Erano due le strade che portavano in paese. Scelsi quella impervia, per stare vicino alla montagna anziché al mare. Era un tratto di strada polveroso e mal delineato cosparso di pietre. Le pietre cadute dalla rupe prendono una tonalità di rosso minacciosa quando si spaccano. In superficie la rupe sembra grigia. La parete grigia e rossa è costellata qua e là di macchie d’alberi. Riarse d’estate, tormentate dai venti d’inverno, sopravvivono lo stesso, senza espandersi né rimpicciolire.

In una di quelle macchie di vegetazione, appena sotto la rupe, vidi alzarsi una ragazza. Cominciò ad allacciarsi lentamente il reggicalze. Era un po’ in bilico perché tirandosi su le mutandine perse varie volte l’equilibrio. Si infilò la gonna da sopra la testa e per ultimo indossò il cardigan, che sembrava avere molti bottoni. Quando mi avvicinai se ne andò. Una ragazza con il cardigan bordò e la gonna nera. Doveva avere una ventina d’anni. Tutt’a un tratto, senza preavviso, svoltai verso casa per dare l’impressione che facessi una semplice passeggiata. Subito dopo mi resi conto che era ridicolo e mi girai di nuovo, dirigendomi verso il luogo del suo segreto. Tremavo, ma certi viaggi vanno portati a termine.

Che shock scoprire che non nascondeva niente, né uomo né animale. I cespugli non si erano risollevati dal peso del suo corpo. Ne dedussi che doveva essere rimasta stesa un bel po’. Poi vidi che anche lei stava tornando. Aveva dimenticato qualcosa? Voleva chiedermi un favore? Perché andava di fretta? Il viso non lo vedevo, teneva la testa bassa. Mi girai, stavolta correndo verso la strada privata della mia casa in affitto. Pensai: «Perché corro, perché tremo, perché ho paura? Perché lei è femmina e io anche. Perché, perché?» Non lo sapevo.

Arrivata in cortile chiesi alla domestica, che si stava sventolando, di slegare il cane. Poi mi sedetti fuori ad aspettare. L’albero in fiore era particolarmente spettacolare, i petali rosa intenso, il profumo di una dolcezza soffocante. L’unico albero fiorito. La domestica mi aveva messo in guardia da quei fiori; si era perfino scomodata a prendere il dizionario per inculcarmi bene la parola: venodno, veleno, petali velenosi. Per stare piú vicina a quell’albero le feci spostare lo stesso il tavolo e lo stabilizzammo mettendo dei pacchetti di sigarette piegati sotto due gambe. Dissi alla domestica di apparecchiare per due. Decisi che cosa avremmo mangiato, anche se di solito lo evito, per dare alle giornate un elemento di sorpresa. Chiesi di mettere in tavola tutti e due i vini e anche quei lunghi biscotti ricoperti di zucchero che si inzuppano nel vino bianco e si succhiano fino a prosciugarne tutto il dolce e poi si inzuppano e si succhiano di nuovo, all’infinito.

A lei la casa sarebbe piaciuta. Era semplice, nonostante l’imponenza. Una casa bianca con le persiane verdi e una lunetta di pietra sopra ciascuno dei tre ingressi al pianterreno. Una meridiana, un pozzo, una piccola cappella. Pareti e soffitti erano di un azzurro latteo e questo, insieme al mare e al cielo, creava uno strano effetto allucinatorio, come se mare e cielo si fossero trasferiti all’interno. C’erano carte geografiche al posto dei quadri. Intorno alle lampadine, conchiglie rosa che con gli anni si erano un po’ sbeccate ma questo contribuiva solo a rendere l’ambiente informale.

La cena sarebbe andata molto per le lunghe. Dall’albero sarebbero caduti i petali; alcuni si sarebbero posati sul tavolo di pietra, a mo’ di decorazione. I fichi, raffreddati a meraviglia, sarebbero stati serviti su un grande piatto da portata. Li avremmo saggiati con le dita. Avremmo capito quali, affondando i denti, ci avrebbero appagato. Lei, che era del posto, forse sarebbe stata piú esperta di me. Era probabile che una delle due li avrebbe addentati con troppa avidità e si sarebbe ritrovata sul mento uno zampillo di semini madido, appiccicoso, grondante e bellissimo. Io mi sarei pulita il mento con la mano. Avrei fatto di tutto per metterla a suo agio. Mi sarei ubriacata, se necessario. All’inizio avrei parlato ma poi mi sarei mostrata esitante per lasciarle spazio.

Indossai una tunica arancione e una lunga collana fatta con una varietà di conchiglie. Il cane era ancora sciolto per darmi l’avviso. Appena si fosse messo ad abbaiare l’avrei fatto portare dentro e legare sul retro della casa, cosí non ci sarebbero arrivati neanche i guaiti.

Mi accomodai in terrazza. Il sole stava calando. Mi spostai su un’altra sedia per gustarmelo meglio. I grilli avevano avviato il loro incessante strepitio semi-meccanico e le lucertole cominciavano a spuntare da dietro le carte geografiche. Qualcosa nei loro movimenti abili e furtivi mi faceva pensare a lei, ma del resto tutto mi faceva pensare a lei. C’era un tale silenzio che i secondi sembravano registrare il loro trascorrere. C’erano soltanto i grilli e, in lontananza, lo scampanellio delle pecore, piú onirico di un belato. Sempre in lontananza, il faro con le sue segnalazioni affidabili. Un paio di calzoncini appesi a un gancio svolazzarono al primo alito di vento, che accolsi a braccia aperte, sapendo che annunciava la sera. Lei aspettava il buio, il buio avvolgente, un complice caro ai peccatori.

La domestica aspettava nell’ombra. Non la vedevo ma ero consapevole della sua presenza come di un suggeritore dietro le quinte. Mi urtava i nervi. La sentivo prendere o posare un piatto e sapevo che lo faceva soltanto per attirare la mia attenzione. Dovevo anche combattere con l’odore della zuppa di lenticchie. Quell’odore, per quanto gratificante, sembrava un’esca per accelerare i tempi, il che era impensabile. Perché, secondo le mie congetture, mettendomi a mangiare avrei azzerato le probabilità che lei venisse. Dovevo aspettare.

L’ora successiva assecondò uno schema irritante, prevedibile e atroce: camminai, presi posto su varie sedie, accesi sigarette per buttarle subito via, mi versai ripetutamente da bere. A momenti dimenticavo il motivo di tanta agitazione, ma poi ripensavo a lei vestita di scuro e con gli occhi bassi e il piacere di riceverla mi elettrizzava di nuovo. I vari agglomerati di luce presero vita su tutta la baia, configurando cittadine e paesi invisibili alla luce del giorno. La perfezione delle stelle era detestabile.

Alla fine ecco arrivare la pappa del cane, che mangiò come sempre ai miei piedi. Quando il piatto vuoto scivolò sull’acciottolato liscio, per colpa della mia malagrazia, e la luna piena, cosí vicina, cosí rossa, cosí stranamente ospitale, spuntò sopra i pini, decisi di cominciare, e sfilai il tovagliolo dall’anello aprendomelo con fare lento e cerimonioso in grembo. Confesso che in quei pochi secondi la mia fiducia era smodata e la mia speranza piú forte che mai.

La cena era rovinata. Bevvi tantissimo.

Il giorno dopo m’incamminai verso il paese, ma presi la strada del mare. Da allora non sono mai piú passata dalla rupe. L’ho desiderato spesso, specie dopo il lavoro, quando so quale sarà il mio itinerario: raccoglierò le lettere, berrò un Pernod al bar dove i colonnelli in pensione giocano a carte, mi siederò a parlare con loro di nulla. È da tanto che abbiamo accettato la nostra reciproca inutilità. Difficile che si presenti qualcuno di nuovo.

C’era un pittore australiano che, sembrandomi moderatamente attraente, avevo invitato a cena. Dopo qualche bicchiere era diventato insolente e continuava a ripetermi che avevamo un’idea distorta dei suoi connazionali. Fu triste piú che sgradevole e io e la domestica dovemmo prenderlo sottobraccio e riportarlo a casa.

La domenica e i giorni festivi le ragazze di una ventina d’anni passano abbracciate, i corpi persi dentro larghi indumenti scuri. Nessuna mi guarda, anche se oramai mi conoscono. Lei deve conoscermi. Eppure non mi offre mai un segno per rivelarmi qual è. Mi sa che ha troppa paura. Nei momenti di maggiore ottimismo mi piace pensare che aspetti lí, convinta che andrò a cercarla. Eppure mi ritrovo sempre a prendere la strada del mare, anche se vorrei disperatamente andare per l’altra via.