Una rosa nel cuore di New York
Notte di dicembre. Le scaglie di gelo all’esterno dei vetri davano alle varie stanze una luce bianca attutita. Il ghiaccio come schegge di specchio molava le pozzanghere delle buche stradali. All’interno, le stanze erano fredde e arredate per lo piú allo stesso modo. La stanza senza nemmeno un mobile, a parte le mele raccolte in autunno, si chiamava la Stanza Vuota. Mele dappertutto. L’odore dava alla testa, perché erano già mezze marce. Stanze dove nessuno entrava da giorni, eppure quelle stanze e le loro cose sarebbero diventate parte della storia impressa nel ricordo. Una casa solenne, circondata da una tenuta, lontana dalla pigra confusione del paese. Una casa solitaria, cosí si sarebbe rivelata, ma forte di una strana vitalità, come se non fosse una casa ma una persona che osservava e respirava, una presenza tra un ammasso di alberi e siepi robuste potate dal vento.
La levatrice corpulenta risalí frettolosamente il vialetto, la mantella di serge che le svolazzava alle spalle. Aveva il fiatone. Si era portata dietro il bauletto di cuoio con disinfettante, garza, forcipe, strumenti vari e una bottiglietta di acqua santa casomai il neonato fosse stato in pericolo di vita. Nel periodo natalizio morivano piú bambini che in qualunque altro mese dell’anno. Superato il piccolo sicomoro a metà del vialetto, cominciò a sentire le urla e le invocazioni a Dio. Povera madre, pensò, povera madre, poveretta. Non era troppo in anticipo, arrivava piú o meno al momento giusto, anche se Donai, il ragazzo che lavorava alla fattoria, era andato a chiamarla ore prima. Era stata lei a far nascere quasi tutti i bambini di quella parrocchia, eppure non aveva parenti né amici. Entrò dalla porta di servizio, si tolse la cuffia e l’appese per il cordino elastico alla maniglia.
Era una stanza blu, le pareti di un blu scuro umido e tetro, i mobili in noce, incluso il letto su cui avveniva il fatto. A protezione del camino c’era l’enorme coperchio di una scatola di cioccolatini con l’immagine di una donna ammiccante. La nappina dell’avvolgibile sbatacchiava di continuo contro il vetro gelato della finestra. C’erano un portacatino con il catino e la brocca color avorio, la porcellana tutta chiazzata da grosse rose, e un bestione di armadio enorme e ingombrante. La levatrice ricordò che una volta era andata in una casa in cima alla montagna e arrivando aveva scoperto che il bambino era morto soffocato, un bambino senza padre ficcato in un cassetto. I gemiti riempivano la stanza e trapassavano le mura verniciate a tempera uscendo nel freddo corridoio, dove il cagnolino di peluche nero con gli occhi di ambra faceva la guardia su un’alta scansia laccata. Ogni tanto la donna si scusava con la levatrice per quell’indecoroso baccano e rantolava qualche giustificazione con un filo di voce, prima di essere riattanagliata da un dolore che definiva ora un coltello, ora un pugnale, ora un inferno in terra. Era al quarto travaglio. La bambina precedente era morta due giorni dopo la nascita. Quella prima ancora, femmina anche lei, era morta di tosse convulsa. Nel suo ventre regnavano la malattia e la morte. Perché essere donna? Oh, vita crudele; oh, destino impietoso; oh, uomo senza cuore, singhiozzava. Aggrappata al copriletto ricordava che fra quelle stesse lenzuola tutte rappezzate aveva dovuto spalancare le gambe a viva forza, di continuo, senza una parola, senza un briciolo d’affetto, sfondata e basta con l’ordine di aprirle di piú. Sposandosi era sfuggita a un destino da serva, forse a una vita in qualche lugubre istituto, eppure a mano a mano che il tempo passava e la cassa del corredo si svuotava dei suoi doni, aveva capito di essere destinata a servire in tutt’altro modo. Quando non urlava, agitava la testa sul cuscino pregando che finisse presto. Temeva lo spargimento di sangue finale, anche se non ne aveva ancora versato nemmeno una goccia. La levatrice la fece mettere comoda infilandole sotto un vecchio lenzuolo coperto da una tela cerata. Le disse che c’era poco da scherzare e ribadí la sua teoria secondo la quale se fossero stati gli uomini a dover partorire non sarebbe nato un solo bambino sulla faccia della Terra. Il marito era di sotto a prendersi una sonora sbronza. Prima, quando la moglie aveva dichiarato che sarebbe andata di sopra perché cominciavano le doglie lui, approfittando di ogni minimo pretesto per fare bisboccia, aveva detto che se c’era del vino fatto in casa o del vino da messa conservato da qualche parte avrebbe fatto meglio a tirarlo fuori, a metterlo in mostra insieme ai cristalli. Lei aveva detto che non ce n’era e che lui lo sapeva bene, visto che non potevano permettersi nemmeno il tè e lo zucchero. Lui aveva cominciato a rovistare da tutte le parti, a togliere stracci, indumenti e provviste dagli armadietti, a ficcare le mani perfino dentro la federa, a frugare nei cuscini; e avanti cosí, come una furia, finché non aveva trovato una bottiglia dentro l’armadio, in quella stessa stanza dove lei gemeva e supplicava. Lei l’aveva implorato di non farlo, e lui per tutta risposta aveva agitato la bottiglia color ambra verso di lei e poi se l’era accostata al viso tracannando a garganella. Era un liquido inebriante. Per una sfortunata coincidenza c’era lí un suo degno compare andato a vendergli un’altra stufa, di sicuro un altro catorcio, un coso che avrebbe richiesto moine su moine per accendersi e un’attenzione e uno sventolio costanti per tirare. L’altra figlia era da un vicino, quelle morte in un cimitero a una decina di chilometri da lí, tra estranei e lontani parenti, senza nemmeno il nome inciso sulla lapide sbilenca e fradicia di pioggia.
– Oh, Gesú, – urlò quando lui tornò a chiederle un ferro da calza per tirare fuori il tappo di sughero che si era rotto.
– Al diavolo, – le disse, mentre lei si attorcigliava in un nodo e sentiva la grossa palla insistente, che doveva essere la testa, premere alla base delle budella e sconquassarle le viscere.
Dalla bocca le usciva un misto di imprecazioni e preghiere che poco alla volta si fecero piú pietose e inframmezzate da urla. La levatrice le mise un asciugamano sulla fronte e le disse di spingere, in nome di Dio, di spingere. Lei disse che aveva esaurito le forze, ma la levatrice non demorse e simulò la respirazione profonda che doveva fare lei. Ci volle piú di un’ora. La testolina mostrava la tonsura e indietreggiava, poi la mostrava di nuovo, ogni volta un po’ di piú, anche se, tra un’apparizione e l’altra, sembrava ritrarsi dal mondo nel quale si catapultava. Lei disse alla levatrice che si stava squartando, che non le importava piú se moriva o se i due giú in cucina annegavano nell’alcol. Quelli intanto bisticciavano su chi aveva il levriero migliore, l’erede di Mick the Miller. Le era caduto il crocifisso che teneva in mano, e quelle mani sembravano pelle e ossa per come si torcevano una dentro l’altra.
– In nome di Dio, spinga, signora.
Lei avrebbe spinto fuori tutto, le viscere, il ventre, lo stomaco, gli occhi e il fegato, ma il centro del suo corpo non mollava la presa e quel centro sembrava suo signore e padrone. Avrebbe voluto non essere niente, un guscio vuoto, privo di tutto e di tutti, e stava per dichiararlo, per urlare e inveire, quando il bambino si catapultò fuori, dapprima lentamente, come se il collo non riuscisse a torcersi quel tanto da uscire, poi le spalle – e quella fu la parte peggiore – che spianarono la strada, poi l’odiosa giravolta e un urlo che non era della madre, e un incalzante presagio di cose mentre goccioloni di sangue e umori seguivano a ruota la creaturina piagnucolante. Questo le strappò l’ultima briciola di tranquillità e le tolse ogni speranza. Era venuto al mondo di traverso e il primo annuncio della levatrice fu una iattura, fu che aveva il piede equino. Quei piedi, si azzardò a dire, sembravano due moncherini attaccati l’uno all’altro e il cordone, accidenti a lui, si era avvolto intorno al collo. Il risultato era una piagnucolante porcheriola violacea inerte e accartocciata. Gli uomini si calmarono un poco quando sentirono strillare l’annuncio dal piano di sopra e salirono per le congratulazioni. Il padre sventolò una striscia di carne rosa infilzata nella forchetta che si era portato appresso e disse che non stuzzicava proprio l’appetito. Stavano cuocendo un’oca di sotto e disse che in futuro avrebbe insistito per il tacchino, che l’oca era roba da coglioni coi dentoni. La madre, livida e disgustata, disse di lasciarla in pace. Il venditore chiese se era maschio o femmina, anche se gliel’avevano già detto che era una femminuccia. La madre sentiva il sangue sgorgare a fiotti, come l’acqua da una diga. La levatrice disse a quei due di andare di sotto e comportarsi da persone perbene.
Poi prese tre numeri arretrati della rivista settimanale e una scatola di scarpe con il coperchio e ci infilò dentro le escrezioni e il superfluo. Canticchiava preparandosi a cucire la striscia di carne lacera aperta e insanguinata. La madre urlò di nuovo e disse che ci mancava solo quell’amaro calice. Affondò i denti nel crocifisso ammaccandolo un altro po’. Le sembrava che le stessero cucendo anche la bocca e le palpebre; il suo non era piú un bel corpo, era un veicolo di dolore e di oltraggio. La bambina era cosí tranquilla che quasi non respirava. La placenta fu appoggiata sulla stufa dove il cane, Shep, l’annusò attraverso gli strati di carta e la sua curiosità gli valse un calcio nel sedere. La levatrice disse agli uomini, responsabili di aver spento la stufa, che era un peccato mortale lasciare una bell’oca come quella cosí, né cotta né cruda. Le avevano strappato qualche brandello di petto e adesso l’oca sembrava ferita, proprio come la donna al piano di sopra, che intanto si induriva nel cuore e nell’anima, si induriva dentro la sfilza di punti di sutura, e considerava la sua intera vita un’enorme delusione. La levatrice portò il grosso involto in cantina, lo chiuse in uno straccio imbevuto di petrolio e accostò un fiammifero, sbrigandosi perché doveva scappare a fare la stessa cosa da un’altra parte. Le sarebbe piaciuto fermarsi a fasciare la neonata, consolare la madre e bere un tè dolce e bollente, ma non c’era tempo. Non c’era mai tempo, quella mattina non era riuscita nemmeno a togliere la cenere e i tizzoni dal suo camino.
La bambina era in un angolo della stanza dentro una culla marrone con le assicelle che scricchiolavano per come le avevano maltrattate i bambini precedenti. La madre non era orgogliosa, tutt’altro. Diede alla bambina il primo biberon, guardò quel faccino rinsecchito e pensò: «Da dove sei venuta, e perché?» Non aveva scelto il nome. Anzi, disse al primo che andò a trovarla, un tenente dell’esercito, di non raccontarle frottole: la bambina aveva la faccia piú brutta che avesse mai visto la luce del giorno. Quel Natale le bevute e le litigate proseguirono, qualche raro vicino passò a fare visita, la madre si alzò il terzo giorno e scese barcollando a rigovernare la cucina. Ogni sera all’imbrunire prendeva un pezzo di candela da tenere a portata di mano e rimetteva l’olio nella lampada del Sacro Cuore nel caso la bambina avesse pianto. Presero la bronchite tutte e due e la bambina fu imprigionata dentro masse di flanella e cotonina.
Le cose cambiarono. La madre finí con l’idolatrare la bambina perché era cosí tranquilla, non strillava mai, non chiedeva mai niente, se ne stava stranamente immobile nella carrozzina con il cane a fare la guardia, gli occhi che si limitavano a fissare tutto quello che si profilava all’orizzonte. Perfino la bruttezza scomparve. Sembrava divorarli con quei suoi occhi blu enormi, contemplativi, un po’ offuscati. Brillavano ogni volta che vedevano qualcosa. La madre guardava in direzione della culla e diceva una preghierina per lei, oppure sorrideva e spesso la sera schermava la candela con la mano per studiarne il faccino, per dire coccola o caccola, per dirle stupidaggini. Mangiava tutto quello che le davano ma, col passare del tempo, sviluppò gusti ben precisi con un debole per il dolce. Era il cibo a unirle: mangiavano dallo stesso piatto, usavano lo stesso cucchiaio, si guardavano masticare, sentivano il cibo scendere nella gola dell’altra. La bambina ci mise tanto a gattonare e ancora di piú a camminare, però sapeva tutto, percepiva tutto. Quando mangiava il budino o la giuncata, mangiava parte dell’adorabile sostanza di sua madre.
Stavano insieme, sempre insieme. Se la madre andava alla posta, la bambina restava in mezzo alla strada a pregare finché la madre non tornava sana e salva. La bambina si tagliò quattro dita con il bordo di una lametta rimasta incastrata nel legno della credenza, e vedendo quei quattro tagli profondi, orizzontali e identici, la madre si mise i poveri ditini in bocca e li succhiò per attenuare il dolore, e li leccò per togliere il sangue, e continuò a dire paroline dolci finché la bambina non si fu calmata.
Le nocche della madre erano le sue nocche, le vene della madre erano le sue vene, il grembo della madre era un secondo paradiso, la fronte della madre un quaderno dove scrivere A B C D, il corpo della madre era un recesso dentro il quale avrebbe vagato per sempre, un sepolcro che diventava sempre piú profondo. Quando vedeva gli altri, specie la bella sorellina, si limitava a fare ciao-ciao da quel luogo sicuro, non si muoveva, non si lasciava stanare. Il padre prese un’accetta e minacciò la madre di spaccarle la testa. La bambina guardò dalla finestra della cucina, perché quel disastro avveniva all’aperto su un’altura sotto i tre faggi fra cui il filo del bucato si tendeva e poi si afflosciava. La madre stava stendendo le quattro lenzuola lavate quella mattina, due per ogni letto. La bambina era intenta ad arricciarsi i capelli, li avvolgeva intorno a pezzi di straccio bianco per fare i boccoli, si agghindava davanti allo specchio della cucina, e ogni qualche minuto correva alla finestra per una ricognizione, si chiedeva cosa dovesse fare, saltava su e giú come se sentisse male, non sapeva proprio cosa fare, poi tornava di corsa allo specchio con la speranza che quella scenata terribile finisse, che la terra si aprisse e ingoiasse suo padre, che l’accetta si trasformasse in una bacchetta magica, che la madre entrasse in cucina dicendo: «Non aver paura» e mettesse fine a quello strazio. Dopo si sentí raccontare per filo e per segno quello che era successo. Il padre aveva preteso dei soldi, la madre glieli aveva negati dicendo che non ne aveva, ma aveva aggiunto che anche se li avesse avuti si sarebbe impiccata piuttosto che darglieli. Apriti cielo. Lui allora aveva perso la bussola, aveva serrato denti e muscoli e aveva detto che le avrebbe spaccato la testa, e la madre aveva detto che se lo faceva sapeva bene dove sarebbe finito. Sarebbe finito in manicomio, ecco dove. Era a una quarantina di chilometri da lí, un grosso edificio grigio, uomini e donne ammassati tutti insieme, alcuni con la camicia di forza, alcuni nelle celle imbottite, alcuni accecati dai sacchi che avevano in testa, alcuni ammansiti e bloccati dalle briglie al petto. Chi non voleva andarci veniva trascinato con la forza dai parenti, magari con una corda, o legato in fondo a un aratro o a un erpice e portato a quattro zampe, come gli animali della terra. Poi, quando non erano piú tanto pazzi, tanto scalmanati, li lasciavano tornare a casa, dove si comportavano in modo molto strambo e spesso sorridevano o parlavano da soli, e in men che non si dica eccoli pronti a riandare, o a essere trascinati, là dentro. Marzo era il mese peggiore, quando si sbalestrava tutto, anche il vento, anche le lepri marzoline. Il padre non ci andò. Andò a sbronzarsi di santa ragione e poi andò in un monastero, e poi lo riportarono a casa e tremò nella poltrona letto per cinque giorni mangiando pane e latte e chiese di essere accompagnato nei campi a vedere i suoi puledrini e siccome nessuno si offrí volontario toccò a lei perché era la piú piccola. Nei campi il padre accarezzò i puledri e disse cose sdolcinate che non aveva mai detto né a casa né a essere umano e pianse e disse che non avrebbe mai piú toccato un goccio d’alcol e sui baffi color peltro aveva una gocciolina che era un residuo della poltiglia che aveva mangiato e anche la puledra diventò inquieta e intrattabile e pronta a imbizzarrirsi o a scalpitare frantumando il terreno sotto gli zoccoli.
La domenica la bambina e la madre andavano a spasso: gironzolavano, raccoglievano le more, controllavano che non avessero i vermi, facevano la marmellata e dormivano fianco a fianco, attorcigliate come i ramoscelli degli alberi o le punte delle pinze per lo zucchero. Quando al risveglio la bambina scopriva che la madre si era alzata e stava già preparando il pastone per le galline o l’avena per i porcellini, correva di sotto con i vestiti tra le braccia e si vestiva ovunque potesse pascersi della sua vista. Sempre un uovo a colazione. Un uovo al giorno e sarebbe cresciuta forte. La madre non mangiava mai l’uovo ma gli toglieva la calotta e imboccava la figlia con il cucchiaino da uovo ossidato e le dava qualche sorsetto di tè per mandarlo giú. La bambina aveva una tazza tutta per sé, di smalto rosso e senza nemmeno una sbeccatura. Quando discendeva il vialetto di casa per andare a scuola si voltava a guardare di continuo e, col tempo, diventò brava a camminare all’indietro per poter guardare lungo tutto il tragitto, per guardare la sagoma col grembiule che agitava o sollevava uno schiacciapatate, uno scolapasta o qualunque cosa avesse in mano.
Una volta la bambina tornò a casa e la madre non c’era piú. Aveva mantenuto davvero la promessa di andarsene un bel giorno, di andare in un posto dove nessuno l’avrebbe trovata. In fondo al lago, era lí che minacciava di andare. Ma in realtà la madre era tornata dalla sua famiglia perché il padre le aveva puntato contro un fucile e sparato, solo che, non avendo la mira di Guglielmo Tell, l’aveva mancata e l’unico risultato era stato un buco nel muro della Stanza Blu. Chissà che ci facevano in pieno giorno al piano di sopra, dove di solito andava soltanto la madre per rifare i due letti. Lei un’idea ce l’aveva. Dormí a casa dei vicini, dormí in un letto con due vecchi che puzzavano di eucalipto. Tenne quasi tutti i vestiti e si accartocciò su sé stessa perché non voleva essere toccata né toccare quei due vecchi sepolti sotto vari strati di pelle, peli e flanella. Fuori dalla finestra c’era una rosa rampicante con tre o quattro fiori rossi lungo il ramo e, guardando quei fiori e pensando alla terra brulicante di vermi, la bambina cercava di non sentire le cose che quelle due persone dicevano, cosí poteva ricordare la madre che ormai disperava di rivedere. Casa loro era lí vicino, con la porta di servizio spalancata che dava libero accesso a estranei e vagabondi. Il cane doveva essere solo e sporco di sangue per aver dato la caccia ai conigli, le galline trascurate dovevano essere nel pollaio, isteriche, a strapparsi le piume fra loro per il nervosismo. Le uova sarebbero marcite. Se saliva in piedi sul muretto imbiancato che fronteggiava il cottage, riusciva a scavalcare con lo sguardo l’alto muro di pietra calcarea che delimitava i loro campi e a vedere il vialetto che conduceva alla casa abbandonata. Per lei era come un castello dov’erano successe e sarebbero continuate a succedere cose strane. La amava e la temeva. Il cielo in alto e sullo sfondo velava di mistero la casa, che a volte era meditabonda, altre, quando le striature rosse del cielo sembravano torce che preannunciavano uno spettacolo cruento, acquistava una specie di splendore. Tutt’a un tratto, mentre era lí con un filo d’erba fra i denti a guardare casa sua immaginando quel dramma futuro, la bambina sentí il cancello all’ingresso del cimitero lí vicino aprirsi e poi richiudersi con fragore e, vedendo spuntare il padre, fece un salto cosí maldestro che pensò di essersi rotta tutto, specie le costole. Si sentiva a pezzi. Doveva essere come Humpty Dumpty, e tutti i cavalli del re e tutti gli uomini del re non sarebbero riusciti a ricomporla. Lo smembramento non le era nuovo, l’aveva conosciuto tanto tempo prima, la volta che il collo le si era gonfiato come un pallone di carne. Riusciva a girarlo soltanto da una parte, perché l’altra era come una palla piena di liquido e a toccarla gorgogliava. Bisognava inciderla. La piazzarono su una sedia della cucina. La madre mise una pentola d’acqua a bollire. La madre salí in piedi su un’altra sedia, frugò nei recessi di un armadietto e tirò fuori uno strofinaccio nuovo. C’era tutto in quell’armadietto, lo zucchero, il tè, i biscotti rotondi, la farina bianca, la biancheria, la muffa e i topi. Prima un uomo, poi un altro, poi un altro ancora e poi quello che stava riparando il comignolo e, buon ultimo, il padre, l’acchiapparono da qualche parte, per un braccio, per l’altro braccio, per una spalla, per la vita e per le due gambe svolazzanti che facevano di tutto per non essere lí. La dottoressa disse delle belle cose e affondò la lama in quel pallone da calcio che era il suo collo e fu come se esplodesse la vescica di un maiale, con l’acqua che usciva a fiotti, e poi non fu affatto cosí; fu come una spada che le segava l’osso del collo, tagliando la carne, sempre piú a fondo, gli uomini che intanto la tenevano con tutte le loro forze e dicevano che era un demonio, e il coltello che affondava nell’inghiottitoio o in quello che lei avrebbe sempre considerato un inghiottitoio, e la dottoressa disse: «Accidenti», perché aveva sbagliato, aveva tagliato troppo a fondo e ora doveva cominciare a raschiare, e la sorella maggiore ballò la giga sul lastricato davanti a casa perché i vicini che passavano in strada non pensassero che stavano ammazzando qualcuno. Molto dopo tornò al mondo delle voci, voci soffocate, e alle loro rassicurazioni, e a un dolcino per farla riprendere, e la dottoressa si mise il cappotto di pelliccia marrone e corse a sbrigare un’altra importante opera misericordiosa.
Quando dormiva con i vicini il vecchio chiedeva alla vecchia se si sarebbero mai liberati di lei, se si sarebbero mai tolti quella scema dai piedi, se avrebbero dovuto sobbarcarsela finché campavano. Rifiutava il latte che le davano perché era di capra e troppo giallo e pieno di polvere. Rispondeva a monosillabi soltanto per dire sí o no, soprattutto no. Stava imparando ad accigliarsi, cosí anche lei avrebbe avuto la A, la B e la C. La sua fronte e quella della madre si sarebbero incontrate e salutate in paradiso, e tutte le rughe avrebbero coinciso. Rifiutava il cibo. Si struggeva. Durò una settimana in tutto.
Il giorno in cui la madre tornò a casa – era ancora gennaio – trovò i tubi dell’acqua scoppiati e, quando la bambina andò dai vicini e le dissero che poteva tornarsene a casa, corse con tutta la forza e la determinazione che aveva, tanto che le venne male alla trachea ma poi il male passò non appena vide la madre in terra a quattro zampe alle prese con le pozze d’acqua sgorgata dai tubi rossi. Lo straccio marrone s’inzuppava ogni qualche secondo e bisognava strizzarlo nella grossa bacinella sbeccata, quella che era stata la sua prima vasca da bagno. L’acqua ristagnava ovunque, sciabordava e minacciava di espandersi, di scolorire le piastrelle, e fu di quel rischio che parlarono e si preoccuparono anziché della scomparsa della madre, o della tragedia che l’aveva provocata, o del perché del suo ritorno. Entrarono in casa e presero tutti gli ingredienti, gli utensili e il setaccio per preparare una torta all’arancia con il ripieno all’arancia e la glassa all’arancia. Lei non aveva mai assaggiato niente di cosí squisito in tutta la sua vita. Ne mangiò tre grossi tocchi, e la madre l’abbracciò e le disse che se ne mangiava ancora le sarebbe venuto un bel pancino.
Il padre tornò a casa dall’ospedale, pianse di nuovo, disse che non avrebbe fatto male a una mosca e annunciò il fermo proposito di non infrangere mai la promessa e di non mettere mai piú piede fuori dal cancello, se non per andare a messa, di non lasciare mai il suo amato podere. La bambina continuò a dormire con la madre, a recitare il rosario con lei e a spartire i quadratini di cioccolato fondente ripieno di uvetta, poi tremava quando la madre andava un attimo in camera del padre per fargli passare le bizze. Le conseguenze di quelle visite erano scongiurate dai pezzi di carta velina, una protezione fra lei e qualunque emissione. Non furono concepiti altri figli né ci fu piú bisogno di usare i pannolini sformati, il biberon e la tettarella marrone scuro screziato. La culla fu segata e usata per rinforzare due sedie che andarono ad aggiungersi al mobilio sul grande ballatoio al primo piano, dove il cane di peluche la faceva ancora da padrone, anche se adesso gli mancava un occhio perché un bambino che era andato a trovarli gliel’aveva cavato con il fil di ferro. Le sedie furono ridipinte di rosso scuro e poi graffiate con la punta di un chiodo per dare un effetto marezzato. Sul pianerottolo c’era anche un vaso con una profusione di rose tea finte sorrette dal fil di ferro. Le rose tea erano bicolori, di plastica rossa e gialla, e la punta di ogni petalo era dura come la punta di una spina. I fiori di stoffa erano piú morbidi. Lei una volta li aveva visti, in un’altra casa, dentro un grande vaso, erano di tulle rosa e viola chiarissimo e ricadevano sullo scrittoio di una signora. Sul ballatoio, a casa, c’era anche la testa trafitta di Cristo, che guardava l’andamento delle cose con infinita pazienza, infinita commiserazione. Sotto il Cristo c’era un gattino di cartapesta nera che in origine aveva le caramelle nella pancia, caramelle identiche alle fragole con una fogliolina alla base, una fogliolina di angelica glassata. A madre e figlia piacevano le stesse cose: la mousse di mela, le barbabietole, le salsicce al pomodoro e l’angelica. Pulivano le finestre, una l’interno, l’altra l’esterno, cantavano duetti, mettevano i fogli di giornale sulle mattonelle rosso scuro appena lavate per proteggerle dal fango e dal trapestio degli uomini. Andavano d’accordo su tutto, o quasi.
Nelle notti buie il vento si insinuava dalla finestra, usciva sul ballatoio e andava nelle altre stanze, andava nella Stanza Blu, ormai disabitata. Lo sportello dell’armadio si apriva da solo oppure la brocca sbatacchiava o il bel quadro di Nostra Signora di Limerick dal seno procace cadeva sul portacatino di marmo scatenando un putiferio e preannunciando sventura per sette anni. Quando l’altra figlia tornò dal collegio, la bambina all’inizio fu entusiasta, la accolse a braccia aperte, preparò dolci e, subito dopo, piombò nella piú cupa disperazione. La madre le veniva sottratta o, peggio ancora, rivolgeva volentieri i suoi discorsi, le sue attenzioni, le sue mani e tutti i suoi sguardi all’intrusa. La madre e la sorella maggiore andavano al piano di sopra, dove la madre aveva qualche sorpresina in serbo per lei, un fazzoletto, o un portafazzoletti e una volta uno scampolo di stoffa comprato a poco prezzo dopo che la fabbrica era andata a fuoco. Bellissimo, rosa salmone a pois.
Al piano di sotto lei doveva impilare i piatti nel vassoio. Sbatteva le tazze, infilava il coltello da burro nel vaso di marmellata di ribes nero da un chilo e se ne serviva una bella razione, poi impilava i piatti unti senza mettere come sempre una forchetta fra l’uno e l’altro per proteggere la parte sottostante. Sognò che la madre e la sorella rivale la invitavano a fare una passeggiata con loro, invece se ne andarono di soppiatto. Lei le seguí in bici ma, arrivata fuori dal cancello, non seppe se andare a destra o a sinistra, e quando decise andò dalla parte sbagliata incappando in una mandria di manzi, tutti a incornarsi fra loro e a cercare di montarsi. Tornò indietro, ed eccole risalire il vialetto di casa passeggiando, come due tranquille signore che se la ridevano sottobraccio, e lo scampolo salmone a pois era già un indumento, un bellissimo soprabitino svasato che sua sorella indossava con grande eleganza.
– Volevo stare con voi, – disse lei, e una delle altre due disse: – Voleva stare con noi, – e poi qualunque cosa lei dicesse, qualunque cosa implorasse, loro le facevano il verso come se nemmeno ci fosse. Alla fine capí che doveva andarsene, perché non la volevano, era di troppo. Quel sogno, o meglio, il pandemonio che combinò nel sonno fece pensare che avesse i vermi e la mattina dopo le diedero una dose di trementina e olio di ricino, la stessa che davano ai cavalli.
Quando la sorella tornò in città, la felicità regnò di nuovo sovrana. La madre la consultò sul disegno di una borsa di pelle che stava confezionando. La madre voleva un disegno molto antico, qualcosa che riguardasse la storia del loro Paese. Lei disse di metterci le battaglie, poi la pace e meravigliosi scenari naturali. La madre disse che un Paese doveva avere tanta storia alle spalle e che la cultura era una cosa bellissima. Altro che le paludi, disse la madre. La bambina disse che da grande avrebbe trovato un ottimo lavoro e avrebbe portato la madre in America. La madre accennò alla via di Brooklyn dove aveva abitato e disse che era vicino a un parco. Un giorno ci sarebbero andate. Può darsi, disse la madre.
La bambina crescendo cominciò a dire la parola «culo» di nascosto, consapevole che la madre sarebbe inorridita. La bambina rideva dei manzi e dei loro svaghi. Poi si faceva prendere la mano e saltava, saltava come se un diavolo le stuzzicasse e solleticasse il rivestimento interno. Da far accapponare la pelle. Lo faceva all’aperto, lontano da casa, in mezzo ai campi, in un boschetto o sotto una cupola di rododendri. I boccioli di rododendro erano appiccicosi e sprizzavano vita e tutto, come lei, era madido, e ogni tanto la bambina arrossiva e le veniva la ridarella e per tornare a una specie di normalità doveva redarguirsi e schiaffeggiarsi con veemenza. Come punizione estrema prendeva una tazza di sali di Glauber tre volte al giorno, scegliendo di berla tiepida, quand’era ancora piú ributtante. Il padre le diceva di andare a spasso, di uscire dal guscio, di staccarsi dalle gonne della madre, e la spediva a fare un giro su quella bicicletta scassata e senza freni. La bambina andava in chiesa e scopriva che oltre a lei c’era soltanto la sacrestana, che passava la vita lí dentro a lucidare e ridisporre i fiori finti; oppure scendeva in una palude a esprimere desideri irrealizzabili; ma sempre, alla fine di ogni giorno e alla fine di ogni pensiero e all’inizio del sonno e nell’esatto istante del risveglio, era della madre e per la madre che viveva, e le sue preghiere e le sue buone azioni e i suoi riccioli e il furore sulle gambe provocato dello scamiciato di serge erano rivolti alla madre, eccetera, eccetera. Soltanto la morte le avrebbe divise, anzi, nemmeno quella, perché decise che si sarebbe tolta la vita se una malattia o una calamità le avesse strappato la madre. Si infilava la giacca a tre quarti della madre, affondava le mani nelle tasche profonde e diceva il nome «Delia», quello di sua madre, lo diceva con vari toni di voce, piú e piú volte, sempre in un soffio e con una nota di cospirazione.
Successe una cosa bella. La madre e il padre fecero un viaggio con un’auto a noleggio per sbrigare una transazione che gli avrebbe permesso di ottenere un credito su certe terre del padre, il quale invece di ubriacarsi ordinò un bel tè, poi si appoggiò allo schienale prendendosi le bretelle e diede alla madre qualche scellino, con cui la madre si procurò un bellissimo rossetto in un astuccio dorato con le scanalature. Sembrava un frutto fresco, tanto era succoso, e rosso corallo. Lei e la madre lo provarono e riprovarono, facendo le spiritose, lo provavano, poi se lo toglievano, poi lo riprovavano, disegnavano la bocca a forma di cuore, e la madre protestò e disse che erano due scriteriate e perfino il padre si fece prendere dall’allegria e impiastricciò la guancia della madre e le disse che era una macchietta e la madre disse di smetterla, che cosí il rossetto rischiava di rompersi. Pigiò il gancetto con l’unghia del pollice e fece scendere il rossetto nel suo astuccio, nel suo alveo. Con gli anni il rossetto si seccò e prese una strana forma e da qualche parte lessero che da quella particolare forma si poteva risalire al carattere di una signora, e avrebbero tanto voluto scoprire se la madre era estroversa o timida come una mammoletta.
La bambina non aveva amici, non le servivano. Nuotava nel miele. La madre era il miele, il barattolo, l’armadietto, la credenza con dentro tutte le cose, il tabernacolo con dentro Dio, il lago con dentro le leggende, la palude con dentro il pozzo dei desideri, il mare con dentro le ostriche e i cadaveri, la madre era una spugna gigante, un’abitazione dove lei desiderava tanto annegare e sparire per sempre. Eppure aveva paura di annegare e, intrappolata nell’odioso dilemma fra la paura di annegare e la paura di nuotare, si dibatteva tra varie cose: la scuola, la vaccinazione, un uomo che mise un fazzoletto bianco fra la propria nudità e la sua e venne contro la porta zincata di una stalla, grugnendo e sgrugnando sopra di lei come un animale con le pastoie; una cara amica che cercò di tagliarle i peli della vagina con le cesoie. Aveva i peli della vagina color mogano e la sua migliore amica diceva che erano indice di peccato mortale. E lei non si dava pace. Poi ecco abbattersi un fulmine a ciel sereno. Due suore andarono a trovarli e la madre e il padre le dissero di restare in cucina a vedere se l’acqua per il tè bolliva e poi di toglierla dal fuoco per non farla versare. Lei attraversò il corridoio in punta di piedi e ascoltò da dietro la porta. Sentí mezze parole. Parlavano di lei. L’avrebbero mandata in collegio. Stavano discutendo la retta e la madre chiedeva se non potevano ridurla. Corse fuori di casa in uno stato pietoso. Corse al pollaio e ci andò dentro a piangere e a dare in escandescenze. Il pavimento era pieno di cacche bagnaticce e grigioverdi. I nidi erano pieni di paglia putrida. Temette di impazzire. Quando la trovarono il padre le disse di non farla tanto lunga mentre la madre cercò di consolarla dicendole che sull’opuscolo della scuola c’era scritto che dovevano comprarle tanti vestitini blu nuovi nuovi. Ma dove avrebbero preso i soldi?
Nel convento dove la mandarono trovò finalmente consolazione. Una suora divenne il suo nuovo idolo. Una suora con il viso di un pallore agghiacciante e una laurea in Scienze. Lei e la suora si scambiavano messaggi in codice con le palpebre e il battito delle ciglia, perciò conoscevano sempre lo stato d’animo e i sentimenti dell’altra, e se una infliggeva un dolore sia pur minimo, l’altra lo coglieva al volo e reagiva con uno sguardo. La suora diede un voto piú alto a un’allieva diversa agli esami di metà anno soltanto per farle male, per ferirla nell’orgoglio; la suora le parlò in modo brusco davanti a tutta la classe, disse il suo nome per intero e le sottopose un enigma teologico al quale era impossibile rispondere. Lei, in cambio, fece cadere sul pavimento della chiesa una delle immaginette sacre della suora, immaginetta che ovviamente fu trovata dall’addetta alle pulizie e restituita alla suora, la quale la diede a lei dicendo: – Qualcuno deve averla persa –. Si scambiarono regali e biglietti di Natale che contenevano beati sottintesi. Lei le aveva regalato una scatola di cioccolatini con un martin pescatore sul coperchio e aveva ricevuto un libro di preghiere con i bordi delle pagine dorati, piccolo quanto il suo dito mignolo. Non riusciva a decifrare i caratteri ma lo portava con sé come un talismano, come una pergamena segreta che parlava d’amore.
Quando tornò a casa per le vacanze la musica era cambiata. Adesso era lei quella sfuggente, quella che si sottraeva. Tutti i bocconcini prelibati e i soufflé al muschio d’Irlanda che la madre le preparava non la mandavano in visibilio. Il grembiule in crêpe de Chine rosa che la madre aveva ricavato da un vecchio vestito da ballo non venne accolto con l’esultanza che la madre si aspettava. Fu provato e subito tolto e lanciato sullo schienale di una sedia con un’unica nota di plauso solo per la passamaneria, che era fatta ad arte.
– Hai poco da arricciare il naso, – disse la madre passandole il piatto di focaccine per la terza o la quarta volta. L’amore della suora dominava su tutti i suoi pensieri e la faccia pallida della suora si interponeva fra lei e il mondo visibile che avrebbe dovuto vedere. Ogni tanto ne sentiva in bocca il sapore. Interferiva con gli studi, le altre amicizie, fu scoperto. La madre superiora la mandò a chiamare. Lei e la suora non si incontrarono mai in privato e non si scambiarono mai piú immaginette sacre. Il giorno in cui lei partí per sempre si diedero un appuntamento segreto nel gazebo del parco ma nessuna delle due si presentò. Mandarono entrambe un messaggio di scuse, e furono le messaggere a incontrarsi al posto loro, una bambina delle elementari e una postulante, tutte e due con la stessa frase sulle labbra: – Le dispiace, ma voleva dire che non può… – Forse avrebbero perso il controllo o fatto chissà che, forse si sarebbero baciate.
Fuori dal convento e lontano dall’incantesimo di suore, giardini fioriti e atti di contrizione, lontano dalla chiesa con l’incenso e i sermoni sulfurei, lontano dalla sorveglianza, conobbe un panettiere che era anche un famoso giocatore di hurling e cominciò il tipo di corteggiamento comune a quelli del loro rango: appuntamento alla colonna di Nelson due sere a settimana, poi al bar per il caffè e i dolci alla panna, per stringersi le mani sotto il tavolino, per prendere un autobus e andare da lei, per baciarsi contro una ringhiera e divorarsi la faccia, come prima avevano divorato la finta panna e il pan di Spagna spolverato di zucchero. Ma quelle abbuffate servivano solo ad accrescere la sua fame, a renderla insaziabile. Ricordava la madre di tantissimo tempo prima, con la giacca a tre quarti di tweed color salmone, la spilla sul bavero, l’odore di cipria, il rossetto che, messo frettolosamente, era sempre un po’ sbavato sul labbro superiore o su quello inferiore e sembrava una specie di voglia. Ricordava che avevano lo stesso neo sul dorso della mano sinistra, un neo che non cambiava né d’estate né d’inverno e stringendo il pugno si schiariva. Ma erano ricordi legati a una persona che voleva eliminare. Il panettiere si stufò, voleva piú di qualche bacetto, le diede il benservito. Poi non ci fu nessuno, soltanto un lungo periodo a recitare novene e lavorare in biblioteca, e intanto arrivavano le lettere della madre, dicevano le solite cose, che la vita era dura, il tempo inclemente, che quel giorno o quello dopo le avrebbe mandato una torta, non appena ci fossero state abbastanza uova per prepararla. I pacchi arrivavano ogni quindici giorni, avvolti in strati di fogli di giornale con uno strato esterno piú robusto di carta da pacchi, il tutto tenuto insieme da un odioso assortimento di spaghi: spago da rilegatura, spago bianchissimo e le strisce di plastica colorata che la madre aveva cominciato a usare per fare degli sgabelli; il tutto decorato da un grosso imbratto di ceralacca. Sempre un pacco raccomandato, sempre una torta, mezzo chilo di burro e un pollo che andava cotto subito perché dopo quattro giorni di viaggio era quasi imputridito. Non era difficile immaginare il tavolo della cucina, il secchio pieno di piume, la mano col neo che staccava le piccole penne non ancora formate, l’altra che affondava dentro tirando fuori tutte le porcherie, timorosa, assicurandosi di non rompere una certa piccola sacca perché il fluido color tabacco rischiava di rovinare il sapore del pollo. Che schifo. Sempre le stesse allusioni in ogni lettera, lo stesso piagnisteo…
«Chissà cos’ha in serbo per noi la vita. Tuo padre avrà pure i suoi difetti, ma in fondo è un buono. Mi dispiace quando penso a tutte le cosette che prima riuscivo a fare per te». Li odiava, quei pacchi, anche se le tornavano molto utili.
Si sposò. Si sposò in fretta e furia. La madre definí da subito suo marito un tipo molto strano. Lavorava a un’enciclopedia e su certi argomenti era una miniera di notizie. La sua specialità era la vegetazione negli stagni. Facevano vita ritirata. Lei imparò a sbrigare le faccende domestiche, a imbottigliare e conservare, ad assecondare, a essere moglie, a svestirsi con ordine la sera, a piegare i vestiti e appoggiarli su una poltroncina di bambú, assicurandosi di mettere pudicamente il corsetto e la biancheria sotto il vestito o la gonna. Sembrava di essere tornati a scuola. La madre non si faceva mai vedere, non andava d’accordo col marito censore. Madre e figlia s’incontravano in una cittadina a metà strada fra le loro case di campagna e andavano nel salone di qualche albergo a prendere un tè e a parlare delle cose di cui si può parlare facilmente: ricette, lavori a maglia, sua sorella, mobili che prevedevano di comprare. La madre stava invecchiando, si era un po’ incurvata e sollevava le mani per far vedere i reumatismi alle giunture. Poi una volta, di punto in bianco, quasi che se ne fosse appena ricordata, parlò delle cataratte, disse di essere stata da uno specialista che le aveva chiesto se ci fosse qualche episodio particolare che voleva riferirgli e lei gli aveva dovuto raccontare che una mattina le era andata via la vista per cinque o sei minuti ma poi era tornata. Lui le aveva detto che era stata molto fortunata perché certe volte non torna piú. Sí, aveva detto la madre, le ombre della vita calavano su di lei. La figlia sapeva che il suo matrimonio non sarebbe durato ma non osava dirlo. Oramai mangiavano ognuno per conto proprio e il marito non le rivolgeva la parola per settimane, eppure lei lo difendeva, parlò della cassettiera di pino che aveva fatto e la madre si rammaricò di non avere mai avuto un uomo capace di fare certe cose per lei. Disse che un temporale aveva rotto una finestra e dopo tanto c’era ancora un pezzo di cartone. Disse che aveva visto due poltrone, due poltrone con la fodera damascata, e ci aveva lasciato il cuore. La figlia avrebbe tanto voluto regalargliele e pensò che poteva rubare i soldi al marito mentre dormiva, rubare i soldi da dare come caparra, cioè, e pagare il resto a rate. Ma non dicevano nessuna delle cose che avrebbero dovuto dire.
– Non hai piú comprato vestiti nuovi, – disse la madre, riaffermando la propria speciale antipatia per un cappotto di montone.
– Non ne voglio, – disse la figlia per tutta risposta.
– Non ti sei mai fatta valere, – disse la madre, e in quelle parole era insita la disapprovazione per un uomo che permetteva alla moglie di essere trasandata. Forse pensava che il matrimonio della figlia dovesse rimediare al suo.
Quando il matrimonio naufragò per davvero, la figlia scrisse che era tutto finito e la madre rispose a stretto giro di posta pretendendo due promesse non da poco: la figlia doveva riscriverle e giurare nero su bianco che non avrebbe toccato una goccia d’alcol finché viveva e che non avrebbe mai piú avuto a che fare con un uomo né nel corpo né nello spirito. Ordini dall’alto. All’epoca la figlia girava per strada intontita e fermava gli estranei per raccontare le sue disavventure. Un giorno ai giardinetti incontrò un tipo molto comprensivo, una specie di barbone. Gli raccontò la sua storia e lui di punto in bianco le raccontò un sogno terribile. Si era svegliato che nuotava nell’acqua e l’acqua continuava a cambiare colore, era blu, rossa, verde, e quei cambiamenti di colore lo terrorizzavano. Lei capí che gli mancava qualche rotella e s’inventò una scusa per andarsene. Col tempo vendette la bicicletta e impegnò un braccialetto, un orologio e una catenina d’oro. Scappò in Inghilterra. Voleva andare in un posto dove non conosceva nessuno. Cercava di ricominciare daccapo, di cancellare la vita precedente. I ricordi l’assalivano lasciandola tramortita: una bacinella con il pannolino mestruale di sua madre a bagno e la sua idea sacrilega che se gli avesse dato fuoco sarebbe sembrato il cuore di Cristo, perché lo stoppino conico della lampada votiva era bruciato troppo in fretta riducendosi a un beccuccio nero; le rose, le cinque assurde rose invernali in fiore quand’erano scoppiati i tubi; i topi che uscivano dalle scarpe, poi direttamente dalla scarpiera e camminavano sul pavimento dove avevano steso i fogli di giornale per proteggerlo dal fango e dal letame delle pedate maschili; la scatolina di belletto che chiedeva quasi di essere leccata, tanto era asciutta e rosa; la stufa nera con un metodo tutto suo di rivelare la temperatura: ci sputavi sopra e controllavi se la saliva cominciava subito a sfrigolare e a trepidare; i pancake il martedí grasso (se non scoppiava una lite); le fette di pancetta appese ad affumicare; i barattoli di marmellata dimenticati che avevano immancabilmente un po’ di marmellata ammuffita sul fondo; e sempre, come uno spirito che vigila su tutto, la figura della madre, responsabile di ognuno di quegli aspetti e, sempre, la minaccia incombente che la madre potesse essere picchiata con il bordo di un secchio o con un martello o con qualche arma improvvisata; picchiata dal padre mezzo pazzo. Bastava che la madre avesse una banalissima scheggia di legno sotto un’unghia perché la figlia sentisse che sollevavano la sua, di unghia, sentisse dolere la carne viva, o sentisse la saliva della madre, la assaporasse come una pietanza. Questi i pensieri che si impossessavano di lei nella biblioteca dove lavorava giorno dopo giorno, a schedare, catalogare e distribuire libri. Erano piú che pensieri, erano la presenza di quella donna che decise di uccidere. Sí, sarebbe stata costretta a uccidere. Sarebbe stata costretta a prendere le armi e a commettere un omicidio. Pensò di strozzarla o di annegarla. Il metodo comunque non poteva prescindere dal soffocamento, e si vide prendere dei grossi cuscini soffocanti o un cuscino a rullo, nel segreto della Stanza Blu, dove tutto era cominciato. Sua madre si trasformava nei tubi rossi scoppiati, negli strofinacci marrone, nelle paludi nero-marrone di acqua insanguinata. Sua madre si trasformava in una prostituta e si pavoneggiava. Sua madre si abbassava le mutande in pubblico, si accovacciava per fare cose orribili, lasciava piccole pipí, piccole come quelle di un cucciolo di cane, sua madre vagava in fondo a un pozzo dentro un grande secchio e gridava aiuto, ma nessuno l’avrebbe aiutata. Poi, ecco il sogno piú strano. Sua madre era sul letto di morte, subito dopo averla partorita – la testolina tonsurata spuntava sopra le lenzuola – e aveva uno sfogo sul collo, e cercava di catturare un piccolo insetto, cercava di stringerlo fra i palmi delle mani, e diceva che alla fin fine «questo c’è, e nient’altro: tu e il piccolo insetto che cerchi di uccidere». La parola «uccidere» era dappertutto, sui manifesti, nell’aria serale, sulla punta dei suoi pensieri. Ma la vita continua. Comprò un completo giallo di lana pettinata e scrisse a casa dicendo: «Mi vesto meno di nero, si vede che mi sta tornando il buonumore». La madre scrisse: «Ormai ho un solo desiderio, che ci seppelliscano insieme». Piú cercava di uccidere, piú le avance si facevano appiccicose. La madre stava tirando fuori tutti i vecchi souvenir, gli scapolari marrone tratti in salvo da quella penosa notte di dicembre, una brocca con sopra le loro iniziali simili, una tovaglia che la figlia le aveva mandato con i primi guadagni quando era diventata bibliotecaria. Le lettere della madre cominciavano a mostrare segni di incoerenza. S’interrompevano a metà frase; una, scritta sulla carta assorbente, era quasi indecifrabile; contenevano brandelli di notizie del tipo: «Tal dei tali è morto, al funerale c’era il pienone», «Ci vorrebbe un braccialetto di rame per i reumatismi», «Sai, la vita si fa sempre piú solitaria».
Le vacanze estive le mettevano il terrore, ma ci andò lo stesso. Oche e paperi si inseguivano lungo l’argine del fiume, le mucche la guardavano a bocca aperta come se nel loro podere si fosse intrufolata un’estranea. Gli unici che evitò furono i cavalli, sempre con i nervi a fior di pelle, come pronti a imbizzarrirsi. Quanto ai campi, erano incantevoli come al solito, campi tappezzati d’erba e di olmaria, campi adorni di lustrini d’oro quando gli intermittenti strali di sole baciavano i ranuncoli. Peccato non poterli raccogliere e portare via con sé. Si sedettero in casa. Un cane aveva un taglio profondo in una zampa forse provocato da una volpe, forse una notte il cane e la volpe si erano azzuffati. Perciò gli era concesso stare in casa. La madre e il cane parlavano, anche se non si dicevano una parola. Il padre faceva domande profonde, per esempio se avrebbe piovuto o se era l’ora del tè. Per ingannare il tempo parlarono di tutti i cani che avevano avuto. La madre ricordava soprattutto Monkey e disse che quello era stato proprio strano, che ti leggeva nel pensiero. Il padre e la figlia risalirono ancora piú indietro, fino a Shep, il grosso collie che faceva la guardia alla carrozzina della bambina e allontanava i cavalli purosangue dal vialetto d’accesso, a rischio della propria vita. Poi c’erano stati i tanti cani in coppia, tutti a litigare e accapigliarsi per una vita, ma tutti morti a una settimana l’uno dall’altro, il cane sopravvissuto morto di dolore per la scomparsa del compagno. Per quanto la evitassero, la morte si insinuava nei loro discorsi. La madre disse in tono poco convincente quanto erano stati fortunati a non aver avuto malattie invalidanti, che non fossero mai mancati la salute e il pane sulla tavola. Le tende dietro la sua poltrona erano in un velluto di cotone rosso caldo che dava luce al viso. Una luce che ricordava la sua bellezza perduta.
Lei decise di festeggiare. Lo doveva a sua madre. Si sarebbero viste altrove, lontano da quella casa, dai suoi scheletri e dalla sua subdola capacità di tirare le corde del cuore. La programmò con un anno di anticipo, una vacanza in un albergo situato in una bellissima zona boschiva affacciata sull’oceano Atlantico. Le prime ore trascorsero felici e quasi gioiose a guardare le stanze, il panorama, le varie tappezzerie, a scoprire dove si trovavano le cose, a guardare la sala giochi e poi le vetrinette dov’erano esposti i cristalli e i souvenir di marmo in vendita. La madre disse che era tutto «veleno, cara». Fecero una passeggiata in riva al mare commentando le diverse strisce di colore sull’acqua, perfettamente definite, ogni colore reclamava la sua porzione di mare, proprio come l’avena o l’erba di un campo arato. Le trecce marrone di alghe schiaffeggiavano e schermavano gli scogli, i trampolieri lanciavano urla solitarie e le montagne che incombevano in lontananza sembravano racchiudere in sé lo spettro dei continenti, tanto erano vaste, tanto erano antiche. Cenarono presto. Dopo, un coro amatoriale improvvisò un piccolo concerto e la madre bisbigliò che i soldi non erano tutto; bastava guardare quelle facce indurite. Dentro di lei scattò qualcosa e, dimenticando che la sua era una missione di pace, pensò invece che quella madre era piena di livore, di un livore rabbioso per l’amore, per la felicità e per il suo destino di miseria nera. I golfini di angora, le scarpe décolleté, gli abiti fulvi e marrone, l’incarnato latteo, i capelli ramati, il leggero affanno, le mani consumate dalla fatica, i piedi infiammati erano soltanto orpelli, dietro si celava la persona reale, che pretendeva dalla vita la sua libbra di carne. Si sedettero su un divano. La madre sorseggiò un tè e lei un whiskey. Fecero cin cin. La figlia cercò di portare il discorso a prima che lei nascesse, o a prima che nascessero gli altri figli, ai balli, alle corse dei cavalli che si tenevano ogni anno e al corteggiamento che aveva preceduto il matrimonio. La madre rifiutò di parlare, s’impuntò, non aveva storie da raccontare, disse, e anche se le avesse avute non le avrebbe raccontate. Disse che odiava rivangare il passato. La figlia glielo tirò fuori con le pinze. La madre disse che effettivamente da giovane era sfrontata e cocciuta e faceva sogni stravaganti, ma aveva imparato presto a stare coi piedi per terra. Poi scoppiò a ridere e disse che una volta si era arrampicata in chiesa con la scala e si era infilata nel confessionale per essere la prima a farsi confessare dal prete missionario. Il prete per poco ci restava secco, non capiva come fosse riuscita a entrare con la porta sprangata, e per riprendersi si era seduto nel confessionale dove lei gli aveva riversato addosso tutti i suoi peccati. Quali peccati?
La madre disse: – Oh, me lo sono dimenticato, amore. Ormai mi dimentico tutto.
La figlia disse: – Non è vero.
Si diedero la buonanotte e stabilirono di vedersi la mattina dopo in sala da pranzo.
La madre non aveva dormito nemmeno un po’, si lamentò che le pizzicavano gli occhi e il naso e temeva che le stesse venendo il raffreddore. Bevve il tè rumorosamente, lo tracannò. Passeggiarono in riva al mare, che adesso era grigio piombo, e le montagne non erano piú argomento di conversazione. Visitarono un monastero diroccato dove l’ortica, l’acetosella, il trifoglio e il romice tutto spigato crescevano alti disegnando un rettangolo. La solida pietra di cui erano fatti i muri si stava sgretolando. La madre disse che doveva essere stata una chiesa, o una corte di giustizia, un luogo sacro sopravvissuto ai secoli, e si inginocchiò. Per la figlia era un rudere e basta, sconsacrato, pieno di erbacce e brulicante di vespe e insetti. Fuori c’era un chiassoso nugolo di storni. Tirava aria di guai. Disse che c’era un buon odore, che doveva essere senz’altro qualche erba selvatica e si mise carponi per individuarla. Scrutando con gli occhi e le dita nell’erba bassa, s’imbatté in un nido di formiche che strisciavano su un pezzetto di terra minuscolo con un’energia e una tenacia sbalorditive. Rischiò di perdere il controllo.
Tornarono in tempo per il caffè. Addentando un biscotto glassato la madre disse che la vita d’albergo era demoralizzante. Il portiere portò il giornale. Due strani cuccioli leccarono i piedi alla madre e il portiere disse che se nessuno fosse andato a reclamarli entro il tramonto, toccava annegarli. La madre disse che era un peccato e ricordò i suoi due cuccioli che di giorno non mangiavano i panni stesi ad asciugare ma appena calava la sera ci davano subito dentro.
– Quelli sí che bisognava ammazzarli, solo che io non ci sarei mai riuscita, – disse in tono poco convincente. Parlava di cuccioli che risalivano a dieci o quindici anni prima.
Il portiere chiese alla madre se si stava divertendo e lei disse: – Le rispondo con un detto che si adatta alla perfezione: vedi Napoli e poi muori.
La figlia sapeva che la madre sarebbe voluta tornare subito a casa, ma avevano prenotato per quattro giorni e interrompere la vacanza sarebbe stato come riconoscere la sconfitta. Chiese al portiere di organizzare una gita in barca all’isola abitata dagli uccelli marini, poi un giro in macchina ai laghi di Killarney e un altro per visitare la casa del liberatore Daniel O’Connell, l’uomo che aveva chiesto, una volta morto, di far mandare il suo cuore a Roma, alla Santa Sede. Senz’altro, disse il portiere, e fece un sacco di storie accettando la mancia che lei gli diede. Fu lui a raccontare dov’era conservato il cuore di Daniel O’Connell e la madre disse che non aveva mai sentito una storia di devozione cosí straziante. Poi disse che in effetti quella vacanza era un sollievo, solo che arrivava troppo tardi, e lei non era abituata a farsi viziare. La figlia non gradí. Per cambiare discorso tirò fuori una cartolina che usava come segnalibro. Era la fotografia di un torso martoriato e disse al portiere che era un’immagine perfetta di come si sentiva lei, del suo stato d’animo. Dopo, la madre le disse che non avrebbe dovuto dire una cosa cosí, non aveva un po’ esagerato? Poi scrisse una lettera di sei pagine alla sua amica Molly e la figlia giocò d’astuzia per farsi mandare a imbucarla, cosí l’avrebbe letta alla ricerca di qualche delucidazione sul baratro che si era spalancato fra di loro. Guarda caso, però, non se la sentí di farlo perché la madre gliela diede aperta, come se le avesse letto nel pensiero, e la figlia si morse il labbro inferiore e disse: – Come sta Molly?
La madre si sdilinquí e disse: – Poveretta, cieca come una talpa, – ma aggiunse che la gente era buona e sapeva come comportarsi quando la vedeva con il bastone bianco. La lettera gliel’avrebbe letta una figlia sposata e obesa che soffriva di nervi. A lei tornò in mente un diario firmato dalle amiche della madre, le pagine dai colori zuccherosi come le rime e le poesiole che conteneva. Alla madre tornarono in mente i gelati che aveva mangiato a Brooklyn tanto tempo prima. Ricordò che una volta aveva fatto un ricamo dichiarando a suon di punti che c’era una rosa nel cuore di New York. La figlia disse che i punti avevano un ruolo fondamentale nella vita e disse: – Un punto in tempo ne risparmia altri cento –. Ridacchiarono. Si stavano riavvicinando. La figlia chiese con discrezione il nome e il mestiere del precedente amore della madre, in pratica il rivale del padre. La madre non si sbottonò, disse soltanto che era affezionato a sua madre, era affezionato a sua sorella, era molto premuroso, punto e basta. Altro lungo silenzio. Poi la madre cambiò posizione, tossí, si confidò, disse che in effetti lei e l’uomo premuroso, temendo e in un certo senso intuendo che non sarebbero diventati marito e moglie, avevano stretto un patto solenne una domenica pomeriggio a Coney Island mentre mangiavano un gelato. Avevano giurato che si sarebbero cercati sul finire dei loro giorni. E lei, incredibile ma vero, dopo cinquantacinque anni gli aveva scritto! Il cuore della figlia prese la fuga e il sangue si mise a ballare alla notizia di quell’appuntamento segreto, di quella passione clandestina cosí duratura. Sentí che stava per essere detto qualcosa di cruciale. Finalmente potevano essere sincere, non c’era piú bisogno di sottrarsi allo sguardo dell’altra. Sua madre avrebbe confessato. Non avrebbe piú vissuto trincerata nella vergogna. Lei pensò all’uomo sposato che l’aspettava a Londra, quello che la portava a trascorrere weekend meravigliosi, e rabbrividí. La madre disse che la lettera era tornata al mittente; probabilmente l’aveva rimandata indietro la sorella, gelosa come sempre. La figlia la implorò di rivelarle il contenuto. La madre disse che era una lettera inoffensiva. La figlia la sollecitò. Cercò di riaccendere la scintilla, ma la madre ormai aveva deciso. La madre disse che l’amore fra i due sessi non esisteva, erano tutte sciocchezze. Confermò che esiste un solo tipo d’amore, quello di una madre per i figli. Fra loro si creò un momento che non era un momento di dolcezza o di rinnovata conferma, bensí un momento carico d’odio: l’una odiava e l’altra riceveva l’odio come fossero raggi, e poi la madre per glissare disse che il soffitto era davvero magnifico. La figlia digrignò i denti e decise che non sarebbero state seppellite nella stessa tomba e accese con veemenza una sigaretta, anche se avevano a malapena assaggiato la prima portata.
– Mi sembri un po’ troppo agitata, – disse la madre.
– Chissà da chi ho preso, – disse la figlia.
La madre accusò il colpo, si alzò per andarsene ma fu ostacolata da un cameriere che aveva in mano un grosso scaldavivande sul quale si andava spargendo un’indomita fiamma azzurro lucente. Si sedette come se l’avessero spinta e disse che quelle parole erano la quintessenza della crudeltà. La figlia si scusò. La madre disse di aver fatto tutto quello che aveva potuto e senza l’ausilio della cameriera, della macchina, del libretto degli assegni o di uno solo dei lussi della vita. I bocconcini prelibati della vita non erano piovuti sul suo cammino, aveva dovuto farsi le maglie da sola, lei, tagliarsi e cucirsi le gonne, essere la propria parrucchiera. La figlia disse per l’amor di Dio pensiamo a divertirci. La madre disse che a settantotto anni si ha tempo per pensare.
– Anche a trentotto, – disse la figlia.
Allora desiderò che la madre avesse avuto una vita piú felice e non avesse preteso cosí tanto da lei, e si sentí spremuta emotivamente. Le faceva una pena straziante quella donna che aveva maciullato i propri sogni e si era votata a una vita di sacrifici. Ma ce l’aveva anche con lei. Erano tutt’e due sconvolte dalle emozioni. Parlavano a sproposito e mangiavano in modo distratto; sembrava che perfino il cibo si facesse beffe di loro. La madre avrebbe voluto che uno di quei camerieri vestiti di bianco avesse la delicatezza di portarle via il piatto della cena e di sostituirlo con una bella tazza di tè caldo o, meglio ancora, avrebbe voluto essere a casa sua, davanti al suo camino, e avrebbe anche voluto che la figlia non fosse mai diventata la sgualdrina crudele e insensibile che era.
– Cos’altro avrei potuto fare? – disse la madre.
– Tanto, – disse la figlia, e si morse subito la lingua.
La madre si congedò.
– Non mi dispiacerà morire, – disse.
Su in camera chiuse a chiave e sprangò la porta, si raggomitolò sul letto, stretta come un feto, con un malloppo di fazzolettini davanti alla bocca. La figlia adulta che aveva lasciato al piano di sotto intanto ricordava una donna che aveva amato senza riserve, poi aveva smesso di amare, e che aveva reciso da sé nel bel mezzo di una grande sala da pranzo davanti a un piatto di stufato di agnello alla menta mezzo crudo.
La morte a suo modo arriva a sorpresa come una nascita. Sappiamo che moriremo, proprio come la madre sa che deve tenersi pronta a partorire in un certo periodo, eppure dentro di lei sbotta un’esclamazione violenta al primo accenno di doglie e, quando si rompono le acque, è già sotto shock. E infatti andò cosí. La riconciliazione che la figlia si era augurata, e che intendeva cercare, non ci fu mai. Era all’estero per una conferenza quando sua madre morí e lei mentre rincasava ricevette la telefonata con la notizia che sua madre era morta. Il messaggio, per quanto chiaro alle orecchie, le risultò incredibile. Com’era morta sua madre e perché? In ospedale, a Dublino, di infarto. Sua madre era andata a Dublino a fare spese e per strada l’aveva colta un malore. Chissà che spavento si era presa. La figlia andò dritto in aeroporto, sperando di trovare un posto su un volo notturno.
La sorella non l’avrebbe raggiunta, adesso viveva in Australia, viveva in una grande fattoria spersa in mezzo al nulla. Le sue lettere sollecitavano sempre notizie, pettegolezzi, libri, riviste. Si era ammorbidita con gli anni, era ingrassata, non era piú bella come un narciso. Per lei era come vedere le pagine della vita scivolare via e non chinarsi a raccoglierle. Era il ruscello della vita a portarle via. Eppure qualcosa scalpitava. L’ultimo aereo era partito ma lei decise di restare lí seduta fino all’alba e si disse che sarebbe stato come partecipare alla veglia funebre per sua madre. La luce al neon prosciugava il colore da tutte le altre facce in attesa e, anche se non riusciva a piangere, avrebbe tanto voluto dire a qualcuno che le era successa una cosa incommensurabile. Gli altri sembravano stanchi e inerti quanto lei. Caffè, pane, whiskey, avevano tutti lo stesso sapore, non sapevano di nulla, o al piú di carta assorbente. Non c’era un uomo nella sua vita in quel momento, nessuno a cui telefonare per comunicargli la notizia. E, anche se ci fosse stato, era convinta che gli amanti non conoscono mai l’intera storia l’uno dell’altro, conoscono solo i frammenti in cui s’imbattono, non conoscono mai l’iceberg dei precedenti dolori, e perciò sono sempre estranei, o semi-estranei, anche nelle pieghe dell’amore. Non riusciva a piangere. Si chiese se il cuore non le fosse diventato di piombo. Eppure temeva di mettersi d’impulso a singhiozzare e di essere portata via da un dipendente.
All’arrivo in ospedale il giorno dopo scoprí che la salma non c’era piú, stava viaggiando nel centro dell’Irlanda. Nell’Irlanda di Joyce, come la chiamava sempre lei, e pensò alla grande pianura centrale esposta agli elementi, alla pioggia scrosciante, alla neve vagante, ai venti che screpolavano la faccia di contadini e mercanti di bestiame e facevano venire la laringite difterica ai vitellini. Lei oltrepassò cittadine grandi e piccole, recitò a memoria brani di litanie e si augurò che nessuno la giudicasse irrispettosa perché l’auto che aveva noleggiato era di un bel rosso ketchup. Quando arrivò nella sua parte di mondo la vista delle montagne la commosse, come sempre: solenni, bellissime, immutabili se non per le diverse sfumature di colore. Solide e imperiture. Cercò di parlare con sua madre ma trovò le parole artificiose. All’aeroporto aveva comprato un panino e ora strappò il cellophane con i denti e gli diede un morso. Si prospettavano due giorni orribili. Ci sarebbe stato il dolore folle del padre, ci sarebbe stato il dolore della zia, ci sarebbero stati cugini e amici, gente di passaggio e operai; ci sarebbe stata una tomba spalancata e per raggiungerla avrebbero camminato su altre tombe, sotto i biancospini, calpestando le ortiche lungo il tragitto. Conosceva il cimitero benissimo, fin da piccola. Conosceva le tombe, le lapidi, le cripte nascoste. Ci andava a giocare da sola, sfidando e rifuggendo i fantasmi. L’interno della tomba era sempre di un marrone ricco e meditabondo, ed era probabile che il becchino l’avrebbe ornato con un traliccio di edera o con le foglie di convolvolo.
In quel preciso istante scoprí di essersi appena accodata a un corteo funebre, anche se non riusciva a credere che fosse proprio quello di sua madre. Una coincidenza troppo grande. Guidavano veloci, senza rispetto per la salma. Si mise al passo. La luce si affievoliva, i cespugli erano una macchia sfocata, l’aria nero pipistrello; gli uccelli si erano placati e le montagne erano mastodonti scuri. Se dalla via principale il corteo di auto avesse svoltato a destra verso la cittadina sul lago, allora era senz’altro quello della madre. Svoltò. Fu il pensiero di essersi accodata per sbaglio che la fece piangere. Pianse con un tale piacere, pianse come una bambina che ha fatto una cosa bella e viene lodata per questo, anche se non riesce a reggere il peso dell’emozione. Pianse per tutto il tragitto fino alla cittadina sul lago e singhiozzò mentre attraversavano il vecchio ponte diretti alla bella strada di campagna buia e frondosa che conduceva a casa. Pianse come un uccello che ritrova il nido. Perciò pensarono che fosse una figlia distrutta dal dolore quella che passò davanti alla fila dei convenuti fuori dal cancello della chiesa e che strinse la mano o sfiorò il braccio a chi le andava incontro per salutarla. Un amico le aveva fatto trovare un mazzo di fiori al banco dove aveva noleggiato l’auto e adesso lei li portava come se li avesse scelti appositamente. Pensò: «Pensano che sia dolore, ma non è il dolore che pensano loro. È vuoto, piú che dolore. È il dolore di non poter mai piú essere sincera. Non è un dolore falso ma non cede, è sangue da una pietra».
Dentro la chiesa trovò il padre che urlava e, nelle prime file vicino all’altare, i parenti e gli amici piú stretti, maschi e femmine, che singhiozzavano sulla bara o, avendo già singhiozzato, si asciugavano gli occhi. Stringendo la mano a ciascuno di loro si sentí ripetere sempre le stesse condoglianze: – Mi dispiace per la disgrazia, mi dispiace per la disgrazia, mi dispiace per la disgrazia.
Quella sera si riunirono a casa del padre a bere, mangiare e ricordare. Un albero poco distante aveva perso un ramo enorme, come se fosse a lutto. Gli spunzoni sembravano una mano bloccata a mezz’aria. La casa puzzava già d’incuria. Lei continuava a vedere la sagoma della madre entrare dalla porta con un grande vassoio carico di ogni ben di Dio. Il becchino la chiamò in disparte. Disse che siccome non aveva visto la salma l’avrebbe accompagnata in chiesa e avrebbe scardinato il coperchio. Lei rabbrividí alla sola idea, però ci andò, perché rifiutare avrebbe portato sfortuna. La chiesa era fredda, il legno scricchiolava, e di sera anche i fiori sembravano trapassati, come fiori fantasma. Lui sollevando il coperchio le chiese di allontanarsi e lei pensò: «È successo un disastro, la pelle è diventata nera oppure un dito si muove o, peggio ancora, non è morta, ha fatto soltanto una capatina all’altro mondo». Poi il becchino la chiamò e lei si avvicinò solennemente e le sfuggí quasi un urlo. La bocca stava cercando di parlare. Ne era sicura. Una palpebra non era del tutto chiusa. Non era finita. Baciò il viso e provò una pena terribile. – Oh, anima, – disse, – dove sei, nel tuo peregrinare, – e: – Oh, anima, sei immortale?
Tutt’a un tratto le dispiacque per il destino della madre e perché, un giorno, sarebbe toccato anche a lei. Aveva una gran voglia di stringere il suo viso e dirgli parole consolatorie, ma non ci riusciva. Pensò a quella vacanza finita cosí male, all’amore che all’inizio aveva cosí vigliaccamente e cosí smodatamente dato e all’amore che si era cosí spietatamente e cosí platealmente ripresa. Pensò: «Perché ho dovuto tirarmi indietro, perché la gente deve tirarsi indietro, perché?»
Dopo il funerale girò per tutta la casa dando una ripulita e rovistando, come in cerca di un segreto. Nella Stanza Blu l’umidità si era infiltrata nei muri e le piccole lappole di muffa pendevano come la veletta di un cappello. Nei cassetti trovò frammenti della vita di sua madre. Emblemi. Desideri. Sogni contenuti in cose come una stravagante rosa di mussolina di un rosso scurissimo e molto pregno. Bottigliette di profumo, scarpe da ballo, scatole di fazzoletti e la lettera rispedita al mittente. Era indirizzata all’uomo che si chiamava Vincent, l’uomo che la madre intendeva sposare ma che poi aveva lasciato quando era andata via da New York per tornare in Irlanda, per tornare al suo destino. Era una lettera piuttosto pragmatica, accennava alle dimensioni della fattoria e a quello che coltivavano, chiedeva di amici comuni, di come gli andavano le cose, eccetera, eccetera. A quanto sembrava era impiegato in una fabbrica dove lavoravano la carne. Ma ecco un unico, piccolo spiraglio… «Ti penso, non puoi sapere quanto». Con un gesto istintivo accartocciò la lettera come se fosse stata sua. Sulla busta c’era scritto: «Rispedire al mittente». Sembravano parole sfrontate, come se fosse stato lui a scriverle. C’erano tanti di quei cappelli, con fiori e velette, tutti dai colori chiari, cappelli da gite estive, da climi non piovosi. Ah, i garden party che doveva essersi immaginata. Non avendo mai avuto i soldi per le cose davvero eleganti, sua madre aveva investito nelle cose finte: una borsetta di finto coccodrillo e un bolerino di finta pelliccia. Era leggero, sembrava fatto di capelli.
C’erano, anche, corsetti di pizzo rosa, mutandoni lunghi e tre cardigan mai indossati.
Chissà perché mise la mano sulla mensola del camino nel punto dove nascondevano gli scellini quando lei era piccola. Lí, avvolta dalle ragnatele, c’era una busta indirizzata a lei con la calligrafia di sua madre. Le vennero i brividi e pregò che non brulicasse di accuse. Dentro c’erano alcuni ninnoli, una sterlina d’oro e un po’ di soldi. Le banconote erano sporche, accartocciate e piegate tante volte. Da quanto tempo era lí quella busta? Com’era riuscita sua madre a risparmiare? Non c’erano lettere, ma lei escogitò mentalmente le paroline dolci che la madre avrebbe potuto scriverle, parole come: «Comprati una giacca», oppure: «Passa una serata fuori», oppure: «Non spenderli per le messe». Voleva qualcosa, un comunicato. Ma non c’era.
Era sorto un nuovo muro, piú forte e solido di prima. La loro vita insieme e tutti quegli scambi erano come tanti sentimenti sprecati, e lei cercò di vedere un segno o di sentire un sussurro. Invece, un silenzio inondò la stanza, e al di là c’era un silenzio ancora piú grande, come se anche la casa fosse morta o l’avessero messa premurosamente a dormire.