Tutto cominciò a migliorare per la signora Reinhardt dal momento in cui diventò sonnambula. Ogni notte il viaggio offriva una nuova sorpresa. La prima fu che vide le pecore: non le pecore che si vedono nella vita, belanti e un po’ fuligginose, ma le pecore che si vedono in sogno. Vide miriadi di pecorelle bianche in cima a una collina, circondate da agnellini zampettanti che succhiavano a tutto spiano.

Poi vide quadri che nella vita non aveva mai visto. Il marito possedeva una galleria d’arte e la signora Reinhardt aveva modo di vederne tanti di quadri, eppure quelli che vedeva di notte erano molto piú appaganti. Tanto per cominciare era al loro interno. Non li guardava da fuori, facendo commenti stupidi, era una parte del quadro: un braccio, un giglio o la criniera grigia di un cavallo. Non doveva rivaleggiare, non doveva dire niente. Tutti i suoi movimenti erano prestabiliti. Era semplicemente consapevole del proprio respiro, un respiro leggero, continuo, corroborante.

La mattina il marito le diceva che sembrava un po’ provata o un po’ su di giri, e lei diceva: – Sciocchezze, – perché in vent’anni di matrimonio non si era mai sentita meglio. La vita da addormentata le si addiceva e, ovviamente, non sapeva mai cosa aspettarsi. La vita diurna seguiva uno schema prestabilito. Le mattine feriali restava a casa ad aiutare o a dirigere Fatima, la domestica spagnola. Due pomeriggi a settimana dava lezioni ai bambini autistici, due pomeriggi erano dedicati alla palestra e il venerdí faceva acquisti da Harrods e la spesa per tutto il weekend. Il signor Reinhardt aveva comprato una fattoria due anni prima e il weekend lo trascorrevano in campagna, nel cottage appena ristrutturato. In campagna la signora Reinhardt non era sonnambula e si chiedeva se a inibirla fosse il filo spinato che correva intorno al giardino. Ma ci sono dei cancelli, pensava, e dovrei aprirli. Ce l’aveva un po’ con sé stessa per non avere uno spirito piú avventuroso.

Poi una notte di maggio, tornata alla casa di Londra, fece un sogno incredibile. Camminava in un campo con suo figlio, che nella vita reale era all’università, e tutt’a un tratto s’inginocchiavano all’unisono mettendosi a scavare a mani nude. Era una terra rossa e ricca, molto friabile. Fremevano sapendo che stavano per appropriarsi del tesoro. E infatti trovavano delle pagliuzze d’oro, granelli minuscoli che mettevano in un fazzoletto e poi, a coronare la sua felicità, la signora Reinhardt trovava una chiavetta d’oro bellissima e la sollevava alla luce mentre il figlio rideva dicendo con una vocetta da bimbo: «Mammina».

Subito dopo quel sogno la signora Reinhardt si diede alle pulizie di primavera. Tende e tappeti da portare in lavanderia, cassetti svuotati di tutte le vecchie cianfrusaglie inutili che si erano andate accumulando. Mise in ordine anche i vestiti del marito. Fra loro due si era aperta una piccola incrinatura che si allargava di giorno in giorno. Lui era di malumore. Rincasava piú tardi del solito e, anche se non lo diceva, si fermava all’angolo a farsi un paio di bicchieri, e lei lo sapeva. Una volta quella primavera l’aveva costretta a sedersi accanto a lui sul divano del soggiorno e le aveva accarezzato le cosce cominciando a spogliarla col rischio di farsi sentire da Fatima, che tagliuzzava e cantava in cucina. Non faceva che tagliuzzare e cantare a voce alta o a mezza bocca. Il piú delle volte, però, il signor Reinhardt andava dritto all’armadietto dei liquori e preparava un gin per tutti e due, il suo piú abbondante perché i maledetti digiuni della signora Reinhardt, diceva, le facevano girare la testa.

Stava smistando le maglie del signor Reinhardt – quelle a maniche corte, i maglioncini estivi e i maglioni pesanti a girocollo – disponendole in tante pile ordinate, quando dalla giacca a righine cadde una chiavetta d’oro che le strappò un urlo. La prima cosa che sentí fu una scarica di paura. Poi si chinò a raccoglierla. Era identica a quella del sogno. La strinse nella mano, ripromettendosi di non separarsene mai. Come siamo sciocchi a inseguire di giorno quello che dovremmo lasciare alla notte.

Nel successivo episodio di sonnambulismo la signora Reinhardt uscí di casa trovando un taxi ad aspettarla e dopo un breve tragitto arrivò a una casa ricavata da un’antica scuderia. Fuori c’era una vasca bianca e nera piena di bei fiori. Mettendo la mano sotto le foglie trovò subito la chiave. Dentro era un piccolo nido. La carta da parati nell’ingresso era proprio quella che aveva sempre desiderato per la loro casa, oro chiaro con minuscoli fiorellini bianchi: piú un’idea di fiori, come quelli delle fragoline selvatiche. La cucina era immacolata. Sul ballatoio al piano di sopra c’era una piccola panchina traforata. I cuscini del soggiorno erano rigidi e imponenti, come l’imbottitura delle poltrone, mentre la camera da letto… ah, la camera da letto.

Era esattamente quella che aveva sempre desiderato per loro. Anzi, era proprio la camera da letto che aveva immaginato tantissime volte e che aveva descritto per filo e per segno al marito. Eccolo: il letto d’ottone sormontato da un piccolo baldacchino di pizzo, il muro di fronte coperto per intero da uno specchio metallico scuro dove parevano nuotare ombre scure, una chaise-longue di velluto azzurro, una pianta pensile dalle foglie lucide e una lampada a stelo con il paralume marrone frangiato che diffondeva una luce molto soffusa.

Si sedette sul bordo del letto, meravigliata, e vide le altre cose che aveva sempre desiderato. Vide, per esempio, la foto di una bimbetta col vestito della Prima Comunione; vide il fermacarte che scuotendolo sprigionava una tempesta di neve in miniatura; vide il vassoio di madreperla con due bicchieri di champagne – e all’improvviso si mise a piangere, tanta era la gioia. Forse, pensò, lui verrà qui da me, verrà a trovarmi, e sarà come ai vecchi tempi, non sarà nervoso, non tamburellerà le dita e non giocherellerà con la levetta della penna stilografica. Mi riempirà di baci e di abbracci e ci rotoleremo nel lettone.

Rimase seduta in quella camera da letto senza toccare niente, nemmeno i due iris bianchi nell’alto vaso di vetro. Aveva la chiavetta in mano e sapeva che era dell’armadio e che le sarebbe bastato aprirlo per trovare una camicia da notte con il corpetto plissettato, un vestito da ballo di tulle, una mantella di volpe argentata e un paio di Chanel. Ma non lo aprí. Voleva che qualcosa restasse segreto. Sgattaiolò via e tornò a casa nel suo letto senza che il marito si accorgesse dell’assenza. Altre volte sentendola tornare a letto si era lamentato del fatto che avesse i piedi freddi e le aveva chiesto che cavolo combinasse: non è che preparava il tè, per caso? Quella mattina lei era cosí felice che gli si avvicinò, gli sbottonò il pigiama e fecero l’amore in modo dolcissimo, lentissimo, con l’impressione che piacesse anche a lui. Al risveglio però era arrabbiato, come se gli avessero fatto un torto.

Naturalmente la signora Reinhardt prese ad andare ogni notte nella casa ricavata dalle scuderie e le si illuminava il cuore vedendo la colonna con il numero, il dieci, in cifre dorate con il bordo bianco. Lo zero era un po’ storto. Certe volte s’infilava nel letto d’ottone e sapeva che prima o poi il signor Reinhardt l’avrebbe raggiunta, era solo questione di tempo.

Una notte mentre era a letto, un po’ ansante, lui arrivò pian piano, chiuse la porta, le tolse la camicia da notte e la prese con una tale forza che dopo le sarebbe venuto il dubbio di avere una costola rotta. Usarono parole che non usavano da anni. Lei era giovane e scatenata. Una febbre meravigliosa s’impossessò di lei. Lo trattò con insolenza quando la pregò e la scongiurò di sposarlo, per favore, di rinunciare per favore alla sua indipendenza, di essere sua, per favore, aggiungendo che se avesse rifiutato l’avrebbe rapita. Poi per dimostrarle che non scherzava la prese di nuovo. Lei per poco non morí, tanto era profondo e totale il piacere, e ogni volta che tornava in sé vedeva un ninnolo o una minuzia che aggiungeva piacere al piacere: una volta una giostrina dove i cavalli d’argento s’inseguivano, una volta un rumore che sembrava di un ruscello. Lui le offrí lo champagne e bevvero nel piú assoluto silenzio.

Svegliandosi da quell’idillio, però, si ritrovò nel suo letto, insieme a lui. Era mortificata. Aveva urlato nel sonno? Le era sfuggito qualche gemito? Le costole erano tutte intere. Allungò la mano verso lo specchietto e non scorse segni di lascivia sul suo volto, né capelli arruffati, e i bottoni della camicia da notte erano ordinatamente chiusi fino all’ultimo.

Lui era un monolite di sonno. Aprí gli occhi. Lei gli disse qualcosa, qualcosa di preoccupato, ma senza ricevere risposta. Si alzò e scese in soggiorno a riflettere. Come sarebbe andata a finire? Doveva parlarne al marito? Secondo lei no. Passò la mattinata a infilare la chiave in varie serrature, ma era troppo piccola. Anzi, una volta per poco non la perse perché scivolò dentro la serratura e le toccò usare il rebbio di una forchetta per tirarla fuori. Ovviamente si premurò di non far vedere a Fatima, la cameriera, quello che combinava.

Era venerdí, il giorno in cui andavano in campagna, e lei non ne aveva nessuna voglia. Sapeva che all’arrivo si sarebbero precipitati in giardino a guardare se le piante erano cresciute, a guardare le foglie delle rose per assicurarsi che non ci fossero parassiti. Poi, spingendo lo sguardo in fondo ai campi dove c’erano le mucche, si sarebbero detti quant’erano fortunati ad avere un posto cosí bello, quant’erano furbi. I fiori della magnolia dovevano essere sbocciati del tutto e lei si sarebbe impalata a fissare l’albero come se bastasse fissarlo per impregnarsi del suo biancore.

Le magnolie erano sbocciate quando arrivarono, come tanti piccoli portauovo di porcellana bianca, ogni fiore proteso verso il cielo. Due dei platani avevano sicuramente preso un fungo, disse il signor Reinhardt, perché le foglie stavano seccando. Quegli olmi andavano tagliati e il signor Reinhardt calcolò che avrebbero avuto legna per due inverni. Ne avrebbe parlato con l’amministratore, che abitava in fondo alla strada. Portarono dentro la spesa, alzarono le serrande e accesero il riscaldamento. La piccola cucina era come l’avevano lasciata, a parte le primule nel vaso che erano scolorite e sembravano brandelli di pelle gialla. Lei tirò fuori le provviste, mise alcune cose in frigo e cominciò a sbucciare le carote e le patate per la cena. Il signor Reinhardt piantò quattro ganci nel muro per appendere le nuove stampe che aveva portato. Ogni tanto la chiamava per chiederle in quale ordine doveva metterle e lei arrivava con le mani coperte di farina e proponeva distrattamente una combinazione.

Aveva la chiave con sé, e di quando in quando apriva la borsetta per assicurarsi che fosse ancora lí. Poi arrossiva.

All’imbrunire uscí a prendere un ramo di melo per dare un buon odore al fuoco. Un uccello cinguettava su un albero. Piú suono che canto. Non capí che uccello fosse. La magnolia era una massa bianca nel buio circostante. Scendeva la rugiada e lei si chinò un istante a toccare l’erba bagnata. Avrebbe tanto voluto che fosse domenica cosí sarebbero tornati a casa. A Londra le serate sembravano trascorrere piú in fretta e tutti e due avevano piú cose da sbrigare. Aveva quasi l’impressione di tradirlo.

Bevvero vino rosso seduti davanti al camino. Il signor Reinhardt era nervoso ma allo stesso tempo accusava lei di nervosismo. Stava parlando del Mercato comune con perentorietà. A che gli serviva illustrargliene la logistica se lei nemmeno lo contraddiceva? Si fece prendere la mano, cominciò a gesticolare, disse che amava l’Inghilterra, lui, l’amava con tutto sé stesso, che l’Inghilterra stava andando in malora. Quando lei si alzò per spingere nel focolare un ciocco che era caduto, le intimò per l’amor del cielo di non distrarsi.

Lei si rimise subito seduta, augurandosi che non scoppiasse una di quelle liti furiose, inaspettate, inutili. Ma per fortuna furono distolti. Gli sentí dire: – Perdindirindina! – e alzando lo sguardo vide quello che aveva appena visto lui. Una mandria di bestiame li fissava. Balzò in piedi. Il signor Reinhardt corse al telefono per chiamare l’amministratore, essendo del tutto ignaro della vita campestre, e nella fattispecie di come si disperdeva una mandria.

Lei agguantò un bastone da passeggio e uscí per impedire alle mucche di cadere dentro la piscina. Fuori faceva freddo e il vento frusciava in tutti gli alberi. Le mucche la guardarono, sospettose. Drizzarono le orecchie. Lei accennò qualche mossa con il bastone e in quel momento quattro di loro scavalcarono il filo spinato tornando nel campo adiacente. La mucca rimasta cominciò a correre a perdifiato. Le quattro mucche nell’altro campo si misero a strepitare. La quinta cozzava contro il recinto. La signora Reinhardt pensò: «Lo so come ti senti: ti senti persa e confusa, allo sbando».

Arrivò il marito furibondo perché aveva telefonato all’amministratore senza ottenere risposta. – Non c’è mai, accidenti a lui! – disse. La povera mucca si spaventò talmente sentendolo urlare che tentò il balzo impigliandosi nel filo spinato. La signora Reinhardt vide le punte del filo spinato dentro l’enorme mammella e pensò ma tu guarda dov’è andata a cacciarsi. Dovevano salvarla. Si avvicinarono con estrema cautela all’animale, e nelle intenzioni il signor Reinhardt avrebbe tenuto ferma la mucca mentre la signora Reinhardt liberava la carne. Si sforzò di essere delicata. La mucca aveva un odore di latte, tenue a paragone di quel suo ruggito, che era implorante. Il signor Reinhardt la prese per le zampe posteriori e disse alla moglie di sbrigarsi. La mucca scalciava. Appena la signora Reinhardt sollevò la carne sanguinante, la mucca fece un bel salto e scavalcò il recinto piombando nel campo, dove corse a bere nel fiume.

Le altre la seguirono e d’un tratto l’intero prato divenne teatro di strepiti e di un forsennato trambusto. Il signor Reinhardt si sfregò le mani con un sospiro di sollievo. Propose di aprire una bottiglia di champagne. La signora Reinhardt era contentissima. Ultimamente il marito era diventato molto parsimonioso, non le concedeva mai un lusso. Anzi diceva che, per come era messo il Paese, presto avrebbero dovuto rinunciare anche al vino. Entrando in casa la cinse con un braccio. E tornati nella stanza lei si sedette sentendosi come un’amante mentre beveva lo champagne, gli sorrise e sentí l’alcol fluire in tutto il corpo. Lo champagne li mise di buonumore e si abbracciarono salendo la stretta scala che portava in camera da letto. Malgrado questo la signora Reinhardt non aveva voglia di intimità; voleva riservarla alla stanza nascosta.

La domenica sera tornarono a Londra e quella notte la signora Reinhardt non dormí. Di conseguenza non andò da nessuna parte in sogno. La mattina era sulle spine. Si guardò allo specchio. Stava invecchiando. Dopo colazione, mentre il signor Reinhardt si affrettava a uscire, sollevò la piccola chiave.

– Che cos’è? – gli chiese.

– Come faccio a saperlo? – disse lui. Era livido in volto.

Lei prese il telefono e fissò un appuntamento con il parrucchiere. Si fece un discorsetto. Non doveva invecchiare. Dopo, con i capelli in ordine, gli avrebbe fatto una sorpresa: sarebbe passata alla galleria chiedendogli di portarla in un bel pub. Lungo la strada si sarebbe comprata un foulard nuovo e lo avrebbe legato al collo per sembrare piú giovane.

Quando arrivò alla galleria il signor Reinhardt non c’era. Hans, il suo assistente, era alle prese con un cliente mediorientale. Lei disse che avrebbe aspettato. La nuova segretaria andò a preparare il tè. La signora Reinhardt si sedette alla scrivania del marito, meditabonda, e poi cominciò a sfogliare pigramente l’agenda, tanto per passare il tempo. Pranzo con questo e con quest’altro. Un appunto per ricordarsi di comprarle un regalo per il loro anniversario, cosa che aveva fatto. Le aveva comprato un bellissimo anello con sopra una sfinge.

Poi lo vide: l’indirizzo dove lei andava notte dopo notte. Numero dieci. Le cifre le ballarono davanti agli occhi come avevano ballato quand’era arrivata in taxi la prima volta. Tutti i suoi gesti si fecero veloci e meccanici. Ingollò il tè, strinse distrattamente la mano al signore arabo, mangiò il biscotto allo zenzero masticandolo con una tale violenza da digrignare i denti. Camminò su e giú per la stanza, tornò all’agenda. Lo stesso indirizzo, tre, quattro o cinque volte a settimana. Sfogliò le pagine a ritroso per vedere da quanto tempo continuava. Inutile. L’unica era andarci di persona.

Arrivata alla casa ricavata da un’antica scuderia trovò la chiave nella vasca dei fiori. In cucina c’erano dei gusci d’uovo e una padella in cui avevano cotto un’omelette. I gusci erano due marrone e uno bianco. Affondò il dito nel grasso; era ancora caldo. Il cuore la precedette lungo le scale. Sembrava un proiettile dentro il corpo. Aveva la mano sulla maniglia quando all’improvviso si arrestò sui suoi passi, immobilizzandosi. Si allontanò pian piano dalla porta e tornò alla panchina sul ballatoio.

Non si sarebbe intromessa, no. Si capiva benissimo perché il signor Reinhardt andava lí. Ci andava di giorno per rispettare il convegno amoroso con lei, per essere infedele con lei, che poi era lo stesso motivo che spingeva lei ad andarci di notte. Un giorno o una notte, con una buona dose di fortuna, si sarebbero incontrati condividendo il loro segreto ma, fino ad allora, la signora Reinhardt era ben contenta di lasciare le cose come stavano. Scese le scale in punta di piedi felice di non essere stata precipitosa, di non aver rotto l’incantesimo.