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Anthropos
«Quando esattamente l’uomo ha ottenuto il controllo degli ambienti terrestri?» hanno chiesto nel 2013 gli archeologi Bruce Smith e Melinda Zeder nella rivista «Anthropocene». Più di un decennio dopo la chiamata alle armi di Crutzen, gli archeologi hanno provato per la prima volta a definire l’Antropocene.
Gli archeologi sono gli stratigrafi del mondo umano, specializzati nella lettura delle testimonianze materiali lasciate dalle società nel lungo periodo. Come gli stratigrafi in geologia, gli archeologi sono i cronometristi dell’umanità: ricostruiscono la storia sociale e ambientale delle civiltà a partire dalle testimonianze fisiche che esse si sono lasciate indietro. Per decenni hanno accumulato un numero impressionante di prove che dimostrano come l’uomo ha modificato drasticamente gli ambienti terrestri di tutto il mondo a partire dal Tardo Pleistocene.
Avendo a disposizione prove così solide, può sembrare incredibile che gli archeologi abbiano aspettato così tanto tempo prima di dedicarsi all’Antropocene; infatti, la richiesta di riconoscere una nuova epoca umana sarebbe potuta venire dall’archeologia stessa. Eppure, Smith e Zeder offrono ottimi motivi per cui questo non è accaduto. Secondo il loro punto di vista, l’inizio dell’Antropocene non dovrebbe essere definito esclusivamente dalle conseguenze ambientali delle attività umane, ma piuttosto dalla capacità senza precedenti sviluppata dall’uomo di alterare gli habitat della Terra.
I MIGLIORI INGEGNERI ECOSISTEMICI
Tutti gli organismi alterano il proprio habitat semplicemente occupando spazio, ancora di più nutrendosi e sostentandosi, tuttavia alcune specie note come «ingegneri dell’ecosistema» provocano effetti ancora maggiori. Alcune specie, come per esempio i castori (che costruiscono dighe) o i lombrichi (che scavano la terra), adottano comportamenti che modificano l’ambiente cambiando completamente le condizioni per se stesse e per tutte le altre che vivono nei medesimi habitat. Tali alterazioni, quando aumentano o diminuiscono in modo significativo la capacità di una specie di sopravvivere e riprodursi, possono essere considerate una «eredità ecologica», ovvero parte di un processo evolutivo chiamato «costruzione di nicchia» con cui gli organismi riproducono le condizioni ambientali in cui devono vivere. Come ha sottolineato Bruce Smith in «Science» nel 2007, gli umani sono i migliori ingegneri degli ecosistemi. Nessun’altra singola specie ha acquisito la capacità di adottare una così vasta gamma di potenti cambiamenti che alterano l’ambiente, dal disboscamento con il fuoco all’addomesticamento di altre specie, fino al dissodamento del terreno. Tale eccezionale abilità di costruirsi la loro propria nicchia ha aiutato le civiltà umane a prosperare e crescere oltre i naturali vincoli ambientali che hanno limitato altre specie di organismi. Secondo Smith, Zeder e un numero sempre maggiore di archeologi è proprio questa crescente attitudine dell’uomo per la costruzione della sua nicchia la causa ultima della transizione della Terra verso l’Antropocene.
ANTENATI
Le prime testimonianze delle eccezionali capacità del genere umano vennero prodotte molto prima che l’uomo esistesse come specie. Infatti, quando l’Homo sapiens comparve circa 300.000 anni fa, in Africa, c’era ben poco, oltre alla sua anatomia, che lo distinguesse dalle altre specie del genere Homo. Questi primi «umani anatomicamente moderni» erano significativamente meno robusti dei loro antenati, con una struttura più leggera, mascelle e denti più piccoli e un cranio più rotondo. E, mentre il loro cervello era più grande di quello delle specie precedenti, avevano generalmente una corporatura più minuta di quella di un’altra specie di Homo che viveva nello stesso periodo: il Neanderthal (Homo neanderthalensis). Per decine di migliaia di anni gli umani hanno utilizzato strumenti di pietra, usato il fuoco e vissuto in modi simili ai loro progenitori e ai loro cugini, i Neanderthal. Il primo manufatto di pietra è stato fatto da un nostro antenato, l’Australopithecus, più di 3,3 milioni di anni fa. I primi strumenti di pietra realizzati da Homo sapiens sono molto simili alle asce prodotte 1,6 milioni di anni prima dai nostri antenati del genere Homo. Un controllo del fuoco ben dimostrato risale a 400.000 anni fa, ma potrebbe risalire anche a 2 milioni di anni fa, se non ancora prima. Chiaramente, i «migliori ingegneri ecosistemici» ereditarono uno o due trucchi dai loro antenati.
A poco a poco, a partire da oltre 100.000 anni fa, gli umani iniziarono a fabbricare strumenti in modo diverso rispetto ai loro predecessori, usando nuovi materiali, come per esempio le ossa, nuovi metodi di fabbricazione e progetti più complessi. Incisero simboli su conchiglie e ossa, realizzarono e indossarono gioielli e decorarono i loro corpi e le loro abitazioni rupestri con l’ocra, un minerale ricco di ferro, e il carbone. Si scambiavano a grandi distanze i materiali necessari per realizzare oggetti e ornamenti, tra cui selce, ossidiana e conchiglie. I loro insediamenti si fecero più grandi e complessi e le loro strategie di caccia e foraggiamento dimostrarono un livello del tutto nuovo di efficacia. Per alcune decine di migliaia di anni, gli esseri umani acquisirono comportamenti sempre più «moderni» e complessi, socialmente appresi e socialmente attuati, e ne lasciarono chiare tracce sparse per tutta l’Africa. Nel Tardo Pleistocene, oltre 60.000 anni fa, queste complesse testimonianze materiali iniziarono a fornire prove del fatto che nuove forme di società umane dal comportamento «moderno» stessero sviluppando capacità sociali ben superiori a quelle di qualsiasi precedente specie nella storia della Terra.
UNA PRIMA GRANDE ACCELERAZIONE
Lo sviluppo e l’aumento di comportamenti moderni da parte dell’uomo segnò un importante cambiamento a lungo termine nella sua capacità di costruirsi le proprie nicchie. Apprese da altri nuovi metodi per fabbricare strumenti, nuove strategie per modificare e sfruttare gli ambienti, persino nuovi modi di cooperare, e li trasmise alle generazioni successive, in parte attraverso un uso sempre più sofisticato delle lingue. Iniziò a vivere in un mondo sempre più socievole, in cui la sopravvivenza quotidiana dipendeva dalla collaborazione con i propri simili, dalla messa in pratica di comportamenti socialmente appresi.
Le conoscenze acquisite grazie all’apprendimento sociale, ovvero la cultura, diventarono essenziali per raccogliere le piante giuste e non quelle velenose, per migliorare gli strumenti (comprese lance con la punta di pietra per la caccia) e per alterare l’ambiente in modi sempre più trasformativi, inclusa la costruzione di trappole, dighe e deviazioni rocciose per aiutarsi nella caccia e nella pesca. Le interazioni e gli scambi sociali complessi diventarono fondamentali per guadagnarsi i beni di prima necessità, a cominciare dalle strategie cooperative per la caccia, la ricerca e la distribuzione della raccolta, per arrivare al commercio a distanza di ocra, materiali per strumenti in pietra (selce, ossidiana) e gioielli (conchiglie, piume), fino a nuove modalità di scambio degli alimenti al di fuori delle classiche relazioni biologiche di parentela. Come avvenne per l’ingegneria dell’ecosistema e lo scambio, forme sempre più diverse di interazione sociale iniziarono a svilupparsi con rapidità crescente grazie a processi di evoluzione culturale. Un esempio: le intricate relazioni gerarchiche e i ruoli specializzati, dai doveri cerimoniali dello sciamano all’ascesa di grandi gruppi sociali, comprese le società tribali con distinti livelli di leadership all’infuori dei piccoli gruppi egualitari, o bande, che caratterizzavano le prime società umane. Lo sviluppo delle lingue svolse probabilmente un ruolo chiave in questo, aumentando la precisione con cui le informazioni culturali potevano essere trasmesse socialmente e di generazione in generazione. Più queste informazioni si accumulavano, più la cultura si evolveva.
Alla fine del Pleistocene, per
costruirsi la propria nicchia, l’uomo doveva mettere in campo una
vasta gamma di strumenti e tecniche che gli permettessero di
sfruttare e modificare molti ambienti diversi e di viverci. Pian
piano divenne sempre più capace di cooperare, svolgendo per esempio
una grande varietà di attività coordinate, volte a modificare e
alterare la natura. Armati di queste nuove abilità sociali, oltre
60.000 anni fa i nostri antenati iniziarono a emigrare a ondate
fuori dall’Africa, portandosi dietro la loro capacità sociale di
cambiare il mondo (Figura
24).
Le prime comunità umane considerate moderne dal punto di vista del
comportamento si svilupparono probabilmente in Africa, ma ben
presto la loro espansione in tutto il pianeta rese l’Homo sapiens una specie globale; 14.000 anni fa,
prima che finisse il Pleistocene e iniziasse l’Olocene, l’uomo si
era stabilito in tutti i continenti a eccezione dell’Antartide.
DEFAUNAZIONE
Ovunque andassero, gli uomini lasciavano prove archeologiche del loro passaggio, come per esempio depositi di carbone, strumenti e altri manufatti, persino ossa e resti appartenenti sia a loro stessi sia alle specie che cacciavano. Adattandosi ai nuovi ambienti, le diverse società svilupparono diversi strumenti e stili di vita che cambiavano da regione a regione, mentre i cacciatori-raccoglitori impararono a catturare e consumare una varietà sempre maggiore di specie. Così facendo, la nicchia umana iniziò ad ampliarsi. Fra le nuove specie cacciate dall’uomo ce n’erano molte che non si erano evolute per convivere con un primate costruttore di nicchie, dotato di strumenti, che usava il fuoco e cacciava in gruppo. Ben presto molte di queste specie si estinsero, in particolare quelle della megafauna: animali di grandi dimensioni tanto apprezzati dai cacciatori, come per esempio il gliptodonte (un parente gigante dell’armadillo) e i bradipi terricoli del genere Megatherium, grandi come elefanti.
Nel Tardo Pleistocene e all’inizio dell’Olocene, i cacciatori-raccoglitori probabilmente causarono l’estinzione di quasi la metà dei mammiferi di grandi dimensioni presenti sul pianeta e di molti grandi uccelli che vivevano in Australia. Le Americhe e l’Australia persero la maggior parte delle specie, dal 70 a quasi il 90% di tutta la loro megafauna di mammiferi, mentre l’Eurasia ne perse meno del 40% e l’Africa solo il 20. È probabile che queste differenze regionali riflettano la storia della loro esposizione al genere Homo, infatti l’evoluzione della fauna in Africa e in Eurasia andò di pari passo con quella degli esseri umani. Nelle Americhe e in Australia, invece, la megafauna non fu molto fortunata: senza alcuna esperienza, si trovò a dover affrontare improvvisamente il miglior predatore della Terra, munito di armi appuntite da lanciare, che utilizzava il fuoco ed era capace di coordinare le strategie di caccia tra gruppi numerosi (Figura 25).
Il peso che i cacciatori-raccoglitori ricoprirono nell’estinzione di massa di tali specie rimane un argomento di continuo dibattito fra gli scienziati.
Figura 25. Caccia in gruppo di un mammut lanoso usando lance con la punta di pietra.
Una delle estinzioni di megafauna più affascinanti è quella dei nostri parenti più stretti, i Neanderthal, che hanno convissuto e si sono persino riprodotti con noi per migliaia di anni dopo l’arrivo dell’uomo in Eurasia, estinguendosi solo circa 40.000 anni fa. I vari motivi possono essere stati la competizione, le malattie e il cambiamento climatico. Quest’ultimo è considerato almeno in parte responsabile di molte delle estinzioni della megafauna, dal momento che gli intervalli freddi del Tardo Pleistocene e del primo periodo dell’Olocene si verificarono contemporaneamente all’arrivo dell’uomo. Eppure, queste stesse specie erano già sopravvissute a decine di intervalli glaciali e interglaciali ed è probabile che il cambiamento climatico combinato con la predazione umana ne abbia accelerato l’estinzione. Anche l’uso del fuoco da parte dell’uomo potrebbe aver contribuito, poiché potrebbe aver aumentato la frequenza e l’estensione degli incendi nelle regioni più secche, alterando e spostando non intenzionalmente gli habitat naturali.
Oggi i cacciatori-raccoglitori usano di proposito il fuoco per rendere più accessibili le foreste molto fitte e aumentare la produttività della vegetazione terrestre, necessaria per attirare la selvaggina e avere più successo nella caccia. I primi cacciatori-raccoglitori potrebbero aver usato metodi simili per rimodellare la struttura della vegetazione. Per di più, si pensa che la scomparsa della megafauna (sia di erbivori sia di carnivori) abbia alterato anche la crescita di quest’ultima. Per esempio, l’estinzione dei mammut lanosi indotta dall’uomo potrebbe aver ridotto lo sfruttamento della vegetazione legnosa, consentendo la sua ricrescita nelle vaste praterie settentrionali della «steppa dei mammut»: le praterie e i mammut scomparvero all’incirca nello stesso momento. Esistono addirittura prove plausibili del fatto che la perdita della megafauna e della sua capacità di dispersione dei semi potrebbe aver limitato la proliferazione di molte specie di alberi ad alta produttività, dato che alcuni di questi avevano semi troppo grandi per essere trasportati da animali più piccoli, riducendo così l’assorbimento di carbonio da parte delle foreste.
UNA MEGAFAUNA ANTROPOCENICA?
Un solido corpus di prove oggi conferma che negli ultimi 50.000 anni del Tardo Pleistocene e all’inizio dell’Olocene i cacciatori-raccoglitori modificarono drasticamente la struttura della flora e della fauna presenti sulla Terra. Altre evidenze suggeriscono che la perdita di megafauna e l’uso del fuoco potrebbero aver alterato la vegetazione a un livello tale da trasformare in modo significativo il clima terrestre. Per esempio un rapido aumento della vegetazione legnosa comporta un maggiore assorbimento di anidride carbonica, che causa il raffreddamento terrestre; tuttavia, le fitte distese di boschi, essendo più scure delle aree sterili e coperte di neve, assorbono maggiore energia solare, come gli oceani, e causano un incremento di temperatura. Questo riscaldamento è ulteriormente rafforzato dagli scambi di umidità ed energia che avvengono fra la vegetazione e l’atmosfera. Secondo alcune prove, anche il metano rilasciato dai sistemi digestivi della megafauna potrebbe aver riscaldato la Terra in modo considerevole, per cui la loro scomparsa potrebbe aver raffreddato il pianeta verso la fine del Pleistocene.
Oggi l’obiettivo di numerose proposte scientifiche è quello di basarsi sulle conseguenze ambientali dell’estinzione della megafauna e del potenziamento degli incendi, specialmente nelle Americhe, per datare l’inizio dell’Antropocene verso la fine del Pleistocene, circa 14.000 anni fa. Sebbene siano al contempo intriganti e suggestive, queste ipotesi devono fare i conti con molteplici carenze. Non vi è alcun dubbio che l’estinzione della megafauna abbia alterato il funzionamento degli ecosistemi in diversi continenti, con gravi ripercussioni sulla biosfera terrestre, ciononostante le prove empiriche raccolte e i modelli di simulazione del clima ancora non bastano a convincere la maggior parte degli scienziati che ciò possa aver modificato anche il clima e il funzionamento della Terra. Oltretutto, queste estinzioni di specie e le trasformazioni della vegetazione assomigliano a quelle che si verificarono prima della comparsa dell’uomo, tutte altamente diacroniche. È quindi molto improbabile che questi cambiamenti alla fine consentano di identificare un chiodo d’oro che possa essere correlato nel tempo in diversi siti di tutto il mondo.
AGRICOLTURA
A mano a mano che espansero le loro nicchie in tutta la Terra, i cacciatori-raccoglitori iniziarono anche a trasformare la biosfera; tuttavia queste alterazioni furono niente in confronto a quelle che vennero dopo. Secondo Smith e Zeder, è il processo di domesticazione a fornire la testimonianza archeologica della grave manipolazione umana degli ecosistemi terrestri e a segnare quindi l’inizio dell’Antropocene. L’ascesa e la diffusione delle società agricole hanno scatenato un processo di cambiamenti ambientali a livello globale che continua ancora oggi.
L’agricoltura si è sviluppata a partire dalle tecniche utilizzate dai cacciatori-raccoglitori per costruire nicchie pre- e protoagricole. A mano a mano che la popolazione cresceva e la cultura si arricchiva, i cacciatori-raccoglitori appresero socialmente numerosi comportamenti che consentirono loro di migliorare la produttività degli ambienti in cui vivevano e li aiutarono anche a adattarsi alle trasformazioni ambientali innescate dai loro antenati. Una volta che la megafauna, la preferita dall’uomo, e altre specie diventarono rare o si estinsero, gli uomini impararono a cacciare una maggior varietà di animali, ampliando le loro diete e la loro nicchia. Bruciarono la vegetazione per incoraggiare una nuova crescita; impararono ad aumentare l’apporto nutrizionale dato dalla caccia e dal foraggiamento cucinando, macinando e trasformando in modo funzionale gli alimenti di origine animale e vegetale, rendendo per la prima volta utili i piccoli cereali e i tuberi. Sparsero i semi dei cibi vegetali che gradivano e organizzarono i gruppi di animali che cacciavano e che avrebbero poi addomesticato. Queste tecniche di costruzione di nicchie erano molto meno produttive dei sistemi agricoli che si svilupparono in seguito, ma permisero comunque alle popolazioni di crescere ben oltre quello che sarebbe stato possibile in ecosistemi inalterati. Al fine di mantenere queste società in crescita, dal punto di vista numerico e della complessità, sarebbero poi state necessarie modifiche ambientali sempre più intense, insieme a migrazioni verso regioni meno popolate. La scena era pronta per portare la costruzione di nicchie umane a un livello completamente nuovo: l’ascesa e la diffusione dell’agricoltura.

Figura 26. Centri di domesticazione. Luoghi dove avvenne la domesticazione di almeno un animale o una pianta. Le principali regioni segnalate da lettere: A. Sudovest asiatico, B. Asia meridionale, C. Asia orientale, D. Nuova Guinea, E. Africa e Arabia del Sud, F. America del Nord, G. America centrale, H. America del Sud.
Società dipendenti dall’agricoltura emersero in più di una dozzina di centri di domesticazione sparsi in tutti i continenti popolati, eccetto l’Australia (Figura 26). Alcune si svilupparono 12.000 anni fa durante il passaggio tra Pleistocene e Olocene, come nell’Asia sudoccidentale, nell’America del Sud e nella Cina settentrionale, altre circa 6000-8000 anni fa, nei pressi del fiume Yangtze in Cina e in America centrale, mentre altre ancora nacquero intorno ai 4000-5000 anni fa in Africa, India, nel Sudest asiatico e nelle praterie dell’America del Nord. In alcuni casi, i cacciatori-raccoglitori sedentari passarono all’agricoltura in un secondo momento, come nell’Asia sudoccidentale o vicino al fiume Yangtze; in altri casi, invece, i cacciatori nomadi iniziarono a muoversi in massa, come in Africa, oppure si dedicarono all’agricoltura itinerante, come in India, Nuova Guinea e America del Sud (Figura 27).
Le popolazioni agricole crebbero più rapidamente di quelle dei cacciatori-raccoglitori e finirono per prendere il loro posto nelle terre più fertili della Terra non solo nei primi tempi, ma anche in seguito quando questi adottarono le stesse pratiche agricole. I cambiamenti sociali e ambientali portati dall’agricoltura non furono costanti nel tempo. Innumerevoli società crollarono e ricominciarono da zero. Tuttavia, nel lungo termine ci fu una chiara tendenza all’aumento delle società agricole supportate da tecniche di sfruttamento del terreno sempre più produttive, o di «intensificazione agricola».
I primi metodi di agricoltura itinerante consistevano nel coltivare la terra per un anno o due e poi liberarla una volta che la fertilità del suolo diminuiva. Con il tempo le popolazioni agricole, il fabbisogno di risorse e le capacità sociali e culturali aumentarono e si svilupparono, così vennero adottate tecniche più impegnative e ad alta intensità energetica per incrementare la produttività del suolo, come per esempio la semina annuale, l’irrigazione, la concimazione, l’uso dell’aratro e altri metodi. L’impiego di concimi per incrementare il raccolto iniziò nell’Asia sudoccidentale e in Europa già 8000 anni fa, in base a quanto si può desumere dai rapporti isotopici di azoto stabile nei cereali conservati, mentre le prime tracce della produzione di riso irrigato risalgono a 7000 anni fa in Cina e India, affermandosi ampiamente circa 5000 anni fa nelle principali regioni di produzione del riso.

Figura 27. Cronologia dello sviluppo agricolo, che illustra le differenti strade intraprese in diverse regioni durante un vasto arco temporale.
Numerose prove confermano che lo sfruttamento agricolo dei terreni si diffuse verso la metà dell’Olocene, compresi i depositi di suolo e sedimenti causati da una maggiore erosione del terreno, la presenza di carbone, i resti di piante coltivate ed erbacce, tra cui polline, granuli di amido e fitoliti (cristalli di silice prodotti in cellule vegetali), le ossa e altri resti del bestiame domestico, i cambiamenti nella composizione isotopica dei suoli e dei concimi fossili e le alterazioni a lungo termine nella struttura della vegetazione e nella composizione delle specie determinati dai primi disboscamenti e dalle lavorazioni del terreno. I boschi che oggi si estendono dal Mediterraneo ai Tropici sono sempre più riconosciuti come eredità biologico-culturale delle lunghe storie del precedente uso umano.
Lo sfruttamento agricolo dei terreni produceva anche terre antropogeniche: terreni «plaggen» ricchi di concime, presenti nell’Europa nordoccidentale, che potrebbero risalire al 4000 a.C.; «terra preta», o «terra scura», arricchita di carbone vegetale e materiali di scarto, che si estende in tutto il bacino amazzonico e che risale all’incirca al 500 a.C. Quest’ultima potrebbe essere stata prodotta anche in Africa, insieme a vari «anthrosol» alterati da concimazione, lavorazione del terreno, irrigazione e altre pratiche di sfruttamento del suolo in diverse regioni. La diffusa presenza di terre antropogeniche, circa 2000 anni fa, è stata suggerita come chiodo d’oro per l’Antropocene, sebbene queste non costituiscano una buona base per una proposta di GSSP per via della loro origine diacronica.

Figura 28. Mappa globale della storia dell’uso dei terreni, indicante la tempistica del primo sfruttamento intensivo delle terre agricole.
La trasformazione agricola della Terra cominciò più di 10.000 anni fa e continua ancora oggi a convertire gli habitat naturali in paesaggi agricoli progettati e strutturati per sostentare le popolazioni di specie addomesticate (Figura 28). Diffusasi per millenni, l’agricoltura iniziò a lasciare un’eredità di chimica del suolo alterata e processi sedimentari trasformati dal disboscamento, dalla lavorazione del terreno e dall’erosione. L’idrologia venne modificata da bacini idrici e sistemi di irrigazione e il funzionamento della biosfera, dell’atmosfera e di tutto il sistema Terra iniziò a cambiare.
LA PRIMA IPOTESI ANTROPOGENICA
Nel 2003 William Ruddiman pubblicò un articolo intitolato The Anthropogenic Greenhouse Era Began Thousands of Years Ago. Secondo Ruddiman, eliminando le foreste per l’agricoltura e irrigando le risaie, gli antichi contadini produssero emissioni di anidride carbonica e metano sufficienti per alterare in modo significativo la concentrazione di gas serra presenti nell’atmosfera (Figura 29). In questo modo, causarono un effetto riscaldante tale da ritardare il successivo ciclo glaciale del Quaternario. Da allora la «prima ipotesi antropogenica» di Ruddiman è stata messa a dura prova in decine di articoli scientifici. Alcune delle sue affermazioni rimangono controverse, tuttavia la sua proposta di base, secondo cui l’uomo acquisì la capacità di modificare il funzionamento del nostro pianeta prima dell’era industriale, è ancora presa in seria considerazione dagli scienziati del sistema Terra, ed è supportata da molteplici prove.
Figura 29. L’ipotesi di Ruddiman sostiene che i cambiamenti preindustriali della CO2 atmosferica e del metano a metà dell’Olocene si discostassero dalle tendenze «naturali» osservate negli intervalli interglaciali precedenti, e che queste deviazioni fossero causate dal disboscamento dei terreni agricoli (CO2), dalla risicoltura e dagli ungulati domestici (principalmente bestiame e bufali) nel caso del metano.
L’ipotesi di Ruddiman pose a confronto i trend «naturali» al ribasso dell’anidride carbonica atmosferica e del metano rilevati nei precedenti intervalli interglaciali con quelli dell’Olocene. A differenza di quanto accaduto nei precedenti cicli, 5000 anni fa, verso la metà dell’Olocene, le concentrazioni di metano smisero di diminuire e iniziarono a salire. Una tendenza simile si osservò anche per quanto riguarda l’anidride carbonica, a partire da 7000 anni fa. L’ipotesi di Ruddiman attribuì queste tendenze anomale alle emissioni di gas serra causate dall’agricoltura.
Nel 2011 l’archeologo Dorian Fuller utilizzò un modello storico delle risaie per dimostrare che le emissioni di metano derivanti dalla produzione di riso potrebbero giustificare circa l’80% dell’iniziale trend antropogenico del metano atmosferico (Figura 30). Il lavoro successivo con isotopi di carbonio confermò che queste prime emissioni di CH4 erano effettivamente antropogeniche.

Figura 30. Emissioni di metano dalla terra nella produzione di riso secco e umido da 6000 a 1000 anni fa (dal 4000 a.C. al 1000 d.C.).
Spiegare l’andamento anomalo dell’anidride carbonica è stato più impegnativo, in parte perché i flussi biogeochimici globali che regolano la CO2 nell’atmosfera sono più complessi e più difficili da misurare rispetto a quelli del metano. Per esempio bisogna considerare contemporaneamente sia i tassi di emissione del carbonio quando il terreno viene disboscato, la vegetazione bruciata e il suolo arato, sia l’assorbimento di carbonio quando la vegetazione ricresce dopo che la terra è stata abbandonata. È inoltre necessario bilanciare le emissioni con l’assorbimento di carbonio da parte dell’oceano, delle torbiere e di altre componenti del ciclo globale del carbonio.
I critici si sono chiesti come abbiano fatto le piccole popolazioni agricole della metà dell’Olocene, specialmente le poche decine di milioni presenti 7000 anni fa, a ripulire e coltivare un’area relativamente grande, e perché le loro emissioni non sembrano accelerare con la successiva crescita della popolazione durante l’Olocene. Se le stime sono calcolate sulla base di una quantità costante di terra utilizzata per persona, i primi disboscamenti ed emissioni di carbonio erano troppo limitati per sostenere l’ipotesi di Ruddiman. Tuttavia, includendo i trend storici dell’intensificazione dell’uso del suolo, quando i primi agricoltori usavano molta più terra per persona rispetto a oggi anche se molto meno intensamente, il disboscamento e le emissioni seguono tendenze simili a quelle osservate nella seconda metà dell’Olocene.
Le recenti simulazioni climatiche hanno confermato che le emissioni di gas serra delle prime società agricole erano in grado di alterare la traiettoria climatica della Terra, tuttavia l’entità di questo cambiamento e le sue tempistiche sono ancora oggetto di ricerca. Le maggiori emissioni agricole di anidride carbonica risalenti a circa 7000 anni fa rimangono un’ipotesi plausibile anche se controversa; invece, le prime di metano (causate dalla produzione di riso) sono a oggi pienamente accettate come causa del suo sostanziale aumento nelle concentrazioni atmosferiche avvenuto circa 5000 anni fa. Contrassegnati in una sequenza di carote di ghiaccio simile a quella che definisce l’Olocene, i primi cambiamenti antropogenici nel metano atmosferico sono stati proposti come potenziali chiodi d’oro per marcare il limite inferiore dell’Antropocene; tuttavia, le difficoltà di trovare una correlazione a livello globale che non sia la carota di ghiaccio rendono più difficile adottarlo come confine cronostratigrafico ufficiale nel GTS.
AVANTI E INDIETRO
Nonostante il periodico crollo delle singole società, le popolazioni agricole continuarono a crescere, aumentarono in densità e 6000 anni fa si erano già espanse in tutti i continenti eccetto l’Australia. Con il tempo vennero sviluppati sistemi di sfruttamento del suolo più intensi e produttivi, a supporto di popolazioni sempre più concentrate. I rendimenti maggiori portarono a eccedenze agricole che vennero rimosse dal commercio e dalla tassazione, consentendo la crescita di popolazioni urbane con società più gerarchiche e complesse in cui esistevano ruoli specializzati come l’artigiano e il commerciante, fino al re, e nuovi strumenti per vivere in un mondo sociale, tra cui denaro, scrittura e metallurgia, la chiave per nuove forme di armamenti. Le economie di scala in popolazioni urbane più ampie offrirono molteplici vantaggi: per esempio le arricchirono e diedero accesso a maggiori servizi, inoltre attirarono le popolazioni rurali favorendo un’ulteriore crescita urbana, fatta eccezione per la periodica insorgenza di malattie. A partire più o meno dal 3000 a.C., nella valle dell’Indo, le prime città con una popolazione di almeno 50.000 abitanti diventarono i centri di potere e commercio delle società su larga scala. Entro l’1 d.C. in Asia, Vicino Oriente ed Europa prosperarono città con centinaia di migliaia di abitanti sempre più dipendenti da vaste reti commerciali, alcune delle quali si estendevano in diversi continenti, come la via della seta che collegava l’Europa occidentale con la Cina orientale, e anche da un numero crescente di rotte marittime. Le società umane stavano facendo avanti e indietro.
Dedicatesi a commercio, guerra, religione e altre interazioni sociali, le società diventarono sempre più interconnesse nei «sistemi mondiali» di scambio. Le conoscenze culturali, i manufatti, le risorse naturali e gli organismi viventi si diffusero rapidamente in questi sistemi mondiali, sia intenzionalmente come beni commerciali, sia involontariamente come clandestini, compresi parassiti e malattie. L’uomo costruì strade e corsi d’acqua per raggiungere con le merci luoghi sempre più distanti e, dopo aver esplorato i luoghi più vicini, iniziò ad allontanarsi e a commerciare con nuove terre e nuove società, supportato da sempre più imbarcazioni e migliori tecniche di navigazione, che permisero ai mari aperti di diventare le autostrade dello scambio intersocietario.
Seppur con tecnologie più tradizionali, 3.500 anni fa le società polinesiane iniziarono a espandersi in barca nelle isole del Pacifico e portarono con sé diverse specie addomesticate, fra cui banane e patate dolci, cani, maiali, polli, e, inavvertitamente, anche ratti. Questo processo di colonizzazione finì per stravolgere i paesaggi e gli ecosistemi: numerose infatti furono le conseguenze dell’uso del fuoco, del disboscamento, della coltivazione di specie addomesticate e dell’introduzione di ratti e altre nuove specie animali e vegetali, che divorarono e surclassarono un gran numero di varietà autoctone. La megafauna, animali più piccoli e persino molte specie di piante si estinsero. La prova materiale di questa colonizzazione agricola è presente in tutto il Pacifico, dalle Hawaii alla Nuova Zelanda, sotto forma di manufatti culturali, carbone, suoli erosi, nuove specie introdotte e specie estinte.
IL SISTEMA DI GLOBALIZZAZIONE MONDIALE
Sebbene le società del «Vecchio Mondo» presenti in Eurasia fossero già interconnesse grazie al commercio da più di 2000 anni, e l’uomo fosse presente ormai in tutti i continenti eccetto l’Antartide, le società umane non erano ancora collegate a livello globale. Tutto questo sarebbe cambiato quando le popolazioni europee si fossero spinte oltre le abituali rotte commerciali, nel tentativo di arricchirsi e incrementare il loro potere e la loro influenza. Oltre cinque secoli fa, i risultati di questi sforzi avrebbero portato al primo considerevole scambio bilaterale di cultura e biologia fra l’Europa e le Americhe. La «scoperta» accidentale delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo innescò un processo di cambiamenti sociali e ambientali a livello globale senza precedenti, detto «scambio colombiano», che permise al Vecchio e al Nuovo Mondo di fondersi insieme. Spinte dagli sforzi europei per sottrarre ricchezze alle Americhe, le società umane vennero integrate per la prima volta in un vero e proprio sistema mondiale di scambi sociali, materiali e biologici.
Gli europei bramavano oro, spezie e altre rare risorse naturali, ma le loro rotte commerciali erano ricche anche di forze sociali e biologiche profondamente trasformative: nuove pratiche culturali, nuove tecnologie, specie addomesticate e malattie. Patate americane, pomodori, peperoncini e mais trasformarono i sistemi agricoli di tutto il mondo, non solo in Europa, ma anche in Asia e in Africa; il bestiame domestico – per esempio cavalli (i cavalli indigeni si estinsero nel Pleistocene), bovini e maiali – cambiò le strategie di sostentamento in tutte le Americhe. Molte altre specie furono solo di passaggio e finirono per mescolarsi attraverso un rapido processo di «omogeneizzazione biotica» a esemplari di flora e fauna che per milioni di anni si erano evoluti separatamente in diversi continenti. Tutti questi cambiamenti hanno lasciato delle prove nei record stratigrafici, ma uno specifico scambio biologico si distingue per i suoi rapidi effetti trasformativi.
Secondo alcune stime, 50 milioni di nativi americani morirono tra il 1492 e il 1650 a causa del vaiolo e di altre malattie a cui non erano mai stati esposti e che erano state introdotte dai colonizzatori del Vecchio Mondo. I risultati furono catastrofici: la popolazione calò drasticamente del 50-90% e anche di più, facendo collassare intere civiltà. Le epidemie si diffusero tanto rapidamente attraverso le reti di scambio indigene che molte società native furono spazzate via ancora prima che gli europei le raggiungessero. Il lavoro forzato, il reinsediamento, la violenza coloniale e l’importazione di schiavi non fecero altro che accelerarne la decimazione.
Quando gli europei iniziarono a trasformare i paesaggi americani in piantagioni e ranch commerciali su larga scala, le società indigene, che si erano dedicate a lungo all’agricoltura e avevano usato il fuoco per gestire la vegetazione, si erano già ridotte notevolmente. In loro assenza le foreste iniziarono a ricrescere, e assorbirono così tanto carbonio che avrebbero potuto ridurre in modo significativo l’anidride carbonica atmosferica. Tale effetto potrebbe essere evidente nelle misurazioni effettuate su carote di ghiaccio intorno al 1610.
Figura 31. Prime proposte di GSSP dell’Antropocene confrontate con (a) Olocene, basate sulle variazioni di CO2 relative alla transizione glaciale e interglaciale di 11.650 anni fa, (b) aumento del metano antropogenico 5.020 anni fa (ipotesi di Ruddiman), (c) «picco» di Orbis nella CO2 intorno al 1610 e (d) livelli di picco di radiocarbonio (14C) negli anelli degli alberi intorno al 1964 causati da test atmosferici di bombe nucleari.
Nel 2015, l’ecologo Simon Lewis e il geografo Mark Maslin pubblicarono sulla rivista «Nature» una revisione delle proposte del GSSP antropogenico e vi introdussero anche il loro «Orbis spike» (Figura 31). Secondo l’Orbis, che in latino significa «mondo», l’Antropocene poteva essere stato avviato dallo scambio colombiano: la «collisione tra il Vecchio e il Nuovo Mondo» identificò l’uomo non solo come una specie, ma anche come un sistema e una forza globali, con conseguenze senza precedenti dal punto di vista geologico, tra cui l’interscambio e l’omogeneizzazione del biota terrestre. Come se non bastasse, la portata senza precedenti dei cambiamenti sociali, l’estrazione di risorse e l’uso commerciale della terra scatenate dagli europei nelle Americhe, finì per alimentare lo sviluppo delle società industriali. Il primo sistema umano globale si evolse nell’arco di centinaia di anni, lasciando un segno permanente, seppur principalmente diacronico, nell’omogeneizzazione globale della flora e della fauna insieme alle solite prove materiali dei mutamenti socioambientali.
Tuttavia, si verificò almeno un rapido cambiamento globale che potrebbe definire un GSSP Orbis per l’Antropocene, ovvero un piccolo calo delle concentrazioni di anidride carbonica verificatosi intorno al 1610 e marcato nelle registrazioni di una carota di ghiaccio.
IL TEMPO DELL’UOMO
Come dichiarato dall’archeologo Matthew Edgeworth e da altri colleghi in un articolo intitolato Diachronous Beginnings of the Anthropocene, «l’archeologia e la geologia sono discipline correlate» e si basano per lo più sugli stessi principi stratigrafici. I geologi e gli archeologi spesso lavorano insieme negli stessi posti: i primi si concentrano sui processi naturali che con il passare del tempo hanno rimodellato un determinato luogo, mentre i secondi marcano i limiti inferiori degli strati dove sono presenti depositi di materiale antropogenico, definiti da Edgeworth come «archeosfera». In altre parole, si potrebbe considerare l’archeosfera come una linea di demarcazione tra le competenze stratigrafiche dei geologi e degli archeologi.
Figura 32. Profilo stratigrafico di depositi antropogenici presso un insediamento siriano occupato approssimativamente da 11.000 a 7000 anni fa.
La natura delle sequenze di materiale studiate dagli esperti di stratigrafia archeologica è particolarmente complessa, eterogenea e diacronica. Di solito i depositi di una società, o anche solo di una famiglia, vengono rimodellati da altri mediante lo scavo di canali, fondamenta e tombe, a cui si aggiungono ancora edifici, immondizia e detriti; tutti questi potrebbero essere a loro volta ricoperti da strati di sedimenti portati tramite inondazioni e altri processi naturali, oppure essere stati spazzati via per ricominciare da capo l’intera costruzione. Possono mostrare, o meno, correlazioni in profondità e composizione tra i vari siti prodotti da una certa società. In un punto possono essere perforati da catacombe, pozzi profondi e tunnel della metropolitana, e in un altro coperti da terreni dissodati, zone umide artificiali, una discarica o una collina composta da molteplici strati derivanti dagli insediamenti umani, che si sono depositati l’uno sopra l’altro per millenni (un «tell», sito archeologico comune in Medio Oriente, Figura 32). Possono passare da essere completamente inesistenti in alcuni luoghi a essere profondi decine di metri in altri. A qualsiasi livello – locale, regionale e soprattutto globale –, l’archeosfera è profondamente eterogenea e diacronica. Secondo Edgeworth e tutti gli archeologi, la diacronia è una caratteristica non solo dell’archeosfera, ma anche dello stesso Antropocene.
Figura 33. Sistema archeologico delle tre età. Le età «litiche» rappresentano l’età della Pietra, differenziata dalle età del Bronzo e del Ferro. Questi modelli generali di cambiamento culturale non sono sempre osservati e sono anche integrati da divisioni temporali più dettagliate relative a siti e regioni specifiche.
Per realizzare i calendari del tempo umano, gli archeologi usano anche metodi stratigrafici (Figura 33). A differenza del tempo geologico, però, anche i calendari archeologici più generici sono volutamente diacronici. Il loro obiettivo è quello di descrivere come le diverse società si sono sviluppate, in luoghi e tempi diversi. Esiste un sistema generale di «età» archeologiche, la prima delle quali inizia con i primi strumenti in pietra realizzati nel Paleolitico, o «vecchia» età della Pietra, e termina con il Pleistocene. L’Olocene comincia con le società epipaleolitiche, che per lo più continuarono a seguire gli stili di vita del Paleolitico, e le società del Neolitico che si dedicarono all’agricoltura. Le società dell’età del Bronzo e del Ferro vengono identificate dalla capacità di sfruttare questi metalli e contemporaneamente di modificare la propria scala e complessità. Nonostante alcune notevoli somiglianze nel loro sviluppo, le società del Neolitico emersero in tutto il mondo, in luoghi e tempi diversi, per esempio in America, Medio Oriente e Asia orientale. Per interpretare i periodi di sviluppo di diverse società, gli archeologi dipendono anche da sistemi temporali locali e regionali molto più dettagliati. In archeologia, quando vengono analizzati a livello globale i cambiamenti sociali umani, e le loro conseguenze sull’ambiente, non si mira a creare una sequenza temporale sincrona, poiché non è così che si sono formate ed evolute le società umane.
PIÙ SPESSO E PIÙ PROFONDO
L’Antropocene narra una storia sulla capacità dell’uomo di trasformare la Terra. Ma quando inizia questa storia? Pur notando che l’influenza umana è iniziata molto prima, l’AWG si è concentrato sulla metà del XX secolo come momento ideale per un GSSP che segni l’inizio dell’Antropocene nel GTS. Eppure, per archeologi, geografi, geologi e tutti coloro che si sono focalizzati sulle cause a lungo termine di questo cambiamento ambientale antropogenico, piuttosto che sulle conseguenze, l’Antropocene inizia molto prima del 1950. Anticipandone l’inizio, questa epoca potrebbe includere numerosi eventi come l’estinzione della megafauna verificatasi nel Tardo Pleistocene, la nascita e la diffusione dell’agricoltura, l’aumento del metano atmosferico derivante dalla produzione di riso 5000 anni fa, per non parlare della diffusa presenza di terreni antropogenici 2000 anni fa, della formazione di un sistema mondiale circa 500 anni fa (l’Orbis spike) o dell’inizio dell’era industriale intorno a 200 anni fa.
Alcune di queste proposte alternative per marcare un GSSP precedente includono prove stratigrafiche, come per esempio i segnali nelle carote di ghiaccio menzionate prima, tuttavia l’AWG ha ritenuto che queste evidenze non soddisfino i criteri stratigrafici utilizzati per delineare la scala dei tempi geologici.
Secondo Smith e Zeder non è necessario un nuovo GSSP, ma si potrebbe semplicemente ribattezzare l’Olocene come Olocene/Antropocene. In alternativa, le origini della trasformazione umana della Terra potrebbero essere riconosciute in un intervallo di tempo non geologico, una sorta di «Paleoantropocene». Altri invece, compreso Ruddiman, hanno proposto di non ufficializzare l’Antropocene, ma di usarlo in via ufficiosa come un «antropocene» con la «a» minuscola, per via della natura continua del cambiamento ambientale causato dall’uomo. L’unica cosa comune a tutte queste proposte è che si sono focalizzate sul riconoscere la lunga, ricca e diacronica ricostruzione della trasformazione umana della Terra. La Rivoluzione industriale e la grande accelerazione costituiscono solo i capitoli più recenti e incisivi di una storia lunga, ingarbugliata e in evoluzione che racconta dell’influenza umana sulla Terra. Una storia che si sta ancora svolgendo.
Gli stratigrafi hanno stabilito che i processi mediante cui le società umane e i loro ambienti cambiano e si evolvono sono cumulativi, continui, eterogenei, diacronici e complessi. Persino le prove materiali di queste trasformazioni sono complesse e diacroniche, si estendono in profondità nel passato dell’essere umano e sono ampiamente diffuse in tutto il pianeta. Da un punto di vista archeologico, non c’è nulla di recente o insolito in queste alterazioni ambientali: il mondo umano è sempre stato antropogenico. Quasi tutte le società umane nella storia della Terra hanno vissuto in ambienti modificati dai loro antenati.
Quando l’uomo ha iniziato ad alterare la vita sulla Terra, seppur chiaramente in modo più ridotto e meno rapido rispetto a oggi, ha lasciato delle prove permanenti come quelle che si sarebbero depositate in seguito: si trovano semplicemente più in profondità e sono sparse nelle sabbie del tempo in modo molto più ampio. Ma è proprio questo graduale accumulo di strati antropogenici, iniziato nella preistoria fino ad arrivare ai giorni nostri, che gli archeologi considerano importante da studiare, non l’identificazione di un limite preciso nel tempo e nelle rocce che marchi l’inizio di quest’importante trasformazione globale.