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Oikos
Il rimodellamento umano dell’ecologia ha guidato il passaggio all’epoca dell’Antropocene sin dai suoi primissimi inizi. Estinzioni di massa e invasioni di specie aliene, emissioni di gas serra, cambiamento climatico, alterazione dei suoli e dei cicli idrici, intensa conversione degli habitat naturali in paesaggi antropici: tutto deriva dal cambiamento ecologico di origine antropogenica. L’ecologia e le scienze ambientali sono state fondamentali per descrivere queste alterazioni, ma hanno anche avuto qualche difficoltà a intenderle come qualcosa di più di un semplice disturbo temporaneo di un mondo altrimenti naturale. A causa dell’Antropocene, per esempio, coloro che lavorano per conservare e ripristinare gli habitat naturali si trovano a dover affrontare sfide ancora più difficili. Ma cosa significa «habitat naturale» in un pianeta trasformato dagli esseri umani? In un discusso saggio del 2011 intitolato Conservation in the Anthropocene, Peter Kareiva, allora capo scientifico di The Nature Conservancy, una delle più grandi organizzazioni di conservazione ambientale del mondo, lo ha riassunto così:
La portata globale di questa trasformazione ha rafforzato la nostra forte nostalgia di conservazione delle lande selvagge e di un passato di natura incontaminata.
Ma il continuo focalizzarsi da parte dei conservazionisti sul salvaguardare le isole degli ecosistemi dell’Olocene durante l’Antropocene non solo è anacronistico ma anche controproducente.
Anche se i suoi risultati hanno contribuito a delineare l’Antropocene, l’ecologia come disciplina è stata rimodellata dalla necessità di nuovi approcci per studiare le caratteristiche di una Terra trasformata dalle società umane. Sono emersi nuovi paradigmi che ridefiniscono non solo il valore della natura, ma anche il ruolo svolto dall’uomo nel modellare e curare l’ecologia di una biosfera sempre più antropogenica.
LA DIVISIONE DELLA NATURA
L’ecologia, dal greco oikos, che significa «casa», è una disciplina scientifica abbastanza nuova e integrativa che studia le interazioni fra gli organismi viventi e l’ambiente in cui vivono, incluse le «catene alimentari» che collegano carnivori, erbivori e piante, la distribuzione geografica delle popolazioni animali e vegetali e i flussi biogeochimici fra gli organismi e i loro ambienti abiotici.
Sviluppatasi alla fine del XIX secolo, l’ecologia affonda le sue radici nella storia naturale risalente ad Aristotele e ai suoi predecessori. Charles Darwin era un naturalista, come lo erano anche Carolus Linnaeus (1707-1778), che classificò gli organismi viventi in specie, e Alexander von Humboldt (1769-1859), che mappò la distribuzione globale degli ambienti della vita.
Darwin e la maggior parte degli altri naturalisti non avevano alcun problema a includere l’essere umano nel loro lavoro, o per lo meno gli uomini preistorici e i loro contemporanei non europei. Tuttavia, le cose iniziarono a cambiare alla fine del XVIII secolo, quando il conte di Buffon (Georges-Louis Leclerc, 1707-1788, N.d.C.) operò una distinzione tra «natura originaria» e «natura civilizzata» dagli esseri umani.
Questa divisione in paesaggi umani e non umani venne approfondita con lo sviluppo delle scienze naturali, fra cui l’ecologia, lasciando così il mondo umano alle scienze sociali e umanistiche. Gli ecologi, così come gli archeologi e gli antropologi, iniziarono a studiare le zone e le regioni più piccole in cui le interazioni locali e globali tra uomo e natura avrebbero potuto essere considerate esterne alle loro ricerche.
È sempre stato problematico dividere la natura in due parti, considerato soprattutto chi sta operando la distinzione. Tuttavia, questo innaturale atto di separazione potrebbe anche aver sensibilizzato maggiormente gli ecologi riguardo alle capacità trasformative delle società umane. Nel 1778, il conte di Buffon era già pronto ad affermare che «l’intera faccia della Terra porta il segno del potere umano». Nel 1997, l’ecologo Peter Vitousek e i suoi colleghi pubblicarono sulla rivista «Science» un articolo estremamente influente che dimostrava «che viviamo su un pianeta dominato dall’uomo». La prima persona a nominare l’Antropocene non fu Paul Crutzen, ma l’ecologo delle acque dolci Eugene Stoermer.
IL MITO INCONTAMINATO
Per studiare gli habitat e gli ecosistemi non influenzati dall’uomo, molti ecologi, specialmente nell’America del Nord, hanno cercato luoghi senza una prova chiara dell’attività umana. Eppure, questa strategia era già scientificamente sospetta ancora prima che il cambiamento climatico antropogenico diventasse troppo pervasivo per essere ignorato.
La paleoecologia, considerata la stratigrafia dell’ecologia, ricostruisce i cambiamenti ecologici avvenuti nell’antichità mediante i resti materiali dei passati ecosistemi. Insieme ad archeologi, paleontologi (esperti di fossili), storici ambientali e altri, il loro lavoro ha stabilito che la trasformazione umana degli ecosistemi ha prodotto delle eredità ecologiche che hanno resistito dal Tardo Pleistocene fino ai giorni nostri (Figura 34). L’estinzione dei grandi erbivori, come per esempio il mammut lanoso, trasformò le praterie in boschi, mentre la gestione della vegetazione mediante l’uso del fuoco modificò i terreni e alterò i livelli di nutrienti. Anche la primissima forma di agricoltura riorganizzò le sostanze nutritive in tutte le zone, aumentando la fertilità del suolo in alcuni punti e diminuendola in altri; in questo modo alterò permanentemente la chimica e le altre caratteristiche del terreno. Dopo secoli e persino millenni, queste eredità antropogeniche presenti nel suolo possono ancora plasmare la composizione delle specie e la produttività delle comunità vegetali. Gli esseri viventi sono anche stati ridistribuiti dal commercio, dalle migrazioni e dagli sforzi deliberati dei cacciatori-raccoglitori, degli agricoltori e dei commercianti.
I record stratigrafici a lungo termine si sono accumulati in laghi, stagni, zone umide e altri paesaggi, sia direttamente come depositi di carbone, polline e sedimenti con chimica variabile e marcatori isotopici, sia indirettamente, come presenza di diatomee (alghe microscopiche) e altre piante acquatiche che hanno reagito ai cambiamenti nei nutrienti e ad altre influenze esterne.
Anche in molte regioni in cui sembra non ci sia alcuna traccia delle attività umane, le prove paleoecologiche dimostrano regolarmente che i modelli e i processi ecologici contemporanei sono stati plasmati dalle precedenti società umane.

Figura 34. Trasformazione ecologica a lungo termine dei paesaggi che illustra (a) l’impatto dell’estinzione dei grandi erbivori, (b) gli effetti a lungo termine dell’agricoltura antica sulla geochimica del suolo e sulla biodiversità delle piante nelle foreste e (c) le risposte ai disturbi umani nei bacini lacustri.
Immaginiamo come sarebbe la vegetazione in Europa settentrionale o in Canada se il mammut lanoso non si fosse estinto. Perfino nelle lontane foreste pluviali dell’Amazzonia l’uomo ha modificato la distribuzione degli alberi nel tentativo di diffondere le specie più vantaggiose, per esempio la noce del Brasile, che è stata coltivata per migliaia di anni e che viene ancora raccolta principalmente da piante selvatiche. Un numero sempre maggiore di prove conferma che le foreste pluviali tropicali dell’Amazzonia e del Congo hanno subito l’influenza dell’uso del fuoco e di tutte le pratiche di sfruttamento del terreno impiegate dai cacciatori e dai primi agricoltori. Eppure molti ecologi e conservazionisti tendono a pensare che negli habitat disabitati non ci sia alcuna traccia delle attività umane.
Nella maggior parte dell’Europa e dell’Asia, e in alcune parti dell’Africa, gli ambienti sono generalmente troppo popolati e alterati dall’uomo per essere fraintesi in questo modo. Tuttavia i discendenti dei coloni europei presenti nelle Americhe e in Australasia hanno regolarmente confuso i fitti boschi per habitat ancora «incontaminati», quando in realtà si stanno tuttora riprendendo dalla presenza delle società precedenti. Il geografo William Denevan ha evidenziato questo errore in un articolo del 1992 intitolato The Pristine Myth. The Landscape of the Americas in 1492. Tim Flannery ha fatto lo stesso per i territori australiani nel suo libro The Future Eaters. In ogni continente enormi regioni sono state trasformate dalle attività umane ancora prima dell’Olocene. Il mito dell’incontaminato, secondo il quale le zone disabitate rappresentano oggi un’ecologia senza una precedente influenza umana, costituisce un serio ostacolo alla comprensione dei modelli e dei processi ecologici contemporanei.
DISTURBO
Le carote estratte dai sedimenti lacustri forniscono alcuni dei più robusti record di cambiamenti ecologici a lungo termine. Valutate non di meno che con l’aiuto di Eugene Stoermer, una delle carote provenienti dal lago Crawford in Ontario, Canada, è stata portata come primo esempio delle complessità dei mutamenti ecologici antropogenici durante i dibattiti fra l’AWG e gli archeologi e i geologi critici verso l’ufficializzazione dell’Antropocene (Figure 35 e 34c). La carota registra oltre 1000 anni di cambiamenti ecologici nei dintorni del lago, segnalando come le sostanze nutritive derivanti dall’agricoltura abbiano aumentato la produttività delle alghe e il carbonio organico, e modificato le popolazioni di diverse specie di diatomee.
L’uso agricolo del terreno ha lasciato depositi di polline provenienti dal mais, campi di erbacce e spore fungine del corn smut (una malattia della pianta causata da un fungo patogeno, Ustilago maydis, N.d.C.). La carota mostra chiaramente che il mais coltivato intorno al lago dagli Irochesi, dal 1268 al 1486, ha eroso i terreni e immesso un maggior numero di nutrienti nel lago. La coltivazione si interruppe fino al 1867, anno in cui i coloni europei (canadesi) assoggettarono nuovamente l’area e ricominciarono a coltivare mais e a inquinare il lago. Anche a metà del XX secolo si riscontrano segni evidenti del cambiamento di destinazione dei terreni.
I record paleoecologici non solo del lago Crawford, ma anche di molti altri, dimostrano chiaramente quanto siano complesse le alterazioni causate dall’uomo. Non in tutti, ma in alcuni depositi lacustri è presente uno strato di sedimenti dovuto al fallout radioattivo della metà del XX secolo che potrebbe coincidere con specifici cambiamenti biotici o chimici; per questo motivo potrebbe fornire all’AWG una solida base per definire un marcatore dell’Antropocene globalmente correlabile.

Figura 35. Tracce stratigrafiche dell’attività umana in carote di sedimenti estratte dal lago Crawford. Rapporto δ13C = C-13 a C-12.
In ogni caso, secondo Stoermer e altri scienziati focalizzati sui record paleoecologici, è molto chiaro quali siano le caratteristiche delle alterazioni antropogeniche delle comunità e degli ecosistemi: sicuramente complesse, dinamiche, diacroniche e in grado di prolungarsi per lunghi periodi di tempo.
Le dinamiche dei cambiamenti ecologici sono complesse anche senza l’influenza dell’uomo. Basti pensare al fuoco. Nelle regioni più secche, infatti, gli incendi si ripetono periodicamente e lasciano depositi di carbone, sostanze nutritive e un miscuglio di appezzamenti di vegetazione che si trovano in diverse fasi della successione secondaria. In queste regioni il fuoco è parte integrante del funzionamento dell’ecosistema e viene definito «regime di disturbo» di fuoco ricorrente, al quale molte specie si sono adattate con la corteccia ignifuga e la germinazione di semi dipendenti dal calore. Per esempio, le pigne del pino di Banks presente nell’America del Nord si aprono per rilasciare i loro semi solamente se sono esposte alle temperature elevate degli incendi boschivi.
Prima di comprendere il significato dei regimi di disturbo, gli ecologi raccomandavano di domare gli incendi per preservare la vegetazione esistente. Di conseguenza, le specie che si erano adattate al fuoco non riuscirono a riprodursi e nel tempo si accumulò biomassa infiammabile; questo causò incendi che non potevano essere spenti e che divampavano con un’intensità mai vista prima, tant’è che a volte bruciava anche il suolo. Gli ecologi impararono una dura lezione: i disturbi svolgono un ruolo molto importante negli ecosistemi e nelle comunità, per cui reprimerli può giocare a ulteriore svantaggio degli habitat e degli esseri viventi. Oltretutto, in luoghi come l’Australia e l’America nordorientale, i regimi di incendio che modellarono l’ecologia per migliaia di anni erano di origine antropogenica, il risultato di cacciatori-raccoglitori e agricoltori che usavano intenzionalmente il fuoco per gestire la vegetazione.
A causa delle complesse dinamiche delle interazioni tra uomo e ambiente, scoprire se si è verificato un significativo cambiamento ecologico costituisce una vera e propria sfida. Per riuscirci è necessario definire il «range storico di variabilità» dei parametri ecologici, comprese le oscillazioni nel tempo delle popolazioni di diverse specie, delle condizioni ambientali abiotiche, della frequenza degli incendi e di altri tipi di disturbo. Stabilendo questo intervallo storico come uno «stato di riferimento», le modifiche che si verificano al di fuori di questo range costituiscono delle prove di trasformazioni ecologicamente significative.
SESTA ESTINZIONE DI MASSA
L’estinzione delle specie è tra i cambiamenti ecologici più significativi che l’uomo abbia mai prodotto. Le cause sono molte. Lo sfruttamento eccessivo risale al Pleistocene e rimane un fattore importante: l’uso dei terreni per l’agricoltura e gli insediamenti è stato a lungo la causa più potente e continua delle estinzioni terrestri, e lo è ancora oggi. Dal momento che riduce, frammenta e trasforma gli habitat, lo sfruttamento del territorio diminuisce le risorse disponibili per le popolazioni di specie vulnerabili e le suddivide in gruppi più piccoli e meno vitali, aumentandone così la probabilità di estinzione. Anche l’introduzione di specie alloctone ha giocato un ruolo importante nelle estinzioni degli autoctoni; questo avviene specialmente nelle isole dove le specie endemiche (ovvero la cui distribuzione è limitata solo a zone specifiche, a volte anche solo a una piccola isola) si sono dimostrate le più vulnerabili di tutte. Ratti, maiali, cani, gatti e non solo hanno devastato delle specie che non avevano mai sviluppato difese nei loro confronti. Le famose estinzioni del dodo e degli alberi dell’Isola di Pasqua (un tempo attribuite solamente allo sfruttamento eccessivo) sono oggi considerate in gran parte il risultato dell’introduzione di specie che si nutrivano rispettivamente delle loro uova e dei loro semi. Più di recente gli inquinanti tossici, incluso il DDT, hanno messo a rischio di estinzione molte specie, in particolare quelle al vertice della catena alimentare. Il cambiamento climatico causato dall’uomo potrebbe diventare in futuro il motore di estinzione più importante di tutti i tempi, amplificando la già potente combinazione di pressioni antropogeniche che stanno dietro a quella che viene sempre più definita come la sesta estinzione di massa della Terra.
L’estinzione non è una cosa nuova. Il 99% di tutte le specie che abbiano mai vissuto sulla Terra si sono estinte. Oltre alle cinque estinzioni di massa già accertate (che si sono verificate, nell’ordine, nell’Ordoviciano, terminato circa 443 milioni di anni fa, nel Devoniano, terminato circa 359 milioni di anni fa, nel Permiano, terminato circa 251 milioni di anni fa, nel Triassico, terminato circa 200 milioni di anni fa, e nel Cretacico, terminato circa 65 milioni di anni fa, N.d.C.), principalmente causate da cambiamenti climatici significativi derivanti dall’attività vulcanica e da altre forze geologiche, si sono verificate innumerevoli estinzioni minori. Ci sono persino tassi di estinzione di fondo abbastanza continui nel lungo periodo.
Per verificare se gli esseri umani stanno causando un’estinzione di massa è quindi necessario confrontare i tassi odierni di estinzione con quelli di fondo che si sono verificati nel passato e che costituiscono il principale riferimento storico (Figura 36). L’ecologo Stuart Pimm, il paleontologo Tony Barnosky e altri colleghi hanno dimostrato che gli attuali tassi dei vertebrati, stimati sulle estinzioni per milioni di specie all’anno, sono almeno dieci e potenzialmente fino a mille volte più alti di quelli naturali, e sono aumentati drasticamente negli ultimi secoli.
Determinare dei tassi assoluti di estinzione è molto difficile per una serie di motivi. Innanzitutto variano molto a seconda del gruppo tassonomico: i vertebrati (soprattutto i mammiferi e gli uccelli) sembrano essere particolarmente vulnerabili, mentre la maggior parte delle piante risulta esserlo meno (per quanto riguarda gli invertebrati, invece, negli ultimi tempi diverse ricerche scientifiche hanno potuto verificare significative perdite di invertebrati, in particolare insetti, in diverse parti del mondo, N.d.C.).
Di tutte le specie pluricellulari che hanno vissuto sulla Terra, stimate tra i cinque e i dieci milioni, gli scienziati ne hanno catalogate solo due milioni, dunque la maggior parte degli esseri viventi probabilmente si estingue ancora prima che si sappia della sua esistenza. A partire dal 2010, solo 1200 specie confermate sono state registrate come estinte negli ultimi 400 anni. Tuttavia è molto più facile dimostrare che una specie esiste ancora piuttosto che si è estinta. Immaginiamo, per esempio, di provare a dimostrare che non ci sono cimici a Tokyo: è senza dubbio molto più difficile che accertarne l’esistenza. Ancora più preoccupante è la prospettiva del debito di estinzione. Molte popolazioni sono diventate così piccole che i pool genetici ridotti e altri fattori che ne limitano la riproduzione hanno reso inevitabile la loro futura scomparsa. Nel caso di specie di lunga durata come gli alberi, il calo dei tassi di riproduzione potrebbe averne già condannate alcune anche se le loro popolazioni rimangono sostanziose. Il castagno americano ne è un esempio: i suoi antichi ceppi sono stati abbattuti da una malattia fungina europea, ma germogliano ancora, per poi morire senza piantare i semi.
La sesta estinzione di massa non è ancora arrivata, però le società umane stanno accelerando i tassi di estinzione ben oltre i massimi storici, specialmente per i vertebrati. La pesca eccessiva da parte delle navi officina sta modificando rapidamente la biodiversità e le catene alimentari di interi oceani, portando a una «defaunazione» del reame marino più o meno simile a quella causata dai nostri antenati nell’ambiente terrestre. Se questi tassi di perdita non vengono ridotti, l’ecologia dell’Antropocene sarà definita dalla sesta estinzione di massa e da una drastica riduzione di biodiversità all’interno della biosfera.
OMOGENOCENE
Nel 1958, l’ecologo inglese Charles Elton pubblicò The Ecology of Invasions by Animals and Plants, richiamando l’attenzione su «uno dei più grandi sconvolgimenti storici nella fauna e nella flora del mondo». Le enormi perdite di biodiversità erano solo all’inizio. Trasportando specie in tutto il mondo, l’uomo stava abbattendo le barriere geografiche che per milioni di anni ne avevano limitato l’evoluzione. Fino agli anni Ottanta, Gordon Orians e altri ecologi definivano questa mescolanza globale di specie come l’inizio di una nuova era chiamata «Omogenocene». Nel diventare una specie globale, gli esseri umani stavano portando con sé il resto della biosfera.
L’uomo ha introdotto nuove specie almeno a partire dal Tardo Pleistocene, quando i cacciatori-raccoglitori iniziarono a diffondere quelle che preferivano. Molto probabilmente, però, l’Omogenocene è iniziato davvero quando le società umane e le loro reti commerciali a lunga distanza si sono sviluppate grazie all’avvento dell’agricoltura e poi potenziate in seguito allo scambio colombiano e all’evoluzione di catene di approvvigionamento a carattere globale.
I pattern contemporanei di introduzione delle specie riflettono questa storia, con le nazioni del Nord, le prime potenze commerciali industrializzate, che sono le responsabili maggiori, seguite dalle aree che si sono industrializzate successivamente.
Le specie «aliene» o «esotiche» introdotte sono preoccupanti, perché alcune si sono dimostrate in grado di surclassare, consumare eccessivamente e persino minacciare la sopravvivenza delle specie autoctone, rimodellando in questo modo la comunità biotica e invadendo gli ecosistemi in modo consistente. Per esempio il kudzu, un tipo di vite rampicante originaria dell’Asia, venne introdotta intenzionalmente nell’America settentrionale per utilizzarla come pianta ornamentale o come mangime per il bestiame. Nel giro di pochi decenni ha cominciato a essere chiamata «la vite che divora il Sud»: ricopriva le foreste e causava ogni anno danni superiori a 100 milioni di dollari. Il kudzu è solo una delle migliaia di specie aliene invasive, delle quali più di cinquecento costituiscono un serio problema in tutto il mondo. Molti parassiti e malattie tipiche delle colture, del bestiame e della fauna selvatica sono specie introdotte che causano danni stimati per più di 100 miliardi di dollari all’anno, e sono ritenuti responsabili di quasi il 40% delle estinzioni di animali di cui si conosce la causa.
Ovviamente, non tutte le specie introdotte provocano danni di questo genere, molte rimangono in disparte o sono persino le benvenute.
Per esempio, in Europa, le specie
che si sono stabilite al di fuori del loro habitat naturale prima
del 1492 vengono chiamate «archeofite» e sono considerate «più
autoctone» delle successive «neofite», anche quando sono state
introdotte dai Romani o da altre civiltà antiche. Oggi nell’America
del Nord i lombrichi europei prevalgono sugli autoctoni, ma
nonostante abbiano modificato il terreno e interi ecosistemi solo
alcuni li considerano una specie sgradita.
Il concetto di varietà autoctona stabile ha ben poco significato
anche al di fuori dei Tropici, e forse nemmeno lì. Per milioni di
anni le specie della zona temperata sono migrate su e giù per i
continenti nel tentativo di stare dietro ai cicli glaciali e
interglaciali. Il cambiamento climatico non è mai stato così veloce
e mette a dura prova i tipici esempi di autoctoni contro invasori:
almeno nella zona temperata, le specie sono costrette a spostarsi
perché restare in un luogo significherebbe autocondannarsi
all’estinzione.
La ridistribuzione antropogenica delle specie ha già lasciato record stratigrafici sotto forma di nuovi gruppi di specie registrati in carote lacustri e in altri depositi materiali. Oltre a costituire un’evidente testimonianza del cambiamento ecologico trasformativo che si è verificato sulla Terra, queste sequenze possono anche rientrare fra i marcatori più complessi e diacronici delle alterazioni globali antropogeniche. L’Omogenocene è certamente qui, ma è anche qua, lì, ovunque: un mix confuso di cambiamenti diversi avvenuti in momenti differenti, che offre numerosi marcatori, ma nessuno adatto a segnare un limite inferiore per l’Antropocene, e che ha reso la conservazione e il ripristino delle specie infinitamente più impegnativi.
LINEE GUIDA VARIABILI
Il metodo classico di conservazione e ripristino delle specie è sempre stato quello di mantenere o ripristinare le popolazioni, gli ambienti e gli habitat al loro stato «naturale», definito in termini di una storica condizione di riferimento, o linea guida. Supponendo che queste indicazioni possano essere stabilite mediante prove paleoecologiche o altre evidenze storiche, rimangono due sfide: la prima è selezionare il parametro di riferimento più appropriato e la seconda è gestire gli ecosistemi in modo che rimangano o tornino all’interno di questo stato. Entrambi questi sforzi sono messi a dura prova dai cambiamenti ecologici antropogenici a lungo termine.
Nell’America settentrionale e in Australia, per esempio, è stato adottato per molto tempo il mito dell’incontaminato e le linee guida «naturali» sono state identificate con lo stato in cui vivevano le specie prima di entrare in contatto con gli europei; vennero quindi ignorate le trasformazioni ambientali causate dai nativi. Tuttavia questa è solo una fra le tante possibili linee guida naturali. Le condizioni erano più naturali prima delle ultime estinzioni della megafauna che si sono verificate nel Pleistocene? E durante i vari spostamenti delle società umane nel corso dei millenni? Voler scegliere per forza una linea guida specifica è più una questione di principio che di scienza.
Da un punto di vista pratico, le pressioni antropogeniche hanno reso quasi impossibile ripristinare e mantenere le condizioni storiche in moltissime zone del mondo, se non addirittura nella maggior parte. Le comunità biotiche vengono contemporaneamente trasformate dalla perdita di alcune specie e sopraffatte dall’invasione di altre. La conseguenza è spesso un netto aumento del numero totale di specie all’interno di un paesaggio o di una regione, tuttavia i nuovi esemplari arrivati sono in genere erbacce, parassiti e altri infestanti comuni; in questo modo aumentano sia la biodiversità sia l’omogeneizzazione biotica. Quindi a livello globale, nonostante le specie si estinguano, l’Omogenocene continua. Infatti, i cambiamenti sempre più rapidi nel clima, nei suoli e in altre condizioni ambientali abiotiche non fanno altro che aggiungersi e interagire con quelli che avvengono nel biota. Nell’Australia meridionale, per esempio, la gestione dell’irrigazione ha causato un accumulo di sale in alcuni terreni. Tale fenomeno ha favorito l’invasione di piante non autoctone – alcune delle quali anche in grado di sopravvivere a temperature più calde – che riescono a tollerare bene il sale, ma allo stesso tempo ha ridotto la biodiversità nel suo complesso.
È possibile mantenere uno stato di riferimento quando le comunità biotiche e gli ambienti abiotici hanno superato il loro range storico di variabilità? Secondo l’ecologo del ripristino (la disciplina scientifica di questo ambito si chiama ecological restoration, ecologia del ripristino, N.d.C.) Richard Hobbs e altri colleghi aderire alle linee guida in queste nuove condizioni potrebbe ostacolare i tentativi di conservazione e ripristino più di quanto non li aiuti. Gli ecosistemi ibridi, ovvero quelli in parte storici e in parte nuovi, potrebbero effettivamente essere riportati ai loro stati precedenti, ma per quanto riguarda il ripristino tradizionale è davvero molto improbabile che abbia successo ed è troppo costoso per essere impiegato in «ecosistemi nuovi» dove le condizioni biotiche e abiotiche si sono allontanate troppo dai livelli storici.
IL GIARDINO INDISCIPLINATO
Nell’Antropocene, le linee guida per la conservazione e il ripristino delle specie sono variabili, perché vengono modellate da valori e condizioni ecologiche antropogeniche altrettanto mutevoli e soggette all’attività dell’uomo. Quali significati assumono l’habitat o l’ecosistema naturale quando le comunità di piante e animali, le loro relazioni reciproche e i loro ambienti sono stati trasformati da precedenti cambiamenti sociali? Cosa significa essere una specie autoctona in un paesaggio agricolo o in una città dove l’ingegnerizzazione dei terreni, la gestione della vegetazione, i nutrienti in eccesso, l’inquinamento e altre condizioni alterate prodotte dall’uomo sono la norma, e non un disturbo?
Forse vi sarete meravigliati nel vedere alberi che crescono da un edificio abbandonato (probabilmente gli Ailanthus altissima del libro Un albero cresce a Brooklyn), erbacce che spuntano dai marciapiedi o persino falchi pellegrini che cacciano topi in città. Le specie stanno imparando a vivere negli ambienti umani e alcune lo stanno facendo molto bene. Per esempio gli uccelli con cervelli più grandi, fra cui le cornacchie e i corvi imperiali, si trovano meglio in ambienti umani complessi come le città. Vi sono anche prove del fatto che l’introduzione di specie aliene sta accelerando l’evoluzione di nuovi esseri viventi. L’ecologo Chris Thomas ha dimostrato che in Gran Bretagna i rododendri europei si sono incrociati con i loro parenti dell’America del Nord e hanno creato nuove popolazioni selvatiche, mentre, sempre nell’America settentrionale, un ibrido di due specie di moscerini della frutta si è evoluto e ha colonizzato i caprifogli invasori. Ancora più importante è che le società umane stanno attivamente ripristinando e imparando a convivere con specie che i loro antenati uccisero impunemente: in Europa si assiste alla ricomparsa dei lupi nei loro antichi terreni di caccia e negli Stati Uniti ritornano gli orsi neri, i puma o leoni di montagna e i coyote. La vita prospera ancora in quello che la scrittrice Emma Marris ha definito il «giardino indisciplinato» dell’Antropocene, in cui i nuovi ecosistemi formano nuove specie selvatiche. In una biosfera sempre più antropogenica come quella in cui viviamo oggi, si stanno formando nuovi rapporti: società, persone e fauna selvatica si stanno evolvendo insieme e creano nuove forme di vita, oltre a preservare e ripristinare quelle già esistenti.
SISTEMI SOCIOECOLOGICI
Gli scenziati sono sempre più impegnati a indagare le cause e le conseguenze del cambiamento ecologico antropogenico e a sviluppare nuovi modelli che includano la relazione fra sistemi umani e naturali. Negli anni Cinquanta, Eugene Odum ha evidenziato il tema della dipendenza umana dagli ecosistemi nel volume che ha poi contribuito a far conoscere il termine «ecologia» nei due decenni seguenti. Fra le altre cose, ha studiato anche la «successione secondaria» che si occupa del recupero della vegetazione in terreni agricoli abbandonati. Nel 1962, nel suo libro Primavera silenziosa, Rachel Carson ha portato all’attenzione del grande pubblico la prospettiva di un’ecologa riguardo alle diffuse conseguenze delle sostanze chimiche industriali. Lo studio degli ecosistemi presso il bacino idrico di Hubbard Brook ha condotto alla scoperta della pioggia acida negli anni Settanta. Nel 1986, invece, Peter Vitousek è diventato famoso per la sua stima, secondo cui l’uomo si stava «appropriando» di quasi il 40% della fotosintesi terrestre coltivando foreste e usando la terra per l’agricoltura. Prima ancora dell’Antropocene di Crutzen, Vitousek ha sostenuto l’ipotesi di una Terra rimodellata dall’uomo nel suo articolo pubblicato nel 1997 sulla rivista «Science», Human Domination of Earth’s Ecosystems.
Alla fine degli anni Settanta, gli ecologi hanno iniziato a occuparsi sempre più approfonditamente degli esseri umani nelle loro ricerche e a collaborare con scienziati sociali per studiare le connessioni tra i processi ecologici e quelli sociali. L’ecologia urbana, l’ecologia industriale e l’agroecologia si sono sviluppate come distinte sottodiscipline, mentre gli ecologi del paesaggio, i biologi della conservazione e altre scienze applicate si sono dedicati anche allo studio degli ecosistemi gestiti. Negli anni Novanta, Carl Folke ha sviluppato un famoso modello per i sistemi socioecologici, accelerando le collaborazioni tra ecologi e scienziati sociali per risolvere problemi che coinvolgevano sia la gestione ambientale sia il cambiamento sociale (Figura 37). L’economia ecologica (in cui l’ecologia è più importante), l’economia ambientale (in cui l’economia è più importante) e altre discipline affini hanno introdotto nuovi strumenti per affrontare le sfide della gestione ambientale, tra cui l’identificazione, la misurazione e la gestione dei «servizi ecosistemici» e i vantaggi sociali forniti dagli ecosistemi, come l’impollinazione, l’acqua pulita e le opportunità ricreative delle società umane.
Gli ecologi hanno anche ampliato il loro lavoro, fornendo alle simulazioni del sistema terrestre realizzate negli anni Novanta i modelli di una «biosfera attiva»: questo costituisce un grande progresso rispetto al passato, secondo cui la vegetazione rimaneva ferma anche dinanzi a importanti cambiamenti climatici. Immaginate alberi costretti a vivere nei deserti e un ciclo globale del carbonio governato dalla sola fisica.
Ecologi, economisti, geografi e altri studiosi stanno sviluppando nuove strategie per osservare, comprendere e creare modelli per un’ecologia globale attivamente influenzata dalle società umane, il che include anche le variazioni dello sfruttamento umano dei suoli, che costituiscono il più grande motore del cambiamento della biodiversità e delle emissioni di carbonio antropogenico nell’atmosfera fino al 1950.
BIOSFERA ANTROPOGENICA
I modelli globali degli ecosistemi terrestri sono stati a lungo plasmati dal clima, dal terreno e da altri vincoli degli ambienti abiotici a cui le specie si sono adattate. I deserti sono popolati da piante che si sono adattate ad ambienti secchi, quelle presenti nelle foreste pluviali tropicali amano il clima caldo e umido e in montagna la vegetazione cambia a seconda che ci si trovi alle pendici o sulla cima. Questo modello ambientale globale degli organismi viventi venne descritto per la prima volta da Alexander von Humboldt agli inizi del XIX secolo, favorendo lo sviluppo della biogeografia. Un secolo dopo, verso la metà degli anni Trenta, gli ecologi definirono questi modelli globali come «biomi», o «modelli ecosistemici su scala globale», un gradino sotto la scala più grande di tutti: la biosfera.
Poiché gli ecologi si trovavano di fronte a una biosfera sempre più antropogenica, si tentò di comprendere i modelli alterati dall’uomo. Negli anni Novanta, il telerilevamento satellitare produsse le prime mappe globali della copertura vegetale, comprese le coperture antropogeniche come colture e superfici artificiali e persino il bagliore delle luci notturne. Nel 2002, l’ecologo Eric Sanderson combinò questi dati con cartine stradali e mappe della densità della popolazione per identificare un indice di crescente influenza umana (la human footprint, N.d.C.), lasciando le terre selvatiche come aree libere dalle loro attività. I modelli della trasformazione umana dell’ecologia, stimati per una copertura di oltre l’80% delle terre emerse, diventavano sempre più chiari, ma continuavano a sembrare soltanto un fattore di disturbo di un mondo altrimenti naturale. Dal momento che la maggior parte della biosfera terrestre era stata rimodellata dall’uomo, diventò evidente la necessità di comprendere i modelli ecologici globali prodotti dalle interazioni umane con gli ecosistemi.
Nel 2007, ho collaborato con il geografo Navin Ramankutty per correggere questo problema integrando i dati sulle popolazioni umane, l’impiego del suolo per colture e pascoli, e usando la copertura vegetale per mappare i biomi antropogenici della Terra, rinominati «antromi» (Figura 38). I nostri dati hanno mostrato che nel 2000 oltre il 75% della biosfera terrestre era stato trasformato in antromi, comprese le aree urbane e altri fitti insediamenti (circa l’1% delle terre libere dai ghiacci), villaggi agricoli (6%), terre coltivate (16%), pascoli (32%) e terre seminaturali con la presenza di popolazioni umane inferiori di numero e con un uso limitato del suolo (20%), lasciando zone completamente selvagge in meno di un quarto della biosfera terrestre. In studi successivi abbiamo dimostrato che i primi importanti antromi emersero circa 8000 anni fa, e coprivano più della metà della biosfera terrestre tra 500 e 2000 anni fa, a seconda dei dati storici che abbiamo usato; queste però erano principalmente terre seminaturali. Solo nel secolo scorso più della metà della biosfera terrestre è stata trasformata negli antromi più intensamente utilizzati: aree urbane, villaggi, campi coltivati e pascoli.
Un risultato chiave nelle stime della trasformazione umana della biosfera terrestre è che persino nelle aree più densamente popolate e sfruttate in modo intensivo (tra cui città e villaggi) alcune zone considerevoli vengono lasciate libere dall’uso intensivo, a volte in modo intenzionale come nel caso dei parchi cittadini, ma soprattutto perché sia agricoltori sia costruttori tendono a evitare montagne, colline e altri ambienti meno adatti all’agricoltura e alle infrastrutture. Di conseguenza, gli antromi sono di solito dei mosaici di terre utilizzate intervallate dai rimanenti ecosistemi meno sfruttati e in via di recupero, che vengono spezzettati e inseriti in paesaggi, soggetti a caccia, raccolta di combustibile, invasioni di specie, inquinamento e altre pressioni umane. Solo il 40% della Terra viene utilizzato direttamente per colture, pascoli e insediamenti, ma questa porzione è bastata a trasformare un altro 35% in nuovi ecosistemi, con comunità biotiche e processi ecologici che da lungo tempo hanno oltrepassato qualsiasi linea guida storica «naturale».
L’uomo è molto più di un semplice disturbo per un mondo che senza di lui sarebbe naturale. I sistemi sociali umani si sono sviluppati sulla Terra come una forza planetaria, una vera e propria antroposfera che sta trasformando e sostenendo attivamente una biosfera antropogenica. I network sociali umani si intrecciano a livello globale nella rete della vita. Le decisioni prese in un posto possono cambiare l’ecologia dall’altra parte del pianeta e persino a livello globale; i sistemi umani e naturali sono «teleacoppiati» a livello globale. Mentre gli umani continuano a costruire la loro nicchia in tutto il pianeta, la Terra funziona sempre più come un sistema socioecologico con un proprio metabolismo sociale orientato a mantenere popolazioni sempre più ricche ed esigenti. Ben più del 90% dei mammiferi presenti oggi sulla Terra è composto da uomini e animali domestici. Quanto ci si può spingere oltre? Non c’è un limite al numero di persone e cambiamenti che può tollerare l’ecologia terrestre?
CRESCITA LIMITATA
Ben prima che Thomas Malthus (1766-1834, N.d.C.) pubblicasse il suo Saggio sul principio di popolazione nel 1798, molte volte l’uomo si è trovato a domandarsi «quante persone può sostenere la Terra?» e a cercare di trovare una risposta a questo interrogativo. Per esempio, nel 1679 Antoni van Leeuwenhoek (1632-1723, N.d.C.) calcolò questa cifra in 13,4 miliardi. Tuttavia, da quando Darwin per spiegare la sua teoria della selezione naturale usò la massima di Malthus, secondo la quale le popolazioni sono limitate da scarse risorse, questo concetto diventò essenziale per i dibattiti scientifici sui limiti planetari delle popolazioni umane.
Negli anni Venti, gli ecologi definirono questo numero «capacità portante» (K), ovvero i limiti ambientali alla crescita di una popolazione in un determinato habitat. Si sosteneva che quando le popolazioni crescevano oltre la loro capacità portante un disastro era imminente.
Ci si iniziò a preoccupare dei limiti della capacità portante umana nel 1968, quando l’ecologo Paul Ehrlich di Stanford pubblicò The Population Bomb: in questo libro prevedeva che negli anni Settanta centinaia di milioni di persone sarebbero morte di fame a causa del sovrappopolamento. Nel 1972, un influente rapporto intitolato I limiti dello sviluppo utilizzò le prime simulazioni al computer per esplorare le gravi conseguenze a cui sarebbe andato incontro il «naturale equilibrio ecologico della Terra» al superamento di un certo «equilibrio globale» da parte delle popolazioni. Nel 1994, Ehrlich dichiarò che «l’attuale popolazione di 5,5 miliardi […] ha chiaramente superato la capacità della Terra di sostenerla». Paul Ehrlich ha dato un grande contributo all’ecologia, ma le carestie che ha predetto devono ancora verificarsi (anche se sono ampiamente documentate numerose crisi, carestie e penurie alimentari in tante parti del mondo e la disponibilità di cibo per tutti con una popolazione in aumento, 80 milioni di esseri umani in più ogni anno, e una disuguaglianza sociale crescente è ormai un problema prioritario planetario, ambientale e sociale, N.d.C.).
L’attuale popolazione terrestre, che ammonta a più di 7 miliardi, è molto più nutrita, sana e longeva che in qualsiasi altro momento della storia dell’uomo (tuttavia miliardi di persone vivono spaventosi disagi sociali e una crescente disuguaglianza economica e sociale ormai intollerabile, N.d.C.). A partire dagli anni Settanta, i tassi di crescita della popolazione sono notevolmente rallentati e continuano a diminuire (Figura 39), principalmente a causa della «transizione demografica», in cui le popolazioni più urbane e meglio istruite tendono ad avere piccoli nuclei familiari.
Figura 39. Storia della popolazione umana, previsioni e tassi di crescita dal 1800 al 2100.
L’uomo sta continuando a urbanizzare i paesaggi, ma parallelamente calano i tassi di crescita della popolazione. È possibile che la popolazione umana raggiunga i 16 miliardi entro il 2100 e che continui a crescere, ma la previsione principale dei demografi è che in quell’anno si stabilizzi intorno agli 11 miliardi.
CONFINI PLANETARI
Sebbene la crescita della popolazione stia rallentando, la domanda di cibo, acqua, energia e altre risorse ambientali continua ad aumentare, poiché le popolazioni più ricche utilizzano maggiori risorse.
Per esempio, un gruppo di ecologi (il Global Footprint Network, N.d.C.) ha affermato che l’uomo attualmente usa l’equivalente di 1,6 risorse del pianeta per il proprio sostentamento, il che costituisce un insostenibile «superamento» della capacità portante della Terra. Per di più, molti scienziati, e non solo, temono che anche gli attuali livelli della popolazione e della domanda di risorse potrebbero contribuire in futuro al danneggiamento dei «sistemi di supporto vitale» della Terra in modi potenzialmente disastrosi. L’accelerazione del cambiamento climatico globale è solo una delle tante potenziali catastrofi.
Figura 40. Confini planetari. Per nove variabili ambientali globali, l’area grigio chiaro evidenzia i «confini sicuri», con un’ombreggiatura grigio scuro che indica che questi confini sono stati superati (perdita di biodiversità, cambiamenti climatici e variazioni del ciclo dell’azoto).
Nel 2009, un gruppo di scienziati tra cui Will Steffen e Hans Joachim Schellnhuber, hanno identificato nove di questi cambiamenti del sistema terrestre su «Nature», evidenziando i loro «confini planetari» che, «se attraversati, potrebbero generare inaccettabili cambiamenti ambientali» (il lavoro scientifico sui confini planetari è andato perfezionandosi negli anni; una nota pubblicazione su «Science» nel 2015 ha migliorato e aggiornato i dati e numerosi lavori scientifici si stanno ormai producendo sul tema, N.d.C., Figura 40). Attingendo al concetto di punti critici nel sistema Terra, il cui superamento potrebbe costringerla a uscire dal suo «stato stabile simile all’Olocene», la struttura dei confini planetari aumenta la possibilità che si verifichino cambiamenti catastrofici nel caso in cui il sistema terrestre si spinga oltre un punto critico.
Recentemente questo quadro e le sue versioni successive sono stati messi in discussione sia scientificamente sia come protocollo per le governance ambientali. Fatta eccezione per i cambiamenti climatici, l’esaurimento dell’ozono e l’acidificazione degli oceani (nel capitolo 8), le prove scientifiche dei punti critici nel sistema terrestre sono molto limitate (diverse ricerche dimostrano la validità dei confini planetari su altri fronti quali, per esempio, i grandi cicli biogeochimici dell’azoto e del fosforo in cui l’intervento umano fissa all’incirca la stessa quantità di azoto atmosferico ottenuta da tutti gli altri processi naturali messi insieme, nonché sull’utilizzo dei suoli che ha ormai trasformato il 76% delle terre emerse, N.d.C.). Molti dei cambiamenti del sistema terrestre inseriti nel quadro sono di tipo cumulativo, poiché derivano da trasformazioni locali e regionali che si sommano e non dalle alterazioni planetarie sistemiche, come l’accumulo atmosferico di gas a effetto serra, noti per produrre punti critici. Dal punto di vista politico è rischioso stabilire dei livelli sicuri per i cambiamenti della Terra, specialmente se non sono fortemente supportati da prove scientifiche, poiché significa insinuare che sotto una certa soglia non accadrà nulla di grave, mentre in caso di superamento i mutamenti saranno inevitabili. Accettare una simile visione rischia di generare compiacenza e disperazione allo stesso tempo. Entrambi questi sentimenti sono fuori luogo: non si dovrebbe accettare alla leggera la perdita di anche solo una specie e lo stesso vale per gli habitat locali (in pratica, allo stato attuale, il framework dei confini planetari ha avuto il grandissimo pregio di scatenare dibattiti internazionali e ricerca di azioni per risolvere i problemi globali in sedi significative del mondo economico – quali il World Economic Forum e il Business Council for Sustainable Development, nonché nell’ambito delle Nazioni Unite – e recentemente ha consentito la nascita dell’Earth Commission all’interno del più grande programma di ricerca internazionale sui cambiamenti globali e la sostenibilità, Future Earth, patrocinato dall’International Science Council, la maggiore organizzazione scientifica al mondo, con il compito di lavorare all’individuazione di target basati su evidenze scientifiche per condurre l’umanità su percorsi di sostenibilità del proprio sviluppo, mantenendo vitali e resilienti i sistemi di supporto della vita sulla Terra: suolo, acqua, biodiversità, oceani, N.d.C.). Ciononostante, l’appello a evitare di trasformare la Terra in modi che causano gravi danni sia alla natura umana sia a quella non umana ha contribuito ad aumentare queste serie preoccupazioni scientifiche a livello globale.
Tuttavia la domanda rimane: se le società stanno operando come una forza globale che sta trasformando la Terra a discapito sia dell’umanità sia della natura non umana, che cosa si dovrebbe fare al riguardo? Chi è responsabile? Chi dovrebbe agire?