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Sistema Terra

«Gli esseri umani stanno soverchiando le grandi forze della natura?» hanno chiesto Will Steffen, Paul Crutzen e lo storico John McNeill nel loro articolo sull’Antropocene del 2007.

Era una domanda retorica. Per loro, la risposta non poteva che essere «sì».

Ad alcuni poteva sembrare esagerato, persino eretico, fare una simile affermazione, ma per Steffen, Crutzen e altri scienziati del sistema Terra, era stata oggetto di decenni di ricerche. Per loro, le «grandi forze della natura» non erano poteri divini, ma piuttosto i processi necessari a garantire il funzionamento del pianeta come un complesso sistema dinamico.

In effetti, risulta ragionevole che a proporre l’Antropocene siano stati studiosi focalizzati su una simile visione del mondo. Per confermare che gli esseri umani hanno alterato il funzionamento del nostro pianeta, inteso come sistema dinamico, è fondamentale dimostrare i meccanismi che hanno portato a queste modifiche; tuttavia, è impossibile stabilire le cause di tali cambiamenti senza un’approfondita conoscenza del sistema Terra, ovvero delle sue componenti fondamentali, del modo in cui queste interagiscono fra loro e soprattutto dei processi che lo mantengono più o meno in equilibrio.

SFERE E CICLI

A porre le basi per lo sviluppo di una scienza del sistema Terra fu il geologo austriaco Eduard Suess (1831-1914, N.d.C.), il quale introdusse i termini litosfera, idrosfera e biosfera nel suo popolare libro L’aspetto della Terra del 1875.

Partendo da qui, nel 1926, il mineralogista e geochimico russo Vladimir Vernadskij (1863-1945, N.d.C.) pubblicò La biosfera, in cui propose il primo modello scientifico della Terra, intesa come un complesso sistema basato su interazioni dinamiche tra «sfere» (Figura 2).

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Figura 2. Sfere del sistema Terra, inclusa l’«antroposfera» che rappresenta gli effetti interattivi a livello globale delle attività umane.

Il funzionamento della Terra descritto da Vernadskij si basava su scambi (alimentati dalle radiazioni solari) di energia e materia tra le sfere. Al centro di tali interazioni vi era la biosfera, che costituiva un sottile «involucro» verde responsabile della regolazione e del bilanciamento di tali scambi tra l’atmosfera, l’idrosfera e la litosfera della Terra. Raccogliendo energia dal Sole e anidride carbonica dall’aria, gli organismi fotosintetici erano diventati capaci di alterare i cicli globali del carbonio e di altri elementi presenti nelle sfere; allo stesso tempo, regolando le concentrazioni di anidride carbonica e di altri gas serra all’interno dell’atmosfera, la biosfera era in grado di trasformare in modo definitivo i meccanismi del sistema climatico terrestre.

Mentre oggi Vernadskij è universalmente riconosciuto come il primo scienziato ad aver teorizzato che il funzionamento del sistema Terra fosse stato modificato dalla comparsa della biosfera, all’epoca il suo libro non trovò ampia diffusione all’infuori dell’Unione Sovietica.

LA RINASCITA DI GAIA

A metà degli anni Sessanta, Carl Sagan e altri astrofisici riscontrarono un problema. Era noto che negli ultimi 4 miliardi di anni il clima della Terra fosse rimasto sorprendentemente immutato, ma durante questo periodo l’output delle radiazioni solari era comunque aumentato del 30%. Fin dalle origini, la Terra era già abbastanza calda da mantenere l’acqua allo stato liquido e garantire altre condizioni indispensabili alla vita, e ciò era dovuto alle alte concentrazioni di anidride carbonica presenti nell’atmosfera. Ma perché la Terra non si era drasticamente riscaldata a mano a mano che l’energia solare aumentava? In assenza di meccanismi regolatori, la Terra sarebbe dovuta diventare troppo calda per consentire lo sviluppo della vita.

Nei primi anni Settanta, James Lovelock e Lynn Margulis (1938-2011, N.d.C.) trovarono una risposta: gli organismi viventi, che agiscono collettivamente come biosfera, erano responsabili della regolazione del clima terrestre e del mantenimento delle condizioni necessarie alla vita. La vita aveva creato la vita stessa. Gaia era rinata nell’ipotesi che avrebbe fatto la storia, consentendo lo sviluppo della scienza del sistema Terra.

L’ipotesi Gaia sostiene che la biosfera regoli il clima agendo da termostato. Quando la Terra si scalda, la biosfera risponde producendo un effetto di raffreddamento: gli organismi assorbono maggiori quantità di gas serra dall’atmosfera e rilasciano nell’aria delle polveri fini denominate «aerosol», le quali favoriscono la formazione di nuvole che riflettono le radiazioni solari. Quando invece la Terra si raffredda, la biosfera controbilancia la variazione aumentando i gas serra e riducendo l’aerosol presente nell’atmosfera; in questa maniera può stabilizzare la temperatura mediante un sistema a retroazione negativa, contrastando l’effetto riscaldante dovuto all’aumento delle radiazioni solari, un processo che è esterno alle dinamiche della Terra. La retroazione negativa può essere applicata anche per bilanciare le variazioni di temperatura causate da processi interni, come per esempio l’emissione di gas serra e aerosol da parte dei vulcani.

La Terra presenta al contempo anche numerosi sistemi a retroazione positiva come quelli controllati dalla criosfera, la superficie terrestre coperta dai ghiacci, e messi in atto nel momento in cui il Sole fonde il ghiaccio dell’Artico. L’acqua marina esposta al Sole assorbe in modo eccellente le radiazioni solari, mentre il ghiaccio che galleggia sul mare principalmente le riflette nello spazio. Quando il sole fonde la calotta glaciale artica, una maggiore quantità di acqua di mare viene esposta alle radiazioni determinando un maggiore assorbimento di calore; di conseguenza, si fonderà più ghiaccio, che a sua volta incrementerà il surriscaldamento. In questo modo, la fusione del ghiaccio marino rappresenta un ciclo di feedback positivi, in cui il riscaldamento porta a un riscaldamento ancora maggiore, accelerando la fusione del ghiaccio artico da parte del Sole. Prima o poi, questo sistema di retroazioni positive potrebbe raggiungere un punto critico oltre il quale la fusione continuerà fino a quando la calotta glaciale artica si sarà completamente liquefatta.

Considerato il drammatico aumento a lungo termine delle radiazioni solari, un sistema Terra privo di forme di regolazione, che non è in grado di rispondere agli effetti del riscaldamento da parte del Sole, potrebbe non garantire un’esistenza prolungata. Per comprendere la notevole stabilità a lungo termine della Terra e la sua capacità di ospitare la vita, è necessario intendere il pianeta stesso come un complesso sistema di feedback positivi e negativi che interagiscono fra loro e modellano i flussi di materia ed energia fra le sfere che lo costituiscono.

L’ipotesi Gaia di James Lovelock portò non solo alla stesura di un noto libro, ma anche a un modo del tutto nuovo di pensare alla vita sulla Terra. Mentre il suo meccanismo di regolazione climatica fondato sulla biosfera è stato ampiamente sostituito nel tempo da uno di tipo geochimico, il principale contributo scientifico da lui apportato è stato molto probabilmente la descrizione della Terra come un sistema complesso e dinamico che viene stabilizzato da interazioni di feedback positivi e negativi tra le sfere. Con Gaia, la capacità di mantenere il clima stabile nonostante le radiazioni solari e gli altri comportamenti autoregolativi del nostro pianeta vennero intesi come una serie di intricati processi che nascono a loro volta da interazioni fra i vari sistemi che compongono la Terra stessa. Come un insieme più grande della somma delle sue parti. Offrendo un approccio sistematico per la comprensione delle dinamiche a lungo termine della Terra, incluso il concetto di biosfera dinamica e la necessità di modelli computazionali per incorporare le interazioni fra le sfere della Terra, la Gaia di Lovelock e Margulis gettò le basi per le future scienze del sistema Terra.

LA GRANDE OSSIDAZIONE

Il ruolo della biosfera nel funzionamento della Terra fornisce un chiaro esempio di cosa significhi essere una «grande forza della natura». Gli scienziati hanno a lungo considerato la Terra un pianeta dinamico, almeno a partire dalla fine del XVIII secolo grazie agli studi di James Hutton (1726-1797, N.d.C.).

Tuttavia, con la trasformazione avvenuta per mezzo della biosfera, si conferì al concetto di pianeta dinamico un significato completamente nuovo: non solo la vita aveva creato la vita stessa, ma gli organismi viventi avevano anche prodotto l’ossigeno presente nell’atmosfera.

Le prime forme di vita sembrano corrispondere a singole cellule, che si sono sviluppate in mare e sono comparse circa un miliardo di anni dopo che la Terra si era solidificata in un pianeta. Come quella di Venere e Marte, anche l’atmosfera terrestre all’epoca era composta prevalentemente da anidride carbonica (CO2). Senza ossigeno (O2) nell’atmosfera mancava anche lo strato di ozono (O3) capace di assorbire le pericolose radiazioni solari ultraviolette, che bloccavano quindi la comparsa di forme viventi.

La situazione iniziò a cambiare solo un miliardo di anni dopo, con lo sviluppo di organismi in grado di trarre nutrimento dal Sole. Le cellule con questa nuova capacità biologica, detta fotosintesi, utilizzavano la luce solare per convertire la CO2 e l’acqua in zuccheri e altri composti organici ricchi di carbonio, necessari per la vita. Questo processo da un lato forniva agli organismi un’ulteriore scorta di energia, che ne favoriva la crescita, e dall’altro permetteva all’atmosfera terrestre di accumulare il suo principale prodotto di scarto: l’ossigeno.

La fotosintesi cambiò ogni cosa. Per centinaia di milioni di anni gli organismi fotosintetici, principalmente batteri, arricchirono l’atmosfera di O2. In un primo momento questa «grande ossidazione» fu molto lenta, poiché le prime molecole di ossigeno reagirono con il ferro e gli altri minerali presenti negli oceani e nella crosta terrestre, producendo ampi depositi di ferro e composti ossidati. Una volta terminato questo processo, però, l’ossigeno iniziò ad accumularsi rapidamente nell’atmosfera. Allo stesso tempo il livello di anidride carbonica scese drasticamente, prima intrappolato dagli organismi viventi ricchi di carbonio e poi sequestrato dai sedimenti nelle profondità oceaniche a mano a mano che i loro corpi morti affondavano, si accumulavano e formavano rocce. La maggiore quantità di ossigeno nell’atmosfera terrestre determinò l’estinzione delle forme di vita anaerobiche o il loro confinamento nelle zone meno ossigenate del pianeta.

La presenza di ossigeno libero nell’atmosfera alterò radicalmente la composizione chimica della Terra. Una concentrazione di ossigeno simile a quella odierna fu raggiunta circa 400 milioni di anni fa, in seguito a una seconda ondata di ossigenazione associata all’aumento delle piante terrestri. La nuova composizione chimica della Terra, arricchitasi di O2, sciolse le pietre, creò nuovi minerali e consentì il rapido rilascio di energia immagazzinata nei composti organici; ciò permise, di conseguenza, al fuoco di bruciare e sbloccò nuovi metabolismi energetici (come la respirazione aerobica) che aumentarono notevolmente la capacità di autosostentamento degli organismi multicellulari. In tal modo, la biosfera aiutò a creare le condizioni necessarie per la proliferazione di organismi pluricellulari complessi, grazie anche alla presenza di un nuovo strato protettivo di ozono nella stratosfera. Con la rimozione parziale della CO2 dall’atmosfera, quest’ultima e le dinamiche climatiche terrestri subirono trasformazioni permanenti, che ridussero di molto il riscaldamento derivante dall’effetto serra; effetto che invece mantiene ancora oggi la superficie di Venere talmente calda da sciogliere il piombo. Fu così che la comparsa dei primi esseri viventi modificò per sempre la composizione chimica e fisica della Terra.

CARBONIO E CLIMA

Ancora oggi la biosfera partecipa attivamente al funzionamento del sistema Terra, alterando le concentrazioni di anidride carbonica presenti nell’atmosfera quando vi sono dei cambiamenti a lungo termine dell’energia solare in entrata. Nel corso della storia del pianeta, quest’energia è aumentata e diminuita periodicamente a seconda di come variava la distanza e l’orientamento della Terra nei confronti del Sole, innescando una serie di glaciazioni piuttosto estese. Negli ultimi 2,6 miliardi di anni, infatti, si sono alternati ciclicamente numerosi periodi di freddo «glaciale», o «ere glaciali», durante i quali i ghiacciai e il ghiaccio marino avanzavano dai poli, e periodi «interglaciali» relativamente caldi in cui il ghiaccio si ritirava.

Trivellando in profondità il ghiaccio dell’Antartide e della Groenlandia, i climatologi sono riusciti a ricostruire questi cicli della temperatura terrestre e dell’anidride carbonica atmosferica mediante misurazioni dello strato di ghiaccio che si è depositato nel corso di centinaia di migliaia di anni (Figura 3). Durante i numerosi cicli glaciali e interglaciali di questo periodo, il livello di anidride carbonica nell’atmosfera è aumentato e diminuito di pari passo rispettivamente con il riscaldamento e il raffreddamento della Terra, in parte a causa della reazione attiva della biosfera e in parte in risposta all’immagazzinamento di carbonio degli oceani.

La biosfera ha reagito ai cambiamenti ciclici delle radiazioni solari in entrata e del calore amplificando questi effetti, ovvero rilasciando carbonio quando la Terra si scaldava e riprendendolo indietro quando la Terra si raffreddava. In questo modo ha creato un sistema di feedback positivi che hanno migliorato le dinamiche del clima terrestre per oltre un milione di anni.

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Figura 3. Le alterazioni dell’anidride carbonica e del clima durante gli ultimi 800.000 anni, sulla base di dati ottenuti da carote di ghiaccio dell’Antartide, illustrano la loro correlazione nel corso dei cicli glaciali e interglaciali.

Durante il caldo periodo interglaciale degli ultimi 11.000 anni l’energia solare e il clima della Terra sono rimasti relativamente stabili, tuttavia ogni anno la biosfera continua a regolare le dinamiche stagionali dell’anidride carbonica nell’atmosfera. In primavera, quando il Sole riscalda l’emisfero settentrionale dove oggi si trova la maggior parte delle terre emerse e della fotosintesi, la biosfera inizia ad assorbire maggiori quantità di carbonio riducendo così i livelli atmosferici di CO2; a mano a mano che le temperature nell’emisfero Nord si abbassano durante l’autunno, la fotosintesi rallenta mentre il carbonio viene rilasciato dalla vegetazione, dai terreni e dagli animali in decomposizione.

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Figura 4. Il ciclo globale del carbonio, in gigatonnellate di carbonio (ossia miliardi di tonnellate all’anno GtC/yr; N.d.C.).

Queste cicli annuali di assorbimento e rilascio fanno parte del ciclo del carbonio che avviene tra biosfera, atmosfera e le altre sfere del sistema Terra (Figura 4); insieme formano il ciclo «biogeochimico» globale del carbonio, il secondo più grande fra quelli degli elementi presenti nelle varie sfere (il primo è quello dell’ossigeno). In seguito allo studio delle caratteristiche delle dinamiche a lungo termine del ciclo del carbonio, utilizzando gli strumenti della scienza del sistema Terra, è stato riscontrato che i risultati ottenuti sul carbonio presente nell’atmosfera e sulla temperatura rivelavano la presenza di feedback sistematici tra la biosfera, la litosfera e l’atmosfera. Nel caso in cui si verifichino cambiamenti negli input di energia solare o in qualsiasi altro elemento dinamico in grado di modificare il sistema Terra, tali feedback possono portare a una condizione tanto di stabilità quanto di instabilità.

LA CURVA DI KEELING

Nel marzo del 1958, Charles David Keeling (1928-2005, N.d.C.) fece installare, con i fondi stanziati dall’Anno geofisico internazionale (International Geophysical Year, IGY), un analizzatore a gas infrarossi in cima al vulcano Mauna Loa, nelle Hawaii. Il suo obiettivo era quello di misurare l’anidride carbonica in un ambiente remoto e incontaminato, dove la sua concentrazione sarebbe stata simile a quella dell’atmosfera terrestre nel suo complesso. Il giovane scienziato fresco di dottorato avrebbe presto descritto la propria scoperta come la prima testimonianza delle oscillazioni stagionali di CO2: in estate gli alberi crescono e la assorbono, per poi rilasciarla nell’atmosfera nell’inverno successivo. Keeling aveva appena osservato la «respirazione» della biosfera. Nonostante questo costituisse un importante passo in avanti, sarebbe stato necessario effettuare attente misurazioni ancora per qualche anno. In quella che oggi è conosciuta come «curva di Keeling», le sue stime rivelarono una tendenza che andava ben oltre i cicli stagionali della biosfera (Figura 5).

Nel corso degli anni, il monitoraggio dei livelli di anidride carbonica mostrò un trend in evidente crescita. A dimostrazione di ciò, le ricerche pubblicate da Keeling nel 1960 costituirono la prima solida prova scientifica che l’uso elevato di combustibili fossili stava causando un accumulo di CO2 nell’atmosfera terrestre. Sul finire degli anni Settanta, il continuo incremento di questo andamento attirò l’attenzione degli scienziati della Terra.

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Figura 5. La curva di Keeling. Le misurazioni di Charles David Keeling a Mauna Loa, Hawaii, dimostrarono un graduale incremento su scala globale delle concentrazioni atmosferiche di CO2.

La curva di Keeling dimostrò che l’utilizzo di combustibili fossili da parte dell’uomo stava modificando rapidamente l’atmosfera terrestre e che avrebbe potuto fare lo stesso anche con il funzionamento dell’intero sistema Terra. Tuttavia le osservazioni atmosferiche erano solo all’inizio: per comprendere le cause e le conseguenze dell’andamento atmosferico di CO2 sarebbe stato necessario un resoconto dettagliato dei flussi e dei cicli di carbonio in entrata e in uscita dalle numerose sorgenti presenti sulla Terra. Queste includono la vegetazione e i terreni della biosfera, compresi i relativi cambiamenti indotti dall’uomo, gli oceani e le emissioni vulcaniche. Ovviamente bisognava considerare anche le emissioni dovute al consumo di combustibili fossili e la produzione di acciaio e cemento. Dal momento che le componenti da analizzare contemporaneamente erano numerosissime, si rivelò inevitabile avviare una collaborazione scientifica internazionale senza precedenti. Grazie agli sforzi compiuti per confermare le conseguenze delle attività umane, presto si sarebbe assistito a un ampliamento della comunità scientifica impegnata nello studio del sistema Terra (in questo ambito, dal 2001 esiste il programma scientifico internazionale più autorevole sul ciclo del carbonio, che rientra in quelli di Future Earth, Research on Global Sustainability, definito Global Carbon Project. Si veda: www.globalcarbonproject.org/ che produce annualmente un rapporto sul budget di carbonio planetario; per ulteriori approfondimenti si veda anche l’interessante Global Carbon Atlas: www.globalcarbonatlas.org/en/content/welcome-carbon-atlas, N.d.C.).

IL BUCO DELLOZONO

In un articolo del 1970, Paul Crutzen ipotizzò che un gas non tossico prodotto dai batteri presenti nel suolo avrebbe potuto minacciare l’ozonosfera che protegge la Terra. Secondo i suoi studi, il protossido di azoto (N2O, conosciuto anche come «gas esilarante») verrebbe separato dalle radiazioni ultraviolette della stratosfera in prodotti reattivi dannosi per lo strato di ozono. La riduzione eccessiva di tale strato protettivo esporrebbe gli esseri viventi a radiazioni ultraviolette altamente nocive. Un massiccio uso da parte dell’uomo di fertilizzanti ricchi di azoto potrebbe inoltre incrementare queste emissioni e di conseguenza renderle ancora più pericolose. In quel periodo, però, il lavoro di Crutzen suscitava ancora scarso interesse.

Qualche anno dopo, nel 1974, Frank Sherwood Rowland (1927-2012, N.d.C.) e Mario José Molina suggerirono che anche altri gas chiamati clorofluorocarburi (CFC) avrebbero potuto raggiungere la stratosfera e distruggere l’ozono. Al contrario del protossido di azoto, i CFC venivano prodotti esclusivamente in modo artificiale dalle industrie per utilizzarli in frigoriferi, condizionatori e bombolette spray. Nonostante ci fossero prove evidenti che l’ozono stratosferico fosse a rischio, l’ipotesi di Rowland e Molina scatenò soltanto una protesta fra le industrie che usavano e producevano quei gas.

La conseguenza più seria del danneggiamento dell’ozono fu rilevata solamente nel 1985 in Antartide, dove accumuli stagionali di CFC avevano catalizzato una completa perdita localizzata di O3 denominata «buco dell’ozono» (Figura 6). Tale scoperta suscitò immediatamente una forte preoccupazione non solo fra gli scienziati, ma anche fra la popolazione mondiale e la classe politica, motivo per cui, nel giro di pochi anni, un’azione coordinata a livello internazionale introdusse una serie di nuovi quadri normativi, primo fra tutti il Protocollo di Montréal (firmato nel 1987 ed entrato in vigore nel 1989, N.d.C.).

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Figura 6. Il buco dell’ozono sopra l’Antartide (a) e i cambiamenti a lungo termine dei CFC atmosferici (b).

L’obiettivo del Protocollo di Montréal, e dei successivi, ancora più rigidi, era quello di ridurre progressivamente (fino a eliminare) la produzione e l’uso di CFC, in modo da consentire il ripristino dello strato di ozono. Grazie ai loro importanti studi, nel 1995 Crutzen, Rowland e Molina condivisero il premio Nobel per la chimica. Da quel momento iniziò ad affermarsi la teoria secondo cui le alterazioni atmosferiche indotte dall’uomo stavano causando gravi conseguenze al pianeta, aumentarono perciò le richieste di maggiori sforzi internazionali per rilevare, comprendere e magari evitare le gravi ripercussioni di tali cambiamenti sul sistema Terra.

INTERNATIONAL GEOSPHERE-BIOSPHERE PROGRAMME (IGBP)

Nel 1972, l’ONU organizzò a Stoccolma la prima conferenza sull’ambiente umano e in quell’occasione venne istituito il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (United Nations Environment Programme, UNEP). Con il tempo, una serie di agenzie governative iniziarono a sostenere sempre più attivamente le ricerche e le politiche volte a comprendere e affrontare i problemi ambientali.

Come documentato nel libro Primavera silenziosa di Rachel Carson (1907-1964, N.d.C.), l’impiego di prodotti chimici artificiali come il DDT stava compromettendo la riproduzione di uccelli e altri animali anche in luoghi ben lontani dalle zone di utilizzo, mentre l’agricoltura, i pascoli e l’espansione urbana stavano rapidamente sostituendo e danneggiando gli habitat naturali di molte specie. Come se non bastasse, le emissioni di anidride solforosa derivanti dalla combustione del carbone causavano la formazione di piogge acide che potevano danneggiare foreste e acque dolci anche in regioni o stati a centinaia di chilometri di distanza dalle fonti di emissione. Negli anni Ottanta fu chiaro che molte questioni ambientali stavano diventando sempre più di carattere globale, dunque era necessaria una scienza del cambiamento ambientale globale per comprenderle e per risolverle.

Il problema del buco dell’ozono si sommò a questa più ampia gamma di sfide ambientali che richiedevano un’analisi molto più approfondita attraverso una robusta scienza del cambiamento globale. Per questo motivo, sulla base delle precedenti collaborazioni di ricerca mondiali (come per esempio l’Anno geofisico internazionale), vennero istituite nuove organizzazioni scientifiche con lo scopo di studiare il cambiamento ambientale planetario.

La prima di queste fu il Programma mondiale di ricerca sul clima (World Climate Research Programme, WCRP) nel 1979. Nel 1986, un rapporto della NASA richiese di migliorare

la conoscenza scientifica dell’intero sistema terrestre su scala globale, descrivendo come si sono evolute le sue componenti e le loro interazioni, come funzionano, e come dovrebbero continuare a evolversi negli anni a venire.

Il rapporto includeva un modello concettuale del sistema Terra in cui erano state inserite anche le «attività umane» (Figura 7). Sarebbe poi servita una nuova organizzazione scientifica internazionale per sostenere tale obiettivo.

Nel 1987, Paul Crutzen e Will Steffen sono stati tra i primi a unirsi al nuovo Programma internazionale geosfera-biosfera (International Geosphere-Biosphere Programme, IGBP). Grazie a questo programma, con sede in Svezia, la scienza del sistema Terra ha acquisito la valenza istituzionale di cui aveva bisogno per costruire una solida comunità interdisciplinare di scienziati.

CAMBIARE IL SISTEMA

A metà degli anni Novanta gli studiosi del sistema Terra, coordinati dall’IGBP e da altre organizzazioni scientifiche internazionali, avevano raccolto una serie di prove in grado di dimostrare che l’essere umano stava alterando drasticamente il funzionamento del sistema Terra. Le attività dell’uomo stavano riempiendo l’atmosfera di anidride carbonica, CFC, aerosol e altri gas traccia, stavano minacciando lo strato di ozono che protegge la Terra e causando cambiamenti climatici a livello planetario.

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Figura 7. Modello del sistema Terra illustrato in un rapporto della NASA del 1986. Il funzionamento di svariati sottoinsiemi terrestri è connesso alle «attività umane», incluso lo sfruttamento del suolo, l’inquinamento e le emissioni di CO2.

Il ciclo globale degli elementi, cioè l’insieme dei cicli biogeochimici della Terra, si stava alterando: non solo il ciclo del carbonio, ma anche quelli dell’azoto e di altri elementi necessari per garantire la vita. Lo sfruttamento delle risorse condotto dall’uomo stava via via rimodellando l’ecologia terrestre, erodendo i terreni produttivi, deviando i corsi d’acqua verso gli allevamenti e le città, eliminando gli habitat naturali e facendo salire il numero di specie estinte a livelli preoccupanti.

Le osservazioni documentavano chiaramente che le attività umane stavano cambiando di pari passo con l’atmosfera della Terra, e anche la litosfera, l’idrosfera, la biosfera e il clima stavano mutando. Ma negli anni Novanta si compirono ulteriori passi in avanti. Simulando al computer gli scambi di materia ed energia che avvenivano tra le sfere, fu possibile confermare che l’aumento delle attività umane non era soltanto correlato con le principali trasformazioni ambientali a lungo termine, ma ne era addirittura la causa. Questo non era un risultato di scarso rilievo, non potendo infatti condurre tutti gli esperimenti sulla Terra stessa, la simulazione dei processi del sistema terrestre costituì una vera e propria svolta scientifica. In un rivoluzionario articolo del 1999 pubblicato su «Nature», il fisico atmosferico Hans Joachim Schellnhuber sostenne che la modellistica del sistema Terra, unitamente ai telerilevamenti dallo spazio e alle reti di osservazione a terra e in mare, costituivano una «seconda rivoluzione copernicana» volta a svelare i misteri della fisica terrestre, detta anche il «corpo di Gaia».

Nel 2001, l’IGBP ospitò ad Amsterdam una riunione di fondamentale importanza a cui parteciparono più di 1.400 membri appartenenti alla comunità scientifica, politica, di gestione delle risorse e dei media. Focalizzandosi sulla necessità di studiare il sistema Terra, durante l’incontro venne sottoscritta la «Amsterdam Declaration on Global Change», nella quale si legge la seguente asserzione:

Il sistema Terra si comporta come un unico sistema autoregolato con componenti fisiche, chimiche, biologiche e umane.

E poi:

I cambiamenti antropogenici apportati alla superficie terrestre, agli oceani e coste e all’atmosfera terrestre, nonché alla biodiversità, al ciclo dell’acqua e ai cicli biogeochimici sono chiaramente identificabili oltre qualunque possibile variabilità naturale. Sono uguali in ampiezza e incidenza ad alcune delle grandi forze della natura. Molti stanno accelerando. Il cambiamento globale è un problema reale e si sta verificando proprio ora.

La scienza della sistema Terra sta continuando a studiare le cause di tali trasformazioni: l’affermazione probabilmente più sensata al riguardo è quella che vede l’uomo soverchiare le grandi forze della natura e porsi come principale attore in scena.

Per di più, questi cambiamenti antropogenici potrebbero provocare conseguenze ancora più rapide, inaspettate e potenzialmente catastrofiche in caso di superamento di specifici punti di non ritorno e di alterazione dei complessi feedback all’interno del sistema Terra.

Non dovrebbe sorprendere che Paul Crutzen propose di riconoscere un nuovo intervallo della storia della Terra proprio durante la riunione dell’IGBP svoltasi in Messico nel 2000, periodo in cui rivestiva il ruolo di vicepresidente del programma. Tuttavia, i risultati ottenuti fino a quel momento dagli scienziati non erano sufficienti a giustificare una modifica della scala dei tempi geologici, che costituisce la suddivisione ufficiale del tempo trascorso dalla formazione della Terra in eoni, ere, periodi, epoche ed ere. Per poter annunciare un nuovo intervallo, i geologi dovevano prima compiere delle verifiche, utilizzando metodi e procedure scientifici: era quindi fondamentale mostrare che l’uomo aveva lasciato un segno chiaro e riconoscibile nelle rocce.