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La grande accelerazione
Per Will Steffen e gli altri membri dell’IGBP, non era una novità che l’uomo stesse alterando il funzionamento della Terra. Quest’idea, infatti, era già piuttosto diffusa fra gli scienziati ambientali, grazie all’abbondanza di prove che si stavano accumulando da decenni. Incaricati nel 1999 di esaminare un decennio di ricerche sul sistema Terra per conto dell’IGBP, la sfida per Steffen e la sua squadra era tutt’altro che semplice: dovevano capire come assemblare in modo coerente migliaia di articoli e report per offrire una panoramica del cambiamento ambientale dal punto di vista della scienza della Terra.
Ispirato dalla visione di Crutzen riguardo l’Antropocene, il team si concentrò sulle modifiche al sistema Terra indotte dall’uomo in seguito alla Rivoluzione industriale. Accumulò prove delle attività umane e dei cambiamenti ambientali a partire dal 1750, quindi prima che James Watt (1736-1819, N.d.C.) migliorasse la macchina a vapore, e ne tracciò i meccanismi fino al 2000. Nonostante le evidenze confermassero in modo lampante le modifiche al sistema Terra apportate dall’uomo, quello che scoprì fu una sorpresa. Nel 2004 venne pubblicato un rapporto dell’IGBP dal titolo Global Change and the Earth System. A Planet Under Pressure, il quale rivelò che non si era verificato un aumento progressivo dei cambiamenti della Terra a mano a mano che la Rivoluzione industriale prendeva piede e si diffondeva in tutto il mondo. Al contrario, i dati mostravano un sensibile sbalzo nel tasso di mutamenti umani e ambientali a partire dalla metà del XX secolo. Quella ricerca, raffigurata su due tavole con dodici grafici, evidenziò un impressionante punto di flesso attorno al 1950 per quanto riguardava tutte le attività umane e tutti i cambiamenti del sistema Terra che erano stati esaminati, dopo di che il tasso dei cambiamenti si innalzava incredibilmente, alcune volte in modo quasi esponenziale (Figure 14 e 15).
La Terra aveva mandato un messaggio molto chiaro: a partire dagli anni Cinquanta, l’uomo aveva iniziato a modificare il funzionamento del sistema Terra in un modo del tutto nuovo e senza precedenti. Come dichiarato nel rapporto:
Senza alcun dubbio, negli ultimi cinquant’anni si è assistito alla trasformazione più rapida del rapporto uomo-natura nella storia dell’umanità… I cambiamenti indotti dall’uomo hanno un’entità, una scala spaziale e una velocità che non si erano mai osservati prima in tutta la storia dell’umanità, forse nemmeno della Terra; il sistema Terra ora sta operando in uno «stato non analogo».
In accordo con La grande trasformazione di Karl Polanyi (1886-1964, N.d.C.), nel 2005 venne coniata l’espressione «la grande accelerazione», che iniziò a diffondersi nei circoli scientifici diventando la formula più utilizzata per descrivere il drammatico passaggio a metà del XX secolo a un estremo cambiamento ambientale antropogenico. I grafici a supporto di tali alterazioni sarebbero presto diventati il simbolo dell’Antropocene non solo dentro la comunità scientifica. Da una prospettiva del sistema Terra, l’Antropocene è iniziato a metà del XX secolo.
IL PIANETA SOTTO PRESSIONE
Presentando una vasta gamma di alterazioni umane e ambientali come basi per comprendere il cambiamento del sistema Terra, A Planet Under Pressure sostenne non solo l’idea di un nuovo intervallo della storia del nostro pianeta, ma propose anche la necessità di interpretare le trasformazioni ambientali antropogeniche come un insieme complesso e multicausale di processi che influenzano l’intero sistema Terra.
L’uomo non stava semplicemente cambiando il clima e l’atmosfera terrestre, ma anche modificando la biodiversità, inquinando gli oceani con lo scarico di fertilizzanti provenienti dall’agricoltura, alterando i flussi dei fiumi verso il mare e trasformando gli habitat naturali di tutto il mondo. L’influenza umana sull’ambiente non poteva essere ricondotta soltanto all’utilizzo di combustibili fossili o alla produzione di sostanze chimiche industriali: la crescita della popolazione, la «domesticazione» dei terreni per l’agricoltura, lo sviluppo economico e perfino gli investimenti diretti esteri facevano tutti parte di quell’insieme di forze antropogeniche che stavano alterando il funzionamento del sistema Terra.
Era dunque evidente come il cambiamento ambientale causato dall’uomo fosse un processo multidimensionale, e le interazioni fra le sue molteplici dimensioni e gli effetti a cascata a livello locale, regionale e globale, avrebbero potuto portare a conseguenze inaspettate per l’intero pianeta. Fu così che venne proposto un principio chiave.
Per riconoscere ufficialmente l’importanza assunta dai cambiamenti antropogenici dal punto di vista della Terra – la base per osservare il passaggio planetario all’era dell’Antropocene – era necessario dimostrare che gli esseri umani avevano modificato i processi del sistema Terra ben oltre il loro range di variabilità naturale, portandoli a uno «stato non analogo». Questo «range naturale» di una componente del sistema Terra (come per esempio la temperatura o la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera) doveva essere descritto per prima cosa a livello schematico, raffigurando le variazioni a lungo termine osservate nell’arco di intervalli di mezzo milione di anni, o più. A questo punto, le prove dovevano dimostrare che questa componente fosse uscita dal suo range naturale perché forzata dalle attività umane. I cambiamenti ambientali a livello locale o regionale non erano sufficienti.
TERRENI ADDOMESTICATI
L’uomo iniziò a sfruttare la terra per l’agricoltura e gli insediamenti più di 10.000 anni fa, ma durante la Rivoluzione industriale la conversione dei terreni per tali scopi si fece più estesa e intensa. Le stime globali possono variare, ma generalmente indicano che oggi l’agricoltura, la selvicoltura e gli insediamenti umani occupano dal 40 al 50% della superficie terrestre libera dai ghiacci. Circa l’11% dei terreni sono utilizzati per le coltivazioni agricole, il 25% per il pascolo del bestiame, mentre gli insediamenti e le infrastrutture, urbane e no, occupano dall’1 al 3% di tali terreni; infine, dal 2 al 10% sono rappresentati da boschi gestiti o piantati per produrre legname, combustibile, carta, gomma e altri prodotti. Almeno la metà dei terreni non soggetti allo sfruttamento intensivo diretto è alterata dalla raccolta di combustibile locale, dalla caccia, dalla ricerca di cibo, dall’inquinamento e dall’influenza di altre attività umane. Il risultato è che la conversione dei terreni ha trasformato (direttamente o indirettamente) i tre quarti della biosfera terrestre e solo un quarto è rimasto libero dall’impatto umano. Quest’ultima parte coinvolge soprattutto le regioni più fredde, aride e meno produttive, oltre ad alcune zone dei Tropici dove malattie endemiche e altri ostacoli limitano l’insediarsi dell’uomo.
Un così intenso sfruttamento ha come conseguenze elevate emissioni di gas serra, inquinamento, erosione del suolo, distruzione di habitat naturali, estinzione di alcune specie e introduzione di altre. Ciononostante, la maggior trasformazione ambientale è quella causata dalla coltivazione agricola: si comincia con il disboscamento delle terre e il loro dissodamento, poi si rimuove la vegetazione, solitamente bruciandola ed emettendo così anidride carbonica; i terreni poi non vengono coperti, aumentando il rischio di erosione e la conseguente perdita di fertilità. Il dissodamento e il drenaggio delle paludi causano la decomposizione di abbondanti quantità di sostanze organiche causando il rilascio di più anidride carbonica. L’allagamento dei terreni, necessario alla produzione del riso, rilascia ingenti quantità di metano (CH4). Le sue molecole permangono meno tempo nell’atmosfera rispetto all’anidride carbonica, tuttavia hanno un potenziale di riscaldamento globale più di dieci volte maggiore. I fertilizzanti ricchi di azoto, sia il concime sia quelli sintetici, rilasciano protossido di azoto (N2O), un gas serra molto stabile ed estremamente potente, dato il suo potenziale riscaldante più di cento volte maggiore dell’anidride carbonica.
I pesticidi e i diserbanti danneggiano le specie all’interno e all’esterno dei campi agricoli, poiché vanno a sommarsi alle sostanze nutritive in eccesso provenienti dai fertilizzanti che già inquinano stagni, laghi, ruscelli, fiumi e aree costiere a valle. Il bestiame prende il posto degli erbivori autoctoni, mediante la competizione diretta e il controllo dei predatori e dei rivali. In molti casi i terreni vengono ripuliti anche per migliorare la produzione di vegetazione destinata al foraggio, tuttavia l’allevamento intensivo su larga scala produce metano e altri gas serra a causa del letame, associato all’inquinamento ambientale che è simile ma spesso più concentrato e pericoloso di quello innescato dai campi coltivati. I polli domestici sono gli uccelli più numerosi sulla Terra e, considerando solo gli esemplari da allevamento, superano tutti gli altri vertebrati viventi messi insieme, inclusi gli esseri umani (un’interessante ricerca ha riassunto l’attuale incredibile utilizzo di polli nel mondo. Nel solo 2016 sono stati uccisi per scopi alimentari 65,8 miliardi di polli e mediamente manteniamo una popolazione stabile di 22,7 miliardi di polli che hanno una vita media tra le 5 e le 7 settimane. Si veda Bennet C. et al., 2018, The Brolier Chicken As a Signal of a Human Reconfigured Biosphere, «Royal Society Open Science», vol. 5, n. 12, reperibile al link: dx.doi.org/10.1098/rsos.180325, N.d.C.).
Oltre alle emissioni di gas serra, agli effetti sul suolo e all’inquinamento di acqua, terreni e aria, l’impatto globale dell’agricoltura e dei centri urbani trasforma e rimpiazza gli habitat naturali e le specie autoctone. Considerando invece le attività che hanno un’intensità inferiore nello sfruttamento del suolo, come per esempio il pascolo o la selvicoltura, per molte specie potrebbero esserci effetti minori, mentre per altre – quelle più sensibili all’influenza dell’uomo – potrebbero rappresentare la completa perdita del loro habitat impedendo l’accesso alle risorse necessarie per mantenere popolazioni vitali. Allo stesso tempo, l’uomo ha trasportato e introdotto molte specie in tutto il mondo: in tantissimi casi l’ha fatto intenzionalmente, per esempio con le colture, le piante ornamentali e gli animali domestici (anche per controllare specie diverse), ma in altri ha facilitato i loro spostamenti in modo del tutto involontario. La maggior parte delle specie alloctone non riesce a riprodursi o dà vita soltanto a popolazioni minori, tuttavia alcune riescono a infestare rapidamente il territorio, subentrando alle autoctone, soprattutto in zone già alterate dall’uomo. Considerati nel loro complesso – la perdita di habitat, la caccia, la ricerca di cibo, l’inquinamento, l’invasione delle specie alloctone e altre pressioni da parte dell’uomo -, questi fattori costituiscono una minaccia sempre maggiore per la sopravvivenza delle specie animali e vegetali più vulnerabili, provocando una rapida perdita globale di biodiversità. Nonostante l’agricoltura e gli insediamenti avessero trasformato significativamente molte aree del pianeta già prima del 1950, la crescita della popolazione e le diete più ricche supportate dallo sviluppo economico industriale hanno comportato una rapida espansione a livello globale dello sfruttamento dei terreni e un notevole aumento dell’intensità con cui vengono utilizzati, estendendo considerevolmente anche l’uso dell’irrigazione e dei prodotti chimici agricoli.
IDROSFERA
Le prime opere di ingegneria riguardanti l’idrosfera comparvero più di 5000 anni fa, quando l’uomo cominciò a costruire canali d’irrigazione, dighe e bacini idrici, a deviare il corso di fiumi e torrenti, a scavare pozzi per estrarre l’acqua sotterranea e a progettare altri sistemi di controllo per sostenere la produzione agricola e gli insediamenti abitativi. Nella maggior parte dei casi l’obiettivo è l’irrigazione agricola, infatti a partire dal 2000 sono stati destinati a questo uso dal 60 al 75% dei circa 5000 km3 di acqua che fluiscono ogni anno attraverso i sistemi progettati dall’uomo. Annualmente, circa 40.000 km3 di acqua dolce confluiscono nel mare passando attraverso i continenti, ma meno di un terzo di questo flusso è accessibile all’uomo a causa delle variazioni stagionali e geografiche nella sua distribuzione. Il risultato è che le società umane stanno già utilizzando quasi la metà dell’acqua dolce rinnovabile a loro disposizione.
La costruzione di dighe, bacini idrici, risaie e altri sistemi di raccolta ha aumentato la capacità di stoccaggio idrico del terreno e rallentato i flussi d’acqua verso il mare. Il drenaggio delle zone umide per l’agricoltura e lo sviluppo urbano hanno fatto invece l’opposto. Il rilascio di acqua nell’atmosfera da parte della vegetazione è stato alterato dal disboscamento per l’agricoltura, dalla selvicoltura e dalla costruzione di infrastrutture, così come è variato anche l’equilibrio tra deflusso e ritenzione dell’acqua nel suolo e delle acque sotterranee a causa della copertura e del dissodamento dei terreni. Come se non bastasse, questi diffusi cambiamenti idrologici hanno modificato le risorse idriche in termini di quantità e di disponibilità stagionale e spaziale. Non è stato soltanto l’uomo a risentire di tali variazioni, ma anche i pesci e le altre specie acquatiche e terrestri, che per sopravvivere dipendono da deflussi inalterati di acqua. Le dighe e altri metodi di diversione limitano inoltre lo spostamento dei sedimenti e dell’inquinamento verso il mare, causando accumuli dannosi a monte e riducendo i depositi di sedimenti nelle aree costiere. Tutto ciò comporta la subsidenza del suolo ed espone le zone costiere all’innalzamento del mare.
Lo sfruttamento umano delle acque dolci è aumentato di pari passo con la popolazione e la domanda alimentare, per questo motivo dopo il 1950 ha subito un’accelerazione. Durante la seconda metà del XX secolo, l’estrazione rapida e insostenibile delle acque sotterranee e gli imponenti progetti di dighe (che negli ultimi anni sono diminuiti) per l’agricoltura e la produzione di energia hanno contribuito ad accrescere l’intera serie di modifiche idrologiche che l’uomo ha apportato in tutto il mondo. La disponibilità di acqua dolce è stata ridotta anche dall’inquinamento (causato dalle sostanze chimiche industriali e dall’eccesso di fertilizzanti) delle sorgenti superficiali e sotterranee. A partire dagli anni Cinquanta, l’idrosfera terrestre (che corrisponde ai sistemi di acqua dolce della Terra) è stata quindi profondamente trasformata dalle attività umane e i limiti alla disponibilità di acqua dolce sono diventati una questione seria di interesse globale.
BIOSFERA
L’uomo ha iniziato a trasformare la biosfera molto tempo prima dell’agricoltura. Ancora prima dell’Olocene, cacciando e procacciandosi cibo ai danni di specie terrestri, marine e d’acqua dolce, l’uomo ha causato il declino delle popolazioni locali e l’estinzione di numerose specie. L’incidenza di queste attività di solito aumentava di pari passo con la crescita e la diffusione delle popolazioni umane, tuttavia l’avvento dell’agricoltura sostituì in parte tali pressioni. Con la diffusione dell’agricoltura, infatti, le specie terrestri cercarono rifugio nei loro habitat naturali che andavano però diminuendo. È per questo motivo che la perdita di habitat è diventata il principale fattore del declino e dell’estinzione di quegli animali che non sono predatori. La storia delle specie acquatiche è invece diversa.
La sempre maggiore domanda di pesce di mare e di acqua dolce da parte delle società umane ha continuato a esercitare forti pressioni sulle specie selvatiche che vivono in ambienti fluviali, lacustri, costieri e marini. Tuttavia, generalmente, a eccezione di alcuni habitat specifici, l’azione umana non era abbastanza forte da estinguere o diminuire in modo rilevante la fauna acquatica. Insomma, il mare aperto continuava a subire una pressione ancora molto leggera. Tutto è cambiato con l’avvento della pesca industriale, quando flotte di «navi officina» hanno iniziato a solcare gli oceani. Dopo il 1950, la crescita demografica e della domanda di pescato provocarono l’aumento delle attività di pesca, in termini sia di portata sia di intensità, incluso l’utilizzo di reti enormi trascinate sui fondali marini. Allo stesso tempo, gli habitat costieri vennero sempre più trasformati dai residui provenienti dall’agricoltura, i quali finivano per essere trasportati in mare, dalla costruzione di aree urbane e altre infrastrutture e dalla rimozione di ambienti di mangrovie e altri sistemi di zone umide; in questo modo vennero alterate aree fondamentali per la riproduzione di molte specie.
Oltre che dalla perdita di habitat e dallo sfruttamento diretto, i tassi di estinzione e il funzionamento della biosfera nel suo insieme sono stati influenzati anche dall’inquinamento delle acque e dai cambiamenti antropogenici nei cicli biogeochimici di azoto e fosforo.
Le sostanze tossiche inquinanti prodotte dalle industrie, a partire dal piombo fino al DDT, sono state diffuse attraverso l’acqua e hanno danneggiato le specie sia in modo diretto sia tramite l’accumulo di tossine lungo la catena alimentare, poiché gli organismi contaminati vengono consumati in grandi quantità dai predatori. Forse potrà sorprendere, ma anche i fertilizzanti in eccesso, sotto forma di azoto reattivo e fosforo, possono avere effetti simili, e in alcuni casi ancora più gravi degli inquinanti tossici, sulle specie e sugli habitat acquatici.
Il fosforo e l’azoto sono nutrienti limitanti per la crescita del raccolto. Nonostante fosse necessario in quantità minori, dagli anni Cinquanta in poi il fosforo reattivo (in varie forme di fosfati) è stato estratto, lavorato e utilizzato come fertilizzante in misura sempre maggiore. Il fosforo in eccesso, principalmente legato alle particelle del terreno, può riversarsi nei corsi di acqua dolce – fiumi, stagni o laghi – arricchendoli di sostante nutritive. Tale processo, chiamato «eutrofizzazione», stimola la crescita di piante microscopiche (alghe e fitoplancton) e di batteri fotosintetici (cianobatteri). Le conseguenti fioriture di questi organismi bloccano la luce, impedendole di penetrare nelle acque sottostanti; in questo modo viene inibita la crescita di alghe e altre piante, essenziali per gli habitat dei fondali marini e lacustri.
I corpi idrici eutrofici, spesso caratterizzati da acque verdastre dall’odore pungente (le fioriture cianobatteriche hanno un cattivo odore), si trovano generalmente nelle regioni agricole e costiere, oppure anche dove le acque reflue urbane o i concimi del bestiame ricchi di fosforo entrano non trattati nell’acqua.
L’azoto reattivo produce effetti simili nelle aree costiere dove i fiumi lo trasportano nel mare. Mentre costituisce di rado un nutriente limitante nell’acqua dolce, l’azoto è estremamente scarso nell’acqua di mare, per questo i processi più estremi di eutrofizzazione si verificano nelle aree costiere degli oceani. Le «zone morte» nelle aree costiere si formano dove un eccesso di azoto produce ingenti quantità di alghe che affondano, si decompongono e durante il processo consumano così tanto ossigeno che le creature marine non riescono a respirare. L’incidenza delle fioriture di alghe tossiche, come per esempio le maree rosse, è aumentata notevolmente a partire dagli anni Cinquanta nelle zone costiere e in quelle di acqua dolce.
Sempre a partire dallo stesso periodo è aumentata quasi ogni forma di pressione esercitata dall’uomo sulle specie e sui processi ecologici della biosfera. L’uso della terra ha rimosso e inquinato gli habitat naturali nell’esatto istante in cui si è iniziato a sfruttare sempre più le specie selvatiche. Per tutta questa serie di motivi, gli attuali tassi di estinzione provocati dall’uomo sulla terra e nel mare, e in particolare sulle specie animali, sono aumentati drasticamente a partire sempre dagli anni Cinquanta e hanno raggiunto i più alti livelli che si siano mai riscontrati nell’arco della maggior parte della storia.
AZOTO
Le alterazioni nel ciclo del carbonio sono spesso presentate come la prima prova dell’incidenza dell’uomo sul pianeta, eppure ci sono diverse ragioni per cui i cambiamenti antropogenici nel ciclo biogeochimico dell’azoto sono da ritenersi molto più significativi. Anche i combustibili fossili hanno influito, ma la gran parte di questo incomparabile mutamento globale deriva da un processo industriale che negli ultimi cinquant’anni ha reso possibile una crescita senza precedenti della popolazione umana, producendo tuttavia un azoto molto più reattivo di quello derivante da qualsiasi processo naturale. L’azoto è un componente base delle proteine, quindi costituisce un nutriente essenziale per tutti gli organismi viventi, comprese le piante coltivate che ci forniscono da mangiare. Senza i fertilizzanti azotati sintetizzati industrialmente e la loro capacità di aumentare la resa dei raccolti, la produzione alimentare non avrebbe mai potuto tenere il passo con le richieste di oltre 4 miliardi di persone dopo il 1970, per non parlare delle esigenze di più di 7 miliardi oggi o degli 11 miliardi previsti nel 2100 (attualmente la popolazione mondiale è di 7,7 miliardi di abitanti e raggiungerà i 9,7 miliardi nel 2050 secondo i dati dell’ultimo rapporto della Population Division delle Nazioni Unite, il World Population Prospects 2019. Si veda: population.un.org/wpp. Questo rapporto è il ventiseiesimo della serie e include gli avanzamenti sulle stime della popolazione mondiale dal 1950 a oggi, con le proiezioni della possibile entità futura a partire dal 2019 sino al 2100, anno per il quale il report prevede una popolazione di circa 11 miliardi di abitanti, 10 miliardi e 875 milioni, per l’esattezza. Oggi la popolazione mondiale risulta essere quasi dieci volte maggiore degli 800 milioni di persone che si stima vivessero nel 1750, data indicata come inizio della Rivoluzione industriale, e continua a crescere a un tasso di circa 83 milioni l’anno, N.d.C.).
L’azoto sotto forma di gas N2, essendo altamente stabile e non reattivo, è l’elemento più abbondante nell’atmosfera terrestre (78% in volume), tuttavia può forse sorprendere che sia anche il più comune nutriente limitante per la crescita delle piante terrestri e marine. Questo avviene perché le piante e la maggior parte dei batteri possono assorbire e utilizzare solo forme reattive «disponibili» di azoto, come per esempio lo ione ammonio (NH4+) e lo ione nitrato (N3–).
Il processo di conversione dell’N2 stabile in azoto disponibile richiede un’enorme quantità di energia. Solo alcune specie batteriche hanno sviluppato un metabolismo specializzato ad alta energia capace di «fissare» l’azoto tramite la rottura dell’N2 per produrre ammonio, invece molti batteri riescono a convertire l’ammonio in nitrato. Inoltre, l’azoto reattivo viene disperso con facilità dal suolo e dall’acqua, rispettivamente tramite la lisciviazione o i deflussi, e torna nell’atmosfera quando i microbi lo convertono di nuovo in gas N2 o N2O stabile («denitrificazione»), quando la biomassa viene raccolta o bruciata, oppure quando gli organismi morti precipitano sul fondo del mare fuori dalla portata delle piante fotosintetiche, che si trovano unicamente nei primi tratti delle profondità marine raggiunte dai raggi solari.
Fino al 1910, e prima del lavoro di Fritz Haber (1868-1934, N.d.C.) e Carl Bosch (1874-1940, N.d.C.), l’azoto scarseggiava e la resa delle colture era bassa. Gli unici metodi per ottenere azoto reattivo da usare nei fertilizzanti erano estrarlo (da depositi di guano fossilizzato derivanti dalle deiezioni degli uccelli), raccogliere letame e biomassa o coltivare legumi, perché queste piante possono sopportare una simbiosi con batteri in grado di fissare l’azoto.
Fritz Haber vinse il premio Nobel nel 1918, e il processo Haber-Bosch trasformò il ciclo dell’azoto. Combinando grandi quantità di energia e carbonio (di solito sotto forma di gas metano) con gas N2, il loro metodo fissava l’azoto in ammonio, che poteva essere utilizzato per i fertilizzanti e altri processi industriali, comprese le bombe. I fertilizzanti sintetici a base di azoto aumentarono drasticamente i raccolti, spesso raddoppiandoli o anche di più, soprattutto quando vennero introdotte le moderne varietà di colture. Ecco dunque la base della «rivoluzione verde» in agricoltura, che si diffuse in tutto il mondo a partire dagli anni Cinquanta.
La resa del raccolto diventò molto più elevata e così la produzione agricola crebbe senza bisogno di aumentare le terre destinate alla coltivazione; la maggior parte dell’espansione dei terreni agricoli che si è verificata nel XX secolo è servita unicamente a supportare l’allevamento del bestiame. Allo stesso tempo, però, i fertilizzanti azotati, soprattutto se applicati in modo eccessivo, hanno inquinato le acque sotterranee e superficiali con nitrati, causando rischi per la salute e determinando ecosistemi costieri saturi di azoto, in grado di produrre alghe e zone morte.
Le emissioni di protossido di azoto derivanti dai campi concimati oggi costituiscono una fonte sempre più importante di gas serra.
Oltre a fissare artificialmente l’azoto, la combustione di carbone, petrolio e biomassa rilascia anche forme acide di gas, gli ossidi di azoto (NO e NO2), che insieme agli ossidi di zolfo danno origine alle «piogge acide». Negli anni Ottanta e Novanta, tali fenomeni causarono diffusi danni ambientali, dal momento che questo tipo di emissioni acide, provenienti da centrali elettriche a carbone e motori di veicoli non regolamentati, ancora non era stato disciplinato e messo sotto controllo.
Figura 16. Cambiamenti globali dell’azoto reattivo (Nr) a partire dal 1850 (Tg = teragrammi = 1012 grammi).
Al giorno d’oggi, se sommiamo tutto l’azoto reattivo prodotto dalla fissazione artificiale dell’azoto per i fertilizzanti, dalle colture di fissazione dell’azoto e dall’uso di combustibili fossili, questo risulta essere molto maggiore di quello derivante da tutti i processi naturali nella biosfera terrestre messi insieme (Figura 16).
Per fare un confronto, se le emissioni di biossido di carbonio prodotte dall’uomo dovessero superare tutte le emissioni naturali provenienti dalla Terra, allora dovrebbero essere moltiplicate per dieci. La trasformazione antropogenica del ciclo biogeochimico dell’azoto è uno degli esempi più impressionanti di come l’uomo stia alterando il funzionamento del sistema Terra (Figura 17).
Prima del XX secolo, il processo industriale alla base di questa profonda trasformazione del sistema Terra non esisteva neppure.
Dagli anni Cinquanta in poi, la fissazione artificiale dell’azoto si è intensificata a tal punto da contribuire a una trasformazione antropogenica della Terra senza precedenti.
ATMOSFERA E CLIMA
Le emissioni antropogeniche di gas serra, insieme ai loro effetti sull’atmosfera e sul clima terrestre, sono tra le prove più convincenti di una crescente transizione planetaria causata dall’uomo. In passato i cambiamenti atmosferici sono stati monitorati e ricostruiti nel dettaglio, a partire dalla curva di Keeling.

Figura 18. Cambiamenti della CO2 atmosferica negli ultimi 450.000 anni, illustrano un recente aumento estremamente rapido oltre i livelli passati. Inserita in un angolo la curva di Keeling che descrive i cambiamenti osservati dal 1960.
Nel corso dell’ultimo secolo, l’anidride carbonica, il metano e il protossido di azoto sono cresciuti vertiginosamente raggiungendo livelli mai visti prima durante tutto l’Olocene.
L’unica eccezione sono i clorofluorocarburi poiché, dopo una forte espansione dagli anni Cinquanta agli anni Novanta, alcuni trattati internazionali hanno disposto il loro ritiro dal mercato per proteggere l’ozono stratosferico danneggiato, che attualmente si sta riprendendo.
L’anidride carbonica atmosferica ha sempre subito variazioni considerevoli nel tempo, tuttavia i cambiamenti antropogenici della sua concentrazione vanno ben oltre il range di variabilità naturale (Figura 18).

Figura 19. Cambiamenti globali nelle emissioni antropogeniche di anidride carbonica provenienti da diverse fonti, dal 1800 al 2000, inclusa la produzione di combustibili fossili e cemento.
I livelli odierni di CO2 (>400 ppm) sono quasi certamente più alti di quanto non siano mai stati negli ultimi 4 milioni di anni, o più (nel maggio 2019 la concentrazione di anidride carbonica nella composizione chimica dell’atmosfera ha sfiorato le 415 ppm. Per il monitoraggio di questi dati si veda: www.esrl.noaa.gov/gmd/ccgg/trends/monthly.html, N.d.C.). Anche i tassi di variazione della temperatura atmosferica sono eccezionalmente rapidi, e dal 1950 stanno accelerando insieme ai tassi di emissione (Figura 19).

Figura 20. Cambiamenti globali della temperatura superficiale della Terra dal 1850 al 2010, espressi come differenze della media del 1961-1990 («anomalie della temperatura»).
L’aumento della temperatura superficiale media del nostro pianeta è collegato ai cambiamenti della CO2 e di altri gas serra (Figura 20). Questa stretta correlazione non fa altro che sommarsi alle prove ottenute dai diversi modelli di simulazione del sistema Terra, secondo i quali i contemporanei aumenti delle temperature globali possono essere spiegati soltanto dalle maggiori emissioni antropogeniche di gas serra.

Figura 21. Cambiamenti globali della temperatura superficiale della Terra durante l’Olocene (anomalia delle temperature relativa alla media del 1961-1990).
Oltretutto, oggi le temperature medie globali sono molto più alte rispetto a cent’anni fa, e probabilmente anche di quanto non siano mai state durante l’intera epoca dell’Olocene (Figura 21). Le emissioni di gas serra e le temperature continuano ad aumentare di pari passo, con un ritmo crescente. Anche ora che state leggendo questo libro è probabile che la Terra sia in media più calda che in qualsiasi altro momento negli ultimi 100.000 anni e più.
PUNTI CRITICI
Durante il Quaternario, i grandi cambiamenti del clima terrestre furono la norma, non l’eccezione, e compresero decine di cicli glaciali e interglaciali. La Terra fu anche molto più calda durante l’Eemiano, l’ultimo intervallo interglaciale prima dell’Olocene che terminò circa 115.000 anni fa. Le temperature interglaciali relativamente stazionarie e moderate dell’Olocene spiccano quindi come un’isola di stabilità climatica in un mare di condizioni estreme. Se il sistema climatico terrestre dovesse permanere in questo stato, ci sono tutte le ragioni per credere che le conseguenze potrebbero essere catastrofiche per le società umane e per la vita non umana come la conosciamo oggi. Nessuna società industriale o agricola ha mai sperimentato stravolgimenti climatici come quelli comuni prima dell’Olocene. Le emissioni di gas serra e il cambiamento climatico sono tutt’altro che le uniche alterazioni del sistema Terra incrementate a partire dagli anni Cinquanta.
Il potenziale dei «cambi di regime» rapidi e trasformativi nel clima terrestre è ben supportato dai passati modelli di comportamento del sistema Terra. Un esempio sono le transizioni da glaciale a interglaciale: le temperature si alzano a causa dell’aumento di energia solare in entrata, rafforzate anche dalle emissioni di carbonio biosferico, dalla diminuzione di ghiacci marini e calotte di ghiaccio continentali e da altri feedback positivi interni, e in questo modo apportano veloci cambiamenti nel clima. In quei casi, quando il riscaldamento della Terra supera una determinata soglia di temperatura (o punto critico), si innesca un processo autorinforzante che si traduce in una trasformazione relativamente rapida, non lineare e potenzialmente irreversibile del sistema: si tratta di un cambio di regime nel sistema climatico della Terra. Mentre il ciclo di passaggio da intervalli glaciali a intervalli interglaciali, e viceversa, rappresenta un sistema «bi-stabile» con due stati, nel sistema terrestre ci sono anche esempi di cambiamenti di regime a senso unico. Questi comprendono il rapido raffreddamento della Terra quando i raggi del Sole sono bloccati dalle emissioni di polvere causate da grandi eruzioni vulcaniche o dall’impatto di meteoriti, oppure le alterazioni nella biosfera, prime fra tutte l’ossigenazione dell’atmosfera terrestre e la comparsa della vita sulla terra.
Il potenziale di questo cambio di regime durante l’Antropocene ha impegnato per decenni gli scienziati che si occupano dello studio del sistema Terra. I principi alla base di tale spostamento sono stati illustrati dall’analogo di una palla che rotola all’interno di una conca.

Figura 22. Cambio di regime dell’Antropocene: descrizione della sfera e della conca. La conca sulla destra rappresenta il bacino stabile di attrazione (l’Olocene) e la palla sulla destra lo stato del sistema Terra. La conca e la palla a sinistra rappresentano uno stato potenziale del sistema Terra (l’Antropocene). Con una graduale forzatura antropogenica, la conca diventa meno profonda, fino a scomparire (circa dal 1950), facendo rotolare la palla verso sinistra (il cambio di regime) in direzione dell’Antropocene, verso un possibile bacino di attrazione futuro.
Lo stato del sistema terrestre, rappresentato dalla sfera, ruota all’interno del suo «range naturale» di variabilità, rappresentato dalla conca, detto «bacino di attrazione» (Figura 22). Quando il sistema è stabile (inizio-metà dell’Olocene), la conca è profonda e stretta, quindi i movimenti della palla sono rapidi ma limitati entro un range ristretto. Il cambio di sistema inizia quando la conca diventa meno profonda e la palla è libera di spostarsi in uno spazio più ampio e quindi più lentamente.
I primi cambiamenti nel sistema Terra causati dall’aumento dell’agricoltura e dei processi industriali potrebbero aver causato un notevole accrescimento della variabilità. Alla fine il sistema lascia permanentemente il suo precedente stato più stabile (Olocene) per uno nuovo e meno stabile (Antropocene). A questo punto, l’unica cosa chiara è che il sistema Terra si trova su una rapida traiettoria che lo porta fuori dall’Olocene; è però ancora troppo presto per sapere come potrebbe essere uno stato antropogenico, compresa la sua relativa stabilità e quanto tempo potrebbe durare rispetto all’Olocene.
Con l’aumentare della portata e dell’intensità delle alterazioni causate dall’uomo all’atmosfera, all’idrosfera e alla biosfera terrestre, cresce indubbiamente anche il rischio di un cambio di regime verso un vero e proprio stato antropogenico del sistema Terra. Per esempio, i rapidi aumenti delle concentrazioni di gas serra potrebbero spostare il pianeta in uno stato di «serra terrestre» estremamente caldo. Questo è molto probabile nel caso entrassero in atto dei feedback positivi. Per esempio, il riscaldamento delle zone umide dell’Artico potrebbe rilasciare una scarica di metano nell’atmosfera o far collassare il ghiaccio marino aumentando la quantità di calore trattenuto dall’oceano e riducendo l’energia solare riflessa lontano dalla Terra. Esistono molte possibilità, tra cui le reazioni sconosciute di una biosfera alterata dall’uomo. Tale cambio di stato potrebbe avvenire in modo graduale nel corso di millenni o al contrario essere sorprendentemente repentino; in entrambi i casi, anche se le pressioni da parte dell’uomo si alleggerissero, è improbabile che il sistema climatico terrestre torni o possa eventualmente tornare al suo stato olocenico.
Dal punto di vista della scienza del sistema Terra, la prova che l’uomo abbia costretto il sistema Terra a vivere in uno stato al di fuori del suo range naturale di variabilità è fondamentale per definire l’Antropocene come un nuovo intervallo di tempo geologico. Il potenziale di un tale cambio di regime dall’Olocene all’Antropocene è supportato dalla storia della Terra, oltre che dalle osservazioni e dai modelli del funzionamento terrestre. Ciononostante, anche se il sistema Terra si è chiaramente spostato al di fuori delle note condizioni dell’Olocene, sta continuando a cambiare così rapidamente che non si possono ancora stabilire tutte le caratteristiche future dell’Antropocene. L’unica cosa certa è che sarà più caldo e che il livello del mare si alzerà.
QUALCOSA DI NUOVO
I cambiamenti ambientali e sociali dell’ultimo mezzo secolo narrano una potente storia della trasformazione del globo da parte delle società umane. Le terre emerse del pianeta sono state modificate dal disboscamento per l’agricoltura e gli insediamenti, i fiumi sono stati arginati e i flussi d’acqua sono stati nuovamente incanalati per tutta l’idrosfera. Gli esseri umani hanno rimodellato la biosfera trasportando flora e fauna in giro per il mondo e portando all’estinzione diverse specie attraverso la perdita di habitat e lo sfruttamento eccessivo. I cicli biogeochimici di carbonio, azoto e altri elementi chiave sono stati trasformati dall’uso di combustibili fossili, dalla sintesi industriale di fertilizzanti azotati e da altre attività umane, con effetti che vanno dall’inquinamento diffuso ai cambiamenti climatici. Il risultato è che l’uomo ha lasciato il segno su qualsiasi sfera del sistema Terra. Il clima potrebbe essere già piombato irreversibilmente in uno stato senza precedenti, con conseguenze sconosciute e forse catastrofiche per l’umanità.
Con A Planet Under Pressure e il lavoro successivo, Will Steffen e la comunità dell’IGBP hanno riconosciuto la «grande accelerazione» come la principale spiegazione scientifica del cambiamento ambientale indotto dall’uomo e l’hanno collegata strettamente con il passaggio della Terra verso l’Antropocene. Tuttavia, la stessa impressionante accelerazione che ha sorpreso gli scienziati era già nota da tempo agli storici ambientali, in particolare a John McNeill. Nel suo libro premonitore Qualcosa di nuovo sotto il sole attestò l’incredibile variazione di portata e di intensità, verificatasi nel XX secolo, nei cambiamenti sociali e ambientali e anche la loro accelerazione dopo il 1950. In seguito, Steffen, Crutzen e McNeill unirono le forze e riconobbero nella grande accelerazione la teoria principe dell’ascesa dell’uomo a «grande forza della natura» e della transizione del sistema terrestre verso l’Antropocene dopo il 1950.
La grande accelerazione spiega questo passaggio antropogenico mediante una teoria complessa e multicausale, che intreccia i cambiamenti sociali, politici ed economici umani con le loro diverse conseguenze ambientali su scala locale e globale, comprese le interazioni tra questi cambiamenti. Nonostante tale quadro concettuale ammetta che le alterazioni umane fossero iniziate molto tempo prima del XX secolo, le variazioni, per quanto significative in alcune regioni, a livello globale erano rimaste «ben entro i limiti della variabilità naturale dell’ambiente». Le società preindustriali non produssero mai cambiamenti ambientali abbastanza intensi e diffusi da poter «competere con le grandi forze della natura». L’Antropocene non ha avuto inizio con l’avvento dell’agricoltura e nemmeno con la Rivoluzione industriale, bensì dopo il 1945, con l’ascesa su larga scala delle società industriali e con le loro inaudite capacità di alterare gli ambienti terrestri a un ritmo accelerato. A metà del XX secolo le pressioni esercitate dall’uomo raggiunsero livelli tali da produrre un cambio di regime antropogenico nel funzionamento del sistema Terra.

Figura 23. Nuovi marcatori di cambiamento antropogenico tra cui calcestruzzo, plastica, residui carboniosi fallout di plutonio (Pu), insieme alla concentrazione atmosferica di radiocarbonio (14C).
In un articolo apparso nel 2016 sulla rivista «Science» l’Anthropocene Working Group ha riconosciuto la grande accelerazione come la principale teoria scientifica che spiega il passaggio della Terra all’Antropocene. Chiarito ciò, l’AWG si è concentrato sulla ricerca di segni stratigrafici distintivi dei cambiamenti chiave associati a questa transizione. Tra i principali candidati vi erano i depositi di piogge radioattive provenienti dai test delle armi nucleari (plutonio e carbonio-14), che iniziarono nel 1945 e raggiunsero il picco intorno al 1963-1964. Un altro indicatore piuttosto diffuso erano i depositi di plastica, e un altro ancora i residui carboniosi prodotti dalla combustione incompleta dei combustibili fossili (Figura 23). Continua la ricerca per trovare il miglior marcatore stratigrafico e il GSSP associato ai rapidi cambiamenti antropogenici della metà del XX secolo.