Felicità e leggerezza
Nella conversazione precedente abbiamo evocato Eraclito: «È nel mutamento che le cose si riposano». Cosa ci comunica questa frase? Forse che, in un momento primigenio, quando l’esplorazione del mondo era ancora agli inizi, il mutamento non dava ansia, anzi, era una componente del riposo. In chiusura del nostro alfabeto del futuro, Domenico De Masi propone di partire proprio da qui per approdare alla parola finale: felicità.
Noi «disorientati» – abitanti di un mondo in continua fluttuazione – possiamo provare ad appoggiare i piedi nella terra tutta nota e stabile da cui rifletteva il filosofo efesino. E, dipanando il filo da quel punto, possiamo rileggere il significato che abbiamo dato, noi umani, alla parola «felicità» nei due millenni e mezzo che ci separano da Eraclito. In fin dei conti è questa parola – felicità – che, per quanto possa apparire enfatica e sdolcinata, tuttavia rappresenta la musica di fondo, la seducente sirena della nostra esistenza.
Ognuno di noi ama delle frasi, delle definizioni, dei calembours che reputa particolarmente significativi, che perciò tiene a mente e che spesso cita. Per riflettere sulla felicità e sull’evoluzione del suo significato nel corso dei secoli, mi riesce comodo prendere in prestito alcune di queste rapide riflessioni liofilizzate.
Mi è già capitato di fare qualcosa del genere giusto dieci anni fa, quasi per gioco. Mi telefonò il presidente di una banca emiliana e mi propose di scrivere un testo sulla felicità da offrire ai suoi clienti come strenna natalizia. Il testo doveva essere illustrato da una serie di fotografie coerenti con i concetti in esso contenuti. Proposi come fotografo il mio amico Oliviero Toscani e lui accettò l’invito che gli feci in forma di sfida. «Tu sei abituato a fare ritratti perfettamente nitidi; qui, invece, si tratta di fotografare un oggetto come la felicità, per sua natura sfuggente, ambigua, dai contorni imprecisi. Ne sarai capace?» Ovviamente Oliviero vinse la sfida da pari suo e ne venne fuori un piccolo gioiello estetico.
Cominciamo allora da Eraclito.
Quando questo filosofo presocratico dice «È nel mutamento che le cose si riposano» suggerisce, appunto, che c’è stato un tempo iniziale nel quale il cambiamento aveva un significato opposto a quello che gli diamo oggi.
In letteratura noi abbiamo letto Dante e Shakespeare, in filosofia abbiamo letto Kant, abbiamo letto Seneca, abbiamo letto Platone. Eraclito non aveva letto nessuno di questi, non aveva mai visto un film, non aveva mai assistito neppure a una tragedia di Sofocle. Ecco la forza dei presocratici: questo loro piantare bandierine per primi, in una tabula rasa della conoscenza. In un quadro di Picasso c’è tutta quella densità di studio, di lavoro, di rielaborazione, c’è tutto quello spessore storico perché Picasso ha visto Caravaggio, ha visto Michelangelo, ha visto Giotto. In Giotto non c’è altrettanta elaborazione perché Giotto non ha potuto vedere Michelangelo né Caravaggio né Picasso.
Un’alba come quella dei presocratici ci consente di vedere nel mutamento quell’aspetto tranquillizzante che poi noi, man mano, abbiamo distorto fino a degradarlo nell’attuale forma degenerata dell’ansia, dello shock, dello stress. Da questa frase di Eraclito, perciò, possiamo trarre uno stimolo ad affrontare i mutamenti come fasi aurorali e a guidarne gli esiti verso sbocchi felici.
Aristotele ha una sua idea sul tema?
Rispetto a Eraclito sono già trascorsi centocinquant’anni di riflessione sull’infelicità, sul dolore, sulla fugacità della vita. E qui torna utile rifarci al nostro Giambattista Vico, quando dice che il primo atteggiamento dell’uomo verso il mondo e la prima spiegazione che egli ne concepisce è di ordine religioso; quella successiva è di ordine poetico; quella completa è di ordine razionale, filosofico. Quando Eraclito dice la frase che ho riportato nella nostra conversazione sulla longevità, «Il tempo è un fanciullo che gioca», definisce la realtà in termini poetici. Invece con Aristotele siamo ormai a una visione squisitamente razionale, per cui la felicità è tradotta quasi in una lista matematica di attributi contabili: «Possiamo definire la felicità come la prosperità unita alla virtù; come una vita indipendente; o come il sicuro godimento del massimo piacere; o come una buona condizione di beni e di corpo, unita al potere di difendere i propri beni e il proprio corpo e di farne uso. Da questa definizione di felicità consegue che essa è costituita dalle seguenti parti: buona nascita, abbondanza di amici, buoni amici, ricchezza, buoni figli, abbondanza di figli, una buona vecchiaia e una buona condizione fisica, cioè salute, bellezza, forza, alta statura, atleticità, oltre a fama, onore, fortuna e virtù».
Questa lista è tanto più interessante in quanto autorizza ciascuno di noi a farci un nostro elenco personale altrettanto minuzioso delle cose che ci stanno più a cuore, perché da esse, in ordine gerarchico, ci attendiamo maggiori contributi alla nostra felicità. Questo, tra l’altro, è un esercizio che già da solo rende più felici coloro che lo praticano…
Qual è il trucco?
Scopri quante sono le cose di cui puoi fare a meno. È un esercizio che mi ha consigliato il mio amico Frei Betto, prestigioso maestro brasiliano della teologia della liberazione, domenicano, a suo tempo imprigionato e torturato sotto la dittatura che ha dominato il Brasile dal ’64 all’84. Insieme, sotto forma di dialogo, abbiamo scritto un libro intitolato Non c’è progresso senza felicità, dove un ateo e un credente erano stimolati a confrontarsi rispettosamente su alcuni aspetti cruciali della società e della vita.
Durante quello scambio di idee Frei Betto mi svelò il gioco che lui usa fare e che, da allora, faccio anch’io. Ti fermi davanti a una vetrina e valuti quali e quante siano le cose lì esposte di cui non hai bisogno. Scopri che ce ne sono un’infinità. Ci sono tantissime cose che, anche se te le regalassero, risponderesti: «Grazie, ma proprio non saprei cosa farne». Puoi ripetere questo gioco persino nella tua casa, certamente piena di oggetti che non ti servono. Che ne so, guardo questo portacenere e dico: «Ne ho bisogno? No». Il criterio, in questo caso, non è più di ordine estetico – mi piace / non mi piace – ma è di ordine pratico: ne ho bisogno / non ne ho bisogno.
Ovviamente si ha bisogno di bellezza ma ce n’è tanta anche in cose – una nuvola, un tramonto, il quadro in una chiesa – che non costano nulla e che spesso tralasciamo di ammirare. I due giudizi possono intersecarsi. Ci può essere qualcosa che mi serve e mi piace: dunque mi risulta doppiamente gratificante. Ma il consumismo compulsivo ci spinge a comprare comunque, per il semplice impulso ad appropriarci di un bene, anche se non ci serve o non ci piace; persino se non abbiamo i soldi per comprarlo e dobbiamo ricorrere a un debito che poi si trasformerà in assillo.
Tornando alla genealogia della felicità, dopo Aristotele a chi ci è utile prestare ascolto?
Sempre di Aristotele, valorizzerei la frase che dice: «La guerra è in vista della pace, il lavoro è in vista del riposo, le cose utili sono in vista delle cose belle». Se ne deduce che pace, riposo e bellezza sono i tre obiettivi da privilegiare per essere felici.
Più tardi Orazio rifletterà sul tema con tutt’altra ottica, ancora più pratica, come è proprio dei romani. Se vogliamo, è un pensiero meno profondo di quello aristotelico, però è più sanguigno, più rinascimentale. Dice: «Mio caro, finché c’è tempo goditi i beni della vita e non dimenticare mai che i tuoi giorni sono contati. Carpe diem».
Non esiste, quindi, uno stato duraturo di felicità. La felicità non è una linea ma una sequenza discontinua di punti. Se riesci a coglierli al volo, è il loro insieme che ti regalerà una vita, se non proprio felice, comunque meno infelice.
Dal Carpe diem di Orazio al Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico c’è uno scarto di un millennio e mezzo, ma il passo ideale sembra breve.
L’idea di felicità espressa da un poeta come Orazio è vicinissima, quasi ispiratrice di quella di un politico come Lorenzo de’ Medici, quando dice: «Quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia! / Chi vuol essere lieto, sia: / di doman non c’è certezza».
Ma nel Rinascimento regna anche la consapevolezza che la felicità sia un fatto autopoietico, che dipenda, cioè, dal singolo individuo che può costruirsela o la può distruggere: «Tu, come un giudice nominato grazie alla sua onorabilità, sei il creatore e l’artefice di te stesso».
Chi dice questo?
Il filosofo umanista Pico della Mirandola. E aggiunge: «Tu puoi scolpirti in qualsiasi forma preferisci».
Trascorrono quasi trecento anni e si arriva a scrivere la parola «felicità» in un documento politico, la Dichiarazione d’indipendenza dei neonati Stati Uniti d’America. Come avviene?
L’Illuminismo sente il bisogno di trasferire la responsabilità della felicità dall’individuo allo Stato: felice può essere solo il singolo cittadino, ma soltanto lo Stato può assicurargli le condizioni oggettive della felicità. Il singolo, poi, le valorizzerà o meno, questo è un altro paio di maniche.
Siamo nel giugno 1776 e questo scrive Thomas Jefferson nel suo Diario. Poi un mese dopo, il 4 luglio, trasferisce pari pari il suo pensiero nella Dichiarazione d’indipendenza. Che così recita: «Riteniamo che queste siano verità di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro creatore di diritti inalienabili, che fra questi vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità». Lo Stato deve assicurare le condizioni, sta poi all’individuo valorizzarle, ricercando la felicità e, se ne è capace, raggiungendola. È libero di farlo e, se non lo fa, sono problemi suoi.
Naturalmente questo prelude a ciò che sarà, dopo poco, l’utilitarismo inglese. Qui il concetto è che ognuno di noi ha un’idea precisa di cosa sia utile o inutile a sé, di cosa sia utile o inutile agli altri. Per essere felici non bisogna puntare direttamente sulla felicità: «Sono felici solo coloro che fissano la loro attenzione su qualche oggetto diverso dalla propria felicità».
È un cambiamento radicale di prospettiva…
È un punto di vista molto interessante anche perché mette in primo piano i risvolti psicologici, quasi psicanalitici della felicità. Se voglio essere felice – esso dice – devo, per esempio, pormi l’obiettivo di ridurre la fame nel mondo, di aiutare i bambini disabili, di accogliere gli emigrati. Devo insomma fissare l’attenzione «sulla felicità degli altri, sul progresso dell’umanità, su un’arte o su una ricerca considerandole non un mezzo, ma un fine in se stesso». Se mi applico a questo fine come fine ideale «mirando quindi a qualcos’altro» – poniamo, appunto, alla fame nel mondo – troverò «la felicità lungo il cammino». «Chiedetevi se siete felici e cesserete immediatamente di esserlo» dice ancora. «L’unica possibilità di essere felici consiste nel trattare come scopo della vita non la felicità in se stessa, ma qualche fine estraneo a essa.» E questo è il pensiero di John Stuart Mill.
De Masi condivide?
Sì, l’ho sperimentato nel campo della formazione dei miei studenti: finivano per essere felici i giovani che riuscivo a fare appassionare a una ricerca. Quando si riunivano in gruppo per impostare e svolgere il loro compito, quando stavano a lavorare magari fino a notte inoltrata perché scadeva il termine della consegna, quando riuscivano a trovare una spiegazione inedita di un problema sociale, quelli erano i loro momenti felici. Se sei felice nello scrivere un libro non stai pensando alla felicità, stai pensando al libro; ma quando, dopo, ti ricordi quel darti totalmente all’impresa, lo ricordi come un tempo felice.
Continuiamo questa cavalcata nella storia della felicità.
Hegel è ancora più esplicito nell’indicare l’interdipendenza tra la felicità del singolo e quella del suo gruppo di riferimento. In qualche modo si ricollega agli illuministi e ad Adam Smith, quando dice: «Nel corso dell’attuale raggiungimento di fini egoistici», cioè mentre ognuno cerca di fare ciò che gli dà felicità, «c’è un sistema completamente formato di interdipendenze in cui la vita, la felicità e la condizione giuridica di ciascuno è legata alla vita, alla felicità e ai diritti di tutti. Da questo sistema dipende la felicità individuale». Non so se è chiaro: anche se parla di felicità collettiva, Hegel si riferisce a quella individuale perché la felicità è sempre un fatto personale.
Marx lo spiega ancora meglio di Hegel, con una frase che, a mio avviso, resta apicale nel discorso sulla felicità: «L’esperienza definisce felicissimo l’uomo che ha reso felice il maggior numero di altri uomini. Se abbiamo scelto nella vita una posizione in cui possiamo meglio operare per l’umanità, nessun peso ci può piegare, perché i sacrifici vanno a beneficio di tutti; allora non proveremo una gioia meschina, limitata, egoista, ma la nostra felicità apparterrà a milioni di persone, le nostre azioni vivranno silenziosamente, ma per sempre». Questo, secondo me, è il punto più alto cui è pervenuta l’esplorazione umana del concetto di felicità. E non poteva che essere Marx ad attingerlo, perché è stato uno degli uomini che più si è dedicato, con caparbio altruismo, alla ricerca non della felicità propria, ma della felicità collettiva.
Il Novecento sa dire qualcosa di nuovo su questo? Noi «disorientati» sappiamo e possiamo, a modo nostro, essere felici?
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento c’è tutto un ribollire di nuovi fermenti culturali, tutto un susseguirsi e intrecciarsi di nuovi paradigmi. Lobačevskij rinnova la geometria e, come ho ricordato in precedenza, Einstein rinnova la fisica, Picasso rinnova la pittura. C’è Freud che, a proposito del nostro tema, riconosce senza mezzi termini: «Gli uomini lottano per ottenere la felicità». Qualunque cosa essi facciano, alla fine dei conti è questo che desiderano: «Vogliono diventare felici e rimanere tali. Ciò che chiamiamo felicità in senso stretto deriva dalla soddisfazione, prevalentemente provvisoria, di bisogni fino a una certa misura ostacolati». Per Freud, quindi, è l’ostacolo a un bisogno che crea la precondizione della felicità, la quale consiste nel superare l’ostacolo e soddisfare quel bisogno. Comunque, secondo il padre della psicanalisi, la felicità «per sua natura è possibile solo come fenomeno episodico».
E rieccoci a Orazio e al Carpe diem: la felicità può consistere in un attimo, non di più. «Quando una qualsiasi situazione desiderata dal principio di piacere si prolunga, produce al massimo una moderata soddisfazione.» Dunque, la felicità è fugace per sua natura, altrimenti non è più felicità ma semplice soddisfazione, per di più moderata. Nella concezione di Freud la felicità, diciamolo pure, ha la natura di un orgasmo perché «siamo fatti in modo tale che possiamo ricavare un godimento intenso solo da un contrasto e molto poco da una situazione statica».
Sempre in quell’arco di tempo, Nietzsche – che muore proprio nel 1900, l’anno in cui Freud data L’interpretazione dei sogni – va meno per il sottile: «Tutti gli uomini» dice «si distinguono in schiavi e liberi perché chi non dispone di due terzi della sua giornata è uno schiavo». Cosa fanno gli uomini liberi per essere felici in quei due terzi di giornata disponibili? «Il sesso è la felicità che diventa parabola della suprema felicità e della suprema speranza.» Quindi Nietzsche valorizza il sesso non in se stesso, ma in quanto metafora, simbolo, allusione sia della suprema felicità sia della suprema speranza.
Oltre ai filosofi, chi altro possiamo chiamare a testimoniare sul concetto di felicità?
Si può dire che il discorso sulla felicità e l’infelicità rappresenti il minimo comun denominatore di tutta la letteratura, l’arte e la filosofia del Novecento. L’epistemologo Gaston Bachelard, ad esempio, sostiene che la felicità consiste nella dolcezza della rêverie, del fantasticare. A suo avviso il problema non è più questione di beni e di risorse scarse ma è, ormai, un problema di desiderio. Avendo più risorse di quante ne desideriamo, è quasi impossibile avere gli attimi di felicità che derivano dalla soddisfazione dei bisogni. Se hai il frigorifero sempre pieno, non proverai mai grande gusto nel mangiare. Gaston Bachelard dice che la preghiera postindustriale non è più «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» ma «Dacci oggi la nostra fame quotidiana».
Molti ricorrono a una spiegazione analoga anche relativamente alla vita sessuale e connettono il calo di desiderio e di erotismo, tra i giovani di oggi, al fatto che essi non subiscono i divieti di natura sessuale che vigevano in epoca vittoriana e che hanno segnato a lungo le famiglie borghesi. La felicità, a questo punto, dipenderebbe da una serie di fattori: l’immaginazione, l’ozio creativo, la capacità di dare senso alle cose, anche minime. Eccoci, così, dentro il fortilizio della felicità.
Nel mondo dipinto da Bachelard a quali motti possiamo ricorrere per alimentare la nostra rêverie?
Già Mozart, molto prima di Bachelard, aveva detto che «la felicità è solo immaginazione» tagliando, così, la testa al toro. Dunque, la felicità appartiene a chi ha la capacità di immaginarla. Questo comporta, però, che non conta lo spessore dell’oggetto della nostra immaginazione, ma la nostra capacità di dare senso a questo spessore.
E qui chiamo in campo Fernando Pessoa quando dice: «Benedetti siano gli istanti e i millimetri e le ombre delle piccole cose». Con lui il sentimento di felicità si avvicina molto a certe modalità orientali per cui, con la meditazione, valorizzi al massimo anche piccole mutazioni dello spirito, impercettibili interstizi.
Se la felicità è uno stato psichico, in Oriente ne sono maestri…
Si pensi a quanta felicità è racchiusa in una parola brevissima come iki declinata nell’omonimo libro, con sublime raffinatezza, da un intellettuale acuto e coltissimo come il giapponese Kuki Shūzō, morto nel 1941. È lui stesso ad avvertire che si tratta di un concetto difficile da far comprendere ai più, così come è difficile, forse impossibile, spiegare cosa sia il colore a un nato cieco.
Io ho cercato di riuscirci in Mappa Mundi e in Una semplice rivoluzione ma mi sono perso in mille parole per spiegarne una minima e leggera come iki. Per tale, se ho ben capito, si intende la seduzione sensuale, accompagnata dalla tensione, dall’aria conturbante e dalla civetteria, con cui una persona si mette in relazione con un’altra. Non si tratta di un atto sessuale ma di tutto quello che lo precede, soprattutto se non è seguito dall’atto stesso. L’iki è tensione, rilassatezza e seduzione fine a se stessa, è «gioco autonomo, gratuito e disinteressato», amore prima che diventi amore, è rapporto singolare senza attaccamento e senza rimpianto. È grazia, dolcezza, distinzione, modestia e sensualità. È mezzotono vibrante. Fuori del rapporto umano, le espressioni dell’iki sono nell’architettura che è musica rappresa e nella musica che è architettura fluida.
Insomma, nulla a che vedere con la volgarità vistosa, la rozza ostentazione e il languore sdolcinato, le minigonne frequenti e le calze color carne così diffuse nella cultura occidentale.
Io, però, è a questa cultura che appartengo, è da questo punto di vista che mi trovo a parlare.
Andando oltre Pessoa?
Mi piace ricordare Bertrand Russell che nel 1935 raccolse sotto il titolo In Praise of Idleness alcuni articoli già pubblicati su «Harper’s Magazine». In quel delizioso libretto, da noi tradotto come Elogio dell’ozio, attribuiva almeno parte dell’infelicità al nostro stupido rifiuto di cogliere le nuove opportunità offerte dall’industrializzazione: «Abbiamo continuato a sprecare tanta energia quanta ne era necessaria prima dell’invenzione delle macchine. In ciò siamo stati idioti, ma non c’è ragione per continuare a esserlo. La strada per la felicità e la prosperità si trova in una diminuzione del lavoro». Russell intende per lavoro proprio quello brutale, noioso, pericoloso, in cui la fatica fisica sovrasta, condiziona, aliena la mente impedendole di pensare. Di qui la necessità di ridurre l’orario di lavoro man mano che la tecnologia impara a produrre ciò che prima solo l’uomo poteva.
La dolorosa assurdità dell’eccesso di fatica nonostante lo sviluppo tecnologico apparve incomprensibile e ingiustificabile sia a un grande filosofo come Russell sia a un grande economista come John Maynard Keynes, ed entrambi proposero una drastica riduzione dell’orario di lavoro accompagnata da un’intelligente formazione al tempo libero.
Nelle Prospettive economiche per i nostri nipoti, che ho già saccheggiato nella conversazione precedente, Keynes scrive che i lavoratori indefessi porteranno l’abbondanza economica ma, quando non ci sarà bisogno di lavorare più di quindici ore la settimana, «saranno solo coloro che sanno tenere viva, e portare a perfezione l’arte stessa della vita, e che non si vendono in cambio dei mezzi di vita, a poter godere dell’abbondanza».
Il fatto è che ci siamo abituati da troppo tempo a sfacchinare senza divertirci per cui il tempo libero ci appare come vuoto di vita piuttosto che pieno di felicità: «A giudicare dalla condotta e dai risultati delle classi ricche di oggi, in qualsiasi regione del mondo, la prospettiva è davvero deprimente. Queste classi, infatti, sono per così dire la nostra avanguardia, coloro che esplorano per noi la terra promessa e che vi piantano le tende. E per la maggior parte costoro, che hanno un reddito indipendente ma nessun obbligo o legame o associazione, hanno subito una sconfitta disastrosa, così mi sembra, nel tentativo di risolvere il problema che era in gioco».
Dunque, gli spazi infiniti della felicità che il tempo libero ci metterà a disposizione non possono essere sprecati con le scempiaggini inconcludenti delle attuali classi agiate. «Sono certo» conclude Keynes «che, con un po’ più di esperienza, noi ci serviremo del nuovo generoso dono della natura in modo completamente diverso da quello dei ricchi di oggi e tracceremo per noi un piano di vita completamente diverso che non ha nulla a che fare con il loro.»
Ecco disegnato un primo nesso tra cultura e felicità. Bertrand Russell procede nella stessa direzione?
Secondo il grande pedagogista americano John Dewey, «educare significa arricchire le cose di significati» e accrescere, così, la felicità di chi apprende. Sia Keynes sia Russell avrebbero condiviso questo pensiero, dal momento che entrambi facevano dipendere il livello di felicità dal livello di cultura. Prendiamo, ad esempio, questo pensiero di Russell, illuminante nella sua semplicità: «Ho gustato le pesche e le albicocche molto più di quanto le gustassi prima, da quando ho saputo che si cominciò a coltivarle in Cina, agli inizi della dinastia Han; e che i cinesi presi in ostaggio dal grande re Kaniska le introdussero in India, da dove si diffusero in Persia giungendo all’impero romano nel primo secolo della nostra era. Tutto ciò mi rese questi frutti più dolci e mi piacciono molto di più».
Poiché esercito la professione di insegnante, sono perfettamente convinto anch’io che educare alla felicità significhi arricchire le cose di significati. Se al termine di una lezione di due ore gli studenti vedono nelle cose dei significati che prima non vedevano, se nelle albicocche scoprono una testimonianza della storia e degli scambi interculturali, significa che la lezione non è stata vana. Allora, insieme ai miei allievi, provo una consapevole felicità perché ci siamo posti in sintonia e abbiamo condiviso dei significati.
Per me, che sono un intellettuale, tutto ciò significa che ho il privilegio impagabile di possedere una chiave preziosa – la cultura – per regalare e per regalarmi momenti di felicità. Inoltre ho il grande privilegio di vivere qui, al centro di Roma, dove a pochi passi intorno a me ho non solo capolavori di Raffaello, Michelangelo, Bernini e Borromini, ma anche tante cose apparentemente minori che però diventano dense di significato quando ne conosci la storia. Per esempio, qui nel palazzo dietro il Senato abitava il nobile di cui Caravaggio era servitore artistico; così ogni volta che passi lì davanti pensi: «Chissà quante volte anche Caravaggio ha calpestato questa soglia!». O, per restare sempre a lui, la via della Pallacorda, dove si è consumata la tragedia, quel duello che l’ha costretto, poi, alla fuga per tutto il resto della vita. Da casa mia a piazza del Popolo ci saranno cinquanta, sessanta luoghi strepitosi sotto questo aspetto: in via del Corso entri in contatto con Percy Bysshe Shelley e con sua moglie Mary, «figlia dell’amore e della luce», che vi abitarono; in via della Scrofa abitarono san Luigi Gonzaga e Torquato Tasso; in via di Ripetta Eleonora Pimentel Fonseca.
È pensiero di molti che la cultura – intesa come «istruzione» – appartenga più alla sfera del dovere che a quella del piacere. De Masi, in compagnia di Keynes e Russell, la raccomanda invece, a noi del terzo millennio, come ingrediente per la felicità?
Ma anche come pungolo, cruccio, stimolo, obbligo a lottare affinché la cultura resti ingrediente di felicità e non divenga mai né oggetto di mercato né strumento di dominio. In cambio della felicità che la cultura gli offre, l’intellettuale ha il dovere di mai tradire e mai disertare. Il suo compito è di essere molesto, di criticare gli ordinamenti vigenti e indicarne di migliori. Dunque, di farsi dei nemici.
I giovani illuministi che osarono mettere in dubbio l’esistenza di Dio e la potenza del monarca pagarono di persona questa loro doverosa sfrontatezza: Voltaire e Diderot andarono in galera, Rousseau fu esule costante, Condorcet ci rimise la pelle.
Ma, a prescindere dalla missione politica, cosa caratterizza, oggi, il lavoro intellettuale? Quale è la sua consistenza in un’epoca in cui domina la cultura postmoderna?
Una massima zen dice: «Chi è maestro dell’arte di vivere distingue poco fra il lavoro e il suo tempo libero, fra la sua mente e il suo corpo, la sua educazione e la sua religione. Con difficoltà sa cos’è che cosa. Lui persegue semplicemente la sua visione dell’eccellenza in qualunque cosa faccia, lasciando agli altri decidere se stia lavorando o giocando. Lui pensa sempre di fare entrambe le cose insieme». Questa è la migliore definizione di ciò che io chiamo ozio creativo: man mano che noi passiamo dal lavoro fisico e dalla catena di montaggio al lavoro intellettuale, ci è difficile capire se uno sta lavorando, sta giocando, si sta divertendo, sta imparando. Io e te possiamo chiamare lavoro questo che stiamo facendo? Se lo chiamiamo così lo confondiamo temerariamente con quello che è costretto a fare un minatore, un metalmeccanico, un infermiere, un becchino. Perciò ho trovato l’altra espressione – ozio creativo – con cui marcare la specificità del lavoro intellettuale che ormai riguarda i due terzi della cosiddetta forza lavoro.
Torniamo al concetto di felicità e alle massime che ci possono aiutare a coglierne l’essenza. Poeti e romanzieri hanno moltissimo da dirci, naturalmente. Qui chi è utile citare?
Saint-Exupéry esprime in modo dolciastro un concetto che, tuttavia, mi piace: «Se vuoi costruire una nave, non chiamare a raccolta gli uomini per procurare la legna e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito». La frase è da Bacio Perugina, però il senso è valido: se vuoi raggiungere un obiettivo che ha bisogno di uno sforzo collettivo non serve tanto condividere con gli altri un protocollo logico-matematico contrattualmente stipulato, serve quella che i manager si compiacciono di chiamare in inglese mission, la motivazione.
L’antropologia ci offre qualche supporto?
Molti. Basterebbe rileggere Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss o i molti libri preziosi di Darcy Ribeiro sugli indios. Entrambe queste fonti riguardano il Brasile e mi fanno pensare a un altro contributo, sebbene indiretto, che ci viene dal grande antropologo di Recife, Gilberto Freyre, quando dice: «Se dipendesse da me, non sarei mai maturo né nelle idee né nello stile, ma sarei sempre verde, incompiuto e sperimentale». Io credo che un senso di panico venga dal sentirsi compiuti e un senso di felicità, invece, dal sentirsi sempre pronti e quasi obbligati a sperimentare cose nuove, a non ricalcare vecchi sentieri che provocano noia ma tracciarne sempre nuovi che, dopo l’ansia iniziale, offrono l’ebbrezza della conoscenza.
Sociologia, filosofia, antropologia. Quale altra disciplina possiamo chiamare in causa?
La disciplina che io più amo, dopo la sociologia, è l’architettura. Alcuni tra i miei amici più cari – come Filippo Alison, Cesare de Seta, Oscar Niemeyer – sono architetti. Ho collaborato con Giancarlo De Carlo alla progettazione del Villaggio Matteotti di Terni e con Vittorio Gregotti alla progettazione di un centro ricerche della Montedison.
Un pensiero che forse può aiutarci a capire la felicità viene da Le Corbusier, quando dice: «Lo spirito creativo si afferma dove regna la serenità». Non ho mai pensato che la creatività potesse essere favorita da stati d’animo particolarmente tempestosi o sotto l’influsso conturbante delle droghe. Penso che anche i tanti creativi tormentati da una vita infelice abbiano espresso la loro creatività ai massimi livelli proprio nei lucidi intervalli sereni della loro esistenza, nelle parentesi tranquille del loro mondo caotico.
A Napoleone che doveva farsi fare il ritratto, Jacques-Louis David chiese: «Maestà, come vuol essere rappresentato?». Napoleone rispose con una frase napoleonica: «Sereno su un cavallo imbizzarrito». Insomma, persino un genio della guerra e del comando come Bonaparte volle esprimere la sua genialità proprio comunicando questo: «Guardatemi, sono talmente unico da starmene sereno su un cavallo imbizzarrito». L’opposto di certe vite contemporanee, di certi manager, ad esempio, che sono come inseguiti da un tafano, imbizzarriti su cavalli sereni.
Torniamo agli architetti.
Le Corbusier era svizzero e, della sua «svizzerità», ha fatto uno stile: lo stile razionalista, tutto linee e angoli retti. «Ciò che io amo» ha scritto «è la linea retta, la linea più breve fra due punti, la linea creata dall’uomo, la linea dei boulevard […]. La vita della città moderna è tutta impostata, praticamente, sulla linea retta […]. La retta è la direttrice ideale del traffico; è il toccasana, diciamo, di una città dinamica e animata […]. Tortuosa è la strada dell’asino, diritta quella dell’uomo. La strada a curve è un risultato arbitrario, frutto del caso, della noncuranza, di un fare puramente istintivo. La strada rettilinea è una risposta a una sollecitazione, è frutto di un preciso intervento, di un atto di volontà, un risultato raggiunto con piena consapevolezza. È una cosa utile e bella.»
Le Corbusier ormai anziano progettò il Palazzo delle Nazioni Unite insieme a Oscar Niemeyer ancora giovane. Trent’anni d’intensa amicizia con Niemeyer mi hanno insegnato ad apprezzare, insieme alle sue opere, anche il suo pensiero, maturato nella cultura latinoamericana e, anche per questo, diametralmente opposto al pensiero razionalista di Le Corbusier, maturato nella cultura elvetica. Scrive Niemeyer, in chiara antitesi rispetto a Le Corbusier: «Ciò che io amo non è la linea retta, dura e inflessibile, creata dall’uomo. Ciò che io amo è la linea curva, libera e sensuale. La linea che incontro nei fiumi e nei monti del mio Paese, nelle nuvole del cielo, nelle onde del mare, nel corpo della donna preferita. Di curve è fatto tutto l’universo: l’universo curvo di Einstein».
Dunque De Masi si schiera per la linea curva, per la flessibilità e la dolcezza contro la linea retta, l’inflessibilità, l’intransigenza?
Anni fa, conducendo una ricerca sulla creatività collettiva dei maggiori gruppi sia artistici sia scientifici operanti in Europa tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento, mi resi conto che la loro fecondità dipendeva non dalla prevalenza dell’emotività sulla razionalità, o viceversa, ma dalla sintesi quasi magica di acuta fantasia e solida concretezza. Intitolai il libro L’emozione e la regola combinando una frase di Georges Braque («Amo la regola che corregge l’emozione») con una di Juan Gris («Amo l’emozione che corregge la regola»). Braque desiderava una felicità a suo avviso raggiungibile solo mettendo le briglie della ragione ai cavalli esuberanti della sua fantasia; Gris, al contrario, si sentiva bloccato da un eccesso di regole introiettate e sognava di superarle con un impeto emotivo.
Con quali altre massime completiamo l’affresco?
Certamente con Primo Levi e Samuel Beckett. Essi concordano su un punto cruciale per il nostro discorso. Dice Levi: «Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche l’infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore».
La prima parte di questo pensiero è tanto ovvia quanto sorprendente e imprescindibile. Rileggiamola insieme: «Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche l’infelicità perfetta».
Samuel Beckett dice la stessa cosa, ma in modo più fulminante: «Le lacrime del mondo sono una costante, lo stesso vale per i sorrisi».
C’è una frase che Domenico De Masi ha apposto come un motto sullo screensaver del suo computer. È di Paul Valéry…
«Bisogna essere leggeri come un uccello, non come una piuma.»
La piuma è in balia dei venti, è priva di intenti e troppo leggera per poter decidere autonomamente la sua meta e il suo percorso. La rondine, invece, è lei a vincere sulle correnti, sa dove andare e la traiettoria migliore per arrivarci.
Così, a conti fatti, si torna alla fortuna ineguagliabile di cui l’uomo gode perché dotato di una mente capace di capire e di volere. Anni fa organizzai un incontro tra il grande coreografo Maurice Béjart e gli studenti della scuola di specializzazione in management culturale che avevo istituito a Ravello. Avevamo passato in rassegna tutte le cose brutte del mondo e Béjart, nel concludere, esplose: «Malgré la merde, je crois». Una frase così bella che, quando diventai preside di facoltà alla Sapienza di Roma, l’ho fatta scrivere a lettere cubitali nel cortile dell’università.
Per noi «disorientati» è questo il viatico migliore?