13.
21 novembre

Mikael Blomkvist non riuscì a dormire granché. Gli avvenimenti della notte lo perseguitavano e alle undici e un quarto del mattino si alzò a sedere nel letto e ci rinunciò.

Andò in cucina, si preparò due fette di pane con cheddar e prosciutto e una scodella di yogurt con müsli, ma non mangiò più di tanto. A quel punto optò per un caffè e dell’acqua con cui mandare giù qualcosa per il mal di testa. Bevve cinque o sei bicchieri di Ramlösa e prese due pastiglie di paracetamolo. Poi tirò fuori un quaderno con la copertina nera e cercò di riassumere quello che era successo, ma fece in tempo a scrivere solo qualche riga prima che si scatenasse l’inferno: i telefoni cominciarono a squillare e Mikael non impiegò molto a capire perché.

La notizia era esplosa e consisteva nel fatto che «la star del giornalismo Mikael Blomkvist e l’attore Lasse Westman» si erano trovati nel bel mezzo di un «misterioso» omicidio, misterioso proprio perché nessuno sembrava capire come mai proprio Westman e Blomkvist, insieme o ciascuno per conto proprio, fossero sul posto quando un professore universitario era stato ucciso con due colpi alla testa. Nelle domande c’era un che di insinuante, e sicuramente fu per questo che Mikael ammise in maniera piuttosto sincera di essere andato da Balder, nonostante l’ora tarda, perché pensava che avesse qualcosa di importante da raccontare.

«Ero lì per fare il mio lavoro» disse.

Un po’ troppo sulla difensiva, forse, ma si sentiva accusato e voleva spiegare, anche se poteva indurre altri reporter a scavare nella stessa vicenda. A parte questo, si trincerò dietro i “no comment”, e neanche quella era una replica ideale, ma aveva il merito di essere chiara e diretta. Poi spense il cellulare, indossò di nuovo il vecchio pellicciotto, uscì e si diresse verso Götgatan.

L’attività in redazione gli ricordò i vecchi tempi. Dappertutto, in ogni angolo, i colleghi lavoravano concentrati. Erika doveva aver tenuto più di un discorso incendiario e di certo tutti avvertivano la gravità del momento, e non solo perché mancavano dieci giorni alla chiusura del numero. Sopra le loro teste aleggiava la minaccia di Levin e del gruppo Serner e tutti quanti sembravano intenzionati a combattere. Tuttavia, naturalmente, vedendolo arrivare lo attorniarono tempestandolo di domande su Balder e sulla notte e sulla sua reazione alla mossa dei norvegesi. Ma non volendo mostrarsi da meno dei colleghi Mikael si affrettò verso la postazione di Andrei Zander borbottando: «Più tardi, più tardi.»

A ventisei anni, Andrei era il collaboratore più giovane della redazione. Aveva svolto lì il praticantato e da allora non aveva mai mollato: in alcuni periodi, come in quel momento, veniva assunto a tempo determinato, e in altri lavorava come freelance. A Mikael dispiaceva non avergli potuto offrire un posto fisso, soprattutto da quando avevano assunto Emil Grandén e Sofie Melker. In realtà lui avrebbe voluto scegliere Andrei, ma il ragazzo non si era ancora fatto un nome e anche quanto a qualità della scrittura forse non era a un livello abbastanza alto.

Andrei amava il gioco di squadra, il che era un bene per la rivista ma non necessariamente per lui, almeno nella cruda realtà di quel settore. Non era abbastanza vanitoso, pur avendo tutte le ragioni per esserlo. Fisicamente somigliava ad Antonio Banderas da giovane e in generale era molto più sveglio della media, ma non era disposto a sgomitare per mettersi in mostra. Il suo scopo era fare del buon giornalismo e adorava Millennium, e di colpo Mikael si rese conto di adorare chi adorava Millennium. Un bel giorno avrebbe fatto qualcosa di grandioso per il giovane collega.

«Ciao Andrei» disse. «Come va?»

«Insomma. Trafelato.»

«Me lo immagino. Cosa sei riuscito a trovare?»

«Parecchio. È tutto sulla tua scrivania, e ho anche fatto un riassunto. Posso darti un consiglio, però?»

«Un buon consiglio è proprio quello che mi serve.»

«Allora vai in Zinkens väg a parlare con Farah Sharif.»

«Chi?»

«Una bellissima donna, nonché docente universitaria, che abita lì ed è a casa tutto il giorno.»

«Intendi dire che in questo momento mi servirebbe una donna intelligente e di grande fascino?»

«Non esattamente, ma la professoressa Sharif ha chiamato poco fa. Le è sembrato di capire che Balder volesse raccontarti qualcosa e pensa di sapere di cosa si trattava. Le farebbe piacere parlartene, forse anche per esaudire il suo desiderio. Secondo me è l’ideale, per partire.»

«Hai verificato bene chi è?»

«Certo, e naturalmente non si può escludere che abbia i suoi scopi, ma era molto legata a Balder. Hanno studiato e scritto alcuni articoli scientifici a quattro mani. Ci sono anche un paio di foto in cui sono insieme. Il suo è un nome di peso nel mondo accademico.»

«Okay, ci vado. Le comunichi tu che sono in arrivo?»

«Certo» rispose Andrei dandogli l’indirizzo completo.

Così, esattamente come il giorno prima, Mikael uscì dalla redazione subito dopo esserci entrato, e incamminandosi lungo Hornsgatan si mise a leggere il materiale. Urtò un paio di persone ma era talmente concentrato che quasi non chiese scusa. Così, quando si accorse di non essere andato da Farah Sharif per la strada più breve, non fu una sorpresa. A quel punto decise di fare tappa da Mellqvist e bevve due espressi doppi al banco, non solo per scacciare la stanchezza dal corpo ma anche perché sperava che la caffeina servisse a mitigare il mal di testa.

Dopo, però, si chiese se fosse stata una buona idea. Uscendo dal bar si sentiva meno in forma di quando ci era entrato, ma probabilmente non dipendeva dai caffè: la colpa era delle battute idiote dei cretini che, avendo letto della tragedia avvenuta nella notte, dovevano per forza dire la loro. Forse sarebbe stato il caso di spiegare ai tanti giovani che, a quanto pareva, ambivano a diventare famosi, che non era poi un grande obiettivo. C’è solo da impazzire, soprattutto quando non si è chiuso occhio e si sono viste delle cose che nessun essere umano dovrebbe essere costretto a vedere.

Mikael proseguì risalendo Hornsgatan oltre il McDonald’s e la Coop, attraversò Ringvägen e, gettando un’occhiata a destra, si bloccò. Aveva la sensazione di aver visto qualcosa di fondamentale. Ma cosa c’era di importante lì? Niente! Il solito incrocio con un altissimo tasso di incidenti e un eccesso di gas di scarico, nient’altro. Poi capì.

Era il semaforo, quello disegnato da Frans Balder con precisione matematica, e per la seconda volta Mikael rimuginò sulla scelta del soggetto. Neanche come passaggio pedonale era particolarmente degno di nota: al contrario, aveva un aspetto modesto e sciupato. Ma forse era proprio lì il punto.

Non si trattava del soggetto, ma di quello che ci si vedeva. L’arte stava nell’occhio dell’osservatore e in fondo non aveva importanza, se non per il fatto che rivelava che Frans Balder era stato lì e forse aveva osservato il semaforo dopo essersi seduto da qualche parte. Mikael proseguì oltrepassando il centro sportivo di Zinkensdamm e svoltò a destra in Zinkens väg.

Nelle prime ore della mattinata l’ispettore dell’anticrimine Sonja Modig aveva lavorato intensamente. Seduta nel suo ufficio, si soffermò con lo sguardo su una delle fotografie incorniciate sulla scrivania. Ritraeva suo figlio Axel, sei anni, che esultava dopo un gol nel campo da calcio. Tenere le fila della vita familiare era un inferno, sicuramente destinato a peggiorare nell’immediato futuro. Si sentì bussare alla porta. Era Bublanski, finalmente, il che le avrebbe permesso di passargli il testimone, anche se Bubbla non sembrava ansioso di prenderlo.

Insolitamente elegante, in giacca e cravatta e camicia azzurra stirata di fresco, il riporto pettinato sulla pelata e lo sguardo sognante perso in lontananza, Bublanski sembrava pensare a tutt’altro che a un caso di omicidio.

«Cosa ti ha detto il medico?» gli chiese.

«Che l’importante non è credere in Dio. Il Signore non è meschino. L’importante è capire che la vita è una cosa seria e ricca. Da un lato dobbiamo apprezzarla, dall’altro cercare di migliorare il mondo. Chi trova l’equilibrio tra questi due poli è vicino a Dio.»

«Quindi in realtà sei stato dal tuo rabbino?»

«Vero.»

«Okay Jan. Non saprei cosa dirti riguardo alla faccenda della vita che va apprezzata, a parte offrirti un pezzo di cioccolato svizzero all’arancia che per puro caso ho qui in un cassetto. Ma se prendiamo il tizio che ha sparato a Frans Balder sicuramente un po’ il mondo lo miglioriamo.»

«Un pezzo di cioccolato svizzero all’arancia e un omicidio risolto mi sembrano un ottimo inizio.»

Sonja prese la tavoletta, ne staccò un quadretto e lo diede a Bublanski, che lo masticò con aria solenne.

«Delizioso» disse.

«Vero?»

«Pensa che bello se la vita potesse essere così, a volte» continuò Bubbla indicando la foto di Axel esultante.

«In che senso?»

«Se la felicità si facesse sentire con la stessa potenza del dolore.»

«Già.»

«Come sta il figlio di Balder? Si chiama August, no?»

«Difficile a dirsi» rispose Sonja. «È dalla madre, adesso. L’ha visitato uno psicologo.»

«E su cosa possiamo lavorare?»

«Non molto, purtroppo, almeno per il momento. Abbiamo individuato il tipo di arma. Una Remington 1911 R1 Carry, probabilmente acquistata da poco. Stiamo tentando di risalire al rivenditore ma sono quasi sicura che non ci riusciremo. Abbiamo le immagini di una delle telecamere di sorveglianza e le stiamo analizzando, ma nonostante tutti gli sforzi non riusciamo a vedere il viso dell’uomo e neanche dei segni distintivi particolari. Niente nei, niente di niente, solo un orologio da polso che s’intravede durante una sequenza e che ha l’aria di essere costoso. L’uomo è vestito di nero e porta un berretto grigio con la visiera, senza scritte. Jerker dice che si muove come un tossico. In un’immagine ha in mano una specie di cassetta nera, probabilmente un qualche genere di computer o dispositivo Gsm. Pare gli sia servito per mettere fuori uso il sistema d’allarme.»

«Sì, l’ho sentito dire. Come si fa a mettere fuori uso un allarme?»

«Jerker, che ha esaminato anche questo aspetto, dice che non è facile, soprattutto con impianti di questo livello, ma neanche impossibile. Era collegato alla rete e al sistema di telefonia mobile e inviava in via continuativa informazioni alla Milton Security, che ha sede a Slussen. Può darsi che il nostro uomo, con il suo dispositivo, abbia registrato una frequenza dell’allarme e sia riuscito a introdurvisi in quel modo. Oppure si era imbattuto in Balder facendo una passeggiata e aveva sottratto per via elettronica delle informazioni dall’Nfc.»

«Da cosa?»

«Near Field Communication, una funzione del cellulare di Balder con cui attivava l’allarme.»

«Era più semplice una volta, quando i ladri usavano il piede di porco» osservò Bublanski. «Niente auto in zona?»

«Un veicolo scuro era parcheggiato a un centinaio di metri, sul ciglio della strada, e di tanto in tanto accendeva il motore, ma l’unica ad averlo visto è una signora anziana di nome Birgitta Roos e non ha idea del modello. Forse una Volvo, dice. Oppure una macchina come quella di suo figlio. Che ha una Bmw.»

«Merda.»

«Sì, sul fronte indiziario siamo messi male» ammise Sonja Modig. «Gli esecutori avevano dalla loro la notte e la tormenta. Si sono potuti muovere indisturbati nella zona e, a parte Mikael Blomkvist, in realtà abbiamo un solo testimone oculare, un tredicenne che si chiama Ivan Grede. È un tipetto buffo e magrissimo che da piccolo ha avuto la leucemia. Parla come un piccolo adulto e ha ammobiliato la sua camera in stile giapponese. Si è alzato per andare in bagno in piena notte e dalla finestra ha visto un uomo robusto sulla spiaggia. Era rivolto verso il mare e ha fatto il segno della croce con le mani a pugno. Secondo Ivan era un gesto aggressivo e nello stesso tempo devoto.»

«Una combinazione che non mi piace per niente.»

«Infatti. La religione e la violenza appaiate non fanno mai presagire nulla di buono. Ma Ivan non era del tutto sicuro che fosse proprio un segno della croce. Sembrava che ci fosse una specie di aggiunta, o di giuramento militare. Per un attimo ha pensato che l’uomo si sarebbe immerso nell’acqua per suicidarsi. Dice che la situazione aveva un che di solenne, di aggressivo.»

«E invece niente suicidio.»

«No. L’uomo ha proseguito con una corsa leggera verso la casa di Balder. Aveva uno zaino e vestiva abiti scuri, forse i pantaloni erano di tela mimetica. Era robusto e atletico e secondo il ragazzino somigliava ai suoi vecchi guerrieri ninja.»

«Non che la cosa mi faccia sentire meglio.»

«No, infatti, e probabilmente è lui ad aver sparato anche a Mikael Blomkvist.»

«Ma Blomkvist non l’ha visto in faccia?»

«No, quando l’uomo si è girato e ha sparato, lui si è gettato a terra. Inoltre è successo tutto molto in fretta. Secondo Blomkvist, comunque, aveva avuto un addestramento militare e la sua ipotesi coincide con le osservazioni di Ivan Grede, il che mi porta a dargli ragione. La velocità e l’efficienza dell’operazione sembrano essere una conferma.»

«Ma si è capito poi perché Blomkvist si trovasse lì?»

«Oh, sì. Se c’è una cosa che è stata fatta fino in fondo, questa notte, sono gli interrogatori con lui. Dai un’occhiata a questo.» Sonja gli tese una stampata. «Blomkvist è stato contattato da uno degli ex assistenti di Balder, il quale sostiene che il professore abbia subito un’intrusione informatica e sia stato derubato della sua tecnologia, e la segnalazione ha suscitato il suo interesse. Voleva rintracciare Balder, ma lui non si era fatto trovare, come sua abitudine. Negli ultimi tempi viveva isolato, praticamente senza contatti con l’esterno. Tutti gli acquisti e le commissioni venivano gestiti da una governante che si chiama... aspetta... Lottie Rask. Tra l’altro questa signora Rask aveva ricevuto il preciso ordine di non rivelare la presenza del bambino in casa. Ci arrivo tra poco. Ma la notte scorsa è successo qualcosa. Immagino che Balder fosse inquieto e volesse parlare, dire quello che gli pesava tenersi dentro. Non dimenticare che aveva appena saputo di essere oggetto di minacce concrete. Inoltre era partito l’allarme e due poliziotti sorvegliavano la casa. Forse intuiva di avere i giorni contati, non so. Comunque, ha telefonato a Mikael Blomkvist in piena notte dicendo di volergli parlare di una cosa.»

«Una volta in situazioni del genere si chiamava il prete.»

«Si vede che adesso invece si preferiscono i giornalisti. In ogni caso, sono tutte congetture. Sappiamo solo quello che Balder ha detto nel messaggio lasciato sulla casella vocale di Blomkvist. Per il resto, non abbiamo la più pallida idea di cosa volesse rivelare. Blomkvist sostiene di non saperlo neanche lui e io gli credo, ma sembra che sia l’unica a farlo. Richard Ekström, che tra parentesi è un rompiballe stratosferico, è convinto che tenga per sé degli elementi per pubblicarli sulla sua rivista. Io invece fatico a crederlo. Blomkvist è un furbacchione e lo sappiamo tutti, ma non mi sembra il tipo da sabotare di proposito un’indagine di polizia.»

«Non direi proprio, infatti.»

«Il problema è che Ekström dà fuori di matto e dice che bisognerebbe arrestarlo per falsa testimonianza e intralcio alla giustizia e chissà cos’altro. Continua a dire che sa di più, e ho l’impressione che non starà con le mani in mano.»

«Il che non può portare a niente di positivo.»

«Infatti, e considerando le capacità di Blomkvist secondo me ci conviene tenercelo buono.»

«Mi sa che dovremo interrogarlo di nuovo.»

«Lo penso anch’io.»

«E questa faccenda di Lasse Westman?»

«L’abbiamo appena interrogato e non è esattamente una vicenda edificante. Era stato al Konstnärsbaren, al Teatergrillen, all’Operabaren e al Riche e dio sa dove, sbraitando e dando addosso a Balder e al ragazzino per ore. I suoi amici ne avevano le palle piene. Più beveva e mandava in fumo soldi, più si esaltava.»

«Perché era così importante per lui?»

«In una certa misura dev’essere stata una di quelle fisse da alcolizzati. Ne so qualcosa perché il mio vecchio zio era uguale: ogni volta che si sbronzava se ne cacciava in testa una diversa. Ma ovviamente c’era dell’altro e all’inizio Westman continuava a parlare della sentenza di affidamento esclusivo. Diciamo che se fosse stata un’altra persona, con un grado di empatia diverso, si sarebbe potuto credere che volesse il bene del bambino. Invece... lo sai, no, che Westman è stato condannato per maltrattamenti?»

«Non lo sapevo.»

«Anni fa stava con quella blogger di moda, Renata Kapusinski, e gliele dava di brutto. Credo sia addirittura arrivato a sfigurarle la guancia con un morso.»

«Brutta storia.»

«Inoltre...»

«Sì?»

«Balder aveva scritto una serie di denunce che non aveva mai spedito, forse a causa della situazione giuridica, dalle quali si capisce chiaramente che sospettava che Lasse Westman malmenasse anche il figlio.»

«Sul serio?»

«Aveva notato dei lividi sospetti sul corpo del bambino, e in effetti una psicologa del Centro per l’autismo gli dà ragione. Quindi difficilmente è stato...»

«... per affetto e premura che Lasse Westman è andato a Saltsjöbaden.»

«Esatto. Più che altro per soldi. Dopo essersi ripreso il figlio, Balder aveva annullato o almeno ridotto l’assegno familiare che si era impegnato a pagare.»

«E Westman non aveva cercato di denunciare la cosa?»

«Non avrà osato, viste le circostanze.»

«Cos’altro c’è scritto in quella sentenza di affidamento esclusivo?» chiese Bublanski.

«Che Balder era un padre inadeguato.»

«Ed è vero?»

«Diciamo che non era una persona cattiva come Westman. Ma c’era stato un incidente. Subito dopo il divorzio Balder teneva il bambino a fine settimana alterni, e all’epoca abitava in un appartamento di Östermalm pieno di libri da terra fino al soffitto. Uno di quei weekend, quando aveva sei anni, August si trovava in soggiorno mentre Balder era come al solito davanti al computer nella stanza accanto. Non sappiamo esattamente cosa sia successo, ma appoggiata a una libreria c’era una scaletta. August ci è salito sopra e nel tentativo di prendere dei volumi molto in alto è volato giù e si è rotto il gomito, oltre a perdere conoscenza nella caduta, ma Frans non ha sentito niente e ha continuato a lavorare, e solo dopo diverse ore ha trovato il bambino che gemeva a terra di fianco ai libri, e a quel punto, fuori di sé per il panico, finalmente l’ha portato al pronto soccorso.»

«Ed è stato in quell’occasione che è stato deciso l’affidamento esclusivo?»

«Non solo. È stato stabilito che Balder fosse emotivamente immaturo e incapace di occuparsi del figlio. Non gli era nemmeno concesso stare da solo con August. Ma a dirla tutta non è che quella sentenza mi convinca granché.»

«Perché?»

«Perché è stato un processo senza difesa. L’avvocato dell’ex moglie ci ha dato dentro di brutto mentre Frans Balder ha fatto ammenda, dichiarando di essere inadeguato, irresponsabile e incapace di vivere e chissà cos’altro. Il tribunale ha scritto, secondo me in modo malevolo e tendenzioso, che non è mai stato in grado di entrare in rapporto con altre persone e che si è sempre rifugiato nelle macchine, ma avendo avuto modo di dare un’occhiata a quella che è stata la sua vita, non mi sembra proprio che si possano fare affermazioni del genere. Si è voluto prendere per verità quelle che erano solo autoaccuse e sproloqui dettati dal senso di colpa, e in ogni caso Balder si è dimostrato molto collaborativo. Come ti dicevo, ha accettato di pagare un assegno consistente, quarantamila corone al mese, penso, più una somma una tantum di novecentomila corone per eventuali imprevisti. Poco dopo è partito per gli Stati Uniti.»

«Però poi è tornato.»

«Sì, e probabilmente per diverse ragioni. Era stato derubato della sua tecnologia e forse aveva anche saputo da chi. Era entrato in grave conflitto con il suo datore di lavoro. Ma penso che si trattasse anche del figlio. La donna del Centro per l’autismo di cui ti parlavo, e che per inciso si chiama Hilda Melin, in una prima fase era molto ottimista sulla potenziale evoluzione del bambino, ma poi non si è verificato niente di quello che si aspettava. Inoltre era venuta a sapere che Hanna e Lasse Westman non avevano fatto i passi necessari per quanto riguardava l’obbligo scolastico di August. Secondo gli accordi, avrebbero dovuto predisporre un percorso didattico a domicilio, ma in realtà sembravano essersi presi gioco degli specialisti che rispondevano dell’istruzione del bambino e probabilmente c’erano anche state delle truffe sul contributo scolastico, compresi nomi di insegnanti inventati di sana pianta. Insomma, tutte le schifezze immaginabili. Ma questa è un’altra storia e qualcuno dovrà occuparsene più avanti.»

«Stavi parlando della donna del Centro per l’autismo.»

«Esatto, Hilda Melin. Ha intuito che qualcosa non tornava e ha telefonato a Hanna e Lasse, sentendosi rispondere che filava tutto a meraviglia. Ma qualcosa le diceva che non era vero. Per questo, a dispetto della prassi usuale, ha fatto una visita a domicilio senza preavviso, e quando alla fine l’hanno fatta entrare ha avuto la netta impressione che il bambino non stesse bene e che si fosse fermato nello sviluppo. Inoltre, avendo visto i lividi, ha chiamato Frans Balder a San Francisco e ha fatto una lunga chiacchierata con lui, che poco dopo si è ritrasferito qui e ha portato con sé il figlio nella nuova casa di Saltsjöbaden, a dispetto della sentenza di affidamento.»

«E come ha potuto farlo, se Lasse Westman teneva tanto all’assegno di mantenimento?»

«Bella domanda. Secondo Westman, Balder ha più o meno rapito il bambino. Invece Hanna dà una versione diversa. Dice che Frans si è presentato in modo inatteso e sembrava cambiato, e lei gli ha lasciato portare via August. Era convinta che potesse addirittura trovarsi meglio, da lui.»

«E Westman?»

«Dice che era ubriaco e aveva appena avuto una parte importante in un nuovo progetto in televisione, il che lo aveva reso tronfio e pieno di sé. Ha accettato anche lui. Nonostante tutte le sue chiacchiere sul bene del bambino, secondo me era solo contento di levarselo di torno.»

«Ma poi?»

«Poi se n’è pentito, e già che c’era si è fatto buttare fuori dalla serie televisiva perché non riusciva a mantenersi sobrio, e naturalmente a quel punto ha voluto di colpo riavere August, o meglio, non lui...»

«... ma l’assegno di mantenimento.»

«Esatto, e la cosa è confermata anche dai suoi compagni di bevute, tra gli altri quell’organizzatore di festini, Rindevall. È stato quando è saltato fuori che la carta di credito non aveva copertura che Westman si è messo a delirare e sbraitare come un matto sul bambino. Poi ha sfilato cinquecento corone per il taxi a una ragazza al bancone del bar ed è partito in piena notte per Saltsjöbaden.»

Jan Bublanski rimase per un po’ immerso nei suoi pensieri e guardò ancora una volta la foto di Axel esultante.

«Che casino» disse.

«Già.»

«E in un caso normale saremmo già vicini a una soluzione: il movente sarebbe da qualche parte nella contesa per l’affidamento e nella vecchia causa di divorzio. Ma questi tizi che s’introducono nei sistemi d’allarme e somigliano a guerrieri ninja non rientrano propriamente in un quadro del genere.»

«Infatti.»

«Poi mi chiedo un’altra cosa.»

«Dimmi.»

«Se August non sa leggere, cosa se ne faceva di quei libri?»

Seduto di fronte a Farah Sharif davanti a una tazza di tè, Mikael Blomkvist guardò in direzione degli alberi di Tantolunden che si vedevano dalla finestra e, pur sapendo che era un segno di debolezza, desiderò di non avere un articolo da scrivere e di poter stare semplicemente lì senza doverla mettere sotto pressione.

Sfogarsi non sembrava averla fatta sentire meglio. Aveva il viso stravolto e gli occhi scuri dallo sguardo intenso, che sulla porta l’avevano trafitto, sembravano disorientati. Di tanto in tanto Farah mormorava il nome di Frans, come in un mantra o uno scongiuro. Forse lo amava. Sicuramente lui doveva avere amato lei. Aveva cinquantadue anni e un grande fascino. Non era dotata di una bellezza classica, ma sicuramente di un portamento regale.

«Che tipo era?» le chiese.

«Frans?»

«Sì.»

«Era un paradosso.»

«In che senso?»

«In ogni senso possibile, ma forse soprattutto perché lavorava con tutto se stesso a ciò che lo angosciava di più in assoluto. Come Oppenheimer a Los Alamos, insomma: si occupava di quella che pensava potesse rivelarsi la nostra rovina.»

«Non ti seguo.»

«Frans voleva ricreare l’evoluzione biologica a livello digitale. Lavorava sugli algoritmi di autoapprendimento che, grazie al metodo del trial and error, riescono a migliorare se stessi. Ha contribuito anche allo sviluppo dei cosiddetti computer quantistici su cui lavorano Google, la Solifon e l’Nsa. Il suo obiettivo era realizzare l’AGI, l’Artificial General Intelligence.»

«E cosa sarebbe?»

«Qualcosa che è intelligente quanto l’essere umano ma nello stesso tempo possiede la velocità e la precisione del computer in tutte le discipline meccaniche. Una creazione del genere ci darebbe enormi vantaggi in ogni campo della scienza.»

«Certo.»

«Nel settore la ricerca è molto ampia e, anche se non tutti hanno l’esplicita ambizione di arrivare all’AGI, la concorrenza ci porta in quella direzione. Nessuno può permettersi di non creare le applicazioni più intelligenti possibili o di impedire in qualche modo l’evoluzione del segmento. Pensa soltanto a quello che abbiamo realizzato finora, a quello che c’era nel tuo cellulare cinque anni fa e a quello che c’è oggi.»

«Già.»

«In passato, prima di cominciare a fare il misterioso, Frans calcolava che potessimo arrivare all’AGI nel giro di trenta o quarant’anni, e forse sembra una valutazione drastica. Personalmente però mi chiedo se non sia stato troppo prudente. La capacità dei computer raddoppia ogni diciotto mesi e il nostro cervello fatica a concepire le implicazioni di un’evoluzione esponenziale di questo genere. È un po’ come il chicco di riso sulla scacchiera, hai presente? Si mette un chicco sulla prima casella e due sulla seconda e quattro sulla terza e otto sulla quarta.»

«E ben presto i chicchi di riso sommergono il mondo.»

«Il tasso di crescita aumenta in continuazione e a un certo punto va fuori controllo. L’aspetto interessante, in realtà, non è quando arriveremo all’AGI ma cosa succederà dopo. Gli scenari sono molteplici, anche a seconda del modo in cui si sarà raggiunto il traguardo, ma sicuramente useremo programmi che si aggiornano e si migliorano da soli, e qui non dobbiamo dimenticare che avremo davanti un nuovo concetto di tempo.»

«In che senso?»

«Nel senso che ci lasceremo alle spalle i limiti umani e verremo proiettati in un nuovo ordine in cui le macchine si aggiorneranno da sole alla velocità del fulmine, ventiquattr’ore su ventiquattro. Solo pochi giorni dopo aver realizzato l’AGI avremo l’ASI

«Cioè?»

«L’Artificial Super Intelligence, un’entità più intelligente di noi. Da quel momento tutto procederà sempre più in fretta. I computer cominceranno a migliorarsi a ritmo accelerato, forse con un fattore dieci, e diventeranno cento, mille, diecimila volte più intelligenti di noi, e cosa succederà in questo caso?»

«Chissà.»

«Esatto. L’intelligenza in sé non è prevedibile. Non sappiamo dove ci porterà l’intelligenza umana, e ancora meno quello che accadrà con una superintelligenza.»

«Nella peggiore delle ipotesi, per i computer non saremo più interessanti di una manciata di topolini bianchi» s’inserì Mikael, ricordando quello che aveva scritto a Lisbeth.

«Nella peggiore delle ipotesi? Noi abbiamo in comune con i topi il novanta per cento del nostro dna e si calcola che siamo circa cento volte più intelligenti. Cento volte, non di più. Qui ci troviamo di fronte a qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che secondo i modelli matematici non ha inibizioni e forse può diventare più intelligente di milioni di volte rispetto a noi. Riesci a immaginarlo?»

«Sto tentando» rispose Mikael con un sorriso appena accennato.

«Quello che intendo dire» continuò lei, «è questo: come pensi che si senta un computer che si sveglia e si trova imprigionato e controllato da insettini primitivi come noi? Perché dovrebbe adeguarsi? Perché dovrebbe mostrare nei nostri confronti un riguardo esagerato, o addirittura permetterci di frugare dentro di lui per fermare il processo? Rischiamo di ritrovarci nel bel mezzo di un’esplosione di intelligenza, una singolarità tecnologica, come l’ha chiamata Vernor Vinge. Tutto ciò che succederà di lì in poi è al di là del nostro orizzonte degli eventi.»

«Quindi nel momento stesso in cui creiamo una superintelligenza, perdiamo il controllo.»

«Il rischio è che tutto ciò che sappiamo del nostro mondo smetta di valere e che si assista alla fine dell’esistenza umana.»

«Stai scherzando?»

«So che alle orecchie dei non addetti suona come una follia, ma è una questione estremamente concreta. Oggi migliaia di persone in tutti i continenti lavorano per impedire un’evoluzione del genere. Molti sono ottimisti o addirittura utopisti. Si parla di “Friendly ASI”, di superintelligenze amichevoli programmate fin dall’inizio per aiutarci e basta. Insomma, qualcosa di simile a quanto immaginato da Asimov in Io, Robot, con leggi incorporate che impediscono alle macchine di danneggiarci. L’inventore e scrittore Ray Kurzweil prefigura un mondo meraviglioso in cui, con l’aiuto della nanotecnologia, ci integriamo con i computer e condividiamo con loro il futuro, ma naturalmente non ci sono garanzie. Le leggi possono essere abrogate. Il significato iniziale delle programmazioni può cambiare ed è facilissimo commettere errori dal punto di vista antropomorfico, attribuendo alle macchine caratteri umani e fraintendendo la spinta propulsiva intrinseca. Frans era ossessionato da queste domande e come dicevo era anche combattuto, desiderando e insieme temendo i computer intelligenti.»

«Non riusciva a fare a meno di costruire i suoi mostri.»

«Diciamo così, anche se è una formulazione un po’ drastica.»

«A che punto era arrivato?»

«Credo più avanti di quanto potesse immaginare chiunque, e penso che fosse un’altra delle ragioni per cui era così riservato sul suo lavoro alla Solifon. Aveva paura che il programma finisse nelle mani sbagliate e perfino che entrasse in contatto con Internet finendo per confluirvi. L’aveva chiamato August, come suo figlio.»

«E adesso dov’è?»

«Non faceva mai un passo senza tenersi vicino il computer. Probabilmente quando gli hanno sparato ce l’aveva accanto al letto. La cosa preoccupante è che, secondo la polizia, il computer non c’era.»

«Non l’ho visto neanche io. Ma a dire il vero la mia attenzione era rivolta altrove.»

«Dev’essere stato terribile.»

«Forse sai che ho visto anche il killer» continuò Mikael. «Portava un grosso zaino.»

«Brutta faccenda. Ma con un po’ di fortuna magari il computer è saltato fuori in qualche altra stanza della casa. Ho parlato con la polizia solo per pochi minuti e ho avuto l’impressione che non avessero ancora la situazione sotto controllo.»

«Speriamo. Hai idea di chi abbia rubato la tecnologia la prima volta?»

«Sì, a dire il vero.»

«Ecco, questo mi interessa moltissimo.»

«Immagino. Ma l’aspetto peggiore, per quanto mi riguarda, è che anche io ho una parte di responsabilità in questo casino. Vedi, Frans si stava ammazzando di lavoro e temevo che finisse per bruciarsi. Aveva appena perso l’affidamento di August.»

«Quando è stato?»

«Due anni fa, e non faceva che vagare insonne, autoaccusandosi. Eppure non è riuscito a lasciar perdere la ricerca scientifica, anzi: ci si è seppellito come se fosse l’unica cosa che gli restava nella vita e per questo gli ho trovato degli assistenti che potessero sgravarlo di una parte del lavoro. Gli ho messo al fianco i miei migliori studenti. Anche se sapevo che non erano precisamente degli angioletti, erano ambiziosi e pieni di talento, e inoltre ammiravano sconfinatamente Balder. Insomma, sembrava tutto molto promettente, ma poi...»

«È stato derubato.»

«Ne ha avuto la prova, nero su bianco, quando nell’agosto dell’anno scorso all’ufficio brevetti americano è arrivata la richiesta di registrazione della Truegames. Tutte le parti assolutamente uniche della sua tecnologia erano lì, copiate e scritte, e naturalmente all’inizio si sospettava che i computer fossero stati violati da un hacker. Io ero scettica, perché conoscevo il livello di sofisticazione dei sistemi di cifratura utilizzati da Frans, ma dato che un’altra spiegazione non sembrava possibile si è finito per dare per scontato che così fosse. Può darsi che per un po’ l’abbia creduto anche Frans. Naturalmente, però, erano tutte sciocchezze.»

«Ma come?» obiettò Mikael, agitato. «L’intrusione informatica è stata confermata da esperti.»

«Sì, certo, da qualche deficiente dell’Fra che voleva darsi delle arie. Ma in realtà è stato solo il modo che Frans ha escogitato per proteggere i suoi ragazzi, anzi, temo che non fosse solo questo. Sospetto che volesse giocare pure lui al detective, anche se mi chiedo come abbia fatto a essere tanto stupido. Vedi...»

Farah inspirò profondamente.

«Sì?» disse Mikael.

«Ho scoperto tutto un paio di settimane fa. Frans era qui a cena con August e ho percepito subito che voleva dirmi qualcosa di importante. Era nell’aria, e già dopo qualche bicchiere mi ha chiesto di mettere via il cellulare e si è messo a bisbigliare. Devo riconoscere che all’inizio la cosa mi ha irritato. Era l’ennesima tirata sul suo giovane genio dell’informatica.»

«Genio dell’informatica?» ripeté Mikael cercando di mantenere un tono neutro.

«Una ragazza di cui parlava talmente spesso da farmi una testa così. Non voglio annoiarti, ma era una tipa spuntata dal nulla durante le sue lezioni che si era messa a parlare del concetto di singolarità.»

«In che senso?»

Farah sembrò di colpo persa nei suoi pensieri.

«Cosa...? Mah, in realtà non c’entra» rispose poi, «ma il concetto di singolarità tecnologica è preso a prestito dalla singolarità gravitazionale.»

«Che sarebbe?»

«Il cuore di tenebra, dico io in genere: ciò che si trova in fondo ai buchi neri e che è il capolinea di tutto quello che sappiamo dell’universo e forse ha addirittura delle aperture su altri mondi ed epoche. Molti vedono la singolarità come qualcosa di completamente irrazionale e sostengono che per questo deve essere per forza protetta da un orizzonte degli eventi. Ma questa ragazza esplorava metodi di calcolo della meccanica quantistica e diceva che potevano benissimo esserci delle singolarità nude senza orizzonti degli eventi. Insomma, preferirei evitare di approfondire. Comunque ha fatto colpo su Frans, che ha cominciato ad aprirsi con lei, e forse non è difficile capirlo. Un nerd all’ennesima potenza come Frans non aveva molti al suo stesso livello con cui parlare, e quando si è reso conto che la ragazza era anche una hacker le ha chiesto di esaminare i loro computer. Tutte le attrezzature erano in casa di uno degli assistenti, un tizio che si chiama Linus Brandell.»

Mikael decise di nuovo di non riferirle quello che sapeva.

«Linus Brandell» disse soltanto.

«Esatto» continuò lei. «La ragazza è andata da lui, a Östermalm, e l’ha buttato fuori da casa sua. Poi si è data da fare con i computer, senza trovare traccia di eventuali intrusioni. Ma non si è fermata lì. Aveva un elenco degli assistenti di Frans e dal computer di Linus si è introdotta in quelli degli altri, e non ci ha messo molto a capire che uno di loro l’aveva svenduto proprio alla Solifon.»

«Chi?»

«Frans non ha voluto dirmelo, per quanti sforzi abbia fatto per cavarglielo di bocca. Ma evidentemente la ragazza l’aveva chiamato da casa di Linus. Frans al momento era a San Francisco, e puoi immaginarti come si è sentito a quel punto: tradito da uno dei suoi! Io mi aspettavo che denunciasse il colpevole seduta stante, sputtanandolo e scatenando un putiferio, ma a lui è venuta un’altra idea e ha chiesto alla ragazza di fingere di aver riscontrato un’intrusione informatica.»

«Perché?»

«Non voleva che venissero spazzate via tracce o prove. Preferiva capire meglio cosa fosse successo, e nonostante tutto è comprensibile. Il fatto che una delle aziende di software leader a livello mondiale avesse rubato e rivenduto la sua tecnologia era ovviamente più grave della truffa operata ai suoi danni da una mela marcia, uno studente stronzo senza morale. Dopotutto la Solifon non era solo uno dei gruppi di ricerca più rinomati degli Stati Uniti: erano anni che tentava di reclutarlo, e la cosa lo ha mandato in bestia. “Quei pezzi di merda mi facevano la corte e intanto mi derubavano” ha detto, incazzato nero.»

«Aspetta un attimo» la interruppe Mikael. «Voglio capire bene. Quindi secondo te ha accettato di andare a lavorare alla Solifon per scoprire perché e come gli avevano fregato il programma?»

«Se c’è una cosa che ho imparato negli anni, è che non è facile capire le motivazioni delle persone. Anche lo stipendio, la libertà e le risorse hanno avuto la loro importanza. Ma a parte questo, sì, credo sia andata così. Già prima che la tipa esaminasse i computer, Frans aveva capito che la Solifon doveva essere coinvolta nel furto, ma solo quando lei gli ha fornito informazioni più specifiche si è messo a scavare sul serio in quel casino. Naturalmente si è rivelato più difficile del previsto e Frans ha finito per crearsi intorno un alone di sospetto, ritrovandosi sempre più solo e detestato da un numero sorprendente di persone. Ma in effetti ha scoperto qualcosa.»

«Cosa?»

«La questione è estremamente delicata e in realtà non dovrei dirti niente.»

«Eppure siamo qui.»

«Già, e non è solo perché nutro un grande rispetto per le tue doti giornalistiche. Stamattina mi sono resa conto che forse non è stato un caso se stanotte Frans ha telefonato a te e non al gruppo per l’intelligence economico-finanziaria della Säpo, con cui era già in contatto. Credo sospettasse che ci fosse una talpa, lì dentro. Può darsi che fosse paranoia pura e semplice, dato che Frans aveva tutti i sintomi della mania di persecuzione, ma alla fine è a te che si è rivolto, e adesso, con un po’ di fortuna, spero di poter esaudire la sua volontà.»

«Capisco.»

«La Solifon ha una divisione che si chiama “Y”» continuò Farah. «Il modello è quello di Google X, la struttura in cui si occupano dei cosiddetti moonshots, le idee più disparate e campate in aria come la ricerca della vita eterna o il collegamento dei motori di ricerca con i neuroni del cervello. Se c’è un posto in cui arriveranno all’AGI o all’ASI è quello, ed è lì che Frans è stato inserito. Ma non si è trattato di una scelta furba come potrebbe sembrare.»

«Perché no?»

«Perché dalla sua hacker è venuto a sapere che all’interno di Y c’era un gruppo segreto di analisti globali guidati da un certo Zigmund Eckerwald.»

«Zigmund Eckerwald?»

«Esatto, soprannominato Zeke.»

«E chi sarebbe?»

«Proprio la persona che era in contatto con l’assistente che ha tradito Frans.»

«Quindi Eckerwald era il ladro.»

«Direi proprio di sì. Un ladro di alto livello. Visto dall’esterno, il lavoro svolto dal gruppo di Eckerwald era del tutto legittimo. Venivano realizzate analisi dell’attività di scienziati di spicco e di progetti promettenti. Tutte le grandi aziende di high tech portano avanti attività del genere. Si vuole sapere cosa si fa in giro e chi si deve reclutare. Balder però ha capito che quel gruppo andava oltre: non si limitava a mappare, ma rubava anche, attraverso hackeraggio, spionaggio, talpe e bustarelle.»

«Perché non li ha denunciati?»

«Era difficile raccogliere le prove. Naturalmente agivano con prudenza. Alla fine però Frans si è rivolto al proprietario, Nicolas Grant, che si è molto alterato e secondo Balder ha ordinato un’indagine interna. Ma non ne è uscito niente, o perché Eckerwald aveva fatto sparire le prove oppure perché è stata solo una messinscena. Frans si è ritrovato in una posizione terribilmente scomoda e tutta la rabbia è ricaduta su di lui. Credo che Eckerwald abbia giocato un ruolo importante nella vicenda e probabilmente non gli è stato difficile trascinare con sé gli altri. Già allora Frans veniva considerato paranoico e diffidente e a quel punto è diventato ancora più isolato ed emarginato. Me lo immagino senza difficoltà, sempre più scostante e scontroso, che si rifiuta di rivolgere la parola a chiunque.»

«Quindi secondo te non aveva prove concrete?»

«Oh, sì, ne aveva: se non altro quelle che gli aveva dato la hacker, a dimostrazione che Eckerwald gli aveva soffiato la tecnologia e l’aveva rivenduta.»

«E questo lo sapeva per certo?»

«Senza alcun dubbio, pare. Inoltre si era reso conto che il gruppo di Eckerwald non lavorava da solo ma godeva di un supporto e di una copertura dall’esterno, probabilmente dai servizi d’intelligence americani e anche...»

Farah si bloccò.

«Sì?»

«Su questo punto era più criptico, e forse in realtà non sapeva poi molto. Però diceva di essersi imbattuto in un nome in codice, quello della persona che rappresentava il vero capo al di fuori di Solifon. Il nome era Thanos.»

«Thanos?»

«Esatto. Un personaggio circondato da un terrore palpabile, secondo lui. Ma non voleva dire di più. Sosteneva di avere bisogno di un’assicurazione sulla vita per quando gli si fossero gettati addosso gli avvocati della Solifon.»

«Hai detto di non sapere quale dei suoi assistenti l’abbia tradito. Ma devi averci rimuginato su parecchio» disse Mikael.

«Certo, e a volte, non so...»

«Cosa?»

«Mi sono chiesta se non fossero stati tutti quanti.»

«Cosa te l’ha fatto pensare?»

«Quando hanno cominciato a lavorare per Frans erano giovani ambiziosi, pieni di talento. Al momento di smettere erano inquieti e senza entusiasmo per la vita. Forse Frans li aveva spremuti troppo, oppure c’è qualcosa che li preoccupa.»

«Hai i nomi di tutti quanti?»

«Certo, sono i miei ragazzi. Purtroppo, dovrei aggiungere a questo punto. Tanto per cominciare, Linus Brandell, che ti ho già nominato: oggi ha ventiquattro anni e ciondola in giro giocando al computer e bevendo decisamente troppo. Per un po’ ha avuto un buon impiego alla Crossfire come sviluppatore di videogiochi, ma l’ha perso dopo aver cominciato a mettersi in malattia ogni due per tre e ad accusare i colleghi di spiarlo. Poi abbiamo Arvid Wrange, di cui forse avrai sentito parlare. Un tempo era un promettente giocatore di scacchi. Suo padre gli aveva messo addosso una pressione disumana e alla fine lui ne aveva avuto abbastanza e si era messo a studiare con me. Speravo che arrivasse a completare la tesi di dottorato, e avrebbe dovuto farlo da un pezzo, e invece gira per i locali intorno a Stureplan e sembra completamente sradicato. In effetti lavorando con Frans per un breve periodo era rifiorito, solo che tra i ragazzi c’era anche una competizione assurda, e Arvid e Basim Malik, che sarebbe il terzo, avevano finito per odiarsi, o almeno Arvid odiava Basim, che invece di suo non è per nulla portato all’odio, anzi, è una persona sensibile e piena di talento. È stato assunto dalla Solifon Norden un anno fa, ma ha perso l’entusiasmo nel giro di pochissimo. Oggi è ricoverato all’Ersta sjukhus per depressione e stamattina sua madre, che conosco di vista, mi ha telefonato dicendo che è in coma indotto. Quando è venuto a sapere cos’era successo a Frans ha cercato di tagliarsi le vene e naturalmente è una notizia che mi rattrista, ma nello stesso tempo mi chiedo: era solo dolore, o anche senso di colpa?»

«Come sta adesso?»

«Fisicamente è fuori pericolo. Poi c’è Niklas Lagerstedt, e lui... mah, cosa dire? Di sicuro non somiglia agli altri, almeno dal punto di vista esteriore. Non è uno che si rintrona a forza di bere o che penserebbe mai di farsi del male. Ha obiezioni morali nei confronti di quasi tutto, addirittura dei videogiochi violenti e della pornografia. È un membro attivo del movimento missionario. Sua moglie fa la pediatra e hanno un bambino che si chiama Jesper. Inoltre è consulente della Direzione centrale anticrimine per il sistema informatico che sarà inaugurato con il nuovo anno, e questo naturalmente comporta che abbiano fatto verifiche su di lui, anche se non so quanto siano andati in profondità.»

«Cosa te lo fa pensare?»

«Il fatto che dietro quella facciata tanto perbene è un piccolo mascalzone, e anche molto avido. Per puro caso sono venuta a sapere che ha sperperato una parte del patrimonio del suocero e della moglie. Un ipocrita, insomma.»

«I ragazzi sono stati interrogati?»

«La Säpo ha parlato con loro senza che ne sia uscito niente. A quell’epoca si pensava che in effetti Frans avesse subito un’intrusione informatica.»

«Immagino che la polizia li risentirà, adesso.»

«Penso anch’io.»

«Sai per caso se Balder disegnava spesso nel tempo libero?»

«Disegnava?»

«Se gli piaceva ritrarre degli oggetti in maniera dettagliata.»

«No, mai sentito niente del genere. Perché me lo chiedi?»

«A casa sua ho visto un disegno fantastico del semaforo quassù, all’incrocio tra Hornsgatan e Ringvägen. Era perfetto, una specie di istantanea nel buio.»

«La cosa mi sorprende. Frans non veniva spesso in zona.»

«Strano.»

«Già.»

«C’è qualcosa in quel disegno che mi tormenta» continuò Mikael e, stupito, sentì che Farah gli afferrava la mano.

Le fece una carezza sulla testa e si alzò, improvvisamente convinto di aver intuito qualcosa. Poi salutò e uscì, imboccando il sentiero pedonale.

Mentre saliva verso Zinkens väg chiamò Erika e le chiese di scrivere un’altra domanda nel Cassetto di Lisbeth.