto del legame necessario fra la bellezza e la moralità, ma l’aveva lasciata indifferente. Voleva qualcuno da amare, lei. Per quanto la riguardava le teorie di Ruskin erano bei sermoni, ma non era questo che voleva il suo cuore. Doveva tornare subito a casa, e trovarsi un lavoro. Ci doveva provare. La signora Reinhardt si mise a correre, corse a perdifiato, si fermò a guardare la darsena, ricominciò a correre e con uno sforzo di volontà riuscí a sradicarsi dallo spirito malinconico in cui era sprofondata.
A cena il cameriere, dopo ognuna delle meravigliose portate, andava a chiederle come l’aveva trovata. Una era una terrina di pesce dai colori estivi, bianco, rosa e verde, i colori dei fiori. Quanto le sarebbe piaciuto imparare a prepararla. Poi fu la volta di un granchio in crosta e perfino le chele staccate erano state spolverate di farina e passate un attimo in forno per creare l’effetto di un pane caldo e profumato. Era tutto perfetto e tutto luminoso. La piantina nel vaso era di un luminoso rosso ciliegia, i pettirossi sfrecciavano tra gli alberi bui, e sui piatti ornamentali dentro una vetrina erano dipinti fiori e graticci.
– Un signore desidera vederla, – disse il giovane cameriere. La signora Reinhardt si raggelò: era tornato il mascalzone. Pronta a dare battaglia, posò il tovagliolo stritolato e uscí con passo deciso. Svoltando l’angolo per entrare nel salone principale vide su una poltrona con lo schienale alto in stile spagnolo suo marito, il signor Reinhardt. Lui scattò subito in piedi e si strinsero la mano in modo formale, come un avvocato e il suo cliente a un incontro che promette bene. È venuto a denunciarmi per la collana, pensò lei. Non disse: «Che ci fai qui?» Sembrava stanco. La signora Reinhardt sobbalzò sentendo che aveva preso un aereo privato. Era andato prima all’altro albergo e da lí si era spostato in macchina. Rifiutò di bere ed evitò di guardarla. Meditava l’attacco. Lei era convinta che le avrebbe sparato quando lo vide portare la mano alla tasca e sfilare una cosa. Non le importava di morire ma per assurdo pensò a come si sarebbero ridotti quei bellissimi mobili spagnoli.
– L’hanno trovata, – disse lui tirando fuori la collana e mettendola sul tavolo in mezzo a loro. Sembrava un serpente in un quadro, una spirale pronta a spiccare il balzo. Eppure a vederla le si riempirono gli occhi di lacrime e raccontò piagnucolando del mascalzone, di come l’aveva conosciuto e si era fatta usare da lui e all’improvviso si accorse che il marito cascava dalle nuvole.
– L’ha rubata la cameriera, – le disse, e a lei parve di rivedere la camerierina con i riccioli castani agghindata per la gara ciclistica e si sarebbe strappata la lingua per aver parlato troppo presto del mascalzone.
– L’hanno licenziata? – chiese.
Non lo sapeva. Secondo lui, no.
– Quello sí che è un bel posto, – disse il signor Reinhardt, riferendosi al lago e ai mulini a vento.
– Anche questo non è male, – disse lei e parlò del panorama che si vedeva dalla sala da pranzo, e della luce, cosí suggestiva, cosí bianca, cosí inevitabile. Come la loro situazione. Era pronta a vederlo alzarsi e andare via. Se solo non gli avesse raccontato del mascalzone. Se solo gli avesse lasciato dire perché era lí. Gli aveva chiuso l’ultima porta in faccia.
– Come sei stata? – chiese lui.
– Bene, – disse lei, ma il nervo della mascella non voleva saperne di stare fermo e senza preavviso e senza volerlo la signora Reinhardt scoppiò a piangere, lasciando sbalordito il giovane cameriere che aspettava, convinto che avrebbero ordinato da bere.
– Lui ha cercato di ricattarmi, – disse, rimangiandoselo subito dopo.
Il marito la guardava in silenzio e lei non capí se gli fosse rimasta qualche briciola di comprensione. Pensò: «Se va via adesso sarà una catastrofe» e pensò di nuovo ai pochi astici immobilizzati dal dolore rimasti nella vasca.
– Ci siamo noi e ci sono quelli come lui, – disse il signor Reinhardt che, anche se lei non gli aveva raccontato tutta la storia, ne aveva intuito la gravità. Disse che se non le dispiaceva si sarebbe trattenuto, e siccome aveva fame e siccome era tardi, perché non andavano a cena? Lei lo guardò e probabilmente aveva gli occhi madidi.
– Noi e quelli come lui! – disse.
Il signor Reinhardt annuí.
– E Rita? – disse la signora Reinhardt.
Lui aspettò. Si guardò intorno. Non era per niente a suo agio.
– Lei è una di noi, – disse, poi si spiegò meglio. – O potrebbe esserlo, se incontrerà l’uomo giusto.
La sua espressione ammoní la signora Reinhardt a non indagare oltre. Mentre si avviavano verso il tavolo della cena lei lo prese sottobraccio.
Il vento che frusciava nel camino seminò una spruzzata di fuliggine su un mazzo di fiori. Lei se ne accorse. Dal rumore. Gli strinse il braccio. Si sedettero l’uno di fronte all’altra. Quando il vento ruggisce, quando i ganci delle persiane sbatacchiano, quando anche i vetri delle finestre sembrano rabbrividire, allora vento e mare si mischiano, allora i cani cominciano a ululare e la tempesta in arrivo ha un sentore di soprannaturale. Che cosa fai, che cosa fa una delle tante signore Reinhardt? Allunghi la mano verso il viso che hai di fronte, che ami, che odi, che temi, che ti ha tradito, che conosci a metà, che desideri toccare e avere di nuovo con te, almeno per la durata di una notte di vento. E la mattina, chissà. Tanto non si sa comunque.