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Origini
«Noi siamo entrati nell’Antropocene!» ha esclamato frustrato Paul Crutzen, vincitore del Nobel per i suoi studi sulla chimica atmosferica, durante una conferenza nel 2000. Perché i suoi colleghi si ostinavano a chiamare il nostro tempo Olocene? Dalla fine dell’ultima glaciazione, che costituisce l’inizio dell’Olocene, l’uomo ha rimodellato il pianeta in modo molto evidente. Per questo motivo la proposta di ribattezzare a partire dal termine anthropos la nuova era geologica in cui si trova la Terra sta guadagnando terreno dentro e fuori il mondo accademico, e anche una serie di critiche.
Perché un termine geologico così misterioso si è diffuso tanto velocemente fino a diventare un punto di rottura nelle discussioni tra gli specialisti e un fenomeno noto in tutto il mondo? Per capirlo, sarà d’aiuto scavare più in profondità, oltre la scienza, nelle storie delle origini tramandate dall’inizio dei tempi.
A partire dalla Preistoria fino ai giorni nostri, il ruolo svolto dall’uomo nella natura – in qualità di progenie, compagno, amministratore, giardiniere o distruttore – è stato definito e ridefinito dai miti che narravano la sua comparsa sulla Terra. In particolare, nelle religioni abramitiche, i racconti sulle origini dell’umanità offrirono all’uomo un posto privilegiato al centro della creazione divina. Per contro, Copernico e Darwin si basarono su prove scientifiche per costruire una nuova narrativa e l’uomo diventò un animale tra gli altri su un pianeta come tanti in orbita attorno a una stella qualsiasi.
L’Antropocene richiede un aggiustamento ancora più grande delle nostre prospettive. Gli sforzi dei geologi, e di tutti gli scienziati che si battono a favore o contro le svariate proposte di ufficializzarlo, si intrecciano quindi con visioni del mondo millenarie e dibattiti contemporanei riguardanti il ruolo dell’umanità nella natura e perfino cosa significhi essere uomini.
UNA GRANDE FORZA DELLA NATURA
La foga di Crutzen era legata alla sua esperienza, maturata studiando le variazioni dell’atmosfera terrestre causate dall’uomo e le loro gravi conseguenze: il buco nello strato di ozono protettivo della Terra e il cambiamento climatico globale. Ascoltare i suoi colleghi parlare della condizione attuale del pianeta senza fare alcun riferimento a queste gravi trasformazioni antropogeniche fu semplicemente troppo da sopportare. Era tempo di accettare che le condizioni relativamente stabili dell’Olocene erano finite.
Crutzen non era solo, già a partire dagli anni Ottanta l’ecologo Eugene Stoermer (scomparso a causa di un tumore nel 2012, N.d.C.) aveva iniziato a usare in modo informale il termine Antropocene con studenti e colleghi. Nel 2000 i due pubblicarono congiuntamente una breve nota in una newsletter scientifica, in cui proponevano l’uso della parola Antropocene con il significato attuale; nonostante Andrew Revkin, giornalista del «New York Times», avesse usato l’espressione «Anthrocene» nel suo libro sul cambiamento climatico nel 1992, questa fu la prima volta che il termine venne formalmente pubblicato. Nel loro scritto, Crutzen e Stoermer collegarono l’Antropocene alle emissioni di anidride carbonica derivanti dall’utilizzo dei combustibili fossili e lo fecero risalire all’inizio della Rivoluzione industriale, verso la fine del XVIII secolo. Così facendo, contribuirono ad accrescere l’ingente numero di lavori scientifici riguardanti i cambiamenti ambientali di origine umana. Con la proposta di Crutzen, tutti questi molteplici pezzi si erano finalmente uniti a formare un progetto strutturato, con lo scopo di contrassegnare la presenza umana come una grande forza della natura nella storia della Terra.
CAMBIARE LA STORIA
Ora prove schiaccianti confermano che l’essere umano sta sconvolgendo la Terra in un modo senza precedenti. Cambiamento climatico globale, acidificazione degli oceani, mutamenti dei cicli di carbonio, azoto e altri elementi, foreste e altri habitat naturali trasformati in campi, fattorie e città, inquinamento diffuso, radioattività, accumuli di plastica, alterazione del corso dei fiumi, estinzione di massa delle specie, mezzi di trasporto e introduzione di specie in tutto il mondo. Questi sono soltanto alcuni degli svariati stravolgimenti ambientali indotti a livello globale dall’uomo, che molto probabilmente lasceranno una testimonianza duratura nelle rocce: la base per determinare nuovi intervalli di tempo geologico.
Con una così grande abbondanza di prove, il progetto di riconoscere l’Antropocene come una nuova era sembrerebbe non avere ostacoli, ma non è così, infatti rimane un tema molto controverso fra gli scienziati. Alcuni dibattiti si incentrano sull’effettiva esistenza di sufficienti ragioni scientifiche per riconoscere un’epoca così relativamente breve e nuova, mentre altri vertono sulle prove e la migliore demarcazione temporale. Le proposte al riguardo spaziano dal primo controllo umano del fuoco alla diffusione dell’agricoltura avvenuta più di 10.000 anni fa, dal picco di ricaduta di sostanze radioattive nel 1964 – dimostrata da bolle di gas intrappolate in carote di ghiaccio e depositi estesi di particolati carboniosi e radionuclidi – fino ad arrivare alla comparsa in campioni di sedimento di polline di mais domestico. E questo soltanto per raschiare la superficie degli innumerevoli dibattiti su questo argomento.
La proposta di ribattezzare il nostro tempo come «età dell’Uomo» è stata probabilmente ancora più dirompente al di fuori delle scienze della Terra, accendendo intensi dibattiti e nuovi studi in discipline come filosofia e archeologia, antropologia, geografia, storia, ingegneria, ecologia, design, legge, arte e scienze politiche.
Il dibattito sull’Antropocene ha avuto ricadute anche fra i media e sull’opinione pubblica. Un’età dell’Uomo implica la fine della natura? Chi è responsabile dell’Antropocene? L’Homo sapiens? I primi agricoltori? I ricchi consumatori dell’era industriale? E l’Antropocene costituisce necessariamente una catastrofe – un disastro ambientale e la fine dell’umanità – o è possibile un «buon Antropocene», in cui l’essere umano e la natura siano in grado di prosperare insieme nel futuro?
Gli accesi dibattiti su questo tema rendono evidente che in ballo c’è molto più dell’identificazione di un nuovo intervallo geologico. Il valore dell’Antropocene risiede nel suo ruolo di nuova prospettiva attraverso la quale si stanno rivisitando e riscrivendo i racconti millenari e le domande filosofiche. L’Antropocene costituisce tanto una nuova narrativa che mette in relazione uomo e natura, quanto un nuovo e audace paradigma scientifico, una «seconda rivoluzione copernicana», in grado di cambiare radicalmente il nostro modo di pensare cosa significhi essere umani.
STORIE DELLE ORIGINI
Le civiltà umane hanno sempre usato i racconti per tramandare la loro origine e il loro rapporto con il mondo, arricchendo le storie con numerosi personaggi, da animali e piante fino a esseri e forze mistiche. Secondo la mitologia greca, Gaia, la dea della Terra, rappresenta la divinità primordiale che emerse dal vuoto per generare la vita e i progenitori di molti altri dei, da Atena a Zeus. Fu solo dopo la creazione di svariate razze umane, trovate carenti in virtù dalle divinità e quindi allontanate, che comparvero gli antenati mortali dei Greci. Secondo un’altra storia delle origini il dio Prometeo creò il genere umano: lo plasmò dall’argilla e gli donò il fuoco rubato agli dei per permettergli di prosperare. Il messaggio è chiaro. Gaia crea e mantiene in vita tutta la natura, incluse le forze sempre in battaglia degli dei. Gli uomini, nella mitologia della Grecia antica, sono fortunati di esistere e prosperare grazie al dono del fuoco di Prometeo. Per questo motivo Gaia e Prometeo svolgono entrambi un ruolo chiave nella storia dell’origine dell’Antropocene.
Nella prima storia della Genesi ebraica un Dio onnipotente crea l’universo, la Terra, e gli esseri umani in una sequenza ordinata. Nella seconda Dio modella il primo uomo nella natura – il Giardino dell’Eden – e successivamente la prima donna. In quest’ultimo racconto uomo e donna conducono un’esistenza semplice e armoniosa, finché non vengono tentati dall’albero della conoscenza del bene e del male, scatenando la furia di Dio; quest’ultimo li caccia quindi dall’Eden, costringendo loro e tutti i futuri discendenti a coltivare in eterno la terra per poter sopravvivere. Grazie a questi testi impariamo perché l’uomo, nonostante il suo ruolo centrale nel processo della creazione da parte di Dio, venga comunque obbligato, dopo la caduta, a faticare coltivando la terra.
Per mezzo delle trame che collegano l’universo, la Terra e il genere umano con tutti gli altri personaggi e le forze con cui devono interagire, le storie delle origini ci dicono chi siamo, da dove veniamo, quale ruolo svolgiamo, e qual è il nostro rapporto con la natura che ci circonda. Analogamente, l’Antropocene fornisce il resoconto di un pianeta trasformato dal genere umano. Ma in che modo e per quale motivo l’uomo è diventato un modellatore del pianeta? L’Antropocene esige una spiegazione.
23 OTTOBRE 4004 A.C.
Il 23 ottobre 2004 alle 18.00, gli scienziati della Società geologica di Londra hanno brindato a James Ussher, l’arcivescovo di Armagh che nel 1650 aveva calcolato la data della creazione del mondo. Stando alle conclusioni del prelato, la Terra era stata creata il 23 ottobre del 4004 a.C., e quindi doveva avere 6.008 anni. Sebbene questi esperti di ere geologiche si stessero sicuramente divertendo, è significativo che abbiano celebrato una cronologia dell’universo così obsoleta. Probabilmente al giorno d’oggi l’estrema precisione di Ussher provocherebbe ilarità, ma il suo obiettivo era inequivocabile: rendere ancora più certa la sua versione della storia delle origini.
Ancora prima dell’avvento dei metodi scientifici, erano state realizzate cronologie precise di momenti chiave della storia della Terra e dell’umanità, mediante l’analisi accurata di prove attendibili. Ussher si basò sulla Bibbia per la sua ricostruzione. La storia generazionale (per esempio Giuseppe figlio di Giacobbe) e gli eventi datati (come la distruzione del Tempio di Gerusalemme) vennero faticosamente messi insieme e calcolati in un modo del tutto originale per stilare una cronologia che collegasse la Terra, le origini dell’uomo e la storia della società occidentale. Anche altre civiltà, inclusi Maya e Indù, realizzarono delle datazioni dettagliate che collegavano la nascita dell’universo e la storia dell’umanità, facendo in parte affidamento su accurate osservazioni astronomiche. Questo diffuso investimento in competenze specializzate per la compilazione di precise cronologie, conferma la loro utilità sociale già molto tempo prima dello sviluppo della scienza occidentale, come un modo per conferire autorità alle istituzioni e agli esperti che le avevano create.
Ai nostri giorni la ricerca scientifica è riuscita a stilare la storia delle origini più elaborata, precisa, sistematica e verificabile che sia mai esistita, unendo in un’unica cronologia – sempre più dettagliata e in continuo miglioramento – l’universo, la Terra e la storia dell’umanità. Nonostante tutto, però, molte comunità tradizionaliste, religiose e persino secolari utilizzano ancora le loro storie delle origini, estremamente in contrasto con le prove scientifiche, spesso a causa di sostanziali pressioni della società; per esempio alcuni continuano a diffondere la cronologia della «giovane Terra» dell’arcivescovo Ussher.
Il motivo principale di questo rifiuto dovrebbe essere chiaro. Ridefinendo i ruoli e i rapporti tra uomo, Terra e cosmo, la storia dell’origine della scienza contemporanea sfida alcune delle credenze tradizionali più profondamente radicate nelle società di tutto il mondo. Non vi è alcun posto per un Dio onnipotente o qualsiasi altra forza mistica. Di conseguenza gli esseri umani non hanno alcun ruolo centrale nell’universo. L’Antropocene va anche oltre, non solo confrontando queste credenze tradizionali, ma anche rivedendo la classica storia dell’origine della scienza contemporanea. Nell’Antropocene, gli esseri umani assumono di nuovo un ruolo centrale sulla Terra, come i modellatori del pianeta.
LA PRIMA RIVOLUZIONE COPERNICANA
Il 4 giugno del 1539, Martin Lutero parlò ai suoi discepoli di un «nuovo astrologo che vuol dimostrare che la Terra si muove invece del cielo, del Sole e della Luna». L’astrologo in questione era Niccolò Copernico, la cui teoria eliocentrica non collocava più il nostro pianeta al centro dell’universo.
Per millenni, in Occidente, l’unica storia sulle origini del mondo ritenuta accettabile si basava sulla centralità della Terra e sulla sua creazione per mano di Dio; anche la Bibbia, infatti, dipendeva da questa visione geocentrica. Ovviamente si cercò in tutti i modi di contrastare il nuovo paradigma, ma alla fine, dopo più di un secolo, grazie al lavoro di Tycho Brahe, Giovanni Keplero, Galileo Galilei e Isaac Newton, la rivoluzione copernicana ebbe successo. Verso la fine del XVII secolo, gli intellettuali occidentali si convinsero finalmente che la Terra non si trovava al centro dell’universo e divenne sempre più evidente la necessità di formulare una nuova storia delle origini.
STRATI DI TEMPO
A quasi un secolo di distanza da quando Ussher aveva reso nota la sua cronologia, gli accademici come Isaac Newton erano ancora convinti che la Terra non avesse più di 6000 anni. Il primo a mettere in discussione questi calcoli, alla fine del XVIII secolo, fu il naturalista francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788), secondo il quale la Terra doveva avere 74.000 anni; la sua stima venne subito derisa e lui si vide obbligato a ritrattarla nonostante credesse, a dire il vero, che il nostro pianeta fosse ancora più vecchio di quanto avesse proposto, forse di milioni di anni.
La datazione degli intervalli di tempo geologico si basa scientificamente sul principio stratigrafico della sovrapposizione: alcuni geologi, infatti, scoprirono che la particolare disposizione dei materiali e dei fossili riscontrati su rocce e sedimenti poteva essere organizzata in livelli orizzontali, denominati «strati», posti l’uno sopra l’altro. Fu così che nel XIX secolo nacque la stratigrafia. Nel 1830, il geologo scozzese Charles Lyell (1797-1875, N.d.C.) pubblicò i Principi di geologia (il titolo originale dell’opera fondamentale di Lyell in tre volumi pubblicati tra il 1830 e il 1833 è Principles of Geology, N.d.C.), in cui prese le principali successioni stratigrafiche rilevate da altri colleghi e le ordinò in intervalli sequenziali di tempo, quindi le collegò ai principi di cambiamento graduale e continuo che avrebbero dovuto consentire di stimare la durata di tali intervalli. Grazie a tutti quei dati, nel 1867 fu uno dei primi a calcolare l’età della Terra basandosi su prove scientifiche: la cifra si aggirava intorno ai 240 milioni di anni. Anche i suoi contemporanei, incluso Lord Kelvin (Lord William Thomson, noto come Lord Kelvin, 1824-1907, N.d.C.), ottennero valori simili e così si iniziò a invalidare l’ipotesi di una Terra molto più giovane, gettando invece le basi per una storia delle origini dell’universo, della Terra e dell’uomo completamente nuova.
LA SCIMMIA NUDA
Proprio mentre i geologi stavano rivedendo la posizione della Terra all’interno dell’ordine cosmico, i biologi iniziarono a riconsiderare le origini della vita e dell’essere umano. Il loro problema principale era il tempo, non ne avevano a sufficienza. Charles Darwin (1809-1882, N.d.C.) seguì molto da vicino la geologia e in particolar modo si interessò ai lavori di Lyell, il quale gli fece da mentore anche per il viaggio a bordo della HMS Beagle (Darwin infatti ricevette, durante il lungo viaggio intorno al mondo sul brigantino Beagle, che vide la sua partenza il 27 dicembre 1831 e il ritorno in Inghilterra il 2 ottobre 1836, il primo dei tre volumi dei Principles of Geology di Lyell, N.d.C.). La Società geologica di Londra invitò Darwin a esporre il suo lavoro e poco dopo lo elesse nel proprio consiglio direttivo. Tuttavia, il suo vero grande interesse era quello di comprendere perché una specie, nel tempo, dà origine a un’altra. Nel 1837 schematizzò questo processo disegnando le ramificazioni di un singolo albero e nel 1859, dopo quasi vent’anni e con la paura che Alfred Russel Wallace lo anticipasse, pubblicò finalmente la sua teoria dell’evoluzione per mezzo della selezione naturale.
Sembra strano aspettare così a lungo prima di rendere nota una delle scoperte più importanti di tutti i tempi, ma Darwin aveva le sue buone ragioni: essendo un uomo religioso, era ben consapevole dell’accesa disputa che la sua teoria avrebbe scatenato. L’affermazione che le specie traggono origine nel tempo tramite l’evoluzione, e dunque senza bisogno di alcun atto divino, non avrebbe concordato facilmente con il racconto delle origini presente nella Genesi. Lavorò quindi duramente per anni nel tentativo di rendere le sue conclusioni più solide possibile.
Darwin aveva bisogno di tre cose per confermare la sua teoria. Innanzitutto gli servivano le prove che le specie non fossero eterne e che nuove specie si sviluppassero dopo altre: ciò fu confermato dai reperti fossili. Aveva poi bisogno di pressioni e procedimenti in grado di modellare le specie in nuove forme. La teoria di Malthus secondo cui la scarsità delle risorse naturali dovrebbe frenare la crescita demografica gli fornì ciò che stava cercando: non tutti gli individui, infatti, riescono a sopravvivere nella lotta per le risorse limitate. Tramite l’allevamento di animali e piante, e dunque grazie allo studio della selezione artificiale, riuscì a dimostrare che determinate pressioni selettive possono causare la nascita di razze, specie e varietà molto diverse fra loro partendo dai membri di un’unica specie. Ma più di ogni cosa, Darwin aveva bisogno di tempo.
Senza un vastissimo lasso di tempo, dell’ordine di centinaia di migliaia di anni, non c’era modo di spiegare come le miriadi di specie presenti sulla Terra fossero potute nascere tramite la selezione naturale. Fortunatamente i geologi avrebbero presto stimato l’età della Terra dapprima a centinaia di milioni di anni e successivamente a qualche miliardo di anni e così la teoria darwiniana continuò a guadagnare sempre maggiore credibilità. Nel 1871 Darwin fece un ulteriore passo avanti e nel volume L’origine dell’uomo applicò la sua teoria evoluzionistica all’essere umano, infatti le sue origini non sono diverse da quelle di un qualsiasi altro animale. Secondo la nostra storia, una particolare «scimmia nuda» si sviluppò a partire da altre scimmie durante un arco di tempo geologico molto lungo, ma a seguito della teoria evoluzionistica di Darwin nacque un nuovo racconto delle origini in grado di collegare tutti gli esseri viventi, incluso l’uomo, a un unico antenato comune, riassumendo così il tutto in un universale «albero della vita».
In breve gli scienziati cominciarono a preferire il tempo geologico a quello della Bibbia e l’evoluzione per mezzo della selezione naturale scalzò la creazione narrata nella Genesi. Una nuova e secolare storia delle origini collegava la Terra, gli esseri viventi e le persone. Come osservò nel 1869 Thomas H. Huxley (1825-1895, N.d.C.), presidente della Società geologica di Londra, «la biologia prende il suo tempo dalla geologia». Inoltre, diversamente dal racconto della Genesi, l’uomo non giocava alcun ruolo speciale: era solo una specie tra molte altre, non aveva alcuna direzione particolare su un pianeta in trasformazione.
UN RUOLO SECONDARIO
In seguito agli studi di Darwin e ai rapidi sviluppi nel campo dell’astronomia, mutò il modo di considerare la posizione ricoperta dall’uomo nella storia dell’universo. Il cosmo ebbe origine 13,8 miliardi di anni fa con una gigantesca esplosione chiamata «Big Bang». La Terra iniziò a formarsi circa 4,5 miliardi di anni fa a partire da polveri e gas, fino a diventare un vero e proprio pianeta: in particolare è uno degli otto pianeti che orbitano in modo irregolare attorno a una nana gialla, nel braccio di spirale di una galassia composta da più di cento miliardi di stelle, che a sua volta costituisce una delle cento miliardi di galassie che tengono insieme circa un miliardo di trilioni di stelle in un universo in continua espansione.
La prima forma vivente, un batterio (i batteri sono definiti procarioti, ossia esseri viventi unicellulari la cui cellula è priva del nucleo, N.d.C.), comparve molto probabilmente più di 3,8 miliardi di anni fa; questo diede poi vita (circa 2 miliardi di anni fa) a organismi unicellulari maggiormente complessi e dotati di nucleo, detti eucarioti. I primi organismi pluricellulari si svilupparono oltre un miliardo di anni fa, mentre i primi animali all’incirca 800 milioni di anni fa. Fu così che circa 480 milioni di anni fa le terre iniziarono a popolarsi e gli esseri viventi a evolversi in innumerevoli forme, molte delle quali, come per esempio i dinosauri non aviani, sono andate perdute per sempre durante una delle cinque estinzioni di massa avvenute decine o addirittura centinaia di milioni di anni fa. I primi mammiferi si svilupparono 200 milioni di anni fa, poi fu la volta dei primi esemplari di primati (65 milioni di anni fa), fino ad arrivare alle prime specie dei nostri antenati, il genere Homo, circa 2,8 milioni di anni fa. Questi primordiali esemplari umani (chiamati ominidi) furono i primi a costruire utensili di pietra, a controllare il fuoco e a migrare dall’Africa verso l’Eurasia. Loro, non noi.
L’Homo sapiens fece la sua comparsa soltanto 300.000 anni fa. Per tutti i 200.000 anni successivi, gli esseri umani non mostrarono molti tratti distintivi all’infuori di un’anatomia meno robusta e di un cranio leggermente più piccolo e dalla forma diversa, rispetto alle altre specie del genere Homo.
Figura 1. Il calendario cosmico. Diffuso da Carl Sagan (1934-1996, astronomo, astrofisico e straordinario divulgatore scientifico, N.d.C.), rappresenta la storia dell’universo, della Terra, degli esseri viventi e dell’uomo nell’arco di un unico anno terrestre. Per esempio, gli ominidi appaiono l’ultimo giorno dell’anno alle 14.24. (ka = migliaia di anni fa).
Sarebbe giunto un tempo in cui l’Homo sapiens avrebbe creato un nuovo modo di vivere, si sarebbe espanso per un intero pianeta, ma solo durante gli ultimi secondi del calendario cosmico (Figura 1). Per la maggior parte del tempo che l’uomo ha trascorso sulla Terra, la nostra specie è stata solo una delle tante del genere Homo, in mezzo a milioni di altre specie viventi su un pianeta qualunque in orbita attorno a una stella tra molte, in una galassia qualsiasi di un universo sterminato.
I CAMBIAMENTI DELLA TERRA
Per molto tempo la maggior parte dei naturalisti si è concentrata sulla natura e sui suoi processi, a partire dalla fisica e dalla chimica fino ad arrivare alla biologia, attribuendo agli esseri umani un ruolo marginale. In effetti, paragonati a queste «grandi forze della natura», la cui storia dura ininterrottamente da miliardi di anni, noi non siamo altro che uno dei tanti animali comparsi sulla Terra. Tuttavia, già ai tempi di Darwin iniziò a diffondersi un altro punto di vista: l’uomo non era semplicemente un altro primate, bensì una forza distruttiva potente e senza eguali.
Fra i più illustri sostenitori di questa teoria ci fu George Perkins Marsh (1801-1882, politico e geografo statunitense, fu il primo ambasciatore degli Stati Uniti d’America presso il Regno d’Italia e morì a Vallombrosa in Toscana, N.d.C.), nel cui libro L’uomo e la natura del 1864 (rivisto con il sottotitolo Ossia la superficie terrestre modificata per opera dell’uomo nel 1874) raccontò una versione differente del rapporto fra l’uomo e la natura. Le antiche civiltà del Mediterraneo disboscarono e ararono i campi per favorire l’agricoltura, modificando drasticamente la vegetazione, i terreni e persino il clima di quelle regioni e riducendo «la faccia della Terra a un grado di desolazione grande quasi quanto quello della Luna». Questo dimostra che fin dall’antichità l’uomo costituisce una vera e propria forza distruttiva in grado di cambiare la Terra in peggio e in modo irreversibile. Nel 1873 il geologo italiano Antonio Stoppani (1824-1891, N.d.C.) si spinse ancora oltre definendo «era antropozoica» il nuovo intervallo di tempo soggetto a questi cambiamenti.
Con il sopraggiungere dell’era industriale, la domanda di risorse naturali crebbe ogni giorno di più e le attività umane, alimentate dall’uso del combustibile fossile e collegate fra loro da una rete commerciale su scala globale, divennero drasticamente più intense e pericolose. La deforestazione, il dissodamento dei terreni, le attività minerarie, la costruzione di città e la produzione industriale portarono all’inquinamento dell’acqua, dell’aria e della terra, mentre l’incessante conversione di aree naturali in trafficati paesaggi urbani lasciava sempre meno spazio agli altri esseri viventi. Ciononostante, la più incredibile dimostrazione che l’essere umano fosse diventato una forza in grado di alterare il pianeta sarebbe venuta fuori dalla sottile aria.
LA FINE DELLA NATURA
Nel 1895, il chimico e fisico svedese Svante Arrhenius, (1859-1927, N.d.C.), elaborando il lavoro scientifico di John Tyndall (1820-1893, N.d.C.), dimostrò che l’anidride carbonica e il vapore acqueo presenti nell’atmosfera trattengono parte dell’energia termica proveniente dal Sole e quindi innalzano la temperatura superficiale della Terra quanto basta per garantire il mantenimento dell’acqua allo stato liquido. Tale fenomeno prende il nome di «effetto serra» ed è essenziale per consentire la vita sul pianeta. Su questa base, ipotizzò che l’aumento progressivo di anidride carbonica e di altri gas serra nell’atmosfera potesse in parte spiegare le ere glaciali e altre variazioni a lungo termine della temperatura terrestre. Secondo Arrhenius l’uso di combustibili fossili avrebbe potuto incrementare ulteriormente il riscaldamento globale dovuto all’effetto serra, ma la cosa non gli sembrò neanche troppo negativa pensando ai paesi più freddi, come la sua Svezia.
Oltre mezzo secolo dopo questi studi prove scientifiche confermarono che l’anidride carbonica proveniente dai combustibili fossili si stava accumulando nell’atmosfera terrestre causando l’innalzamento delle temperature. Nel 1965, alcuni scienziati avvertirono il presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson dei pericoli di un riscaldamento globale di origine antropica. Le prove si moltiplicarono e le previsioni diventarono più precise. Se si fosse continuato così, nell’arco di qualche decennio la temperatura della Terra sarebbe aumentata drasticamente portando a terribili conseguenze per l’uomo e per la natura: il livello del mare si sarebbe innalzato minacciando le città, mentre i cambiamenti climatici avrebbero interrotto la produzione agricola e modificato gli habitat naturali in tutto il mondo. Il messaggio era molto chiaro: le attività umane stavano portando la Terra verso una direzione potenzialmente catastrofica ed è per questo che gli scienziati chiesero un intervento tempestivo.
Nel 1988 venne istituito il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC), un nuovo organismo internazionale impegnato nella valutazione dei rischi del riscaldamento globale. Ma non era solo: una vasta comunità formata da attivisti, organizzazioni e intellettuali era al lavoro ormai da più di un secolo per affrontare gli svariati e innumerevoli danni ambientali causati dall’uomo. Le conferme che gli esseri umani stavano alterando anche le più fondamentali condizioni per la vita sulla Terra diventarono il loro grido di battaglia. Il riscaldamento globale stava cambiando tutto. Per alcuni era giunto il momento di riscrivere la storia dell’uomo e della natura.
Nel 1989 il giornalista Bill McKibben pubblicò La fine della natura, il primo libro popolare sul cambiamento climatico. Secondo l’autore, la distruzione degli ambienti naturali per mano dell’uomo aveva raggiunto ormai il culmine. Le società moderne avevano già modificato, addomesticato e preso il controllo del mondo più di chiunque altro prima, inquinando e deteriorando l’acqua, l’aria e la terra, e soprattutto la vita stessa. Intaccando il sistema climatico, l’uomo aveva compiuto l’ultimo passo: la natura incontaminata era ormai scomparsa a causa della portata globale dell’alterazione climatica perpetrata dall’uomo.
UN NUOVO CAPITOLO
Per poter considerare il cambiamento climatico di origine antropica come «la fine della natura», i danni ambientali dovrebbero superare un punto critico. In quale modo un prodotto della natura, una scimmia nuda per l’esattezza, può acquisire le capacità necessarie per porre fine alla natura stessa? E se la natura è davvero finita, a noi cos’è rimasto? Tuttavia, i dati scientifici parlano chiaro: l’uomo sta davvero cambiando il suo pianeta come non si era mai visto prima. Vi sono buone ragioni per ammettere che probabilmente stiamo vivendo un nuovo capitolo della storia della Terra, un capitolo in cui l’uomo è il protagonista.
Questo è il motivo per cui l’Antropocene ha ricevuto così tanta attenzione. Porre l’uomo al centro dei cambiamenti terrestri significa rivedere le teorie scientifiche sugli esseri umani e la natura che sono state formulate a partire dai tempi di Copernico. Tutti i dibattiti che ne sono scaturiti hanno sempre riguardato gli sforzi per riscrivere la storia del nostro pianeta, della vita e dell’umanità. Sebbene i geologi stiano continuando a cronometrare la storia della Terra, ruolo che svolgono ormai da più di due secoli, la narrativa scientifica dell’Antropocene sta aprendo nuove strade. Saranno necessari altri tipi di domande e altre prove prima di affidare al genere umano il ruolo di artefice di una nuova era nella storia della Terra.
A nessuna specie è mai stata riconosciuta la propria era geologica. Perché l’uomo, fra tutte quelle esistenti, ha acquisito i mezzi per trasformare un intero pianeta? Quando è emersa questa capacità e soprattutto cosa l’ha generata? Gli esseri umani sono tutti egualmente responsabili di questa trasformazione? Quali prove servono per poter rispondere a tali domande? Ma più in generale, cosa si prova a essere un uomo quando questo significa far parte di una forza globale che cambia ogni cosa, persino il futuro di un pianeta? Che significato può assumere la natura in un’età che appartiene al genere umano?
Per rispondere a tali interrogativi bisogna conoscere i processi che stanno alla base del sistema Terra, come pure i cambiamenti antropogenici che hanno ispirato la proposta dell’Antropocene. Dovendo poi datarli per inserirli nel calendario della storia della Terra, risulta necessario comprendere gli strumenti, le procedure e la struttura del tempo geologico. Sulla base di queste premesse, andremo a esaminare tutte le proposte avanzate per la datazione dell’Antropocene, partendo dai test nucleari degli anni Cinquanta, tornando indietro fino alla nascita dell’agricoltura, andando all’origine del genere umano e ancora prima. Successivamente andremo avanti a esplorare i molteplici modi in cui la proposta dell’Antropocene sta rimodellando le scienze, stimolando il genere umano e mettendo in primo piano le strategie di vita su un pianeta trasformato dall’uomo.