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Prometeo

Nel 1999 Hans Joachim Schellnhuber pose la domanda cruciale dell’Antropocene: «Perché Prometeo non dovrebbe correre in aiuto di Gaia?». Se gli esseri umani stanno davvero trasformando il pianeta, cosa si deve fare? O, più umilmente, cosa si può fare? Gli uomini possono aiutare a indirizzare la Terra verso risultati migliori per l’umanità e per la natura?

La scienza è chiara. Il benessere umano sta generalmente migliorando a mano a mano che le nostre società stanno rapidamente producendo un pianeta più caldo e più inquinato, meno prevedibile e con meno biodiversità. L’intero sistema Terra viene spinto con forza in uno stato di cui non esistono analoghi nella sua storia, introducendo la possibilità molto reale di cambiamenti ambientali tanto rapidi e potenti che persino le società più ricche di risorse potrebbero non sopravvivere. Continuare su questa strada significa giocare d’azzardo con il futuro stesso delle società umane e del resto della vita sulla Terra.

Al di fuori dei settori della geologia e della stratigrafia, in palio c’è un nuovo modo di descrivere il nostro posto nella natura e la nostra relazione con il resto del pianeta. Ciò solleva alcune domande difficili, per esempio: cosa stiamo facendo esattamente con la Terra? È la storia di una distruzione insensata o di un risveglio e una redenzione? È chiaro che abbiamo appena iniziato a comprendere le molte dimensioni, variazioni e alternative che potrebbero entrare in gioco nel futuro dell’Antropocene. Forse, in questa fase, il punto non è decidere a quale idea credere, ma rendere necessario il legame delle diverse teorie antropoceniche con la più ampia gamma di bisogni umani? L’intera umanità descrive in mille modi diversi il ruolo che ricopriamo sulla Terra, e non è mai riuscita a mettersi d’accordo su un’unica versione.

L’Antropocene potrebbe stimolare l’uomo ad agire in vista di un futuro migliore? Per i redattori di «Nature» che hanno commentato l’incontro del maggio del 2011 sull’Antropocene presso la Società geologica di Londra, la risposta era chiaramente sì: «Il riconoscimento ufficiale dell’Antropocene focalizzerebbe le menti sulle sfide che si presenteranno».

PIANTARE IL CHIODO

Dopo che Crutzen ha sdoganato questo termine nel 2000, l’interesse per l’Antropocene è rimasto immutato. Tuttavia le ricerche in questo settore sono cominciate solo dopo il 2008 quando sono stati coinvolti anche i geologi, e sono salite alle stelle dopo il 2011. Solo poche decine di persone hanno partecipato alla riunione di Londra, ma Zalasiewicz e colleghi avevano fatto i compiti a casa. Il numero di marzo del «National Geographic» presentava l’Antropocene.
Il lavoro svolto dai relatori invitati era appena stato pubblicato in un numero speciale dedicato interamente all’Antropocene del «Philosophical Transactions of the Royal Society», la rivista scientifica fondata nel 1665 (Newton e Darwin vennero entrambi pubblicati lì). Mentre sulla copertina di «The Economist» ha campeggiato il titolo Benvenuto nell’Antropocene.

Nel numero di gennaio del 2016 della rivista «Science» l’AWG (me compreso) ha presentato prove scientifiche a sostegno della grande accelerazione avvenuta a metà del XX secolo come principale spiegazione della transizione della Terra dall’Olocene all’Antropocene. Estinzioni, deforestazione, domesticazione, invasioni di specie, agricoltura, risicoltura, suoli antropogenici e persino la Rivoluzione industriale sono stati tutti esaminati e scartati poiché troppo diacronici per definire un chiodo d’oro sincrono a livello globale per la nuova epoca che hanno proposto di inserire nella GTS.

L’AWG aveva anche tenuto in considerazione e respinto l’Orbis spike di Lewis e Maslin nello stesso articolo su «Science» e nelle successive pubblicazioni; la proposta basata sul calo di CO2 registrato nel 1610, invece, era stata rifiutata per via dell’entità relativa del segnale e della difficoltà di correlarlo a livello globale.

Nel corso della riunione del Congresso internazionale di geologia svoltosi nell’agosto del 2016 in Sudafrica, sono stati resi noti i risultati di una votazione che ha visto coinvolti i trentacinque membri dell’AWG, dimostrando un consenso quasi unanime per l’ufficializzazione dell’Antropocene, con solo tre voti a sfavore. Nonostante quattro membri avessero votato per un inizio «diacronico», alla fine è stata ampiamente sostenuta la proposta di far cominciare la nuova era geologica alla metà del XX secolo. I voti per gli specifici marcatori stratigrafici variavano da dieci a sostegno del fallout di plutonio, quattro per il radiocarbonio, tre per la plastica e sei astenuti.

Al di fuori dell’AWG, i geologi si sono un po’ divisi. Le critiche sono svariate, ma la più comune, espressa da Stan Finney, Phil Gibbard (ex presidente della Sottocommissione internazionale di stratigrafia del Quaternario), William Ruddiman, Whitney Autin, John Holbrook e James Scourse, riguardava l’utilità dell’Antropocene per le scienze geologiche. Secondo quanto detto da Scourse nel 2016:

Esistono molti modi per misurare il tempo e individuare stratigrafie per l’epoca in cui l’uomo ha avuto gradualmente un impatto sul sistema terrestre, come misurare gli anelli degli alberi, i radioisotopi rilasciati dai test sulle armi atomiche, oppure contare gli strati annuali nelle carote di ghiaccio. Usiamo questi strumenti su base giornaliera e non abbiamo bisogno di un nuovo termine.

Mentre scrivo, l’AWG sta continuando a vagliare i potenziali GSSP fra decine di candidati, fra cui sedimenti lacustri, torbiere, ghiacciai, grotte e altri depositi stratificati. Se tutto va bene, per il Congresso internazionale di geologia che si terrà in India nel 2020 sarà pronta una proposta ufficiale di GSSP per l’Antropocene (il 21 maggio 2019 l’AWG ha votato il riconoscimento dell’Antropocene tramite un formale GSSP con ventinove voti a favore e quattro contrari, confermando con lo stesso risultato il valore dei segnali stratigrafici di metà del XX secolo, N.d.C.).

SCAVANDO PIÙ A FONDO

L’Antropocene continua a essere un argomento controverso tra le molte comunità accademiche che studiano il cambiamento sociale e ambientale, compresi non solo archeologi, antropologi, sociologi, geografi e storici ambientali, ma anche ecologi e scienziati della Terra. Una preoccupazione piuttosto diffusa riguarda semplicemente la misurazione del tempo. Numerose prove della trasformazione umana della Terra risalgono a molto tempo prima del XX secolo, si può tornare indietro fino anche al Tardo Pleistocene. Tuttavia, ciò che più di tutto sta allarmando gli studiosi è quello che l’archeologo Andrew Bauer ha chiamato «divario antropocenico».

Gli stratigrafi dividono il tempo geologico in intervalli discreti per ragioni puramente pragmatiche, non perché credono che le dinamiche terrestri non siano continue. Tuttavia, per comprendere meglio a livello scientifico i cambiamenti antropogenici del sistema Terra, non ci si sta focalizzando sull’identificazione di precisi limiti temporali, ma sui procedimenti complessi, continui, socialmente differenziati, ecologicamente connessi e storicamente contingenti che l’uomo ha nel tempo utilizzato per giungere a questo risultato. Da una prospettiva così ampia è difficile vedere come la divisione del tempo geologico in due parti ‒ intorno al 1950, come propone di fare l’AWG, o a 7000 anni fa come suggeriscono altri ‒ possa contribuire ad accrescere la comprensione scientifica della trasformazione umana della Terra.

L’archeologo Karl Butzer ha definito l’Antropocene un «paradigma in evoluzione». Secondo gli archeologi Bruce Smith, Melinda Zeder e Todd Braje un intervallo di tempo combinato «Olocene/Antropocene» potrebbe riportare l’attenzione sullo studio della trasformazione della Terra come processo socioambientale a lungo termine. In ogni caso le cause di questa transizione verso l’Antropocene sono umane e sociali.

Proprio mentre l’AWG, guidato da stratigrafi ma anche da non geologi, si concentra sulla definizione dell’Antropocene come unità geologica secondo criteri geologici, la più ampia comunità di scienziati sociali e ambientali ha tutte le ragioni per impegnarsi a trovare una giusta descrizione e interpretazione. Potrebbe inoltre essere necessario sviluppare definizioni alternative e più ampie, più appropriate per concentrarsi con una maggiore accuratezza sulla storia del cambiamento socioambientale.

TECNOSFERA

L’Antropocene ha anche richiesto ai geologi di abbracciare nuove forme di osservazione e analisi. Rispetto ai circa 5000 minerali «naturali», finora sono state identificate più di 170.000 sostanze sintetiche «simili ai minerali» che sono state prodotte solo a causa delle attività umane: dai chip al silicio dei computer agli abrasivi industriali, fino alle antiche ceramiche e al vetro. È stato anche stimato l’odierno volume totale della Terra trasformata dall’uomo, compresi i suoli alterati dall’agricoltura e i sedimenti oceanici disturbati dalla pesca a strascico. I 30.000 miliardi di tonnellate di questa «tecnosfera fisica» sono sconcertanti: 100.000 volte più grandi della biomassa umana che vive sulla Terra, ma ancora solo un duecentomilionesimo della massa totale del pianeta. I soli materiali di plastica ora superano di gran lunga la biomassa umana, passando dai 2 milioni di tonnellate prodotti annualmente nel 1950 ai 300 milioni nel 2015. La produzione totale storica, che ora ammonta a 5 miliardi di tonnellate, è sufficiente per avvolgere l’intera superficie terrestre in un sottile strato di pellicola trasparente.

I geologi hanno anche iniziato a esaminare la formazione di «tecnofossili», fra cui città, strade e piattaforme petrolifere, per non parlare dell’incredibile varietà di prodotti fabbricati in plastica, componenti elettroniche, bottigliette e microfibre. Mentre il destino a lungo termine di travi in acciaio, cablaggi elettrici, plastica e molti altri materiali antropogenici rimane incerto, la gran quantità prodotta e la loro capacità di fossilizzarsi all’interno di sedimenti lacustri e oceanici, discariche e altri depositi stratificati dovrebbero più che garantire la loro sopravvivenza negli strati geologici. I tecnofossili adesso orbitano anche attorno alla Terra, riposano sulla Luna e su altri pianeti, e hanno raggiunto persino lo spazio interstellare.

La varietà di «tecnospecie» degli artefatti culturali potrebbe anche consentire di osservare negli strati futuri sequenze temporali ad alta risoluzione riguardanti il cambiamento sociale, parallelamente alla valutazione della «cultura materiale» da parte degli archeologi. Ormai, la diversità delle «tecnospecie» potrebbe superare persino quella di circa 10 milioni di specie viventi sulla Terra. Le tecnospecie di gadget elettronici, articoli per la casa e componenti industriali quasi certamente ammontano attorno a molti milioni. I geologi potrebbero benissimo iniziare a usare in futuro dei marcatori tecnostratigrafici per identificare il tempo geologico.

ANTROPOSFERA

L’Antropocene ha presentato nuove sfide per la scienza del sistema Terra, inclusa la necessità di realizzare modelli dei sistemi umani e dell’antroposfera come componenti fondamentali del sistema Terra, alla pari con la biosfera, l’atmosfera e i sistemi climatici. L’idea di Schellnhuber della seconda rivoluzione copernicana includeva l’antroposfera all’interno dell’equazione del sistema terrestre, sia come realtà fisica sia come forza metafisica di «controllo autocosciente», una vera e propria intelligenza umana globale che funziona come un sistema «teleologico» consapevole e intenzionale che condurrà la Terra verso risultati migliori. Non è stato lui il primo a proporlo. Lo stesso Vernadskij considerava la cognizione umana il «terzo stadio» dello sviluppo del sistema terrestre, apparendo dopo la geosfera e la biosfera come una «noosfera» globalmente consapevole, basata sul concetto introdotto negli anni Venti dal prete e filosofo francese Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955, N.d.C.). Dato lo stato attuale della Terra, ci si può solo chiedere a cosa stia pensando la noosfera.

Attualmente i modelli del sistema Terra incorporano esempi sempre più sofisticati delle trasformazioni sociali umane e delle dinamiche delle interazioni socioambientali, come modelli economici e agricoli mutevoli in risposta al cambiamento climatico. Mentre è ancora presto per questi modelli, l’interesse e gli investimenti in tale area stanno crescendo rapidamente.

La scienza del sistema Terra sta inoltre lavorando per conciliare con le unità discrete del tempo stratigrafico i suoi modelli, basati su processi continui. Per esempio, la fotosintesi ha causato un notevole spostamento di stato nel sistema terrestre sebbene non sia riconosciuta come un intervallo nella scala dei tempi geologici. Gli stratigrafi, invece, separano l’Olocene dal Pleistocene anche se condividono le stesse dinamiche climatiche forzate orbitalmente, che non li rendono diversi sul piano del sistema Terra. L’Olocene è soltanto il più recente delle decine di intervalli interglaciali. Sulla base di queste premesse, il geologo Ben van der Pluijm e pochi altri hanno proposto di scartarlo completamente, sebbene la maggior parte dei geoscienziati lo consideri una divisione utile. Se dovesse essere rimosso, l’Antropocene comincerebbe solo quando la forzatura climatica da parte dell’uomo fosse subentrata alla forzatura orbitale come causa principale delle dinamiche climatiche della Terra, il che si è verificato quasi sicuramente entro la metà del XX secolo, ma si sarebbe potuto verificare anche molto tempo prima. Dal punto di vista del sistema Terra, una tale variazione non sarebbe difficile da riconoscere; sulla base di una «equazione dell’Antropocene», Will Steffen ha stimato che il riscaldamento antropogenico è ora almeno 170 volte più veloce di quello naturale.

Come aveva previsto Schellnhuber, alla scienza del sistema Terra viene ora chiesto di fornire molto più di semplici calcoli e pronostici. Nel 2015, l’IGBP è stato inglobato in Future Earth, un nuovo programma di ricerca internazionale incentrato sulla scienza della sostenibilità globale, in cui non solo scienziati, ma anche politici e imprenditori lavorano insieme per indirizzare l’agenda di ricerca verso una migliore governance ambientale. Prometeo è stato davvero chiamato in aiuto di Gaia.

GEOINGEGNERIA

Nessuna forma di governance ambientale è più prometeica della geoingegneria del clima terrestre e, secondo Paul Crutzen, la geoingegneria e l’Antropocene sono profondamente intrecciati. Nel 2002 ha scritto:

Non ho alcun dubbio sul fatto che, in linea con una delle caratteristiche peculiari dell’Antropocene, le future generazioni di Homo sapiens faranno tutto il possibile per impedire la formazione di una nuova era glaciale aggiungendo all’atmosfera potenti gas serra artificiali. Analogamente, qualora si verificasse un calo nei livelli di CO2 fino a raggiungere concentrazioni troppo basse, con riduzione della fotosintesi e della produttività agricola, verrebbe contrastato da emissioni artificiali di CO2.

È già stato dimostrato che le emissioni antropogeniche di gas serra hanno ritardato la prossima glaciazione della Terra di 100.000 anni, eppure l’interesse per la geoingegneria del clima non è mai stato così grande.

Più la Terra si riscalda, più costerà affrontare le conseguenze, tra cui sistemi alimentari irregolari, siccità estesa, ondate di calore estreme, innalzamento del mare, forti tempeste e altri danni alle società. Finora gli sforzi non riescono a fermare l’aumento delle emissioni di gas serra. Meno si agisce ora, più le società saranno disposte a darsi da fare in futuro per un clima più freddo, e la geoingegneria può rivelarsi il modo più sicuro per raggiungere questo obiettivo.

Le strategie della geoingegneria climatica comprendono la cattura e lo stoccaggio diretto di CO2 atmosferica («cattura diretta dell’aria»), la piantagione di nuovi alberi, la riduzione della lavorazione del suolo, l’inserimento di carbone nel suolo («biochar») e la fertilizzazione degli oceani, insieme al miglioramento della captazione e dello stoccaggio biologico del carbonio. In alternativa, la Terra potrebbe essere raffreddata riflettendo indietro l’energia solare mediante la geoingegneria solare («gestione della radiazione solare»), incluso verniciare di bianco i tetti degli edifici e lanciare specchi giganti nello spazio. Di tutte le numerose proposte della geoingegneria, quella più discussa, la più economicamente e tecnologicamente sostenibile, e quella potenzialmente più distruttiva rimane la proposta di Paul Crutzen del 2006: iniettare nella stratosfera minuscole particelle riflettenti di aerosol di solfato.

Numerosi studi, tra cui diversi modelli computerizzati e stime del raffreddamento globale verificatosi nel 1991 in seguito all’eruzione del vulcano Pinatubo nelle Filippine, hanno confermato che le particelle di solfato che sarebbero necessarie per raffreddare la Terra fino ad alcuni gradi Celsius potrebbero essere distribuite in modo conveniente da una flotta di aerei a reazione. Un tale intervento potrebbe anche evitare che si verifichi il riscaldamento globale più alto della storia, previsto per la fine di questo secolo (da quattro a sei gradi Celsius). Il climatologo David Keith ha stimato che per ridurre di un grado le temperature globali potrebbero essere necessarie spese annuali di soli 700 milioni di dollari, una somma minuscola rispetto ai costi di eliminazione delle emissioni, e ai fondi a disposizione di una singola nazione o persino di una singola azienda o di un multimiliardario.

Nonostante le tentazioni di una «correzione tecnologica» così economica e realizzabile, un parasole al solfato potrebbe avere effetti collaterali davvero catastrofici, dalle gravi siccità alla completa mancanza di piogge monsoniche. Consentendo l’accumulo di CO2 nell’atmosfera, le conseguenze dell’interruzione delle iniezioni di solfato potrebbero diventare ancora più gravi di quanto già non fossero. La geoingegneria solare che utilizza solfati stratosferici è un brillante esempio di come risolvere un problema creandone uno ancora più grande.

È anche possibile che un giorno finisca per rivelarsi ancora l’opzione migliore, ma senza ulteriori ricerche le sue prospettive rimangono scarse.

ICARO

Se l’Antropocene fosse definito solo dal cambiamento climatico globale, dall’estinzione di massa e dall’inquinamento diffuso sarebbe già più che sufficiente, tuttavia questi sono solo alcuni dei problemi ambientali più noti. Una singola sostanza chimica industriale, come il DDT, aveva il potenziale di decimare le specie di tutto il mondo. Finora vengono usati attivamente oltre 85.000 prodotti chimici industriali e la loro produzione sta accelerando (Figura 42). La maggior parte non è mai stata testata per possibili effetti dannosi sull’uomo, senza contare quelli per le altre specie o per l’intero sistema Terra.

La cosa ancora più preoccupante è che i cambiamenti ambientali estremamente dannosi non sono stati rilevati per decenni, anche quando divenne chiara la necessità di cominciare a farlo.

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Figura 42. Cambiamenti globali relativi a (a) fattori chiave del cambiamento globale, (b) varietà di sostanze chimiche sintetiche e (c) produzione di sostanze chimiche sintetiche.

Due classici esempi sono l’acidificazione degli oceani (Figura 43) e l’inquinamento da plastica. Probabilmente è noto che se si dissolve dell’anidride carbonica nell’acqua questa diventa più acida. Tuttavia, questa semplice reazione chimica non è stata considerata un grave problema per gli oceani fino al 2003, quando l’ecologo Ken Caldeira ha calcolato l’entità della minaccia. Già la crescita di alcuni coralli sta rallentando. Facendo un confronto con i precedenti intervalli della storia della Terra in cui vi erano oceani molto più acidi, è stato stimato che se le emissioni di CO2 continueranno ininterrottamente le barriere coralline e molte specie di molluschi con conchiglia scompariranno entro la fine di questo secolo. Ancora peggio, il riscaldamento degli oceani può causare le stesse conseguenze in minor tempo.

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Figura 43. Acidificazione degli oceani. La CO2 atmosferica in aumento si sta dissolvendo nell’acqua di mare, rendendo più acidi gli oceani (diminuzione del pH). Misurazioni al largo delle coste delle Hawaii.

Eppure, l’acidificazione degli oceani non viene menzionata nemmeno in A Planet Under Pressure, il riassunto più esauriente della scienza del sistema Terra pubblicato nel 2004.

L’inquinamento da plastica potrebbe sembrare inevitabile, considerato che viene prodotta in quantità incredibilmente elevate, eppure gli scienziati hanno capito solo di recente quanto sia grave la situazione. Le microscopiche particelle di plastica degli indumenti in microfibra, le microsfere presenti nei cosmetici e nei detergenti, e gli oggetti di plastica più grandi che si sono già deteriorati, si stanno accumulando in modo allarmante negli organismi acquatici, dal plancton ai pesci. Se questi trend dovessero continuare, entro il 2050 negli oceani ci sarà più plastica che pesci. Queste non sono le uniche «incognite ignote» del cambiamento ambientale globale. Per esempio, gli ormoni sintetici e altri prodotti farmaceutici si stanno accumulando negli organismi di acqua dolce e le conseguenze sono relativamente sconosciute.

Vista l’enorme portata, il tasso e la diversità del pericoloso cambiamento ambientale prodotto dall’uomo, è davvero difficile non considerare l’Antropocene come un disastro assoluto. Potrebbe benissimo essere visto come un intervallo in cui l’umanità, o almeno le sue società industriali più ricche, sta portando alla rovina se stessa e il resto del pianeta.

La prospettiva di un «cattivo» Antropocene definito da ambienti tossici, salute e benessere umano in declino, guerra, agricoltura infruttuosa, città sommerse, cambiamenti climatici catastrofici, estinzione di massa e collasso sociale, potrebbe essere inevitabile. Prometeo potrebbe essere la metafora sbagliata, forse sarebbe più adatta la stolta presunzione di Icaro, che volò nonostante le elevate probabilità di caduta. Eppure alcuni uomini adesso volano davvero ed è più sicuro che camminare per strada.

BUON ANTROPOCENE

L’Antropocene è identificato da un cambiamento antropogenico della Terra talmente profondo da lasciare un record permanente nelle rocce. Tuttavia, ci sono alcuni che parlano ancora di un «buon Antropocene». Io stesso sono stato accusato di aver coniato l’espressione, ma forse il principale colpevole è Andrew Revkin. In ogni caso, ricordo di aver sentito per la prima volta il termine all’incontro sull’Antropocene che si è svolto a Londra nel 2011.

Da un punto di vista scientifico, l’Antropocene non è né buono né cattivo, è soltanto una realtà osservabile. Tuttavia dovrebbe anche essere chiaro che non è ancora finito. Come altre epoche del tempo geologico potrebbe durare per milioni di anni, con o senza di noi. Le cose potrebbero migliorare o peggiorare, tutto dipende da ciò che faranno (adesso e nel futuro) le società umane. A dire il vero esistono già dei minuscoli «antropoceni» migliori e peggiori a seconda di come ognuno sta vivendo e interpretando questa «età degli umani». Potresti vivere su un’isoletta, per esempio, oppure essere l’ultimo esemplare di una specie in via d’estinzione.

Immaginare un buon Antropocene costituisce di per sé un atto prometeico. Ci sono tuttavia molti modi per essere come lui. Schellnhuber e Crutzen hanno provato a immaginare un Prometeo tecnocratico guidato da una sapiente «sfera del pensiero umano», la noosfera, che userebbe i suoi poteri senza precedenti per cancellare il danno ambientale che ha causato e per costruire un futuro migliore per il pianeta che possa durare milioni di anni. Per altri farsi più piccoli potrebbe essere il punto di svolta: l’umanità potrebbe imparare a prosperare senza trasformare la Terra e in questo modo porrebbe fine all’Antropocene prima del previsto. Esistono molte altre varietà di Antropocene fra le sfere della tecnocrazia e dell’ecotopia, a partire dal business as usual (cioè fare come se nulla fosse) fino, per esempio, a una società planetaria gestita da robot artificialmente intelligenti. Ma la domanda rimane: le società umane sono in grado di cambiare per evitare un disastro ambientale imminente?

Per immaginare un buon Antropocene bisogna innanzitutto vedere il futuro migliore che abbiamo già creato. Paul Ehrlich non era uno sciocco a predire la fame di massa negli anni Settanta, infatti le popolazioni stavano crescendo in modo esponenziale e non sembravano intenzionate a fermarsi. Tuttavia negli ultimi decenni i tassi di crescita della popolazione stanno registrando un calo e ora viene prodotto più cibo per persona nonostante non siano stati aumentati in modo significativo gli spazi dedicati all’agricoltura (Figura 44).

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Figura 44. (a) Risorse alimentari mondiali e (b) uso complessivo dei terreni agricoli.

In media le persone vivono più a lungo, sono più sane e meno violente, ricevono un’istruzione migliore e hanno accesso a opportunità che i loro antenati non potevano neanche immaginare. Non solo è possibile che le popolazioni umane si stabilizzino, utilizzino meno terra e vivano vite migliori, questo sta già accadendo (ovviamente ciò non è estensibile a tutto il mondo dove persistono gravi disuguaglianze e crisi ambientali e umanitarie, N.d.C.).

Le speranze per un Prometeo tecnocratico sono più di semplici chimere. Il protocollo di Montréal, per esempio, ha davvero salvato lo strato di ozono della Terra. L’elenco delle azioni sociali che hanno evitato disastri ambientali è molto lungo: si parte dalla messa al bando del DDT e di altri inquinanti per arrivare alle leggi sulla protezione della fauna selvatica a rischio, che hanno contribuito a salvare moltissime specie a un passo dall’estinzione. La diffusione di parchi e aree protette, i maggiori investimenti in sistemi e tecnologie energetiche a zero emissioni di carbonio come l’energia solare o le auto elettriche, l’aumento delle protezioni ambientali a favore dei consumatori, a partire dall’etichettatura «pescato certificato da pesca sostenibile» all’energia «certificata LEED» e agli edifici efficienti nell’impiego delle risorse: tutti contribuiscono ad aumentare la prospettiva di un futuro planetario migliore. Future Earth ha persino investito in un progetto chiamato Seeds of a Good Anthropocene e nella rivista «Anthropocene», volta a identificare e promuovere innovazioni sociali e ambientali che potrebbero migliorare le probabilità di dar vita a un buon Antropocene. Le prospettive per un Antropocene decisamente migliore rispetto a quello che stiamo plasmando ora si fanno via via sempre più reali.

SIA FATTA LA LUCE

Nel 2014, l’Antropocene è entrato nell’Oxford English Dictionary:

Relativo o che denota l’attuale era geologica, vista come il periodo durante il quale l’attività umana rappresenta l’influenza dominante sul clima e sull’ambiente.

L’Antropocene è entrato nel nostro lessico e nel mondo accademico. Molte riviste scientifiche ora lo includono nel loro titolo.

Un’«età degli umani» significa la fine della natura? Abbiamo creato un mostro? Per citare lo storico della scienza Bruno Latour:

Il crimine del dottor Frankenstein non fu quello di inventare una creatura attraverso una combinazione di arroganza e alta tecnologia, ma piuttosto che abbandonò la creatura a se stessa.

Questa non è la fine del nostro pianeta né della storia dell’umanità. Le condizioni attuali probabilmente supporteranno la vita sulla Terra per almeno un altro miliardo di anni. La nostra specie, come la maggior parte delle altre, sarà quasi sicuramente scomparsa per allora.

Guardando indietro dal futuro lontano, un’entità curiosa potrebbe ancora scoprire un pianeta permanentemente trasformato da altri.

In questo momento in cui cambiamo il mondo come lo conosciamo, dobbiamo cambiare anche il modo in cui conosciamo il mondo. L’Antropocene ci invita a pensare più in grande del singolo individuo, a immaginare le operazioni di un intero pianeta e i suoi cambiamenti su scale temporali più lunghe delle società umane. Questo si adatta bene ai maggiori tentativi di riformulare l’educazione attraverso gli occhi di Big History Project, un programma che collega i processi e gli eventi storici a partire dal Big Bang fino ad arrivare al presente, per poi spingersi nel futuro. Ci stimola a guardare avanti, come fanno Stewart Brand e il progetto Long Now di Danny Hillis, che sta costruendo un orologio ideato per funzionare 10.000 anni e che richiederà anni a cinque cifre, come 02017.

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Figura 45. La Terra di notte. Illuminazione notturna rilevata dai satelliti della NASA dallo spazio.

La Pale Blue Dot scattata da Carl Sagan suggerì che «le visioni che offriamo ai nostri figli danno forma al futuro. È importante capire quali siano queste visioni. Spesso diventano profezie che si autoavverano. I sogni sono mappe».

Osserviamo più da vicino il «pallido puntino azzurro». Notate il suo lato più oscuro che ora brilla vibrante nella notte (Figura 45). Non brilla perché nessuno lo ha mai voluto. Eppure si illumina lo stesso, alla luce di innumerevoli sforzi umani, legati insieme tra le generazioni e in tutto il mondo: emergente, sociale, accidentale. Finora l’Antropocene si è sviluppato mentre eravamo impegnati a fare altri piani. Per ora rimane un lavoro in corso.

L’Antropocene ci dice che gli uomini, nel loro complesso, sono una forza della natura. La sua storia è appena iniziata e sulla strada davanti a noi esistono diversi tipi di Antropocene, alcuni migliori altri peggiori. C’è ancora tempo per plasmare un futuro in cui la natura umana e quella non umana prosperino insieme per millenni. C’è ancora la possibilità per ognuno di noi di scrivere un futuro migliore nei record rocciosi permanenti della storia della Terra.