23.
23 novembre, sera
August si irrigidì di nuovo. Non riusciva più a rispondere. I numeri erano diventati troppo alti e invece di prendere la matita il bambino strinse i pugni fino a far sbiancare il dorso delle mani. Si mise addirittura a battere la testa sul tavolo e Lisbeth avrebbe naturalmente dovuto consolarlo o almeno assicurarsi che non si facesse male.
Invece non era neanche del tutto consapevole di quello che stava accadendo. Pensava al suo file criptato e al fatto che non sarebbe arrivata da nessuna parte neanche per quella strada, ma non c’era da meravigliarsi. Perché August sarebbe dovuto riuscire dove fallivano i supercomputer? Era stata stupida a sperarci e già quello che aveva fatto era straordinario. Però si sentiva ugualmente delusa e uscì a scrutare il paesaggio spoglio e selvatico. Sotto la scarpata c’erano la spiaggia e un campo innevato, con una struttura per le feste campestri.
Nelle belle giornate estive sicuramente quel posto brulicava di vita, ma al momento era deserto. Le barche erano state tirate in secco e non si vedeva un’anima. Al di là del braccio di mare le luci delle case erano spente e il vento aveva ripreso a soffiare forte. A Lisbeth quel posto piaceva molto. Se non altro, le andava a genio come nascondiglio alla fine di novembre.
Aveva però il difetto che, se avessero ricevuto visite, non sarebbe stata preavvisata dal rumore di un veicolo in arrivo. L’unico parcheggio era quello della spiaggia e per accedere alla casa era necessario salire la scala di legno lungo la scarpata. Con il buio sarebbe sicuramente stato possibile avvicinarsi di sorpresa, ma contava che quella notte l’avrebbero lasciata dormire. Ne aveva bisogno. La ferita la faceva ancora soffrire e senz’altro era per questo che aveva reagito in modo così intenso a un fallimento che comunque si aspettava. Ma rientrando si rese conto che c’era anche qualcos’altro.
«Normalmente Lisbeth non è certo una a cui importi che tempo fa o quello che succede ai margini» continuò Holger Palmgren. «Il suo sguardo taglia via tutto l’inessenziale. Eppure quella volta accennò al fatto che su Lundagatan e Skinnarviksparken splendeva il sole. Sentiva risate di bambini. Oltre la finestra le persone erano felici: forse era questo che voleva dire, per sottolineare il contrasto. La gente normale mangiava il gelato e giocava a palla o con gli aquiloni. Camilla e Lisbeth, chiuse in camera loro, sentivano invece il padre che violentava e picchiava la madre. Penso che si riferisse a poco prima di reagire sul serio contro Zalachenko, ma non sono sicurissimo della cronologia. Gli stupri erano stati molti e seguivano sempre lo stesso schema: Zala arrivava nel pomeriggio o la sera, sbronzo marcio, e a volte scompigliava i capelli a Camilla e diceva cose tipo: “Come fa una bambina tanto bella ad avere una sorella tanto detestabile?” Poi chiudeva a chiave le figlie in camera loro e si metteva in cucina a ubriacarsi un altro po’. Beveva vodka pura, e per lo più all’inizio restava in silenzio, facendo solo schioccare la lingua, come un animale affamato. Dopo mormorava qualcosa come: “Allora, come sta oggi la mia puttanella?”, con una voce quasi affettuosa. Poi però Agneta commetteva qualche errore, o meglio, Zalachenko decideva di vedere un errore, e allora arrivava il primo colpo, di regola uno schiaffo seguito dalle parole: “Pensavo che la mia puttanella facesse la brava, oggi.” Poi la spingeva in camera e lì continuava a prenderla a schiaffi, e dopo un po’ passava ai pugni chiusi. Lisbeth lo sentiva dai rumori. Sapeva esattamente che genere di colpi pioveva addosso alla madre e in che punti del corpo, come se fosse lei a subirli. Dopo le botte arrivavano i calci. Zala sbatteva la madre contro la parete gridando “sgualdrina”, “troia” e “puttana”, perché lo eccitava. Vederla soffrire lo mandava su di giri. Solo quando era malconcia e sanguinante la violentava e al momento di venire urlava cattiverie anche peggiori. Poi, per qualche attimo, scendeva il silenzio. Non si sentiva niente a parte i singhiozzi soffocati di Agneta e il respiro affannoso di Zala. Infine lui si alzava, si scolava un altro bicchiere e borbottava e imprecava per un po’, sputando per terra. A volte apriva la camera delle figlie e diceva qualcosa tipo: “Ecco, adesso la mamma farà la brava”, e poi usciva sbattendo la porta. Sempre lo stesso schema. Ma quel giorno accadde qualcosa.»
«Cosa?»
«La camera delle ragazze era piuttosto piccola. Per quanto cercassero di tenere le distanze, i letti erano vicini, e durante le botte e gli stupri di solito stavano ciascuna sul proprio, una di fronte all’altra. Raramente dicevano qualcosa e per lo più evitavano di guardarsi. Quella volta Lisbeth tenne quasi tutto il tempo gli occhi puntati sulla finestra che si affacciava su Lundagatan, e per questo era in grado di raccontare dell’estate e dei bambini là fuori. Poi però si girò e fu allora che la vide.»
«Cosa?»
«La mano destra della sorella. Batteva ritmicamente sul materasso e naturalmente il gesto in sé non aveva niente di speciale, forse era solo nervoso o compulsivo. E infatti fu così che lo interpretò Lisbeth all’inizio. Poi però si accorse che la mano batteva allo stesso ritmo dei tonfi che venivano dalla camera accanto e a quel punto guardò in faccia Camilla. Aveva gli occhi che rilucevano di eccitazione e – cosa ancora più inquietante – in quell’istante la sorella era identica a Zala, e anche se Lisbeth all’inizio non voleva crederci, non c’erano dubbi sul fatto che sulle labbra le si fosse disegnato un sorriso, una specie di ghigno trattenuto. In quel momento capì che Camilla non tentava soltanto di ingraziarsi il padre e di imitarne la megalomania, ma ne approvava anche la violenza. Tifava per lui, insomma.»
«Che follia.»
«Eppure era così, e sai cosa fece Lisbeth?»
«No.»
«Rimase calmissima. Le si sedette di fianco e le prese la mano, quasi con dolcezza. Immagino che Camilla non avesse capito cosa stava per accadere e che pensasse che sua sorella cercasse conforto o vicinanza fisica. Dopotutto sono successe cose più strane. Lisbeth le tirò su la manica della camicetta e un attimo dopo...»
«Sì?»
«Le conficcò le unghie nel polso fino all’osso, dando poi uno strattone che provocò una ferita profonda. Il sangue cominciò a scorrere sul letto e Lisbeth trascinò Camilla sul pavimento e giurò di uccidere sia lei che il padre se le botte e gli stupri non fossero cessati. Dopo, sembrava che Camilla fosse stata aggredita da una tigre.»
«Dio santo!»
«Puoi immaginarti l’odio tra le due. Sia Agneta che i servizi sociali temevano che potesse succedere qualcosa di veramente grave. Le separarono e per un periodo fu addirittura trovata una famiglia temporanea per Camilla lontano da Stoccolma. Ma naturalmente non bastava. Prima o poi si sarebbero incontrate di nuovo. Come sai, però, alla fine non fu così. Accadde qualcos’altro. Agneta si beccò una lesione cerebrale, Zalachenko prese fuoco come una fiaccola e Lisbeth venne rinchiusa. Se ho capito bene, da allora le sorelle si sono riviste una sola volta, diversi anni dopo, e le cose stavano per andare a finire molto male, anche se non conosco i particolari dell’episodio. Di Camilla non si sa più nulla da quando se n’è andata dalla famiglia affidataria presso cui viveva a Uppsala, i Dahlgren. Se vuoi posso procurarti il numero di telefono. Comunque, da quando ha fatto le valigie e ha lasciato il paese, a diciotto o diciannove anni, non si è mai più fatta viva, ed è per questo che sono rimasto di sasso quando mi hai detto di averla incontrata. Neppure Lisbeth, con la sua capacità di risalire alle persone, è riuscita a localizzarla.»
«Quindi ci ha provato?»
«Eccome. L’ultima volta, per quello che ne so, quando è stata divisa l’eredità del padre.»
«Non ne avevo idea.»
«Lisbeth me ne ha accennato solo di sfuggita. Naturalmente non voleva un centesimo dell’eredità. Li considerava soldi sporchi di sangue. Però ha capito subito che c’era qualcosa di strano. In tutto si trattava di circa quattro milioni di corone: il podere di Gosseberga, titoli vari e poi un capannone industriale cadente a Norrtälje, tra le altre cose, più un casolare da qualche parte. Non poco, certo, però...»
«Avrebbe dovuto avere molto di più.»
«Sì, se c’è una che sa quanto era vasto l’impero che Zalachenko controllava, quella è Lisbeth. Quattro milioni dovevano essere spiccioli, in confronto.»
«Vuoi dire che si è chiesta se non fosse stata Camilla a ereditare la quota reale, quella significativa.»
«Penso sia questo che ha cercato di scoprire. Il solo pensiero che i soldi del padre continuassero a fare danni anche dopo la sua morte la tormentava. Ma per un pezzo non è riuscita a concludere niente.»
«Camilla dev’essere stata abile nel nascondere la propria identità.»
«Immagino di sì.»
«Pensi che abbia rilevato l’attività di trafficking dal padre?»
«Forse, o forse no. Oppure ha imboccato tutt’altra strada.»
«Tipo?»
Holger Palmgren chiuse gli occhi e bevve un lungo sorso di cognac.
«Questo non lo so, Mikael. Ma quando mi hai parlato di Frans Balder ho pensato a una cosa. Hai idea del motivo per cui Lisbeth è così abile con i computer? Sai com’è cominciato tutto?»
«No, per niente.»
«Allora te lo dico io, e mi chiedo se una possibile chiave per sbrogliare la storia di cui ti stai occupando non sia da cercare proprio lì.»
Quello che capì Lisbeth rientrando dal patio e vedendo August rannicchiato in una posizione spasmodica e innaturale davanti al tavolo fu che il bambino le ricordava lei stessa da piccola.
Era esattamente così che si sentiva in Lundagatan, finché un giorno si era resa conto di dover crescere prima del tempo e vendicarsi su suo padre. Non che questo avesse reso le cose più facili: era un fardello che nessun bambino avrebbe dovuto portare. Eppure aveva segnato l’inizio di una vita giusta e dignitosa. Nessun bastardo di merda come Zalachenko o l’assassino di Frans Balder aveva il diritto di fare impunemente quello che faceva, nessuno che fosse dotato di tanta malvagità doveva farla franca. Per questo si avvicinò ad August e gli disse solennemente, come se pronunciasse un ordine molto importante:
«Adesso vai a letto. Quando ti svegli devi fare il disegno che inchioderà l’assassino di tuo padre. Capito?» E a quel punto il bambino annuì e si trascinò in camera mentre Lisbeth apriva il suo portatile e cominciava a cercare informazioni sull’attore Lasse Westman e sui suoi amici.
«Non credo che Zalachenko fosse particolarmente portato per l’informatica» continuò Holger Palmgren. «Non era della generazione giusta. Tuttavia la sua sporca attività era arrivata a dimensioni tali da costringerlo a inserire i dati in un programma e forse aveva bisogno di tenere lontana quella contabilità dai suoi soci. Un giorno arrivò in Lundagatan con un Ibm che mise sulla scrivania di fianco alla finestra. All’epoca credo che nessuno degli altri membri della famiglia avesse mai visto un computer. Agneta non poteva certo permettersi quel genere di acquisti e so che Zalachenko dichiarò esplicitamente che avrebbe spellato vivo chiunque avesse anche solo sfiorato la macchina. Dal punto di vista educativo forse fu una buona mossa, non lo so: ad ogni modo ne rafforzò l’attrattiva.»
«Il frutto proibito.»
«Penso che Lisbeth all’epoca avesse undici anni. Fu prima che sfregiasse il braccio a Camilla e prima che attaccasse il padre con coltelli e bombe incendiarie. In pratica, si potrebbe dire, prima che diventasse la Lisbeth che conosciamo oggi. A quell’epoca non passava tutto il tempo a pensare come mettere Zalachenko in condizione di non nuocere. Era anche sottostimolata. Non aveva veri amici, un po’ perché Camilla la diffamava e faceva in modo che nessuno a scuola le si avvicinasse, un po’ perché era sicuramente diversa. Non so se lo capisse, all’epoca. Di sicuro non ci erano arrivati né i suoi insegnanti né il resto delle persone intorno a lei, ma era una bambina estremamente dotata. Era il suo intelletto a distinguerla dagli altri. Per lei la scuola risultava di uno squallore assoluto. Quello che veniva insegnato era scontato e troppo semplice. Le bastava un’occhiata per capire tutto e per lo più durante le lezioni sognava a occhi aperti. Credo in effetti che già allora avesse trovato delle soluzioni per intrattenersi nel tempo libero, come libri di matematica per studenti più grandi e cose del genere, ma di base si annoiava. In genere leggeva i suoi fumetti, quelli della Marvel Comics, roba in realtà molto sotto il suo livello ma che forse svolgeva un’altra funzione, diciamo terapeutica.»
«In che senso?»
«In realtà non mi piace analizzare Lisbeth dal punto di vista psicologico. Se mi sentisse odierebbe questa cosa. Ma in quei fumetti ci sono un sacco di supereroi che si battono contro nemici che sono il male personificato, vendicandosi e facendosi giustizia con le proprie mani. Per un certo verso forse erano una lettura utile, non so. Può darsi che quel mondo in cui tutto è bianco o nero l’abbia aiutata a capire la sua situazione.»
«Nel senso che doveva crescere e diventare lei stessa una supereroina.»
«In un certo senso, forse, nel suo piccolo mondo. A quell’epoca ovviamente non sapeva che Zalachenko era un’ex spia russa di altissimo livello e che i suoi segreti gli avevano conferito uno status assolutamente unico nella società svedese. Di certo non immaginava che all’interno della Säpo esistesse una divisione speciale che lo proteggeva ma, come Camilla, intuiva che il padre era circondato da una sorta di immunità. Un giorno si era addirittura presentato da loro un signore in cappotto grigio accennando qualcosa tipo che il padre non doveva finire nei guai, che anzi non poteva proprio farlo. Lisbeth capì molto presto che non aveva senso denunciare Zalachenko alla polizia o ai servizi sociali. L’unica conseguenza sarebbe stata che avrebbero visto rispuntare un altro signore uguale in cappotto grigio.
«No, Lisbeth non conosceva il contesto. Ancora non sapeva nulla di servizi d’intelligence e azioni di depistaggio, ma avvertiva fin nel profondo l’impotenza della famiglia, e le faceva un male indicibile. L’impotenza, Mikael, può essere devastante, e prima di diventare abbastanza grande per porvi rimedio Lisbeth sentiva bisogno di rifugi e luoghi da cui attingere forza. Uno di questi era il mondo dei supereroi. Molti della mia generazione disprezzano questo genere di cose. Ma è noto che, a prescindere dal fatto che si tratti di fumetti o di bei vecchi romanzi, la letteratura può avere grande importanza, e io so che Lisbeth si affezionò particolarmente a una giovane eroina che si chiamava Janet van Dyne.»
«Van Dyne.»
«Esatto. Una ragazza il cui padre era un ricco scienziato. Quando viene ucciso, se non ricordo male dagli alieni, per vendicarsi Janet van Dyne va da uno dei colleghi del padre e nel suo laboratorio ottiene dei superpoteri: le ali, la possibilità di rimpicciolirsi e ingrandirsi e alcune altre facoltà. In pratica diventa una dura, vestita di nero e giallo come una vespa, e per questo si fa chiamare Wasp, una persona a cui nessuno può mettere i piedi in testa, né letteralmente né in modo figurato.»
«Ah, non lo sapevo. Quindi è da lì che viene il suo nickname?»
«Non solo quello, credo. Io di queste cose non sapevo niente: ero un vecchio incartapecorito che chiamava ancora l’Uomo mascherato “l’Ombra che cammina”. La prima volta che ho visto un’illustrazione di Wasp ho fatto un salto sulla sedia. Lisbeth aveva molto in comune con lei. E in un certo senso è ancora così. Penso che le sia stata d’ispirazione per la scelta del suo stile, anche se non voglio attribuire troppa importanza alla cosa. Era solo un personaggio dei fumetti, e Lisbeth viveva invece molto calata nella realtà. So però che rifletté a lungo sulla trasformazione subita da Janet van Dyne al momento di diventare Wasp. In qualche modo capì che era costretta a cambiare anche lei, e altrettanto drasticamente: da bambina e vittima a qualcuno in grado di rifarsi su un agente segreto superaddestrato e assolutamente privo di scrupoli.
«Quei pensieri l’assillavano notte e giorno e per questo, in una fase di passaggio, Wasp diventò per lei una figura importante, una fonte d’ispirazione, per quanto fittizia, e Camilla lo scoprì. Quella ragazza aveva una capacità inquietante di fiutare i punti deboli delle persone. Con i suoi tentacoli risaliva ai nervi scoperti e colpiva senza pietà, e per questo cominciò a ridicolizzare Wasp in tutti i modi, anzi, non solo questo. Scoprì chi erano i nemici di Wasp negli albi a fumetti e cominciò ad assumerne i nomi, Thanos e via di questo passo.»
«Hai detto Thanos?» chiese Mikael, tutti i sensi all’erta.
«Penso si chiami così. È un personaggio maschile, un annientatore che si era a un certo punto innamorato della morte stessa, comparsa al suo cospetto sotto spoglie femminili, e che da allora vuole mostrarsi degno di lei, o qualcosa del genere. Camilla si schierò con lui al solo scopo di provocare Lisbeth. Arrivò addirittura a chiamare la sua compagnia di amici The Spider Society perché è un gruppo che in qualche fumetto riveste il ruolo di nemico giurato della Sorellanza di Wasp.»
«Sul serio?» chiese Mikael con la mente che andava a mille.
«Sì, naturalmente era infantile, ma non per questo innocente. L’inimicizia tra le due sorelle era così grande già allora che quei nomi finirono per avere una carica assurda. Più o meno come in guerra, dove anche i simboli assumono proporzioni incredibili e un che di mortale.»
«Possono avere ancora importanza?»
«I nomi, vuoi dire?»
«Sì, immagino di sì.»
Mikael non sapeva esattamente cosa intendeva. Aveva solo la vaga sensazione di essere sulle tracce di un elemento importante.
«Non lo so» rispose Holger Palmgren. «Adesso sono adulte, ma non bisogna dimenticare che quello di cui parliamo era un periodo della loro vita in cui si decise e cambiò tutto. In seguito sicuramente anche piccoli dettagli possono aver assunto un significato sinistro. Dopotutto non fu solo Lisbeth a perdere la madre. Lei finì rinchiusa in una clinica psichiatrica infantile, ma anche la vita di Camilla andò in briciole. La spedirono via di casa e il padre che tanto ammirava rimase gravemente ustionato. Come sai, Zalachenko non tornò più lo stesso dopo la bomba incendiaria, e Camilla venne piazzata presso una famiglia affidataria lontanissima dal mondo di cui era sempre stata il centro. Deve aver fatto molto male anche a lei e non dubito nemmeno per un secondo che da allora odi Lisbeth con tutta se stessa.»
«Sembra proprio di sì» disse Mikael.
Holger Palmgren bevve un altro sorso di cognac.
«Come dicevamo, quel periodo della loro vita non deve essere sottovalutato. Tra le sorelle era in corso una guerra in piena regola e sapevano entrambe, in un certo senso, che stava per esplodere tutto. Penso che si fossero addirittura preparate.»
«In modi diversi, però.»
«Certo. Lisbeth aveva un cervello di prim’ordine e nella sua testa si svolgeva tutto un accavallarsi di piani e strategie infernali, ma era sola. Camilla non poteva definirsi granché intelligente, almeno nell’accezione comune del termine: non era portata per gli studi e non capiva i ragionamenti astratti. Però era una manipolatrice. Era in grado di sfruttare e incantare la gente come nessun altro e per questo, a differenza di Lisbeth, non sapeva cosa fosse la solitudine. C’era sempre qualcuno che le faceva da galoppino. Se scopriva che Lisbeth era brava in qualcosa che poteva rivelarsi pericoloso per lei non cercava mai di diventare altrettanto brava nello stesso ramo, per la semplice ragione che sapeva di non poter concorrere con sua sorella.»
«E quindi cosa faceva?»
«Rintracciava qualcuno, meglio se più di una persona, che ci sapeva fare in quel dato campo, qualunque fosse, e lanciava l’offensiva con il loro aiuto. Aveva sempre dei tirapiedi, amici che avrebbero fatto qualsiasi cosa per lei. Ma scusami, sto anticipando i fatti.»
«Sì. Cosa accadde al computer di Zalachenko?»
«Come ti dicevo, Lisbeth era sottostimolata, e per giunta dormiva male. La preoccupazione per la madre la teneva sveglia di notte. Dopo gli stupri Agneta aveva abbondanti emorragie ma si rifiutava di rivolgersi a un medico. Probabilmente si vergognava e a periodi sprofondava in gravi depressioni. Non riusciva né ad andare al lavoro né a occuparsi delle figlie, e Camilla la disprezzava ancora di più. “La mamma è una debole” diceva. Nel suo mondo, la debolezza era la cosa peggiore in assoluto. Lisbeth invece...»
«Sì?»
«Vedeva una persona che amava, l’unica che avesse mai amato, e una terribile ingiustizia, e di notte rimaneva sveglia a pensarci. Era solo una bambina, è vero. Sotto alcuni aspetti lo era ancora. Ma si convinceva sempre più di essere l’unica persona al mondo in grado di impedire che la madre venisse uccisa a forza di botte. Era a questo che pensava, e a un sacco di altre cose, e alla fine una notte si alzò, piano piano, ovviamente, per non svegliare Camilla. Forse voleva andare a prendere qualcosa da leggere, o forse, semplicemente, non riusciva più a sopportare i pensieri. Comunque non ha molta importanza: l’essenziale è che vide il computer sulla scrivania accanto alla finestra che dava su Lundagatan.
«A quell’epoca neanche sapeva come si accendeva. Naturalmente ci mise pochissimo a scoprirlo e fu pervasa da una specie di febbre. Il computer sembrava sussurrarle: “Scopri i miei segreti.” Come puoi immaginare, non riuscì a combinare granché, non quella volta, almeno. Serviva una password e lei tentò e ritentò. Dato che il padre era soprannominato Zala provò con quella e poi con Zala666 e combinazioni simili, e molte altre. Ma nessuna funzionava e credo che la cosa sia andata avanti per due o tre notti. Se dormiva da qualche parte era sul banco di scuola, o un’oretta al pomeriggio.
«Una notte però le venne in mente una riga che il padre aveva scritto in tedesco su un foglietto in cucina: Was mich nicht umbringt, macht mich stärker. Quello che non uccide, fortifica. All’epoca per lei non significava niente, ma capì che era una frase importante per il padre e per questo provò a inserirla. Erano troppe parole e allora tentò con Nietzsche, l’autore della citazione, e di colpo si ritrovò dentro e le si schiuse davanti un mondo completamente nuovo e segreto. A me lo ha descritto come un istante che cambiò la sua vita per sempre. Aveva abbattuto la barriera che le impediva di esplorare quello che avrebbe dovuto restare nascosto, e la cosa la fece sentire grande. Eppure...»
«Sì?»
«All’inizio non ci capì niente. C’erano diversi elenchi, tutti in russo, e dei numeri. Immagino fossero le ricapitolazioni degli introiti relativi all’attività di trafficking di Zalachenko. Ma ancora oggi non so quanto intuì allora e cosa invece scoprì in seguito. Di certo si rese conto, comunque, che suo padre non faceva del male solo a sua madre. Rovinava la vita anche ad altre donne, e la cosa la mandò in bestia, formando in un certo senso la Lisbeth che conosciamo oggi, quella che odia gli uomini che...»
«... odiano le donne.»
«Esatto. Ma questo la rese anche più forte, e lei capì che ormai non poteva più tornare indietro. Era costretta a fermare suo padre e continuò a imparare su altri computer, anche a scuola. S’intrufolava nella sala insegnanti senza farsi vedere e qualche volta fingeva addirittura di fermarsi a dormire dalle amiche che non aveva mentre restava di nascosto a scuola per tutta la notte, stando davanti al computer fino alle prime ore del mattino. Cominciò a imparare tutto quello che doveva sapere sulla programmazione e sull’hackeraggio e penso fosse come quando altri bambini prodigio trovano la loro strada. Rimase stregata. Sentiva di essere nata per quello e molti con cui entrò in contatto nel mondo digitale cominciarono a interessarsi a lei, come sempre succede quando la generazione precedente si getta sulle giovani promesse, per incoraggiarle oppure per soffocarle sul nascere. Si imbatté in molte resistenze e malignità, e tanti erano irritati dal suo modo di fare le cose alla rovescia o comunque con un metodo tutto suo. Altri però rimanevano colpiti, e a poco a poco trovò degli amici, tra cui anche quel Plague. I primi amici veri, insomma, furono quelli che conobbe attraverso i computer e soprattutto cominciò a sentirsi libera come non le era mai successo in vita sua. Nel ciberspazio volava, proprio come Wasp. Non aveva vincoli.»
«Camilla capì quanto era diventata brava?»
«Di sicuro lo intuì e non lo so, non voglio fare congetture, ma a volte penso a lei come al lato oscuro di Lisbeth, la sua ombra riflessa.»
«The bad twin. La gemella cattiva.»
«Sì, un po’ questo, ecco. Non mi piace definire malvagie le persone, soprattutto se sono giovani donne. Eppure è così che penso a lei, spesso. Ma non ho mai trovato la forza di approfondire la cosa, e se vuoi scavarci tu ti raccomando di telefonare a Margareta Dahlgren, diventata la madre affidataria di Camilla dopo lo sconvolgente episodio in Lundagatan. Adesso abita a Stoccolma, a Solna, credo. È vedova e ha avuto una vita davvero tragica.»
«In che senso?»
«Anche questo è interessante, in effetti. Suo marito Kjell, che faceva il programmatore alla Ericsson, si impiccò poco prima che Camilla se ne andasse. Un anno dopo anche la figlia diciannovenne si tolse la vita gettandosi da un traghetto per la Finlandia, o almeno fu la conclusione a cui si giunse. La ragazza aveva un sacco di complessi e si sentiva grassa e brutta. Margareta però non ci ha mai creduto e per un periodo ha addirittura ingaggiato un detective privato. È fissatissima su Camilla e a essere sincero non l’ho mai sopportata. Un po’ me ne vergogno. Mi ha contattato poco dopo che avevi pubblicato il dossier su Zalachenko e come sai io ero appena stato dimesso dal centro di riabilitazione di Ersta, con i nervi e il corpo a pezzi, e le sue chiacchiere mi rintronavano. Era ossessionata. Solo a vedere il suo numero sul display mi sentivo esausto e facevo di tutto per evitarla. Ripensandoci adesso, però, la capisco sempre meglio. Credo che le farebbe piacere parlare con te, Mikael.»
«Hai i suoi recapiti?»
«Vado a prenderteli. Aspetta un attimo, però. Sei sicurissimo che Lisbeth e il bambino siano al sicuro?»
«Sì» rispose Mikael. Almeno lo spero, pensò. Poi si alzò e salutò Holger con un abbraccio.
In Liljeholmstorget la tormenta lo investì di nuovo con le sue folate, costringendolo a chiudersi meglio il cappotto. Pensò a Camilla e a Lisbeth e per qualche motivo anche ad Andrei Zander.
Decise di chiamarlo per chiedergli come stava andando l’articolo sul mercante d’arte scomparso. Ma Andrei non rispose.