Suor Imelda
Suor Imelda non fece lezione il primo giorno del suo ritorno in convento però la intravedemmo in giardino dopo il rosario della sera. L’entusiasmo e la curiosità ci spingevano a seguirla per cercare di vedere com’era, ma lei ce lo impediva camminando con la testa china e gli occhi bassi. Di sicuro sapevamo soltanto che era alta e agile e che camminando pregava. Non era tipo da osservare la natura né da incuriosirsi alle settanta collegiali in giacca di gabardine con le scarpe e le calze nere. Potevamo benissimo essere corvi, tanto era impermeabile ai nostri sguardi insistenti e ai tentativi falliti di rivolgerle un saluto.
Eravamo appena rientrate dalle lunghe vacanze estive e avevamo tutte il morale sotto i piedi. Di nuovo cinte dall’alto muro di pietra e dal cancello di ferro verde del convento, pareva piú che mai di essere in prigione perché dopo un periodo nel mondo esterno ci sentivamo tutte molto piú adulte e sofisticate, e io e la mia amica Baba sognavamo la fuga definitiva, dalla quale ci separava un anno. Perciò, in quell’umida sera d’autunno, vedendo i crisantemi e vedendo la nuova suora intenta a pregare provai pena e pensai a quanto doveva essere sola, lontana dagli amici e a dialogare soltanto con Dio, suo intangibile sposo.
Il giorno dopo venne nella nostra classe a fare geometria. L’ovale pallido e un po’ allungato mi appariva temibile mentre gli occhi, nero-blu e vivacissimi, erano diversi. Le labbra molto viola sembravano ripassate con una matita rosso scuro. Avrebbero potuto essere la labbra di una cantante di cabaret, e aveva inconsapevolmente preso l’abitudine di tirarle all’indentro come se sapesse anche lei quant’erano provocanti. Aveva trascorso gli ultimi quattro anni – gli stessi che io e Baba avevamo trascorso in convento – all’università di Dublino a studiare Lingue. Non capivamo come avesse resistito alle tentazioni del frenetico mondo tornando a questo di sua spontanea volontà. Il periodo passato fuori la rendeva diversa dalle altre suore, aveva piú slancio nella camminata, piú entusiasmo nell’affrontare l’insegnamento, e per ricordarci che era la cosa piú importante del mondo usava l’espressione: «Laudato sii, mondo incarnato». Cominciava ogni lezione leggendo un passo del cardinale Newman, uno dei suoi beniamini. Leggeva che Dio dimorava inaccostabile nella luce, che con Lui non c’era cambiamento né ombra di modifiche. Era incredibile come mutasse aspetto. Certi giorni le brillavano gli occhi e sembrava quasi profana, spingendomi a chiedermi cosa fosse successo entro i confini del convento per darle tutt’a un tratto tanto entusiasmo. Sembrava una ragazza che va a ballare, a parte l’abito.
– Non ha degli occhi magnifici? – dissi a Baba. Quel giorno in particolare assomigliavano a due more, grandi, morbidi e lucenti.
– Ha qualcosa che non va nella zona alta, – disse Baba e aggiunse che con un po’ di trucco Imelda sarebbe stata uno schianto.
– Però ha la vocazione! – dissi, ventilando la stupida idea che potessi averla anch’io. In certi momenti sembrava allettante farsi suora, condurre un’esistenza incontaminata dal peccato, non dover mai avere figli e portare un anello che ti eleggeva a Sposa di Cristo. Ma c’era l’altra faccia della medaglia, il silenzio, l’austerità, le levatacce due o tre volte ogni notte per pregare e soprattutto l’impossibilità di uscire dai confini del convento se non per il funerale di un genitore. Per noi collegiali era una tortura ma per le suore era, se vogliamo, una condanna. E poi noi potevamo scambiarci lamentele, e non ce le risparmiavamo, infierendo in particolare sul cibo. Il pranzo prevedeva pancetta e cavoli o una carne filacciosissima seguita da un budino di tapioca; all’ora del tè ci davano un po’ di pane con un velo di lardo e, quando andava bene, una marmellata di rabarbaro verdognola non zuccherata a dovere. Dalle lunghe finestre prive di tende vedevamo le conifere e un cielo che di rado non prometteva piogge o temporali.
Perciò, disse Baba, non doveva avere tutte le rotelle a posto se dopo quattro anni di università era tornata spontaneamente alla prigionia, alla povertà, alla castità e all’ubbidienza. Inventavamo scene strazianti in qualche ostello di Dublino dove un ragazzo, o un giovanotto, tirava pezzi di argilla, fischiava o la implorava sotto la sua finestra. Nella nostra versione il giovanotto aveva qualche anno piú di lei e con ogni probabilità studiava Medicina perché gli studenti di Medicina, sempre alle prese con diagrammi e scheletri, erano fissati con le donne. I suoi assalti, come quelli di un’improvvisa tempesta, arrivavano a tratti e la soggiogavano, e il ricordo di quegli improvvisi assalti escorianti l’avrebbe perseguitata fino alla morte, e se mai le fosse venuta la febbre avrebbe svelato tutti i suoi segreti. Si vociferava anche che avesse un caratteraccio e che da postulante avesse picchiato cosí forte con la cintura di cuoio una ragazza da costringerla a letto per le ferite. Un altro neo sul nome di suor Imelda era che un’infermiera aveva denunciato suo fratello Ambrose per aver rotto la promessa di matrimonio.
La prima mattina in cui venne in classe e si presentò con modestia non immaginavo che si sarebbe infiltrata nella mia vita in modo cosí terribile, che col tempo sarebbe diventata una professoressa o una suora non come tante ma speciale, quasi un fantasma che oltrepassa i limiti del normale scambio e ti si insinua dentro, divorandoti buona parte dei pensieri, buona parte della passione, invadendo quel luogo chiamato cuore. Parlava a bassa voce, quasi non volesse che le sue parole varcassero il confine delle pareti, e sottolineava di continuo l’importanza del lavoro sia per ampliare la mente sia per disciplinare il pensiero. Una palpebra era rossa e gonfia come se avesse un orzaiolo. Immaginai che si mortificasse all’estremo non toccando cibo. Vedevo in lei un orribile presagio del sacrificio che avrei dovuto emulare. Poi ruppe gli schemi mettendosi distrattamente il gesso tra l’indice e il medio come se fosse una sigaretta e Baba mi bisbigliò che forse a Dublino era stata una fumatrice. Suor Imelda abbassò di colpo lo sguardo su di me e mi chiese quale fosse il segreto e perché non lo raccontavo a tutte, visto che faceva tanto ridere. Io dissi: – Nessuno, sorella, nessuno, – e da quei suoi occhi scuri sprizzava una tale veemenza che pregai di non darle mai occasione di punirmi.
Venne novembre e i muri piastrellati della sala per la ricreazione grondavano umidità e mestizia. Alle tante che avevano mal di gola veniva detto di approfittare di quel fastidio per mortificarsi e dare cosí un meraviglioso contributo alla comunione di spirito che lega i vivi ai morti. Era il mese delle anime sofferenti del purgatorio e mentre ascoltavamo la storia del loro duplice supplizio, della smania per Cristo e delle feroci fiamme guizzanti che bruciavano e carbonizzavano le loro povere membra, ci veniva chiesto di compiere atti di mortificazione. Alcune rinunciavano alla marmellata o alle caramelle e alcune rinunciavano a parlare, trasformandosi durante la ricreazione in pupazzi che per dire un semplice «Come stai?» dovevano fare segno col pollice e l’indice. Baba disse che i sani di mente erano chiusi nel manicomio a poco piú di un chilometro da lí. Li vedevamo in giardino, camminavano avanti e indietro con la bocca aperta e un rivolo di bava che sembrava un ghiacciolo. Fra le nostre numerose paure c’era anche che uno di quei matti scappasse e venisse dritto al convento ad aggredire qualcuna delle ragazze.
Eppure fra tante paure mi scoprivo sempre piú paurosamente felice. Mi era capitato di incontrare suor Imelda al di fuori della classe e sentivo che tra noi c’era un legame. Una volta la incontrai in giardino, dove fece un gesto inconsulto. Strappò un crisantemo e me l’offrí da annusare. Non aveva nessun profumo, giusto un vago sentore d’autunno, e lei, che era dello stesso avviso, disse che non era certo una gardenia. Un’altra volta ci incontrammo sotto il portico all’ingresso della cappella e vedendola stringersi ancora di piú lo scialle intorno al corpo sentii quanto era umana, e vittima del freddo.
In classe non ci intendevamo troppo bene. La geometria era la mia bestia nera, oltre che un mistero totale. Lei aveva tenuto sí e no quattro lezioni quando se ne rese conto e in un moto di rabbia mi scagliò addosso il cancellino. Certe mie compagne rimasero senza fiato quando mi chiese di alzarmi perché tutte potessero vedermi. Era diventata paonazza e un attimo dopo tirò fuori il fazzoletto tamponandosi l’occhio rosso e gonfio. Oltre a sentirmi un’idiota sentivo l’imminente pericolo di starnutire per l’odore del gesso che mi era caduto sul grembiule. Lei prese e scappò via dall’aula lasciandoci incustodite per dieci minuti, fino alla lezione successiva. Alcune dissero che era vergognoso, che dovevo scrivere a casa e dire che avevo subito un’aggressione. Altre si rallegrarono di poter schiamazzare per qualche minuto. Io avrei voluto soltanto correrle dietro e dirle che mi dispiaceva averla fatta arrabbiare cosí tanto perché intuivo alla lontana che simpatia e avversione c’entravano in ugual misura con ciò che era capitato. Dentro di me prese piede una specie di muta tenerezza per lei e forse mi resi conto di essere turbata.
– Potremmo costringerla a lasciare la tonaca, – disse Baba e con una gomitata mi intimò per carità di sedermi.
Quella sera alla benedizione mi aspettava una sorpresa sconvolgente. Era una serata particolarmente allegra, con il coro delle suore in forma smagliante e le file di candele come tanti piccoli gradini che conducevano al calice dorato ancora piú scintillante sotto i raggi della fiamma instabile. Mi si riempirono gli occhi di lacrime quando scoprii che qualcuno mi aveva messo nel libro delle preghiere una nuova immaginetta e non osando ancora girarla per vedere chi me l’avesse data pensai, cogliendo nel segno, che non era un’immaginetta qualunque regalata da una qualunque compagna, che era un talismano e un’offerta di pace da parte di suor Imelda. Era un’immaginetta di color azzurro chiaro, cosí chiaro da essere quasi grigio come il piumaggio di un piccione, e raffigurava una madre con lo sguardo abbassato sul figlioletto. Dietro, con la sua bella calligrafia curatissima, aveva scritto una poesia:
Fidati di Lui quando i dubbi oscuri ti assalgono,
fidati di Lui quando la fede affonda,
fidati di Lui quando già di Lui solo fidarti
sembra la cosa piú difficile del mondo.
Era la sua forma di espiazione. E pensare che aveva individuato in quale parte della cappella tenevo il mio libro delle preghiere, e pensare che si era messa tanto a nudo da scriverci dentro qualcosa dandomi modo di vantarmene e di mostrarlo alle compagne. Quando la ringraziai il giorno dopo fece un inchino ma non disse niente. Quasi tutte le suore avevano fatto voto di silenzio e avevano il permesso di parlare soltanto durante le lezioni.
Dopo poco ricevetti un altro regalo, un librino di preghiere in miniatura con la copertina di pelle e i bordi delle pagine dorati. Le preghiere erano in francese e i caratteri cosí piccoli che sembravano scritti da un insetto minuscolo. Mi feci subito la fama di essere la sua cocca. Le aprivo la porta, alzavo la lavagna di due pioli (era piú alta delle altre suore) e distribuivo i quaderni che aveva corretto. A margine dei miei teoremi di geometria, dove prima spiattellava un «Disastroso», ora trovavo «Buono» o «Ottimo». Baba disse che faceva schifo essere la cocca di una suora e che non c’era da fidarsi di chi leccava il culo a una suora.
Un mesetto dopo suor Imelda mi chiese di portarle i libri su per i quattro piani di scale che conducevano alla cucina. Teneva lezioni di cucina a una classe delle elementari. Vedendomela camminare davanti la trovai flessuosa e raffinata, e quando si fermò sul ballatoio a guardare dalla lunga finestra senza tende mi fermai anch’io. In strada due donne con gli stivali scamosciati chiacchieravano e fumavano risalendo la via con i cestini della spesa. Poco piú in là una suora laica sfregava a quattro zampe i gradini di granito impregnando l’aria fresca dell’odore di disinfettante non diluito. Sul ballatoio c’era una pianta e suor Imelda ficcò le dita dentro la terra e scosse la testa dicendo che ci voleva l’acqua. Dissi che l’avrei bagnata io piú tardi. Allora ero felice nella mia prigione, felice di starle vicino, di camminare dietro di lei mentre roteava il rosario e si inchinava alla suora servile. Non piangevo piú per mia madre, non contavo piú sul calendario tascabile i giorni che mi separavano dalle vacanze di Natale.
– Torna alle cinque, – mi disse arrivata sulla soglia della cucina. Le allieve, in grembiule bianco, l’aspettavano distribuite intorno al lungo tavolo di legno. Sembravano tutte innamorate di lei. Perché, quando entrò, i visi eruppero in un sorriso e, chi con piú audacia chi con meno, invocarono il suo nome. A lei la lezione di cucina doveva piacere perché s’illuminò e disse che qualcuna, chi voleva, doveva accendere un bel fuoco. Poi si avvicinò alla stufa di ferro battuto e ci sputò sopra per verificarne la temperatura. Era rovente perché lo sputo si sollevò con uno sfrigolio.
Tornando piú tardi la trovai che dondolava le gambe seduta sul bordo del tavolo. C’era un che di sfrontato in quella posa, un che di ribelle. Sembrava che da un momento all’altro dovesse tirare fuori un portasigarette e aprirlo di scatto per offrirmene maliziosamente una. L’odore squisito di cibo cotto al forno mi fece capire quanto avessi fame ma, ancora di piú, mi fece ripensare a casa mia, a mia madre che verificava la cottura delle torte all’arancia con un ferro da calza e poi mi faceva leccare la linea d’impasto semicotto su tutta la lunghezza del ferro. Mi chiesi se suor Imelda avesse soppiantato mia madre e mi augurai di no, perché intendevo abbandonare il mio mondo originario e prendere posto in un mondo nuovo e santificato.
– Scommetto che sei golosa, – disse, poi si alzò, attraversò la cucina e da sotto un meraviglioso coprivivande d’argento lustro sfilò due crostatine alla marmellata sormontate da un intreccio, un traliccio di impasto sopra la marmellata scura. Erano ancora tiepide.
– Che cosa ne faccio? – chiesi.
– Le mangi, testa di rapa, – disse, e mi guardò mangiarle come se ne ricavasse un piacere tutto particolare mentre io mi vergognavo di fare le briciole e di macchiarmi le labbra con la marmellata di more. Lei si divertiva. Era uno dei momenti piú imbarazzanti e allo stesso tempo piú elettrizzanti che avessi mai vissuto e nel piacere era insita una terribile sensazione di pericolo. Se ci avessero scoperte lei, di sicuro, avrebbe dovuto fare una penitenza spropositata. La guardavo pensando che era unica, che il suo era un coraggio da leoni e mi domandai se avesse fame. Portava un grembiule bianco sopra la tonaca nera e questo la rendeva piú calorosa, piú libera, facendomi pensare a quanto saremmo state felici e prive di ingerenze se ci fossimo trovate lontane dal convento, a fare cose semplici e normali in una qualsiasi cucina. Ma cosí non era. In quel momento capii chiaramente che la mia versione del piacere era inestricabile dal dolore e che le due cose esistevano fianco a fianco in un rapporto di interdipendenza simile a quello delle due forze nella corrente elettrica.
– Ha fatto amicizie all’università a Dublino? – ebbi la sfrontatezza di chiederle.
– La mia compagna di banco era una suora di Howth che abitava nel mio stesso ostello, – disse.
«Ma i maschi? – pensai. – E com’è la tua vita adesso, e non ti viene voglia di uscire nel mondo?» Ma non potevo dirlo.
Sapevamo qualcosa sulle abitudini delle suore. Si diceva che portassero biancheria di lana che pizzicava, che mangiassero pane secco a colazione, raramente la carne, i dolci o altre leccornie, che osservassero alcune ore di reciproco e rigoroso silenzio oltre a una costante vigilanza sui propri pensieri; perciò se la mente vagava verso l’argomento cibo o piacere, la riconducevano subito ai pensieri su Dio e sulla loro anima eterna. Dormivano in letti duri senza lenzuola né coperte soffici. Alle quattro del mattino, mentre noi dormivano, ogni suora si alzava dal letto, con l’abito religioso – che era anche l’abito funebre – e, cantando, sciamavano tutte giú per le scale di legno come tanti corvi e si buttavano sul pavimento piastrellato della cappella. Ogni suora, perfino la madre superiora, si buttava a terra in totale sottomissione, recitando preghiere in latino e offrendo quel momento a Dio. Poi tornavano in silenzio alle loro celle per un’altra ora di riposo. Non era difficile immaginare suor Imelda faccia a terra, le braccia spalancate, prostrata sulle piastrelle del pavimento. Sentivo spesso il loro canto quando mi svegliavo di soprassalto da un incubo perché noi dormivamo in un edificio diverso ma attiguo al loro, e se ti capitava di svegliarti sentivi quella monotona cantilena latina che precedeva di molto il canto degli uccelli, e precedeva di molto anche la campanella che ci intimava di alzarci alle sei.
– Le cose che mangia lei sono buone? – chiesi.
– Certo, – disse con un sorriso. Spesso erompeva in un sorriso entusiasta che si sforzava di nascondere.
– Hai mai pensato a che cosa vuoi fare da grande? – chiese.
Scossi la testa. I miei progetti cambiavano di giorno in giorno.
Lei consultò il suo orologio da taschino, maschile e argentato, staccò il gas e si preparò ad andarsene. Controllò che tutti gli armadietti fossero chiusi a chiave passandoci sopra la mano.
– Sorella, – dissi, prendendo il coraggio a due mani. Dovevamo avere un segreto, qualcosa che ci unisse. – Di che colore ha i capelli?
Non vedevamo mai i capelli delle suore, e nemmeno le sopracciglia o le orecchie, perché tutte quelle parti erano coperte da una rigida fascetta bianca.
– Non si chiedono certe cose, – disse arrossendo, poi si girò verso di me e bisbigliò: – Te lo dirò l’ultimo giorno che passerai qui, a condizione che migliori in geometria.
Se n’era appena andata quando Baba, nascosta dietro una colonna, fece capolino sulla soglia e disse: – Per carità, conservamene un pezzetto –. Finí la seconda crostatina poi si mise a frugare nei cassetti. Essendo tutto chiuso a chiave trovò solo un po’ di zucchero raffinato in una saliera di porcellana. Lo assaggiò e buttò il resto nel fuoco quasi spento, che si rianimò un istante sputacchiando una fiammata gialla. Baba rivelò la sua gelosia raccontando a tutta la scuola che ogni sera salivo nella cucina a ingozzarmi di torte con suor Imelda e a fare la spia.
Non ebbi altre occasioni di parlare con suor Imelda in privato fino alla sera della recita natalizia. Venne per dare una mano a truccarci e a indossare gli abiti di scena con tanto di estrosi copricapo. Da un anno all’altro gli abiti venivano riposti in un baule e, pur essendo sontuosi e impreziositi dall’oro e dalla passamaneria, puzzavano di naftalina. Noi però indossandoli ci sentivamo diverse, e con il viso impiastricciato di cerone diventavamo sfacciate e accentuavamo le nuove sembianze passando la matita scura intorno agli occhi e facendoci le labbra arancione sgargiante. C’era un solo rossetto e le ragazze se lo contendevano. Lo spettacolo della serata avrebbe alternato Shakespeare a scenette comiche. Io ero stata scelta per recitare il lamento di Marco Antonio sul corpo di Cesare e perciò dovevo indossare una toga viola, calzettoni bianchi al ginocchio e scarpe di pelle lucida con la fibbia. Le scarpe erano troppo grandi, sembrava che avessi gli zoccoli. Lei mi disse di togliermele, di andare scalza. Mi accorsi che stavo diventando nervosa e che nello sforzo di ricordare a memoria la parte le parole mi svolazzavano per la testa alla rinfusa, come le tessere scombinate di un puzzle. Lei capí che ero nel panico e mi poggiò lentissimamente la mano sul viso costringendomi a guardarla. Guardai quei suoi occhi che sembravano insondabili e vidi che mi stava imponendo di stare calma, costringendomi a dominare la paura, e non sapevo che un giorno avrebbe dovuto fare altrettanto per l’imperversare dei sentimenti che provavo per lei. Mentre continuavamo a fissarci cominciai a sentirmi piú calma e le parole tornarono a disporsi nel loro ordine naturale. Nella sala della ricreazione stavano abbassando le luci e capimmo che tutte le suore erano arrivate, si erano accomodate e aspettavano con ansia quel guazzabuglio annuale degno di una filodrammatica. Calò un silenzio spaventoso mentre la sala diventava buia e i pochi riflettori si accendevano. Lei baciò il suo crocifisso e mi accorsi che stava dicendo una preghiera per me. Poi sollevò le braccia come se imitasse la posa di una dea greca ed entrando in scena mi sentii infiammata dal suo ardore.
Baba aveva un bel dire che ragliavo come un somaro: suor Imelda, che era rimasta dietro le quinte, disse che per un attimo le era sembrato che le strade di Roma vedessero il cadavere di Cesare mentre recitavo quei versi cosí intensi e tumultuosi. Quando uscii di scena mi abbracciò sommergendomi con una pioggia di baci silenziosi. Dopo aver smontato le decorazioni e riposto quegli abiti eleganti nel baule, le regalai due scatole di cioccolatini – comprate per me sottobanco da una delle allieve esterne – e lei mi regalò un cofanetto fatto con l’interno delle scatole di fiammiferi, luccicante di vernice e cosparso di polvere d’oro. Sembrava di stringere una falena che ti lascia il pulviscolo sulle dita.
– Che cosa farà il giorno di Natale, suor Imelda? – dissi.
– Pregherò per te, – disse lei.
Inutile dire: «Mangerà il tacchino?» o «Mangerà il dolce natalizio?» o «Resterà a letto fino a tardi?», perché ero convinta che quello di Natale sarebbe stato un giorno squallido e gramo come tutti gli altri della sua vita. Eppure era raggiante come se quell’austerità le desse gioia. Forse si crogiolava in qualche segreta intuizione che riguardava me e lei.
Il gelido pomeriggio nevoso in cui rientrammo dalle vacanze tre settimane dopo suor Imelda salí al dormitorio a darmi il bentornato. Tutte le altre erano scese nella sala della ricreazione a ballare la quadriglia e si sentiva strimpellare il piano. Non avevo nessuna voglia di scendere a pestare i piedi con altre sessanta ragazze, volevo solo prendere il tè, recitare il rosario e andare a letto presto. I letti erano umidi dopo la nostra assenza e mettendo la mano fra le lenzuola sembrava di toccare la brina, priva però della freschezza che c’era all’aperto. Ad avvilirmi di piú era che avevo visto un topo in un armadietto, l’avevo visto arricciare la coda terrorizzato mentre scivolava dentro una crepa. Un topo era segno che ce n’erano Dio sa quanti altri e che i dolci che tenevamo nascosti non erano al sicuro. Stavo ancora disfacendo i bagagli quando la vidi percorrere lo stretto passaggio tra due file di letti di ferro, scorgendo una certa agitazione nella sua andatura.
– Ma no, ti sei arricciata i capelli, – disse risentita.
Ebbene sí, quella permanente dichiarava a gran voce l’esistenza del mondo esterno e per un attimo ricordai il bruciore delle gocce d’ammoniaca che mi colavano sulla fronte e poi la gioia quando la parrucchiera aveva detto che mi avrebbe fatto somigliare a Movita, una star messicana. Ora all’improvviso quel mondo e quelle aspirazioni sembravano poca cosa e avrei tanto voluto prendere una spazzola e lisciarmi i capelli tornando la bruna sgraziata e mesta di prima. Le offrii i biscotti glassati che aveva fatto mia madre ma lei rifiutò e disse che poteva trattenersi soltanto un attimo. Mi prestò un diario che aveva tenuto da studentessa dov’erano trascritte le sue citazioni preferite, alcune religiose, altre no. Lessi a caso:
Due o tre volte t’avevo già amato
senza di te sapere nome e volto
in voce, in fiamma informe spesso colto
cosí un angelo ci tocca.
– Si sente bene? – chiesi.
Era pallida. Forse dipendeva dalla giornata, grigia e bruttissima con una spruzzata di nevischio, o forse dal bianco dei copriletto: fatto sta che sembrava malata.
– Mi sei mancata, – disse.
– Anche lei, – dissi.
A casa, mentre mi ingozzavo di porcherie a tutte le ore, perfino a colazione, inzuppando gli amaretti nel tè, provando scarpe nuove e calze di seta, avrei tanto voluto che lei fosse lí con noi a godersi il fuoco e la libertà.
– Lo sai che non sta bene essere cosí amiche.
– Non c’è niente di male, – dissi io.
Avevo paura che decidesse di voltarmi le spalle, che calpestasse il nostro amore calando improvvisamente il sipario, un sipario di crespo nero che ne avrebbe sancito la morte. Avevo paura e sapevo che sarebbe successo.
– Non dobbiamo legarci troppo, – disse, e io non potevo dirle che eravamo già legate, né potevo ricordarle l’intimità che c’era stata fra noi il giorno dei festeggiamenti. I conventi erano prigioni sotterranee, poco ma sicuro.
Da allora in poi mi trattò come il contrario di una prediletta. In classe mi nominava in tono brusco e una volta mi disse che se proprio dovevo tossire ero pregata di aspettare che finisse la lezione. Baba era al settimo cielo e cosí le altre, contente di vedermi sminuita ai suoi occhi. Io però sapevo che quei modi gelidi erano parte del suo amore perché, per quanto mi guardasse con durezza, ogni tanto si ammorbidiva. Leggere il suo diario mi aiutava e ne copiavo le citazioni sul mio, sforzandomi di imitare la sua calligrafia con la massima cura.
Poco tempo dopo, però, una sera in cui venne a sorvegliarci mentre facevamo i compiti, mi scoccò un sorriso dalla pedana dov’era seduta dominandoci dall’alto. Io senza abbassare lo sguardo increspai appena la fronte per farle capire che avevo un problema con la geometria. Lei mi fece un leggero cenno e la raggiunsi con il quaderno e la penna. Standole vicino, anche perché la fascetta era un po’ storta, le vidi per la prima volta un sopracciglio. Lei se ne accorse e mi chiese se cosí avevo soddisfatto la mia curiosità. Non proprio, risposi. Mi chiese cos’altro volessi vedere, il suo collo di cigno, per caso, e io diventai paonazza. Era sbalorditivo che dicesse certe cose davanti a tutte e poi disse una cosa ancora peggiore, disse che G. K. Chesterton era un tipo molto sbadato e che una volta si era messo i pantaloni all’incontrario. Si aspettava che scoppiassi a ridere. Le stavo cosí vicina che un borbottio della sua pancia sembrò scaturire dalla mia e anche questo la fece ridere. In un attimo di terrore pensai che avesse deciso di scavalcare il muro e abbandonare il convento. Mise dieci e lode al teorema che aveva risolto al mio posto e chiese se avevo altri problemi. Mi si riempirono gli occhi di lacrime, volevo farle capire che la sua freddezza degli ultimi tempi mi stava logorando i nervi e privando della serenità.
– Che c’è? – disse.
Potevo piangere o tremare nel tentativo di comunicarle il mio stato d’animo, ma non potevo dirglielo. Come a un’imbeccata, ecco entrare la madre superiora, che vedendo quell’intimità cosí ostentata si accigliò e venne verso la pedana.
– Ti spiace tornare al tuo posto? – disse. – E in futuro sei pregata di permettere a suor Imelda di fare il suo dovere.
Tornai al banco in punta di piedi e mi sedetti a testa bassa, piena da scoppiare di paura e di vergogna. Poi la madre superiora guardò il vassoio dov’erano poggiati i bicchieri di latte e accorgendosi che uno era intatto chiese chi di noi non avesse bevuto il latte.
– Io, sorella, – dissi e venni chiamata a berlo e a restare sotto l’orologio per punizione. Il latte era tiepido e impolverato e pensai alle mucche nei giorni di fiera dalle mie parti e ai contadini che le picchiavano quando scivolavano e sdrucciolavano sulle strade infangate.
Per settimane cercai di vedere la mia suora in privato appostandomi perfino fuori dalle aule dove sapevo che faceva lezione, ma ne ricavavo soltanto rimproveri su rimproveri. Avevo il sospetto che la madre superiora l’avesse ammonita a non mostrare la sua preferenza per me. Ma mi aggrappavo lo stesso alla convinzione che fra noi esistesse un legame e che la sua freddezza e perfino certe occhiatacce che ricevevo fossero una farsa, una mascherata. Mi chiedevo se a letto si sentiva sola, da quale lato dormiva e se pensava a me o, rifiutandosi di pensare a me, se mi sognava come io sognavo lei. Fatto sta che era dimagrita perché l’anello nuziale da suora le scivolava facilmente e certe volte inevitabilmente dal dito. Pensai perfino che avesse un esaurimento nervoso.
Un giorno di marzo uscí il sole, si spensero i termosifoni e malgrado il vento sferzante ci dissero che la primavera era ufficialmente arrivata e che potevamo andare fuori a giocare. Ci dirigemmo in massa al campo da gioco e scoprimmo con grande sorpresa che quel giorno l’arbitro era suor Imelda. I luminosi narcisi di un giallo abbagliante non trovavano requie ma non avevano certo il fascino dei piccoli, timidi bucaneve che tremolavano al vento. Giocammo a baseball e quando toccò a me colpire la palla con la lunga mazza di legno feci cilecca e mi abbassai per paura che la palla mi venisse addosso.
– Che campionessa… – mi prese in giro Baba.
Dopo tre colpi mancati suor Imelda mi disse che se volevo potevo sedermi a guardare e quando andai nella serra a soffocare la vergogna venne da me e disse che non dovevo cedere alle lacrime perché l’umiliazione era la prova piú grande dell’amore di Cristo, anzi, di qualsiasi amore.
– Quando diventerai suora lo capirai, – disse e decisi seduta stante di farmi suora e che anche se non saremmo state libere di esprimere i nostri sentimenti avremmo comunque vissuto sotto lo stesso tetto, nello stesso convento, in comunione mentale e spirituale per tutta la vita.
– È molto dura all’inizio? – dissi.
– È terribile, – disse lei e mi infilò una medaglietta nella tasca del grembiule. Serbava ancora il calore della sua tasca e, stringendola, capii che eravamo di nuovo vicine e che anzi non ci eravamo mai separate. Allontanandoci dal campo da gioco per il pranzo domenicale a base di montone e cavoli suor Imelda era assediata dal nostro chiacchiericcio. Le ragazze le mulinavano intorno, cingendola, cercando di prenderla per mano, contando le tante chiavi che aveva nel mazzo e rivolgendole domande impertinenti.
– Sorella, è mai andata in motocicletta?
– Sorella, ha mai portato i collant senza cuciture?
– Sorella, qual è la sua stella del cinema preferita… maschio!
– Sorella, qual è il suo piatto preferito?
– Sorella, se avesse un desiderio quale sarebbe?
– Sorella, come fa quando le prude la testa?
Sí, era andata in motocicletta e aveva portato i collant, ma con le cuciture. Piú di tutto le piacevano le banane e se avesse avuto un desiderio sarebbe stato andare a casa qualche ora a trovare i suoi genitori, e suo fratello.
Quel pomeriggio, mentre passeggiavamo per la città, la vista dei negozi chiusi con fuori i barili di birra scura e dei cani randagi non dissipò la mia ritrovata beatitudine. Avevo la medaglietta in tasca e ogni qualche secondo la toccavo per assicurarmene. Baba vide nella vetrina di una pasticceria un fagottino alla marmellata spolverato di zucchero a velo appoggiato su un centrino ed era cosí allettante che urlò per la fame e si mise a inveire perché era rinchiusa in un maledetto riformatorio, circondata da mezze tacche tristanzuole. D’impulso sfilò di tasca la lima per le unghie e si precipitò alla vetrina per vedere se riusciva a tagliare il vetro. La capoclasse arrivò di corsa dal fondo della fila e chiese a Baba se voleva finire in prigione.
– Perché, adesso dove sono? – disse lei e si limò un’unghia per affermare la sua indipendenza e sfogare il malumore. Baba era l’unica capace di tenere testa a una capoclasse. Se le girava era capace di sfilarsi da una passeggiata, sedersi su un muretto e aspettare che tornassimo indietro. Diceva che una sola cosa era piú noiosa che studiare: passeggiare. Spesso si abbassava le calze e si esaminava i polpacci dicendo che già vedeva le vene varicose provocate da quella maledetta passeggiata quotidiana. Come tutte noi aveva le gambe annerite dalla tintura delle calze e ci era proibito fare il bagno perché i bagni erano immorali. Ci lavavamo tutte le sere in un catino di smalto accanto al letto. Le ragazze urlavano spruzzandosi l’acqua fredda sul petto, anche se era proibito.
Dopo la passeggiata scrivemmo a casa. Ci era concesso scrivere a casa una volta alla settimana; e le lettere erano sempre censurate. Raccontai a mia madre che avevo deciso di farmi suora e le chiesi se poteva mandarmi delle banane appena ne fosse arrivato un casco dal nostro fruttivendolo. Quella sera, forse proprio mentre scrivevo a mia madre sul foglio bianco a righe, arrivò un telegramma con la notizia che il fratello di suor Imelda era morto mentre tornava in pulmino da una partita di hurling. Ce lo annunciò la madre superiora, chiedendoci di pregare per la sua anima e di scrivere una lettera di condoglianze ai genitori di suor Imelda. Ne scrivemmo tante identiche perché il primo anno di scuola ci avevano dato delle lettere campione per le varie occasioni e prendemmo tutte a modello quella di condoglianze.
Il giorno dopo l’auto a noleggio del paese si fermò davanti al convento e suor Imelda, accompagnata da un’altra suora, andò a casa per il funerale. Era bianca come un lenzuolo e aveva gli occhi gonfi e un pesante scialle di lana sulle spalle. Anche se tornò quella sera stessa (rimasi sveglia per sentire la macchina) non la vedemmo per un’intera settimana, scorgendone giusto la schiena nella cappella. Quando riprese le lezioni era emaciata e distante e non fece alcun riferimento alla recente tragedia.
Il giorno in cui arrivarono le banane la aspettai fuori dalla porta e gliene diedi un casco avvolto nella carta velina. Alcune erano ancora un po’ verdi e disse che la madre superiora le avrebbe messe a maturare nella serra. Capii che suor Imelda non le avrebbe neppure assaggiate; le avrebbero tenute in serbo per qualche prete o vescovo in visita.
– Oh, suor Imelda, mi dispiace per suo fratello, – dissi di getto.
– Toccherà a tutti, prima o poi, – disse lei con aria afflitta.
Mi azzardai a toccarle il polso per esprimere il mio dispiacere. Andò via di corsa, forse per paura di avere un cedimento. Certe volte diventava intrattabile e le si arroventavano le guance. Saltò qualche lezione e in cucina la sostituí una suora giovane. Mi chiese di pregare per l’anima di suo fratello e di evitare di vederla da sola. Ogni volta che mi veniva incontro dal fondo di un corridoio ero costretta a girarmi dall’altra parte. Adesso erano Baba o qualcun’altra ad alzare la lavagna di due pioli e a stenderle lo scialle sul termosifone ad asciugare quand’era bagnato.
Mi misero a letto con la febbre. La malattia seguí il solito squallido corso, una tazza di senna calda consegnata dalla madre badessa in persona, che si trattenne finché non l’ebbi bevuta tutta, a pranzo il tè con qualche fettina sottile di pane nero (la guerra era finita da poco e il cibo era ancora razionato, perciò il burro era mischiato al lardo e aveva delle striature bianche e puzzava leggermente di rancido), ore e ore stesa a contemplare il dormitorio vuoto, i letti di ferro vuoti con il copriletto bianco e i crocifissi di metallo poggiati su ciascuna federa bianca con le balze. Sapevo che lei avrebbe sentito la mia mancanza e speravo che Baba le dicesse dov’ero. Contai le piastrelle che dal soffitto scendevano fino alla testiera del mio letto, pensai a mia madre che nella nostra fattoria preparava il pastone per le galline, pensai a mio padre, che forse dava in escandescenze e pestava le scarpe chiodate sul pavimento della cucina, e mi ricordai delle rette arretrate per la scuola, augurandomi che suor Imelda non venisse mai a saperlo. Durante le vacanze di Natale avevo visto un conto spedito dalla badessa a mio padre con la scritta: «Si prega di saldare tassativamente entro questa settimana». Detestavo l’idea di stare a letto provocando altri fastidi che avrebbero ricordato alla badessa il conto in sospeso. Non c’erano orologi nel dormitorio, perciò era impossibile sapere che ora fosse, anche se il tempo non passava mai.
Marigold, una delle cameriere, venne alle cinque a togliere i copriletto portando con sé due regali di suor Imelda: un’arancia e un temperamatite. Tenni le bucce dell’arancia in mano, annusandole e architettando come ringraziarla. Pensando a lei caddi in un sonno febbrile e mi svegliai alle dieci, quando le ragazze vennero a letto accendendo le varie lampade da soffitto.
A Pasqua suor Imelda mi avvisò di non regalarle cioccolatini, perciò le presi una torcia e le pile di ricambio. Contenta di un regalo cosí utile (probabilmente leggeva le lettere a letto) mi abbracciò permettendomi di offrirle una guancia per un bacio senza rumore. Bastò a compensare le sette settimane di astinenza, e mentre scendevo in macchina il vialetto d’accesso al convento insieme a Baba lei, come promesso, mi salutò dalla finestra della sua cella.
L’ultimo quadrimestre a scuola studiammo sodo in vista degli esami di fine giugno. Suor Imelda, come tutte le suore, non pensava ad altro. Ci faceva sgobbare sui libri, perdeva la pazienza un giorno sí e uno no e digrignava i denti ogni volta che la lavagna era troppo unta per assorbire l’impronta del gesso. Quando mi capitava di incontrarla in corridoio mi chiedeva se sapevo determinate cose e tornando dalle partite domenicali ci tartassava di domande. Arrivato il fatidico giorno degli esami prendemmo posto ai banchi individuali sotto la supervisione di una strana signora di Dublino, che aprí una cassa chiusa a chiave, tirò fuori i fogli rosa per i nostri elaborati e li distribuí. Geometria era il quarto giorno. Uscendo trovammo suor Imelda ad aspettarci nell’atrio con tutte le risposte, che confrontammo con le nostre. Poi mi chiamò in disparte e salimmo a sederci sulle scale fuori dalla cucina, dove ripercorremmo insieme tutto l’esame, domanda per domanda. Avevo dato tre risposte giuste e due sbagliate, ma non glielo dissi.
– Sono neri, – disse lei di punto in bianco. Pensavo che si riferisse ai segni lasciati dalla matita.
– Non importa, – dissi.
Era arrivata l’estate, sentivamo la pelle bianca cuocere sotto la divisa pesante e le pansé viola scuro fiorivano nel giardino del convento. Lei si era ripresa e la pelle chiara era tornata immacolata.
– I miei capelli, – bisbigliò, – sono neri –. E mi raccontò come aveva trascorso l’ultima notte prima di entrare in convento. Aveva percorso chilometri in moto con un ragazzo finché non si erano persi in cima a una montagna e lei aveva avuto paura di rientrare a casa troppo tardi e di non svegliarsi in tempo la mattina dopo. Davamo per scontato che a settembre sarei entrata in convento e che anch’io avevo diritto a un’ultima scappatella.
Due giorni dopo ci preparammo a tornare a casa. Tra addii e promesse stravaganti, firmammo i diari delle compagne e arrancammo tutte verso la sala della ricreazione con le valigie piene da scoppiare di libri e vestiti. Baba sparse nel dormitorio le briciole di biscotto per i topi e ficcò tutti i suoi libri delle preghiere sotto un materasso. Suo padre aveva promesso di venirci a prendere alle quattro. Io ero d’accordo con suor Imelda che ci saremmo viste di nascosto in uno dei chioschi intorno ai vialetti per trascorrere la nostra ultima mezz’ora insieme. Immaginavo che mi avrebbe raccontato come sarebbe stata la mia vita da postulante. Solo che il padre di Baba arrivò con un’ora di anticipo. Dopo aveva qualcosa di urgente da fare, perciò venne alle tre. Non mi rimase che chiedere a Marigold di portare un biglietto a suor Imelda.
Esser ricordata, altro non voglio,
ma se esser ricordata si rivelasse uno scoglio,
dimenticami.
Odiavo Baba, odiavo quel suo padre pieno di impegni, odiavo l’idea di mia madre sulla soglia col vestito buono, pronta ad accogliermi finalmente a casa. Potendo mi sarei fatta suora seduta stante.
Scrissi alla mia suora quella sera e poi il giorno dopo e poi tutte le settimane per un mese. Le sue lettere venivano censurate per cui cercavo di comunicarle i miei sentimenti in modo indiretto. In una delle lettere (gliene era concessa una al mese) disse che non vedeva l’ora che arrivasse settembre per rincontrarci. Ma a settembre io e Baba partimmo per l’università di Dublino. Allora smisi di scrivere a suor Imelda, restia a raccontarle che non volevo piú farmi suora.
A Dublino ci iscrivemmo all’università dove lei aveva primeggiato. Vidi il suo nome da nubile nell’elenco dei laureati con lode e per giorni fui di nuovo attanagliata dalla tristezza e dai rimorsi. Corsi a comprare le batterie per la pila che le avevo regalato e gliele spedii per posta senza nemmeno un biglietto. Nessun accenno alla mia vocazione mancata, nessun accenno al perché avessi smesso di scriverle.
Una domenica di circa due anni dopo io e Baba stavamo andando in autobus a Howth, dove giocava a golf un certo uomo d’affari che lei conosceva. Baba aveva fatto carte false perché ci invitassero. L’autobus era strapieno, per lo piú di madri con figli piccoli e piccolissimi che andavano a Dollymount Strand. Percorrendo la strada costiera vedemmo il mare, verdissimo e scintillante sotto il sole, la superficie sminuzzata in milioni di piccole ondine, come un infinito cumulo di cocci di bottiglia verde scuro. Vicino alla battigia la sabbia sembrava calda ed era color biscotto. Non facevamo mai il bagno né prendevamo il sole, non facevamo mai niente che ci facesse bene. Il nostro scopo nella vita era lavorare e conoscere uomini, pur sapendo che accoppiandoci avremmo finito col diventare madri e trascinare i figli pestiferi sulla spiaggia di domenica. «Non sanno quello che fanno» era una frase su misura per noi.
Eravamo truccatissime e perfino il bigliettaio ci diede in malo modo i dieci scellini di resto con un’aria di rimprovero. Chissà perché mi tornò in mente il rituale del trucco prima delle recite scolastiche, la sua innocenza rispetto agli strati di cerone che adesso ci soffocavano la pelle e che non toglievamo mai, nemmeno di notte. Ripensando al convento mi tornò subito in mente suor Imelda e, come in preda a un sogno, sentii il fruscio della serge, l’odore di disinfettante e cavolo bollito e rividi il suo viso pallido e sconvolto nei mesi seguiti alla morte del fratello. Poi mi guardai attorno e la vidi davvero e lí per lí pensai di essermelo immaginato. Invece no, era salita in compagnia di un’altra suora e si stavano sistemando sui sedili vicino allo sportello sul fondo. Era invecchiata ma aveva lo stesso distacco e gli stessi occhi, e il cuore cominciò a battermi all’impazzata in un misto di eccitazione e di terrore. All’inizio batteva con forza prodigiosa, poi cominciò a perdere colpi e pensai che avrebbe ceduto. La paura che mi faceva e l’amore riaffiorarono all’istante. Sarei uscita dal finestrino se fosse stato abbastanza grande. Il problema era come sfuggirle. Baba, che gongolava, si alzò guardandosi platealmente attorno per essere sicura che fosse suor Imelda. Riconobbe nell’altra suora un’insegnante di pianoforte soprannominata Johnny. Il suo primo pensiero fu la vendetta, mentre enumerava le punizioni che ci avevano inflitto e diceva quanto le sarebbe piaciuto andare da loro e scioccarle con un «Alla vostra salute, suore» o un «Andate al diavolo» se non peggio. Baba non capiva perché tremassi e nemmeno perché mi affannassi tanto a togliermi il rossetto. Io sapevo una cosa soltanto: non potevo affrontarle.
– Però ti tocca, – disse Baba.
– Non posso, – dissi io.
Non era soltanto per com’ero conciata, era che non le avevo mai scritto e non avevo mantenuto la promessa. Baba continuava a guardarsi indietro e disse che stavano zitte e mute e che i bambini le fissavano a bocca aperta. Non capitava spesso che le suore prendessero l’autobus e facemmo congetture sulla loro destinazione.
– Avranno appuntamento con due maschietti, – disse Baba, e le immaginò al club del golf che si sbronzavano e si alzavano le sottane. Io non ci trovavo niente da ridere. Concordammo una strategia e cioè che poco prima della nostra fermata io sarei balzata in piedi mentre l’autobus era ancora in movimento e sarei andata in fondo passando davanti a loro senza nemmeno guardarle. Baba disse che con ogni probabilità non si sarebbero accorte di noi perché tenevano gli occhi bassi come se pregassero.
– Non ci riesco a correre in fondo all’autobus, – dissi. Il fatto era che mi tremavano le gambe e mi girava tantissimo la testa.
– Invece devi, – disse Baba e pur insistendo sul fatto che non ci riuscivo andavo già formulando delle scuse. Nel frattempo mi facevo e rifacevo il segno della croce mentre Baba continuava a ripetermi che mancava soltanto una fermata alla nostra. Arrivato il temibile momento balzai in piedi stampandomi in faccia quello che può essere definito esclusivamente come un sorriso di scuse. Seguii Baba in fondo all’autobus. Ma loro erano già scese. Da dietro vidi le due figure scure, identiche, i veli smossi furiosamente dal vento. Sembravano cosí fredde e smarrite mentre camminavano a passo svelto lungo il marciapiede che mi venne voglia di rincorrerle. In un certo senso stavo peggio che se le avessi affrontate. Non ho idea di cosa avrei detto. Sapevo che c’è qualcosa di triste e di leggermente disgustoso nella fine di un amore, specie di un amore che non si è mai realizzato appieno. Forse avrei accennato a questo ma non ne sono sicura. Nei momenti piú profondi diciamo le cose piú inadeguate.