20.
23 novembre

La notte fu calma in modo quasi allarmante, e alle otto della mattina uno Jan Bublanski piuttosto pensieroso si ritrovò seduto davanti al gruppo in sala riunioni. Cacciato Hans Faste, aveva la quasi certezza di poter parlare di nuovo liberamente. Se non altro, si sentiva più al sicuro lì dentro con i colleghi che davanti al computer o con il cellulare in mano.

«Tutti voi vi rendete conto della situazione» esordì. «A causa di una fuga di notizie riservate una persona è morta e un bambino si trova in pericolo di vita. Nonostante gli sforzi non sappiamo ancora come sia successo. La notizia può essere uscita da qui, dalla Säpo o dal Centro di psicologia infantile Oden, oppure dalla cerchia del professor Edelman, o della madre e del compagno Lasse Westman. Non sappiamo niente di certo e per questo dobbiamo stare molto attenti, al limite della paranoia.»

«Può anche darsi che siamo stati hackerati o intercettati. Sembra che abbiamo a che fare con dei criminali che padroneggiano le nuove tecnologie in maniera completamente diversa da come siamo abituati» intervenne Sonja Modig.

«Esatto, e questo rende il tutto ancora più sgradevole» continuò lui. «Dobbiamo stare attenti a ogni livello e non dire niente di importante al telefono, per quante lodi sperticate tessano i nostri superiori del nuovo sistema di telefonia cellulare di cui ci hanno dotati.»

«Ne tessono le lodi perché è stato costoso da installare» osservò Jerker Holmberg.

«Credo che dovremmo riflettere un po’ anche sul nostro ruolo» disse Bublanski. «Ho appena parlato con una giovane e intelligente analista della Säpo, Gabriella Grane. Forse il nome vi dice qualcosa. Mi ha fatto notare che per noi poliziotti il concetto di lealtà non è semplice come si potrebbe credere. Ne abbiamo diverse, no? C’è quella, evidente, nei confronti della legge. Poi c’è quella verso la società e, ancora, una verso i colleghi, ma anche quella che dobbiamo ai superiori e un’altra nei riguardi di noi stessi e della nostra carriera e di tanto in tanto, lo sapete tutti, si verificano dei conflitti. Può capitare di proteggere un collega e venire meno alla lealtà nei confronti della società o di aver ricevuto ordini dall’alto, come nel caso di Hans Faste, e a quel punto si verifica uno scollamento rispetto alla lealtà verso di noi. Ma di qui in avanti, e ora sono estremamente serio, voglio sentire parlare di una sola lealtà: quella nei confronti dell’indagine. Dobbiamo prendere i colpevoli e assicurarci che nessun altro rimanga vittima di questi assassini. Siamo tutti d’accordo che non ce ne frega un bel niente anche se ci telefona il primo ministro o il capo della Cia per venire a parlarci di patriottismo e fantastiche prospettive di carriera? Non fiaterete lo stesso, giusto?»

«No» risposero all’unisono.

«Ottimo! Come sapete tutti, a intervenire in Sveavägen è stata niente meno che Lisbeth Salander e stiamo facendo il massimo sforzo per localizzarla» continuò Bublanski.

«E proprio per questo dobbiamo dare il nome ai media!» esclamò Curt Svensson con un certo trasporto. «Ci serve l’aiuto della gente comune.»

«So che sull’argomento ci sono opinioni diverse, e vorrei ridiscuterne. Per cominciare, credo non ci sia bisogno di sottolineare che in passato Lisbeth Salander è stata trattata molto male sia da noi che dai media.»

«Questo non ha importanza, al momento» disse Curt Svensson.

«Non è impossibile che altre persone l’abbiano riconosciuta in Sveavägen e che il suo nome salti fuori comunque da un momento all’altro, e a quel punto non ci sarà più motivo di discuterne. Ma fino ad allora voglio ricordarvi che Lisbeth Salander ha salvato la vita al bambino e questo merita il nostro rispetto.»

«Non ci piove» incalzò Svensson. «Solo che poi l’ha praticamente rapito.»

«Dalle informazioni che abbiamo sembra piuttosto che voglia proteggerlo a ogni costo» s’intromise Sonja Modig. «Lisbeth Salander è una persona che ha avuto pessime esperienze con le autorità. La sua infanzia è stata segnata da una lunga serie di prevaricazioni da parte dello stato-tutore e se anche lei come noi sospetta che all’interno della polizia ci sia qualcuno che parla troppo non ci contatterà mai di sua volontà, poco ma sicuro.»

«Questo c’entra ancora meno» insistette Svensson.

«Vero, da un certo punto di vista» ammise Sonja. «Sia Jan che io siamo naturalmente d’accordo con te sul fatto che l’unica domanda essenziale, date le circostanze, è se dal punto di vista delle indagini abbiamo motivo di uscire con il suo nome o no. La sicurezza del bambino è la questione che deve mettere in ombra tutto il resto, ed è proprio il punto su cui siamo incerti.»

«Capisco il ragionamento» disse Jerker Holmberg con un tono pensoso che indusse tutti ad ascoltare. «Se qualcuno individua Lisbeth Salander risulta esposto anche il bambino. Eppure resta una serie di domande aperte e soprattutto quella che forse può suonare un po’ solenne: cos’è giusto? E a questo punto devo farvi notare che, anche se abbiamo al nostro interno qualcuno che non tiene la bocca chiusa, non possiamo accettare che lei nasconda August Balder. Il bambino rappresenta un anello importante dell’indagine e, con o senza gente che parla troppo, siamo più indicati noi a proteggere un bambino di quanto non lo sia una giovane donna con una vita emotiva disturbata.»

«Certo, naturale» mormorò Bublanski.

«Esatto» disse Jerker. «E anche se non si tratta di un sequestro nell’accezione comune, insomma, anche se è stato fatto con le migliori intenzioni, il bambino può risentirne lo stesso. Psicologicamente è di sicuro molto pesante per lui essere in fuga, dopo tutto quello che gli è capitato.»

«Vero, vero» borbottò ancora Bublanski. «Ma alla fine la decisione che dobbiamo prendere è come usare l’informazione.»

«E su questo punto sono d’accordo con Curt. Dobbiamo uscire subito con nome e foto. Può portare a segnalazioni preziosissime.»

«Certo» replicò Bublanski, «ma può portarne anche agli assassini. Dobbiamo dare per scontato che non abbiano rinunciato alla caccia al bambino, e dato che non sappiamo niente di cosa lo leghi a Lisbeth Salander non abbiamo idea di quali indicazioni possa fornire il suo nome a loro. Non sono per niente sicuro che dando alla stampa queste informazioni contribuiamo alla sicurezza di August.»

«Ma non sappiamo neanche se lo facciamo non fornendole» contrattaccò Holmberg. «Mancano troppe tessere del puzzle per trarre queste conclusioni. Per esempio, Lisbeth Salander lavora per qualcuno? E davvero vuole proteggerlo o ha intenzioni diverse?»

«E come faceva a sapere che il bambino e Torkel Lindén sarebbero usciti dal portone di Sveavägen proprio in quel momento?» intervenne Curt Svensson.

«Può essersi trovata sul posto per caso.»

«Non molto verosimile.»

«La verità è spesso inverosimile» insistette Bublanski. «Anzi, è proprio questo a caratterizzarla. Ma è vero, non dà l’idea di essere stata una casualità, considerando le circostanze.»

«Una fra tutte il fatto che Mikael Blomkvist sapeva che sarebbe successo qualcosa» intervenne Amanda Flod.

«E che tra lui e Lisbeth Salander un qualche legame c’è» aggiunse Jerker Holmberg.

«Vero.»

«Mikael Blomkvist era al corrente del fatto che il bambino si trovava al Centro di psicologia infantile Oden, giusto?»

«Gliel’aveva detto la madre» confermò Bublanski. «Come immaginate, al momento Hanna Balder non sta molto bene. Abbiamo appena parlato a lungo al telefono. Ma Blomkvist non avrebbe dovuto avere idea che il bambino e Torkel Lindén sarebbero stati attirati fuori per strada.»

«È possibile che avesse accesso ai computer del centro Oden?» chiese pensosa Amanda Flod.

«Non riesco a immaginarmelo nella veste di hacker» commentò Sonja Modig.

«E Lisbeth Salander?» chiese Jerker Holmberg. «Cosa sappiamo di lei in realtà? Abbiamo un fascicolo nutrito a suo nome, ma l’ultima volta che ci siamo occupati di lei ci ha stupito su tutta la linea. Forse anche questa volta l’apparenza inganna.»

«Esatto» disse Curt Svensson. «Abbiamo decisamente troppi punti interrogativi.»

«In pratica solo quelli. E proprio per questo dovremmo agire da manuale» rispose Jerker Holmberg.

«Non sapevo che il manuale fosse così esaustivo» commentò Bublanski con un sarcasmo che in realtà non piaceva neanche a lui.

«Intendo dire soltanto che dobbiamo prenderlo per quello che è: il rapimento di un bambino. Sono passate quasi ventiquattro ore da quando sono scomparsi e non se ne è saputo più nulla. Diffondiamo il nome e la foto di Lisbeth Salander e poi selezioniamo con cura tutte le segnalazioni che arrivano» disse Jerker Holmberg con piglio autorevole, e di colpo l’intero gruppo sembrò con lui. A quel punto Bublanski chiuse gli occhi e pensò che adorava quella squadra.

Sentiva di avere più affinità con loro che con i suoi fratelli e i suoi genitori, eppure in quel momento era ugualmente costretto ad andare contro la volontà dei colleghi.

«Cercheremo di trovarli con tutti i mezzi che abbiamo, ma aspettiamo a diramare nome e foto. Servirebbe solo a far salire la tensione e non voglio fornire appigli agli assassini.»

«Inoltre ti senti in colpa» disse Holmberg, non senza affetto.

«Inoltre mi sento molto in colpa» rispose Jan Bublanski, tornando col pensiero al suo rabbino.

Preoccupato com’era per Lisbeth e August, Mikael Blomkvist non aveva dormito molto. Aveva ripetutamente cercato di chiamarla con l’applicazione RedPhone, ma lei non aveva risposto. Non una parola dal pomeriggio precedente. Seduto in redazione, cercava di rifugiarsi nel lavoro e di capire cosa gli fosse sfuggito. Da un po’ di tempo si era insinuata in lui la sensazione che nel quadro d’insieme mancasse qualcosa di fondamentale, un elemento in grado di gettare nuova luce sull’intera vicenda. Forse però s’ingannava, oppure era semplicemente il desiderio di vedere qualcosa di più grande dietro la realtà dei fatti. L’ultima cosa che gli aveva scritto Lisbeth sul link criptato era:

Jurij Bogdanov, Blomkvist. Controllalo. È stato lui a vendere la tecnologia di Balder a Eckerwald della Solifon.

In rete aveva trovato delle foto di Bogdanov. Portava abiti gessati ma, per quanto cadessero perfettamente, non gli si addicevano affatto: sembrava che li avesse rubati mentre andava dal fotografo. Aveva i capelli lunghi e in disordine, la pelle butterata, cerchi scuri sotto gli occhi e tatuaggi goffi e dilettanteschi che s’intuivano sotto i polsini. Lo sguardo era cupo e penetrante. Sebbene fosse alto non doveva pesare più di sessanta chili.

Sembrava uno che entrasse e uscisse di prigione, ma a colpirlo era stato soprattutto un qualcosa, nella postura, che riconosceva dai fotogrammi visti in casa di Balder a Saltsjöbaden. Dava la stessa impressione di trasandatezza e spigolosità. Nelle poche interviste rilasciate nella sua veste di imprenditore di successo a Berlino, Bogdanov accennava al fatto di essere più o meno nato per strada.

«Ero condannato a soccombere ed essere trovato morto in un vicolo con un ago nel braccio, e invece mi sono tirato fuori dal fango. Sono intelligente e sono un combattente nato» diceva tronfio.

Niente nella sua vita dimostrava il contrario, a parte la sensazione che, forse, non si era proprio affermato completamente da solo. Alcuni particolari indicavano che fosse stato aiutato da persone influenti che si erano rese conto delle sue potenzialità. Su una rivista tedesca d’informatica un dirigente della sicurezza dell’istituto di credito Horst diceva: «Bogdanov ha uno sguardo magico. Vede le debolezze di un sistema di sicurezza come nessun altro. È un genio.»

Chiaramente era un hacker stellare, anche se secondo la versione ufficiale lavorava solo come white hat, una persona al servizio dei buoni e della legge che in cambio di un compenso adeguato aiutava le aziende a trovare i punti deboli dei loro sistemi di sicurezza informatica. Come c’era d’aspettarsi neanche la sua società Outcast Security presentava lati poco chiari o lasciava sospettare che si trattasse di una facciata per nascondere altro. I consiglieri di amministrazione erano persone di tutto rispetto, con una buona istruzione e senza macchie sulla fedina penale. Ma naturalmente Mikael non si era accontentato di questo. Lui e Andrei avevano controllato fino all’ultima persona che avesse anche solo sfiorato la società, arrivando ai soci dei soci, e a quel punto avevano notato che una persona di nome Orlov aveva ricoperto per breve tempo il ruolo di membro supplente del consiglio di amministrazione, il che già a una prima occhiata era sembrato un po’ strano. Vladimir Orlov non era un informatico ma un piccolo commerciante nel settore edile. In passato era stato un promettente peso massimo leggero in Crimea, e a giudicare dalle poche foto che Mikael Blomkvist aveva trovato in rete aveva un aspetto tormentato e brutale, di certo non il tipo di uomo che le ragazze invitavano a casa per un tè.

Giravano voci non confermate di una condanna per maltrattamenti aggravati e induzione alla prostituzione. Era stato sposato due volte. Entrambe le mogli erano decedute e Mikael non era stato in grado di risalire alla causa di morte. Ma l’aspetto veramente interessante, nel contesto, era che fosse stato supplente anche nella modesta società Bodin Bygg & Export, azienda smantellata da tempo che si occupava di “vendita di materiale edile”.

Il proprietario era Karl Axel Bodin, alias Alexander Zalachenko, e quel nome non risvegliava in lui soltanto un intero mondo di malvagità e il ricordo del suo grande scoop: Zalachenko era anche il padre di Lisbeth, l’uomo che aveva ucciso sua madre e distrutto la sua infanzia e restava la sua ombra oscura, il cuore nero che pulsava dietro la sua indomabile volontà di vendicarsi.

Era un caso che fosse saltato fuori nel materiale? Mikael sapeva benissimo che se si scava abbastanza in profondità in qualsiasi vicenda si trovano per forza collegamenti di ogni tipo. La vita offre sempre corrispondenze illusorie. Era solo che... quando si trattava di Lisbeth Salander non credeva troppo al caso.

Se fratturava le dita a un chirurgo o si impegnava nel furto di una tecnologia informatica avanzata significava che non solo ci aveva pensato bene, ma aveva anche una ragione. Lisbeth non dimenticava torti e soprusi. Lisbeth ristabiliva gli equilibri. Possibile che il suo modo di agire in quella storia fosse collegato al suo stesso passato? Non era da escludere.

Alzò gli occhi dal computer e guardò Andrei, che gli rivolse un cenno del capo. In corridoio aleggiava un vago odore di cucina e da Götgatan saliva una ritmata musica rock. Fuori imperversava la tormenta e il cielo era ancora buio e turbolento. Mikael cliccò sul link criptato, più per inerzia che altro, senza aspettarsi niente. Poi però s’illuminò e non riuscì a trattenere un gridolino di gioia.

Lesse:

Okay adesso. Tra poco ci spostiamo nel nascondiglio.

Rispose immediatamente:

Meno male. Guida con prudenza.

Poi non poté fare a meno di aggiungere:

Lisbeth, a chi stiamo dando la caccia, in realtà?

Lei rispose subito:

Vedrai che tra poco ci arrivi, intelligentone!

“Okay” era decisamente un eufemismo. Lisbeth si sentiva meglio, questo sì, ma era ancora in pessimo stato. Per una buona metà del giorno precedente aveva quasi perso la nozione del tempo e dello spazio, e solo con immensa fatica si era tirata su e aveva dato da mangiare e da bere ad August assicurandosi che avesse matite e pastelli e fogli per poter disegnare l’assassino. Ma avvicinandosi al bambino si accorse da lontano che non aveva tracciato neanche una riga.

Davanti a lui sul tavolino del salotto in effetti c’erano fogli sparsi dappertutto, ma non erano disegni: semmai lunghe file di scarabocchi. Quando Lisbeth le guardò, più distratta che curiosa, si accorse che erano numeri, infinite serie numeriche, e anche se all’inizio non ci capì niente la sua attenzione si era risvegliata, e di colpo emise un fischio.

«Cazzo, che roba!» borbottò.

Aveva appena fissato, allibita, alcuni numeri vertiginosi, che di per sé non le dicevano niente ma in combinazione con quelli a fianco sembravano costituire uno schema familiare. Quando, continuando a sfogliare, s’imbatté nella semplice serie 641, 647, 653 e 659 non ebbe più dubbi: si trattava di sexy prime quadruplets, come si diceva in inglese, o quadruple di primi sexy, “sexy” nel senso che erano intercalati da sei unità.

C’erano anche numeri primi gemelli e in ogni possibile combinazione, e a quel punto Lisbeth non poté fare a meno di sorridere.

«Figo» disse. «Ci sai proprio fare.»

August però non rispose e nemmeno alzò lo sguardo. Rimase semplicemente inginocchiato davanti al tavolino, come se non desiderasse altro che continuare a scrivere i suoi numeri, e a quel punto le venne in mente che doveva aver letto qualcosa a proposito dei savant e dei numeri primi. Poi però non ci pensò più. Era messa troppo male per qualsiasi forma di ragionamento difficile e così andò in bagno a prendere due compresse di doxiciclina che aveva in casa da anni, continuando l’autosomministrazione di antibiotici iniziata al momento dell’atterraggio d’emergenza lì a casa.

Poi mise in una borsa pistola e computer e un po’ di biancheria di ricambio e disse al bambino di alzarsi. August non voleva e continuava a tenere la matita in una stretta spasmodica. Per un attimo Lisbeth rimase interdetta, ma subito dopo intimò severa:

«Alzati!», e a quel punto il bambino ubbidì.

Per precauzione Lisbeth si mise una parrucca e un paio di occhiali neri, poi entrambi indossarono la giacca, scesero in ascensore nel garage e partirono per Ingarö a bordo della Bmw. Teneva il volante con la destra. La spalla sinistra era bendata stretta e le faceva male, così come la parte superiore del petto. Aveva ancora la febbre e un paio di volte fu costretta ad accostare sul ciglio della strada per riposare. Quando finalmente arrivarono alla spiaggia e al molo di Stora Barnvik, a Ingarö, e seguendo le indicazioni salirono la lunga scala di legno ricavata nella roccia ed entrarono in casa, si accasciò stremata sul letto nella stanza di fianco alla grande cucina, scossa da brividi di freddo.

Tuttavia poco dopo si alzò e si sedette con il fiato corto al tavolo rotondo della cucina, accese il portatile e fece un nuovo tentativo di decriptare il file scaricato dall’Nsa. Com’era prevedibile, non funzionò. Non era neanche lontanamente vicina alla soluzione. Di fianco a lei, August fissava rigido tutti i fogli e i pastelli impilati sul tavolo da Erika Berger, senza scrivere serie di numeri primi e ancora meno disegnare assassini. Forse era troppo scioccato per riuscirci.

L’uomo che si faceva chiamare Jan Holtser stava parlando al telefono con la figlia Olga da una stanza d’albergo, il Clarion Hotel Arlanda, e come previsto lei non gli credeva.

«Hai paura di me?» gli chiese. «Hai paura che ti metta con le spalle al muro?»

«No, ma cosa dici?» tentò lui. «È solo che sono stato costretto...»

Faceva fatica a trovare le parole. Sapeva che Olga aveva capito che lui le nascondeva qualcosa e chiuse la telefonata più in fretta di quanto avrebbe voluto. Seduto di fianco a lui sul letto dell’albergo, Jurij imprecava. Doveva essere la centesima volta che riesaminava il computer di Frans Balder senza trovare «un tubo», come diceva lui. «Qui dentro non c’è un bel cazzo di niente!»

«Quindi ho rubato un computer praticamente vuoto?» chiese Jan Holtser.

«Proprio così.»

«E allora cosa se ne faceva il professore?»

«Qualcosa di molto speciale, questo è chiaro. Vedo che è stato cancellato di recente un grosso file probabilmente condiviso su altri computer, ma anche se ci ho provato e riprovato non riesco a recuperarlo. Ci sapeva fare, quello.»

«Da spararsi» disse Jan Holtser.

«Da spararsi sul serio, porca puttana» rincarò Jurij.

«E il Blackphone?»

«Lì ci sono un po’ di telefonate a cui non sono riuscito a risalire, probabilmente della Säpo o dell’Fra. Ma la cosa che mi preoccupa di più è un’altra.»

«Cosa?»

«Una lunga chiamata subito prima che tu facessi irruzione nella casa. Ha parlato con qualcuno del Miri, il Machine Intelligence Research Institute.»

«E cosa c’è di preoccupante?»

«L’ora in cui è stata fatta, tanto per cominciare. Ho la sensazione che fosse una specie di telefonata d’emergenza. Ma anche il Miri stesso. È un istituto che lavora perché i computer intelligenti non possano, in futuro, diventare pericolosi per gli esseri umani. Insomma, non lo so, ma la cosa mi puzza. Ho il dubbio che Balder abbia passato al Miri una parte dei risultati della sua attività di ricerca oppure...»

«Oppure?»

«Che abbia spifferato tutto su di noi, o su quello che sapeva.»

«Brutta faccenda, se è così.»

Jurij annuì e Jan Holtser imprecò tra sé. Niente era andato come speravano e nessuno dei due era abituato a fallire. Già era un bello smacco averlo fatto due volte di seguito, e per giunta per colpa di un bambino, pure ritardato, ma non era quello il peggio.

Il peggio era che stava per raggiungerli Kira, fuori di sé, e neanche a questo erano abituati. Al contrario, si erano ormai assuefatti alla sua algida eleganza, che conferiva alla loro attività una sorta di aura di invincibilità. Questa volta sembrava invece furibonda, fuori controllo, e aveva urlato che erano dei brutti idioti incompetenti. La causa però non era in realtà il bersaglio mancato, i colpi che forse avevano centrato o forse no, il bambino ritardato. La causa era la donna spuntata dal nulla per proteggere August Balder. Era stata lei a far perdere la testa a Kira.

Quando Jan aveva cominciato a descriverla, per quel poco che era riuscito a vedere, lo aveva subissato di domande. A ogni risposta, giusta o sbagliata a seconda di come la si guardava, era esplosa urlando che avrebbero dovuto ucciderla e che ci mancava solo quello e che era una situazione senza via d’uscita. Né Jan né Jurij avevano capito quella reazione violenta. Nessuno dei due l’aveva mai sentita gridare così forte.

A dire il vero, però, erano parecchie le cose che non sapevano di lei. Jan Holtser non avrebbe mai dimenticato quando, in una suite dell’Hotel d’Angleterre di Copenaghen, avevano appena finito di fare sesso per la terza o quarta volta ed erano rimasti stesi nel letto matrimoniale a bere champagne e, come spesso succedeva, a parlare delle guerre e degli omicidi in cui era stato coinvolto. Accarezzandole la spalla e il braccio, aveva notato sul polso una cicatrice che si divideva in tre.

«Come te la sei fatta, mia bella?» le aveva chiesto, ottenendo per tutta risposta uno sguardo d’odio annientante.

Da allora non aveva più avuto accesso al suo letto e l’aveva interpretata come una punizione per quella domanda. Kira si prendeva cura di loro e li riempiva di soldi, ma né lui né Jurij né altri della cerchia potevano chiederle del suo passato. Faceva parte delle leggi non scritte e a nessuno passava più per l’anticamera del cervello di provarci. Era la loro benefattrice nel bene e nel male, più nel primo che nel secondo, almeno per quanto li riguardava, e per questo dovevano piegarsi ai suoi capricci e vivere nella continua incertezza sul tipo di trattamento che avrebbero ricevuto, affettuoso o gelido. Quando poi voleva dare loro una lezione, capitava anche che si beccassero un improvviso schiaffo bruciante.

Davanti a lui Jurij chiuse il portatile e bevve un sorso del suo drink. Stavano entrambi cercando di limitare il consumo di alcol in modo che Kira non rinfacciasse loro pure quello, ma era quasi impossibile. L’eccesso di frustrazione e adrenalina li spingeva a bere. Jan armeggiò nervoso con il cellulare.

«Olga ti ha creduto?» gli chiese Jurij.

«Per niente, e tra poco le toccherà vedere un ritratto infantile della mia faccia su tutte le prime pagine.»

«Io a quel disegno non ci credo poi tanto. Secondo me è una pista che si è sognata la polizia.»

«Quindi stiamo cercando di uccidere un bambino senza ragione.»

«Non mi sorprenderebbe. Ma Kira non doveva essere già qui?»

«Arriverà da un momento all’altro.»

«Secondo te chi era?»

«Chi?»

«La tipa spuntata dal nulla.»

«Non ne ho idea» rispose Jan. «Non sono neanche sicuro che lo sappia Kira. Sembra più che altro che si preoccupi di qualcosa.»

«Mi sa che dovremo far fuori tutti e due.»

«E non solo, temo.»

August non stava bene, questo era palese. Aveva il collo coperto di chiazze rosse e le mani erano chiuse a pugno. Seduta di fianco a lui al tavolo rotondo della cucina di Ingarö e tutta concentrata nel tentativo di decriptare il suo file, Lisbeth temette che gli venisse un qualche genere di attacco. August però si limitò a prendere un pastello, quello nero.

Nello stesso istante una raffica di vento fece tremare i vetri delle finestre e August esitò, passando la mano sinistra avanti e indietro sul tavolo. Poi però si mise a disegnare, un tratto qui e uno là e subito dopo piccoli tondi, dei bottoni, a quanto le sembrava, e poi una mano, i particolari di un mento, una camicia sbottonata. Via via che proseguiva disegnava più velocemente e dopo un po’ la schiena e le spalle si rilassarono. Era come una ferita che, dopo aver spurgato, avesse cominciato a rimarginarsi.

Non che il bambino avesse l’aria più serena: gli occhi bruciavano di una luce tormentata e di tanto in tanto il corpo era percorso da una scossa. Qualcosa dentro di lui si era però rilassato e dopo un po’ August cambiò pastello e disegnò un pavimento color quercia su cui prese forma una quantità di tessere di un puzzle che forse, una volta completato, avrebbe potuto rappresentare una città illuminata da mille luci nella notte. Eppure si vedeva da subito che ne sarebbe uscito un disegno inquietante.

La mano e la camicia sbottonata appartenevano a un uomo robusto con la pancia sporgente. Era piegato a metà e picchiava qualcuno di piccolo, rannicchiato sul pavimento, qualcuno che non faceva parte della visuale per il semplice fatto che era lui a osservare la scena e a ricevere i colpi. Un disegno che incuteva paura, su questo non c’erano dubbi.

Tuttavia non sembrava aver niente a che vedere con l’omicidio, anche se smascherava a sua volta un colpevole. Proprio nell’epicentro, in mezzo al foglio, emerse un viso furibondo e sudato di cui era colta con estrema precisione anche la più piccola ruga amareggiata e disillusa. Lisbeth lo riconobbe. Anche se non guardava spesso la televisione e neanche andava al cinema capì che apparteneva all’attore Lasse Westman, patrigno di August, e per questo si chinò sul bambino e disse, con la voce che vibrava di sacro furore:

«Non potrà mai più farti niente del genere! Mai!»