29.
25 novembre, mattina
Nell’appartamento di Vladimir Orlov in Mårten Trotzigs gränd non trovarono brutte sorprese. Era tutto pulito e in ordine, le lenzuola cambiate di fresco e il letto rifatto con cura. La cesta del bucato era vuota. Eppure qualcosa non andava. I vicini riferirono che la mattina era venuto qualcuno di una ditta di traslochi e a un esame più attento furono rilevate delle gocce di sangue sul pavimento e sulla parete sopra la testiera del letto. Da un confronto con le tracce di saliva trovate nell’appartamento di Andrei risultò che il sangue era quello del giovane giornalista.
Nessuno degli arrestati, almeno dei due in grado di comunicare, ammise di sapere qualcosa delle macchie o in generale di Zander, e a quel punto Bublanski e il suo gruppo si concentrarono sulla donna che era stata vista in compagnia del giornalista per ottenere maggiori informazioni su di lei. Nel frattempo sulla stampa erano uscite colonne e colonne non solo sulla sparatoria a Ingarö ma anche sulla scomparsa di Andrei Zander. I tabloid, e anche lo Svenska Morgon-Posten e il giornale gratuito Metro, avevano pubblicato grandi foto del giornalista. Nessuno dei cronisti aveva ancora capito il contesto ma si ipotizzava anche l’eventualità di un omicidio, e normalmente queste cose facevano aguzzare la memoria alla gente, o almeno la aiutavano a ricordare dettagli sospetti. Invece in questo caso sembrava quasi che fosse avvenuto il contrario.
Le testimonianze che arrivavano e venivano valutate attendibili erano stranamente vaghe e, a eccezione di Mikael Blomkvist e del fornaio dello Skansen, tutti quelli che si pronunciavano sembravano voler sottolineare che non pensavano che la donna si fosse macchiata di qualche reato. Chi l’aveva incrociata ne aveva riportato un’impressione estremamente positiva. Il barista che aveva servito lei e Andrei Zander al ristorante Papagallo in Götgatan, un uomo di una certa età di nome Sören Karlsten, si era perfino vantato a lungo della sua capacità di valutare le persone al primo sguardo e sosteneva con sicurezza che quella donna non voleva male a una sola persona al mondo. «Era un prodigio di classe» aveva precisato.
A voler dar retta ai testimoni, era un prodigio di un sacco di cose, e Bublanski aveva ormai capito che sarebbe stato difficilissimo riuscire a mettere insieme un identikit. Tutti quelli che l’avevano vista davano indicazioni diverse, come se invece di descriverla proiettassero su di lei la loro immagine della donna ideale. La cosa sfiorava il ridicolo e per il momento non erano saltate fuori foto ricavate dai filmati delle telecamere di sorveglianza. Mikael Blomkvist dava per certo che si trattasse di Camilla Salander, gemella di Lisbeth, e in effetti risultava che un tempo fosse esistita davvero, ma da anni non se ne trovava traccia in nessun registro dell’anagrafe, come se fosse sparita dalla faccia della terra. Se era viva aveva una nuova identità, e la cosa non gli andava affatto a genio, soprattutto considerando che all’interno della famiglia affidataria che si era lasciata alle spalle in Svezia si erano verificati due decessi poco chiari e che le indagini di polizia condotte all’epoca erano del tutto insufficienti e piene di buchi e punti interrogativi mai ripresi in mano.
Bublanski le aveva lette, imbarazzato per i colleghi che, forse a causa di un qualche genere di rispetto per la tragedia familiare, non avevano neanche esaminato a fondo l’evidente stranezza rappresentata dal fatto che sia il padre che la figlia avessero svuotato il loro conto in banca poco prima di morire e che, la stessa settimana in cui era poi stato trovato impiccato, il padre avesse cominciato una lettera introdotta da queste parole:
«Camilla, perché per te è così importante distruggere la mia vita?»
La persona che sembrava aver stregato tutti i testimoni era circondata da un preoccupante alone di oscurità.
Alle otto del mattino, nel suo ufficio alla centrale di polizia, Bublanski era di nuovo immerso nell’esame di alcune vecchie indagini che sperava gettassero nuova luce sugli eventi degli ultimi giorni. Sapeva benissimo che c’erano almeno altre cento cose che avrebbe dovuto prendere in mano e per questo quando si accorse di avere visite trasalì, provando nello stesso tempo senso di colpa e irritazione.
Si trattava di una donna che era stata interrogata da Sonja Modig ma voleva a tutti i costi parlare con lui, e a posteriori Bublanski si chiese se fosse stato particolarmente ricettivo proprio perché in quel momento non si aspettava altro che nuovi problemi e difficoltà. Pur non essendo granché alta, la donna sulla soglia del suo ufficio aveva un portamento regale e intensi occhi scuri che lo guardavano con un velo di malinconia. Doveva avere una decina d’anni meno di lui e portava un cappotto grigio e un vestito rosso dalla foggia simile a un sari.
«Mi chiamo Farah Sharif» disse. «Insegno informatica all’università ed ero una cara amica di Frans Balder.»
«Ah certo, certo» rispose Bublanski, improvvisamente imbarazzato. «Si accomodi, prego. Mi scusi il casino.»
«Ho visto di peggio.»
«Sul serio? Lei non è ebrea, per caso?»
Che domanda cretina. Naturale che Farah Sharif non era ebrea, e poi che importanza aveva? Gli era scappata. Veramente imbarazzante.
«Come...? No... sono iraniana e musulmana, ammesso che mi si possa ancora definire tale. Sono arrivata qui nel 1979.»
«Capisco. Ho detto una sciocchezza. A cosa devo l’onore?»
«Quando ho parlato con la sua collega Sonja Modig sono stata troppo ingenua.»
«Perché?»
«Perché adesso ho maggiori informazioni. Ho fatto una lunga telefonata con il professor Steven Warburton.»
«Ah, giusto. Ha cercato anche me, ma qui c’è il caos totale e non ho avuto il tempo di richiamarlo.»
«Steven, che è professore di cibernetica alla Stanford, è uno dei maggiori scienziati a livello mondiale nel campo della ricerca sulla singolarità tecnologica. Attualmente lavora al Machine Intelligence Research Institute, un ente il cui obiettivo è far sì che l’intelligenza artificiale sia funzionale a noi, e non il contrario.»
«Mi sembra una buona cosa» commentò Bublanski, che si sentiva a disagio ogni volta che si presentava l’argomento.
«Steven vive un po’ isolato nel suo mondo e solo ieri ha saputo di Balder. Per questo non ha telefonato prima. Ma mi ha riferito di aver parlato con lui lunedì scorso.»
«Di che si trattava?»
«Della sua attività di ricerca. Sa, trasferendosi negli Stati Uniti Balder era diventato molto riservato. Neanche io, che gli ero così vicina, sapevo di cosa si stesse occupando, anche se avevo la presunzione di aver capito qualcosa. E invece è saltato fuori che mi sbagliavo.»
«In che senso?»
«Cercherò di non essere troppo tecnica, ma a quanto sembra Frans non aveva solo sviluppato il suo vecchio programma di IA, ma anche messo a punto nuovi algoritmi e materiali topologici per i computer quantistici.»
«Mi sa che per me è troppo tecnica lo stesso.»
«I computer quantistici si basano sulla meccanica quantistica. Per il momento è una cosa abbastanza nuova. Google e l’Nsa hanno investito grosse somme in una macchina che su alcuni piani è già trentacinquemila volte più veloce di qualsiasi computer normale. Anche la Solifon, dove era stato assunto Balder, ha in ballo un progetto simile, ma per ironia della sorte, soprattutto se le informazioni che ho sono corrette, è rimasta più indietro.»
«Okay» disse Bublanski, insicuro.
«Il grosso vantaggio dei computer quantistici è che le unità minime, cioè i bit quantistici o qubit, possono sovrapporsi.»
«Possono cosa?»
«Diciamo che, oltre ad assumere le posizioni uno o zero come nei computer tradizionali, possono anche essere zero e uno contemporaneamente. Il problema è che servono metodi di calcolo particolari e profonde conoscenze in ambito fisico, soprattutto di quella che chiamiamo coerenza quantistica, perché queste macchine possano funzionare in maniera accettabile, e sotto questo aspetto siamo ancora indietro. Per il momento i computer quantistici sono troppo specializzati e di difficile utilizzo. Frans, però... come posso spiegarlo? Diciamo che, a quanto sembra, aveva trovato dei metodi che potevano renderli più snelli, gestibili e in grado di imparare da soli, e su questi temi pare fosse in contatto con una serie di sperimentatori, cioè persone che potevano testare e verificare i suoi risultati. Quello che ha realizzato è un’enormità, o almeno poteva esserlo. Eppure Frans non si sentiva solo fiero, e naturalmente è per questo che ha telefonato a Steven Warburton. Era anche molto combattuto.»
«Perché?»
«In linea generale, perché sospettava che quello che aveva creato potesse rappresentare un pericolo per il mondo, immagino. Ma in maniera più pressante perché sapeva delle cose sull’Nsa.»
«Che genere di cose?»
«Su un piano non ne ho idea, ma riguardavano la parte più sporca del loro spionaggio industriale. Su un altro, invece, sono più che aggiornata. Oggi è noto che l’organizzazione si sta impegnando al massimo proprio per mettere a punto dei computer quantistici. Per l’Nsa sarebbe il paradiso. Con una macchina quantistica efficiente, alla lunga potrebbero arrivare a decriptare qualsiasi codice e smantellare qualsiasi sistema di sicurezza digitale, e a quel punto nessuno potrebbe difendersi dall’occhio vigile dell’organizzazione.»
«Pessima prospettiva» commentò Bublanski con un trasporto che sorprese perfino lui.
«Ma in realtà esiste uno scenario anche peggiore, quello in cui una macchina del genere finisce nelle mani della criminalità organizzata» continuò Farah Sharif.
«Capisco dove vuole arrivare.»
«E per questo naturalmente mi chiedo cosa avete sequestrato agli uomini che avete preso.»
«Niente del genere, temo» rispose Bublanski. «Ma questi qui non mi sembrano dei mostri d’intelligenza. Dubito che sarebbero in grado di affrontare dei problemi di matematica delle medie.»
«Quindi il vero genio informatico vi è sfuggito?»
«Purtroppo sì. Lui e una donna di cui sospettiamo sono scomparsi nel nulla. Probabilmente hanno diverse identità.»
«Preoccupante.»
Bublanski annuì e fissò gli occhi scuri di Farah che lo guardavano inquieti, e forse fu per questo che, invece di sprofondare di nuovo nello sconforto, fu colto da un pensiero che apriva uno spiraglio di speranza.
«Non so cosa significhi...» cominciò.
«Cosa?»
«I nostri informatici hanno esaminato i computer di Balder, impresa non facile, come capirà, vista la sua mania della sicurezza. Comunque ce l’hanno fatta. Diciamo che abbiamo avuto un po’ di fortuna, e si è potuto constatare in fretta che probabilmente uno dei suoi computer è stato rubato.»
«Lo immaginavo» disse Farah. «Non ci voleva!»
«Calma, calma, non ho finito. Abbiamo capito anche che era stato fatto un collegamento tra varie macchine e che queste a loro volta erano state connesse con un supercomputer di Tokyo.»
«Mi sembra verosimile.»
«Esatto, e in questo modo è stato possibile vedere che un grosso file, o comunque qualcosa di molto pesante, era stato cancellato da poco. Non siamo riusciti a recuperarlo, ma abbiamo verificato che è successo.»
«Intende dire che Frans avrebbe distrutto il suo lavoro?»
«Non traggo conclusioni. Ma mentre la ascoltavo mi è venuto in mente.»
«Non potrebbe essere stato l’assassino a cancellarlo?»
«Che l’abbia prima copiato, intende dire, e poi l’abbia fatto sparire dai suoi computer?»
«Sì.»
«Credo sia improbabile. È rimasto all’interno della casa per pochissimi istanti e non ne avrebbe avuto il tempo, anche se avesse saputo come fare.»
«Be’, nonostante tutto è confortante» disse Farah Sharif, un po’ dubbiosa. «È solo che...»
«Sì?»
«Non riesco a immaginare che Frans possa averlo fatto davvero, conoscendolo. Possibile che abbia cancellato l’impresa più grande che aveva compiuto? Sarebbe come... non lo so... come se si fosse amputato un braccio, o peggio: come se avesse ucciso un amico, una vita potenziale.»
«A volte bisogna fare un grosso sacrificio» disse Bublanski pensoso. «Distruggere quello che si è amato e con cui si è vissuto.»
«Oppure da qualche parte ne esiste una copia.»
«Oppure da qualche parte ne esiste una copia» ripeté lui, e di colpo fece una cosa stranissima: tese una mano.
Era chiaro che Farah Sharif non aveva capito. Guardò la mano come se si aspettasse che le desse qualcosa. Ma Bublanski decise di non lasciarsi abbattere.
«Sa cosa dice il mio rabbino?»
«No» rispose lei.
«Che quello che caratterizza un essere umano sono le sue contraddizioni. Vogliamo fuggire e restare nello stesso tempo. Non ho mai conosciuto Frans Balder, e forse mi avrebbe considerato un vecchio rimbambito, però so una cosa: tutti noi possiamo contemporaneamente amare e temere il nostro lavoro, proprio come Frans Balder sembra aver amato suo figlio ed essersi allontanato da lui allo stesso tempo. Essere vivi, professoressa Sharif, significa non essere del tutto coerenti. Significa perdersi in tanti rivoletti diversi e mi chiedo se il suo amico non si trovasse a un bivio. Può darsi che abbia davvero distrutto il lavoro di una vita. Forse alla fine si è mostrato in tutta la sua contraddittorietà ed è diventato un essere umano vero, nella migliore accezione del termine.»
«Lei crede?»
«Non lo so. Ma era cambiato, no? Era stato valutato inadatto a prendersi cura del figlio. Eppure è proprio quello che ha fatto, ed è perfino riuscito a farlo sbocciare e cominciare a disegnare.»
«È vero, commissario.»
«Mi chiami Jan. Possiamo darci del tu?»
«Va bene.»
«Sai che a volte la gente mi chiama Bubbla?»
«Perché sei un tipo effervescente?»
«Oh, no, non credo proprio. Però una cosa la so per certo.»
«E cosa sarebbe?»
«Che tu sei...»
Non andò oltre, ma non era necessario. Farah Sharif gli rivolse un sorriso che, nella sua semplicità, lo fece ricominciare a credere nella vita e in Dio.
Lisbeth Salander scese dal grande letto dell’appartamento in Fiskargatan alle otto di mattina. Per l’ennesima volta non aveva dormito molte ore, e non solo perché si era di nuovo cimentata con il file criptato dell’Nsa senza cavare un ragno dal buco. Aveva anche tenuto le orecchie tese per cogliere eventuali passi sulle scale e controllato di tanto in tanto l’allarme e le telecamere di sorveglianza del vano scale. Come tutti gli altri, non sapeva se sua sorella avesse lasciato il paese.
Dopo l’umiliazione subita a Ingarö non era affatto impossibile che Camilla stesse preparando un nuovo attacco, raddoppiandone la violenza, e non era nemmeno da escludere che fosse l’Nsa a irrompere nell’appartamento. Su quel punto non si faceva illusioni. Alla luce del giorno, però, ricacciò indietro quei pensieri, andò decisa in bagno e si tolse la maglietta per esaminare la ferita.
Le sembrava che avesse un aspetto migliore, il che era quanto meno opinabile, e decise di mettere in atto la folle idea di un allenamento al boxe club in Hornsgatan.
Chiodo scaccia chiodo.
Più tardi, sfinita, rimase seduta per un po’ nello spogliatoio, senza quasi avere la forza di pensare. Il cellulare vibrava, ma lo ignorò. Si mise sotto la doccia e si lasciò scorrere addosso l’acqua calda, e solo allora le si schiarì la mente e il disegno di August si affacciò di nuovo alla sua coscienza. Questa volta però non fu il viso dell’assassino ad attirare la sua attenzione, ma qualcosa in calce al foglio.
Nella casa di Ingarö Lisbeth aveva visto il disegno compiuto solo per un momento e il suo unico pensiero era stato farne la scansione e inviarla a Bublanski e Sonja Modig, e anche se avesse avuto il tempo di rifletterci sopra sarebbe rimasta come tutti gli altri affascinata dalla dettagliata resa del viso. Nel ricordo che le si presentò alla mente grazie alla memoria fotografica di cui era dotata, invece, lo sguardo corse all’equazione annotata sotto il disegno vero e proprio, e quando uscì dalla doccia era concentratissima. Il problema era che quasi non riusciva a sentire i propri pensieri: davanti alla porta dello spogliatoio, Obinze stava dando di matto.
«Chiudi quella boccaccia!» gli gridò. «Sto riflettendo!»
Ma non servì a molto: Obinze era fuori di sé, e una persona diversa da Lisbeth probabilmente l’avrebbe capito. Sorpreso della scarsa energia con cui l’aveva vista colpire il sacco, poco dopo si era preoccupato della testa china e delle smorfie di dolore, e alla fine, cogliendola alla sprovvista, le aveva tirato su la manica della maglietta scoprendo la ferita. A quel punto era montato su tutte le furie, ed evidentemente non gli era ancora passata.
«Sei una deficiente, lo sai o no? Una pazza!» gridò.
Lei lo ignorò. Le ultime energie l’abbandonarono e quello che aveva visto sul disegno le si sbiadì nella mente. Sfinita, si lasciò cadere sulla panca dello spogliatoio. Di fianco a lei c’era Jamila Achebe, una tipa tosta con cui tirava di boxe e andava a letto regolarmente, in genere in quell’ordine, perché quando ci davano dentro con i pugni sembrava quasi che si dedicassero a degli scatenati preliminari. In qualche occasione si erano lasciate andare un po’ troppo nelle docce. Nessuna delle due teneva granché all’etichetta.
«Questa volta devo dare ragione allo sbraitone là fuori. Sei proprio fuori di testa» disse Jamila.
«Può darsi» rispose Lisbeth.
«Quella ferita ha un pessimo aspetto.»
«Si rimarginerà.»
«Ma tu avevi bisogno di boxare.»
«Così pare.»
«Vieni a casa mia?»
Lisbeth non rispose. Il cellulare vibrò di nuovo e a quel punto lo tirò fuori dalla borsa nera e guardò il display. Tre sms con lo stesso contenuto, da un numero privato, e quando li lesse chiuse i pugni e assunse un’espressione talmente bellicosa che Jamila ritenne fosse meglio rimandare la scopata a un’altra occasione.
Mikael si era svegliato alle sei del mattino con un paio di formulazioni fenomenali in testa e mentre andava a piedi in redazione l’articolo prendeva forma da solo nei suoi pensieri. Una volta al giornale lavorò concentratissimo, senza quasi accorgersi di quello che gli accadeva intorno, anche se di tanto in tanto la mente correva ad Andrei.
Sebbene sperasse ancora che non fosse così, intuiva che aveva sacrificato la vita per quello scoop e cercò di rendere omaggio al collega in ogni frase che scriveva. Da un lato il reportage doveva raccontare la storia di un omicidio che aveva come protagonisti Frans e August Balder, il racconto di un bambino autistico di otto anni che aveva visto uccidere il padre e che, nonostante il suo handicap, aveva trovato il modo di rifarsi, ma dall’altro a Mikael interessava che fosse anche un’istruttiva descrizione di un nuovo mondo fatto di sorveglianza e spionaggio in cui i confini tra legalità e illegalità erano stati cancellati, e gli era venuto davvero di getto. A tratti aveva l’impressione che le parole sgorgassero da sole, ma non per questo la stesura dell’articolo si era rivelata semplice.
Grazie a una vecchia conoscenza in polizia era riuscito ad avere una copia dell’indagine di un caso insoluto, l’omicidio di Kajsa Falk, a Bromma. Era la giovane donna che era stata la ragazza di uno dei personaggi di spicco del Motoclub Svavelsjö. Sebbene non fosse stato individuato l’esecutore materiale e nessuno tra gli interrogati fosse stato particolarmente loquace, Mikael aveva letto tra le righe che il Motoclub era stato lacerato da profonde divisioni interne e che tra i membri della banda vigeva una notevole insicurezza, una strisciante paura che poteva essere fatta risalire a quella che uno dei testimoni chiamava “Lady Zala”.
Nonostante tutti gli sforzi fatti, i poliziotti non avevano capito a chi si riferisse quell’appellativo. Per Mikael però non c’erano dubbi che Lady Zala fosse Camilla, la mente dietro una serie di nuovi reati sia in Svezia che all’estero. Trovare le prove era un altro discorso, e la cosa lo irritava. Per il momento, nell’articolo decise di lasciarla sotto il nome in codice di Thanos.
Eppure non erano Camilla e neanche i suoi torbidi legami con la duma russa a rappresentare il vero problema. A preoccuparlo di più era la consapevolezza che Ed Needham non sarebbe mai partito per la Svezia e non avrebbe mai rivelato informazioni top secret se non avesse voluto nascondere qualcosa di ancora più grosso. L’americano non era uno stupido e sapeva che neanche Mikael era l’ultimo scemo.
Per questo il resoconto che aveva fatto non era troppo positivo, anzi: l’immagine dell’Nsa che ne usciva era abbastanza brutta. Eppure... riesaminando da vicino le informazioni, Mikael si accorse che dopotutto quella descritta da Ed era un’agenzia di spionaggio che funzionava bene e la cui condotta era abbastanza dignitosa, a parte il bubbone infetto rappresentato dai delinquenti all’interno della Divisione per la sorveglianza delle tecnologie strategiche, per puro caso la stessa che aveva impedito a Ed di inchiodare il suo hacker.
L’americano voleva sicuramente procurare grossi guai ad alcuni colleghi, ma invece di far colare a picco tutta l’organizzazione stava tentando di attenuare gli effetti di una caduta ormai inevitabile, e per questo Mikael non si sorprese né si arrabbiò esageratamente quando Erika gli comparve alle spalle e, l’espressione preoccupata, gli tese un’agenzia della TT.
«Ci hanno fregato lo scoop?» gli chiese.
Il comunicato, tradotto da un originale diramato dall’Ap, cominciava così:
«Due alti dirigenti dell’Nsa, Joacim Barclay e Brian Abbot, si trovano in stato di fermo. Sono sospettati di gravi reati di stampo economico e sono stati licenziati con effetto immediato in attesa del processo.
«“È una macchia vergognosa per la nostra organizzazione e non abbiamo risparmiato le energie per risalire all’origine dei problemi e chiamare a rispondere i colpevoli. Chi lavora per l’Nsa deve avere un alto profilo morale. Nel corso del processo sarà garantita la massima trasparenza, tenuto conto della tutela degli interessi della sicurezza nazionale” dichiara all’Ap il direttore generale dell’Nsa, Charles O’Connor.»
A parte il lungo virgolettato dell’ammiraglio, l’agenzia non diceva molto a livello di contenuti e non accennava né all’omicidio di Balder né a qualche elemento che potesse ricollegarsi agli avvenimenti di Stoccolma, ma Mikael capì subito a cosa si riferiva Erika: il Washington Post e il New York Times, e sulla loro scia tutti i giornalisti americani di peso, si sarebbero gettati a pesce sulla notizia, ed era impossibile dire cosa sarebbero riusciti a scovare.
«Brutta faccenda» disse senza scomporsi, «ma me lo aspettavo.»
«Davvero?»
«Fa parte della stessa strategia che li ha spinti a venire a cercarmi. Arginamento del danno, insomma. Vogliono riprendere in mano la situazione.»
«In che senso?»
«C’è un motivo se sono venuti a raccontarmi questa vicenda. Ho capito subito che c’era sotto qualcosa. Perché mai Ed avrebbe dovuto volermi parlare qui a Stoccolma, per giunta alle cinque del mattino?»
Come sempre, Erika era stata informata, nella massima segretezza, delle fonti e delle informazioni di Mikael.
«Quindi ritieni che il suo operato abbia avuto il benestare delle alte sfere?»
«L’ho sospettato dal primo momento, ma per un pezzo non ho capito cosa avesse in mente. Sentivo solo che qualcosa non tornava. Poi però ho parlato con Lisbeth.»
«E a quel punto hai capito?»
«Mi sono reso conto che Ed sapeva perfettamente cosa aveva arraffato nel corso della sua intrusione informatica, e che aveva ragione di temere che lei passasse tutto a me, fino all’ultima parola. In pratica ha tentato di metterci una pezza.»
«Però non si può dire che quella che ti ha rivelato sia una storia edificante.»
«Aveva capito che non mi sarei accontentato di una versione troppo edulcorata. Immagino che mi abbia dato esattamente quello che serviva perché fossi soddisfatto del mio scoop e non scavassi ulteriormente.»
«Invece gli è andata buca.»
«Speriamo. Però non so come andare avanti. L’Nsa è una porta chiusa.»
«Perfino per un vecchio segugio come Blomkvist?»
«Perfino per lui.»