La Bestiola
In paese l’avevano sempre chiamata «la Bestiola»: il sarto per il quale faceva le asole, il sacrestano che la cercava fra le panche della chiesa nelle buie sere d’inverno prima di chiudere a chiave, e perfino Sally, la bimbetta per la quale aveva scritto le parole di una canzone sulla carestia. La vita l’aveva trattata in modo indegno ma lei non si lamentava mai e aveva sempre il sorriso pronto, tanto che quel suo viso dalle guance rosa e rotonde sembrava piú una cosa da mangiare o da leccare; mi ricordava tantissimo una frittella di mele.
La incontravo quando tornava dalle orazioni o dalla messa, o faceva una passeggiata, e passandomi accanto sorrideva, ma non parlava mai, forse per paura di sembrare invadente. Ero in quel paesino dell’Irlanda occidentale per una supplenza e ben presto scoprii che abitava in una casa minuscola, di fronte a un’autorimessa che era anche l’impresa di pompe funebri. La prima volta che andai a trovarla ci sedemmo in salotto a guardare l’insegna sbilenca sulla porta dell’autorimessa. Il distributore sembrava incustodito. Un tizio stava facendo benzina da solo. In casa non c’erano tende di mussolina a oscurare il mondo perché, continuava a ripetermi lei, le aveva lavate proprio quel giorno, che peccato. Mi offrí un bicchiere di vino di rabarbaro e dividemmo la stessa poltrona, che in realtà era una panchina di legno con lo schienale a graticcio che aveva rimediato in una discarica e verniciato lei stessa. Sulla vernice aveva passato un chiodo per dare al legno un effetto variegato e dall’ondulazione delle righe si capiva dove le era tremata la mano.
Io venivo da un’altra parte del Paese; in realtà ero lí per guarire da un amore e dovevo emanare una specie di tristezza che la metteva molto a suo agio, perciò a ogni incontro e a ogni congedo mi chiamava «carissima». Dopo aver corretto i compiti, scritto il diario e fatto una passeggiata, bussavo alla sua porta e mi sedevo con lei nella stanzetta quasi priva di mobili – non c’erano nemmeno una pianta o un quadro – e il piú delle volte mi offriva un bicchiere di vino di rabarbaro e ogni tanto una fetta di dolce alla birra scura. Viveva sola da diciassette anni. Era vedova e aveva due figli. La femmina era in Canada; il maschio abitava a pochi chilometri da lí. Erano diciassette anni che non lo vedeva – cioè da quando la nuora l’aveva buttata fuori – e i nipoti, che lei aveva visto da piccoli, ormai erano cresciuti e, le avevano detto, erano belli da morire. Aveva la pensione e una volta l’anno andava all’estremo sud del Paese dove i suoi parenti abitavano in un cottage affacciato sull’Atlantico.
Il marito era morto due anni dopo il matrimonio, gli avevano sparato nel retro di una camionetta, un incidente che in seguito le forze armate britanniche avevano definito increscioso. Lei aveva dovuto nascondere quella morte e le circostanze in cui era avvenuta alla propria madre, che aveva perso un figlio piú o meno nello stesso periodo, sempre in combattimento, e il giorno del funerale di suo marito, mentre le campane della chiesa suonavano a distesa, aveva dovuto fingere che fossero per uno di passaggio, uno stagnino ambulante morto all’improvviso. Era andata al funerale all’ultimo momento con la scusa che doveva incontrare un prete.
Col marito era vissuta dalla madre. Tirati su i figli nel vecchio cascinale, alla fine aveva detto alla madre che era vedova anche lei e le due donne avevano unito le forze per lavorare, sfacchinare, badare al bestiame, mungere il latte, fare il burro e tenere una scrofa che lei aveva chiamato Bessie. Ogni anno i maialini diventavano i suoi cuccioli, la seguivano quando andava a messa o altrove e anche a loro dava dei bei nomi. Un operaio immigrato le aiutava nei mesi estivi, e in autunno uccideva il maiale per la scorta di carne invernale. L’uccisione del maiale la intristiva sempre, sosteneva di sentire ancora quelle urla, tutte quante, dalla prima all’ultima, a distanza di anni, ci ricamava su, e poi raccontava che una volta un maiale particolarmente dispettoso era entrato di nascosto in casa, aveva leccato la panna nelle ciotole e si era steso per terra a russare e ruttare come un ubriacone. L’operaio dormiva di sotto sul letto a cassapanca, il sabato si ubriacava e aveva provocato un incidente: mentre insegnava al figlio di lei a tirare al bersaglio, il ragazzo si era fatto saltare tre dita con un colpo. Per il resto, la sua era stata una vita senza grandi traversie.
Quando i bambini tornavano da scuola sgombrava mezzo tavolo perché potessero fare i compiti – era un tipo disordinato – e ogni sera, prima di mandarli a letto, preparava il biancomangiare. Lo colorava di rosso, marrone o verde, a seconda dei casi, e restava incantata da quelle essenze colorate quasi quanto i bambini stessi. Ogni anno faceva ai ferri due maglioncini ciascuno, due maglioncini identici di lana grezza, e sprizzava orgoglio materno quando permettevano al figlio di servire la messa.
Le sue finanze subirono un terribile tracollo quando tutto il bestiame si ammalò di afta epizootica e, a peggiorare le cose, le toccò vedere gli amati animali morire ed essere seppelliti intorno alla fattoria, nel punto esatto in cui barcollavano e cadevano. Le sue terre furono disinfettate e svuotate per un anno intero ma lei riuscí lo stesso a racimolare abbastanza quattrini da mandare il figlio in collegio, considerandosi fortunata perché le avevano concesso una riduzione sulla retta a causa delle difficoltà economiche. Il prete della parrocchia aveva deciso di intercedere per lei. La ammirava e la prendeva in giro perché divorava una quantità di romanzetti. I figli se ne andarono, la madre morí e lei per un periodo non volle vedere nessuno, nemmeno i vicini, e quello fu il suo giardino del Getsemani. Le venne il fuoco di Sant’Antonio e una sera, immergendo un secchio nel pozzo per prendere l’acqua, guardò prima le stelle su in alto poi l’acqua giú in basso e pensò che se fosse annegata sarebbe stato tutto molto piú semplice. Poi si ricordò che una volta il fratello l’aveva messa per scherzo dentro il pozzo e che un’altra volta una sorella gelosa le aveva tirato addosso un secchio d’acqua, e il ricordo di quelle due esperienze scioccanti e una supplica a Dio la fecero ritrarre dal pozzo e attraversare di corsa il giardino infestato dalle ortiche per andare in cucina dove il cane e il fuoco, almeno loro, la aspettavano. Si inginocchiò e pregò di trovare la forza per andare avanti.
Chissà che gioia quando, dopo aver girovagato per anni, il figlio tornò dalla città dichiarando che avrebbe fatto l’agricoltore e che stava per fidanzarsi con una ragazza di quelle parti che faceva la podologa in città. Lei come regalo preparò una trapunta e una piccola aiola di fiordalisi che piantò sotto la finestra, perché la futura sposa andava molto fiera dei suoi occhi blu violetto e li tirava in ballo a ogni occasione buona. La Bestiola pensò a come sarebbe stato bello e indovinato avere un’aiola di fiori in tinta sotto la finestra, anche se lei preferiva le violacciocche, sia per il profumo sia per la morbidezza. Quando la giovane coppia arrivò a casa dalla luna di miele la trovò inginocchiata a strappare le erbacce tra i fiori e lei, guardando la giovane sposa che aveva il cappello con la veletta, pensò che un dipinto a olio non sarebbe stato piú bello né piú sontuoso. Si augurò in segreto che la nuora le sbucciasse le pannocchie quando fossero diventate amiche intime.
Ben presto cominciò ad andare nella stalla per lasciare la giovane coppia da sola, perché anche dal piano di sopra si sentiva tutto. La casa era piccola e le camere da letto davano direttamente sopra la cucina. Litigavano di continuo. La prima volta che sentí volare parole rabbiose pregò che fosse soltanto una lite fra innamorati, ma le cose che si dicevano erano cosí velenose da farla rabbrividire al ricordo che lei e il marito morto non avevano mai alzato la voce. Quella notte sognò che cercava il marito e anche se gli altri sapevano dov’era non le indicavano la strada. Ci mise poco a capire che la nuora aveva la disgrazia di essere acida e bisbetica per natura. Aveva da ridire su tutto: sul prezzo della uova, su quali piantine di patata fosse meglio interrare e perfino su quali campi destinare al pascolo e quali coltivare. Le due donne andavano abbastanza d’accordo durante il giorno ma la sera, all’arrivo del figlio, le liti erano inevitabili e la Bestiola, come sempre, riparava nella stalla o scendeva giú in strada ad aspettare che le acque si calmassero. In camera si metteva dei piccoli batuffoli di cotone nelle orecchie per soffocare ogni possibile rumore. La nascita del primo figlio serví soltanto a esacerbare i nervi della giovane donna e dopo tre giorni il latte le si prosciugò dentro i seni. Il figlio chiamò la madre nella stalla, si accese una sigaretta e disse che se non intestava la casa e la fattoria a lui quell’invadente della giovane moglie non gli avrebbe dato pace.
La Bestiola lo assecondò all’istante e nel giro di tre mesi si ritrovò a impacchettare le sue quattro carabattole e a uscire dalla casa dove aveva vissuto per cinquantotto dei suoi sessant’anni. Portò via soltanto i vestiti, la lampada votiva e un arazzo che raffigurava le navi su un mare color canapa. Era un cimelio di famiglia. Trovò alloggio in paese e fu oggetto dapprima di grande curiosità, poi di derisione per aver ceduto la fattoria al figlio e alla nuora. Il figlio cominciò a evadere i pagamenti settimanali che avrebbe dovuto versarle e lei si rivolse a un avvocato, ma il giorno prestabilito non si presentò in tribunale e trascorse l’intera notte in chiesa, nascosta nel confessionale.
Dopo aver ricostruito quel racconto nel corso dei mesi e scoperto che la Bestiola si era sistemata e riusciva a mettere un piatto di minestra in tavola quasi tutti i giorni, che stava risparmiando per comprarsi una coperta elettrica e preferiva di gran lunga l’inverno all’estate, decisi di conoscere suo figlio all’insaputa della moglie. Una sera lo seguii nel campo dov’era alla guida di un trattore. Trovai un burbero di mezza età che anziché degnarsi di guardarmi preferí rollarsi una sigaretta. Lo riconobbi soprattutto dalle tre dita mancanti e mi chiesi inutilmente che cosa ne avessero fatto in quel giorno terribile. Era nel lungo campo dove lei a suo tempo andava due volte al giorno con i secchi di latte cagliato da dare ai vitelli appena nati. Dietro gli alberi si intravedeva la casa e, vuoi per riserbo, vuoi per nervosismo, lui scese dal trattore e andò a mettersi sotto un albero, appoggiando la schiena al tronco nodoso. Era un piccolo biancospino e io, un po’ per superstizione, esitavo a infilarmi sotto. I suoi fiori davano un tocco sognante a quel posto peraltro desolato. C’è un che di raccapricciante nella terra arata, forse perché ricorda la fossa.
Sembrava conoscermi e mi guardò, secondo me schifato, le scarpe di pelle lucida e la mantella di tweed. Disse che lui non poteva farci niente, che il passato era passato e che sua madre si era rifatta una vita in paese. Veniva da pensare che si fosse arricchita o risposata, tanto era caustico il tono con cui disse: «Si è rifatta una vita». Forse aveva contato sull’eventualità che morisse. Dissi che la madre lo pensava ancora con grande affetto e mi rispose che la madre aveva sempre avuto il cuore tenero, e se c’era una cosa che lui non poteva soffrire nella vita erano i fazzoletti bagnati.
Dopo tanto tergiversare accettò di andare a trovarla e ci accordammo per un pomeriggio alla fine di quella settimana. Mentre mi allontanavo mi urlò di tenerlo per me e capii che non voleva farlo sapere alla moglie. Della moglie sapevo soltanto che non frequentava nessuno, che aveva fatto qualche miglioria alla casa – finestre piú grandi, un bagno interno – e che non si faceva mai vedere insieme al marito, nemmeno la mattina di Natale in chiesa.
Ero uscita da scuola da un pezzo quando, nel giorno fatidico, andai a trovare la Bestiola che, al solito, mi aveva lasciato la chiave nella toppa. La trovai che sonnecchiava sulla poltrona, a un soffio dalla stufa, il libro ancora in una mano e le dita dell’altra che si agitavano come alle prese con qualche lavoro. Il suo bellissimo scialle ricamato era un mucchietto sul pavimento e per prima cosa svegliandosi lo riprese e lo agitò per togliere la polvere. Mi accorsi che le era venuto una specie di sfogo cutaneo e che la faccia era identica a quella di una rana, gli occhi piccoli come due uvette sommersi dalle palpebre arrossate e gonfie.
Lí per lí rimase zitta; si limitò a scuotere la testa. Alla fine disse che la vita era un supplizio, ecco cos’era. Cercai di consolarla, non sapendo bene per che cosa. Lei indicò la porta di servizio e disse che tutto era andato a rotoli dal momento in cui lui aveva varcato quella soglia. Pare che fosse arrivato dal giardino sul retro e l’avesse trovata che si dava un tocco finale ai capelli. Lei, colta alla sprovvista, si era fatta prendere da un’agitazione che non ricordava da tempo e non era riuscita a dire una sola cosa sensata. – Pensavo che fosse un ladro, – mi disse, fissando ancora la porta di servizio dove c’era il suo bastone appeso a un chiodo.
Capendo che era il figlio, gli aveva subito offerto da mangiare e da bere senza dargli nemmeno il tempo di riprendere fiato, e mi accorsi che lui non aveva toccato cibo perché la lingua di bue nello stampo di gelatina era ancora sul tavolo, intatta. Accanto c’era una bottiglietta di whiskey, vuota. Mi disse che era invecchiato e che quando gli aveva messo la mano sui capelli grigi lui si era ritratto come se avesse preso la scossa. Lui, che odiava i cuori teneri e i fazzoletti bagnati, doveva aver odiato quel gesto. Lei gli aveva chiesto le foto della sua famiglia, ma il figlio non ne aveva portata nemmeno una. Le aveva detto soltanto che la figlia studiava da indossatrice e lei aveva fatto l’ennesima gaffe commentando che è inutile aggiungere orpelli a quello che è già bello di per sé. Lui nelle scarpe aveva i fogli di giornale per proteggere le suole dall’umidità e lei gli aveva tolto quelle scarpe umide per cercare di lucidarle. Mi figurai la scena: lei che si faceva in quattro per compiacerlo ma riusciva soltanto a urtargli i nervi. – Erano sul fornello ad asciugare, – disse, – quando lui le ha prese e se l’è rimesse –. Se n’era andato senza darle neanche il tempo di passarci il lucido, e la cosa peggiore era che non si era sbilanciato sul futuro. Quando lei gli aveva chiesto: «Ti rivedrò?» lui aveva risposto: «Forse», e mi disse che se c’era una parola nel vocabolario che proprio la dilaniava, era la parola «forse».
– Ho fatto male, – dissi e, anche se lei non annuí, capii che stava pensando la stessa cosa, che da lí in avanti mi avrebbe segretamente considerato un’impicciona. A un tratto mi tornarono in mente l’alberello di biancospino, il campo arato e spoglio, quel figlio dal cuore nero e sopito come l’uomo che ero andata lí per dimenticare e si sprigionò, anche in me, un dolore gigantesco e inutile. Le era stato portato via quell’ultimo filo di speranza a cui si era aggrappata per vent’anni, lasciandola senza piú nessuno, senza niente, e desiderai di non essermi mai punita facendo domanda di supplenza in quel buco stagnante e dimenticato da Dio.