Intelligenza e sentimenti
Ad agosto 2017, in vista della conferenza internazionale sull’intelligenza artificiale che si teneva a Melbourne, 116 scienziati ed esperti di tutto il mondo hanno sottoscritto un appello all’Onu contro i «robot killer». Contro, cioè, l’utilizzo a scopi militari dell’Ai. Il rischio da loro prospettato? Che le smart weapons superino, per potenza e velocità, la capacità di noi esseri umani di capirle e governarle. E, quindi, si rivelino il pericolo più letale contro la specie umana. Che cosa può fare un «robot killer» se a usarlo è un gruppo terrorista?
Apocalittici contro integrati? Quell’appello portava la firma, tra gli altri, di Elon Musk, il visionario (supermiliardario) imprenditore di SpaceX, che sogna di colonizzare Marte – non proprio un nostalgico del bel tempo andato –, e sempre in quei mesi a evocare il rischio di scomparsa della nostra specie a opera dell’intelligenza artificiale era stato il teorico del Big Bang e dei buchi neri, Stephen Hawking. In realtà dietro questi appelli si cela un conflitto tutt’altro che teorico: gli attivisti del «no» alle smart weapons, infatti, dicono che il capitale investito nello sviluppo di queste armi si muove a una velocità che azzera ogni – burocratica e lenta – procedura di regolamentazione da parte delle Nazioni Unite. Eccolo, anche qui, lo scontro impari tra turbocapitalismo finanziario e regole di convivenza umana, all’opera da un trentennio…
Può darsi quindi che fra una decina di anni, nella sua versione armata, l’Ai avrà già ridotto noi umani in condizioni di non poter rileggere queste pagine. Ma intanto?
Cerchiamone, anzitutto, una definizione: per il dizionario De Mauro è l’«insieme di studi e tecniche che tendono alla realizzazione di macchine, specialmente calcolatori elettronici, in grado di risolvere problemi e di riprodurre attività proprie dell’intelligenza umana». È la macchina che non si limita a eseguire un compito ma nel farlo «impara» e «decide». Nel piccolo, è quella funzione per cui il nostro smartphone quando digitiamo un sms ci corregge e, alla seconda volta che scriviamo il nome di un’amica, se digitiamo «Eletta» puntualizza che si chiama «Elettra». Ovvero si ricorda che un paio di mesi fa avevamo accarezzato l’idea di una gita a Capri e quindi ci suggerisce tutte le isole del pianeta provviste di faraglioni… Se poi hai l’iPhone, è la premurosa assistente digitale incorporata, Siri. Oppure governa i droni che, come aquiloni senza filo, sempre più di frequente volteggiano in cielo: in missione sulle foreste amazzoniche per filmarne dall’alto l’intrico inesplorato, per esempio, oppure sulle Alpi per aiutare i soccorritori di un escursionista in pericolo, con buio e pioggia, cioè in condizioni fino qui proibitive per un salvataggio. Guida i prototipi di vetture senza conducente in vista del loro lancio sul mercato nel 2020. Ma anche, già, lontano dai nostri occhi è attiva nelle missioni belliche: gli Uav, ovvero Unmanned Aerial Vehicles, droni militari, da un decennio che, con buona pace dei 116 firmatari dell’appello, svolgono il loro compito offensivo dove ci sono guerra e guerriglia, in Siria e Afghanistan, Yemen e Iraq. Portando all’estremo quel processo di «spersonalizzazione» dell’atto di uccidere che si sviluppa dal tempo delle bombe su Hiroshima e Nagasaki. D’altronde, è vero che nella storia la maggiore produzione di invenzioni è stata innescata dalla guerra?
La guerra è un acceleratore. Gli acceleratori sono quelle otto-nove sfide che la Natura ha sempre posto a noi umani – dolore, miseria, noia, solitudine, fame, aggressività, bruttezza, malattie, morte – e che noi, invece di vincere, spesso finiamo per acuire con i nostri errori. La guerra è uno di questi, forse il peggiore.
Ora, se come stiamo facendo parliamo di un mondo che cambia, con un occhio al futuro, quello che ci interessa sono la profondità del mutamento e la rottura con quanto abbiamo vissuto fin qui: in che misura l’Ai ha introdotto un fattore di discontinuità con l’ambiente senza intelligenza artificiale in cui vivevamo fino a ieri?
L’avvento dell’intelligenza artificiale accelera, in realtà, un processo che abbiamo avviato con la società industriale e accelerato con l’avvento della società postindustriale: produrre sempre più beni e servizi con sempre meno lavoro umano. La disoccupazione dimostra, né più né meno, che in molti processi l’intelligenza umana non serve più. Se in Italia hai tre milioni di cervelli inutilizzati, significa che di quei cervelli e della loro intelligenza non c’è bisogno nell’attuale sistema produttivo. Questa è la situazione.
Se finora ci siamo chiesti di quante braccia avevano bisogno le nostre fabbriche, è arrivato il momento di chiedersi di quanta intelligenza ha bisogno l’umanità per soddisfare i propri bisogni. In una bottega del Rinascimento, se c’erano cinquanta lavoratori, quarantotto dovevano essere geniali e bastavano un paio di manovali per coadiuvarli. Nella fabbrica industriale valeva la constatazione dell’economista John Kenneth Galbraith: «La reale conquista della scienza e della tecnologia moderna consiste nel prendere delle persone normali, nell’istruirle a fondo in un settore limitato e quindi nel riuscire, grazie a un’adeguata organizzazione, a coordinare la loro competenza con quella di altre persone specializzate, ma ugualmente normali. Ciò consente di fare a meno dei geni». Dunque bastavano un imprenditore geniale come Henry Ford e un centinaio di ingegneri ben istruiti per produrre milioni di vetture sfornate dalle linee di montaggio, dove migliaia di operai – di «uomini bue», come li chiamava Taylor – controllati a vista da occhiuti capireparto, ripetevano decine di volte all’ora, nel modo più stupido possibile, sempre la stessa operazione elementare. Nel laboratorio del prossimo futuro, infine, basteranno un paio di creativi coadiuvati da alcuni esecutivi e da una quarantina di robot.
Siamo appena reduci, appunto, da una società – quella industriale – che utilizzava molte braccia e pochi cervelli. Questo sperpero di intelligenza che Galbraith considerava una «conquista» a chi era venuto in mente?
A due ingegneri americani – Frederick Winslow Taylor e Henry Ford – che riuscirono a moltiplicare la produttività delle fabbriche riducendo quantitativamente il lavoro umano e semplificando qualitativamente tutto quello che restava, in modo da trasformare l’operaio in un’appendice automatica delle macchine.
Cosa fece l’ingegner Frederic Winslow Taylor?
Taylor è morto nel 1915 e sulla sua tomba, a Philadelphia, è sintetizzato a caratteri cubitali il motivo della sua fama universale: THE FATHER OF SCIENTIFIC MANAGEMENT. Ecco cosa fece quest’ingegnere destinato a segnare con la sua impronta l’intera società industriale: inventò il management scientifico con cui trasferì il lavoro dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, separando nettamente i ruoli direttivi dai ruoli esecutivi, sminuzzando questi ultimi, cronometrandoli e prescrivendoli agli operai senza lasciare loro nessun margine di discrezionalità. Con Taylor il cronometro entrò in fabbrica, se ne impossessò, la regolò e la dominò.
Compito dell’ingegnere organizzatore, in questo disegno, era quello di introdurre metodi e tecniche adatte a ottenere il massimo risultato riducendo sistematicamente il tempo e lo sforzo umano necessari alla produzione, così sottraendo fatica alle attività dell’uomo e scaricandola su macchine automatiche appositamente progettate. Per l’operaio, invece, il lavoro doveva riguardare non lo studio ma la pratica, non l’ideazione ma l’esecuzione, non il piacere ma la fatica.
Quando, in un futuro lontano, tutto il lavoro esecutivo fosse stato scaricato sulle macchine e sull’organizzazione, all’uomo sarebbero rimasti solo il tempo libero, gli hobby e l’attività intellettuale di tipo creativo: «Lo studio e anche l’invenzione» taglia corto Taylor «è un diversivo mentale… un enorme piacere, e non un lavoro».
E cosa vi aggiunse il collega ingegnere Henry Ford?
Dette un altro colpo mortale all’intelligenza umana. Nel 1913, nella sua fabbrica di Detroit, introdusse la catena di montaggio, grazie alla quale riuscì a quadruplicare il rendimento di ciascun operaio. Perfettamente consapevole del fatto che il suo metodo espelleva l’intelligenza dai reparti di produzione, Ford annotò nella sua Autobiografia: «Il risultato netto dell’applicazione di questi principi è la riduzione della necessità di pensare da parte dell’operaio e la riduzione al minimo dei suoi movimenti. Per quanto è possibile, l’operaio fa soltanto una cosa con un unico movimento».
Dunque l’ingegnere di Detroit si rendeva conto che la sua catena di montaggio trasformava l’operaio in un ingranaggio della macchina, usando solo le sue mani, capaci di produrre bulloni, e trascurando la sua testa, capace di produrre idee. Ma subito se ne fece una ragione: «Il lavoro ripetitivo, il fare continuamente, sempre nello stesso modo, un’unica cosa, è una prospettiva terrificante per un certo genere di mentalità. È terrificante anche per me. Io non riuscirei mai a fare la stessa cosa tutti i giorni, ma per altri tipi di persone, e direi forse per la maggioranza delle persone, le operazioni ripetitive non sono motivo di terrore. In realtà, per alcuni tipi di mentalità, pensare è veramente una pena. Per loro il lavoro ideale è quello in cui l’istinto creativo non deve esprimersi. I lavori nei quali occorre mettere cervello e muscoli hanno pochi aspiranti… L’operaio medio, mi spiace doverlo dire, desidera un lavoro nel quale non debba erogare molta energia fisica, ma soprattutto desidera un lavoro nel quale non debba pensare».
Ford non solo considerava superflua, se non addirittura nociva al lavoro, l’«intelligenza naturale» dell’operaio, ma neppure gli occorreva tutto intero il suo corpo: gli bastavano solo alcuni pezzi – una mano, una gamba, due occhi – necessari per completare quel sistema integrato di ruote meccaniche e membra umane che era la catena di montaggio. Nel 1914, per rispettare la quota obbligatoria di invalidi che il governo imponeva alle fabbriche, Ford fece condurre un’indagine dalla quale risultò che i suoi dipendenti potevano essere raggruppati in 7882 mansioni diverse. Meno della metà di queste mansioni richiedeva esecutori di perfetta o di normale condizione fisica mentre 4034 mansioni non richiedevano una piena capacità fisica. Per la precisione, 670 mansioni potevano essere eseguite da persone prive di entrambe le gambe; 2637 potevano essere eseguite da persone con una gamba sola; 2 potevano essere eseguite da persone prive di entrambe le braccia; 715 da persone con un braccio solo; 10 da ciechi.
Qual è stato sul piano sociale il risultato di taylorismo e fordismo?
L’organizzazione scientifica del lavoro ha consentito ai Paesi industrializzati di raddoppiare la speranza di vita e il benessere dei propri abitanti, ma ha comportato pure che l’homo faber prevaricasse sistematicamente l’homo cogitans e ancora più l’homo ludens.
L’imperativo categorico di Ford era la necessità assoluta di «aumentare il benessere dei lavoratori, non facendoli lavorare meno, ma aiutandoli a rendere di più». «Se qualcuno non gradisce lavorare a modo nostro, può sempre andarsene» diceva. Per «aiutare» i lavoratori, egli intendeva costringerli alla catena di montaggio e alla mortificazione totale delle loro facoltà cognitive. Fu grazie a questa espulsione sistematica dell’intelligenza umana dai reparti di produzione che nel 1921 la Ford riuscì a sfornare la sua cinquemilionesima vettura. L’americano medio poteva comprarla con meno di 600 dollari, mentre un’auto Mercedes ne costava 18.000.
L’organizzazione industriale ha trasformato prima i reparti di produzione, poi l’intera fabbrica, poi tutta la società nella Metropolis descritta da Fritz Lang nel suo capolavoro cinematografico del 1927. Ma già prima di Taylor e di Ford, l’imprenditore tedesco Friedrich Alfred Krupp, morto nel 1902, proprietario di una fabbrica d’armamenti che impiegava 46.000 addetti, aveva dichiarato: «Quel che tenterò di ottenere è che niente d’importante avvenga senza la consapevolezza della direzione; che il passato e il futuro prevedibile della vita dell’azienda possano essere conosciuti solo consultando i piani direzionali e senza fare alcuna domanda ad alcun mortale». Praticamente, un’azienda di zombie.
Questo – con totale franchezza o totale cinismo – il pensiero dell’imprenditore. Gli intellettuali che assistettero agli albori della società industriale si accorsero dei costi che la fabbrica chiedeva all’umanità in termini di intelligenza sprecata?
Se ne accorsero socialisti come Owen, che proposero come antidoto la cooperazione e se ne accorsero comunisti come Marx ed Engels che ritennero necessaria la rivoluzione. Ma se ne accorsero anche i maestri del pensiero liberale, soprattutto Smith e Tocqueville.
Adam Smith, ancora in La ricchezza delle nazioni, pubblicato nel 1776, scrive: «Con il progredire della divisione del lavoro, l’occupazione di gran parte di coloro che vivono per mezzo del lavoro, cioè di gran parte della popolazione, finisce per essere limitata ad alcune operazioni semplicissime; spesso una o due. Ma l’intelletto della maggior parte degli uomini è necessariamente formato dalle loro occupazioni ordinarie. Chi passa tutta la vita a seguire alcune semplici operazioni, i cui effetti sono inoltre forse sempre gli stessi o quasi, non ha occasione di esercitare l’intelletto e la sua inventiva nell’escogitare espedienti per superare difficoltà che non si presentano mai. Perciò, egli perde naturalmente l’abitudine di questo esercizio e diventa tanto stupido e ignorante quanto può diventarlo una creatura umana […]. Sembra così che la sua abilità nel suo particolare mestiere venga acquisita a spese delle sue qualità intellettuali e sociali”.
E cosa dice Tocqueville?
La ricchezza delle nazioni è uscito da sessantaquattro anni quando Tocqueville pubblica il secondo libro della Democrazia in America, di cui abbiamo già ricordato un brano nella conversazione su paura e coraggio. In questo passaggio, che vale la pena citare diffusamente, riprende quasi alla lettera il cruccio di Smith circa gli effetti devastanti del lavoro industriale sull’intelligenza del lavoratore e vi aggiunge il confronto con il padrone che, invece, ha tutte le possibilità di raffinare il suo intelletto: «Quando un operaio si dedica continuamente e unicamente alla fabbricazione di un solo oggetto, finisce per svolgere questo lavoro con singolare destrezza; ma perde al tempo stesso la facoltà generale di applicare il suo spirito alla direzione del lavoro. Egli diviene ogni giorno più abile e meno industrioso e si può dire che in lui l’uomo si degradi via via che l’operaio si perfeziona.
«Cosa ci si potrà attendere da un uomo che ha impiegato vent’anni della sua vita a fare capocchie di spillo? E a che cosa si può ormai applicare in lui quella potente intelligenza umana, che ha spesso sconvolto il mondo, se non a ricercare il mezzo migliore di fare delle capocchie di spillo? […] Mentre l’operaio è costretto sempre più a limitarsi allo studio di un solo particolare, il padrone allarga ogni giorno il suo sguardo su di un complesso più vasto; il suo spirito si estende mentre quello dell’altro si restringe. Presto all’operaio basterà solo la forza fisica senza intelligenza, mentre il padrone avrà bisogno della scienza e quasi del genio per riuscire. L’uno rassomiglia sempre più all’amministratore di un vasto impero, l’altro a un bruto».
La figura dell’operaio alla catena di montaggio è tuttora presente in milioni di aziende del mondo, ma è ormai in fase avanzata di superamento.
Una volta trasformati gli uomini in operai-macchine, meno costosi degli artigiani, è stata forte la tentazione e pronta l’idea di sostituirli con macchine vere e proprie, meno costose degli operai. Persino un Paese ricchissimo di manodopera a buon mercato come la Cina, con il piano Made in China 2025, punta alla «produzione intelligente» supportata da fabbriche automatizzate e big data. A tale scopo incentiva finanziariamente sia le aziende produttrici sia quelle fruitrici di robot e di intelligenza artificiale. L’intento è quello di superare, già nel 2020, l’entrata in funzione di oltre centomila robot industriali. Secondo le cifre dell’International Federation of Robotics, nel 2015 la sola provincia del Guangdong aveva già speso 150 miliardi di dollari in acquisto di robot e nel 2016 l’intero Paese ne aveva già adottati 87.000. Attualmente la Cina produce il 30 per cento del mercato globale ed è al tempo stesso il più grande acquirente di robot al mondo. Ad esempio, la cinese Midea ha acquistato la statunitense Paslin, che produce robot focalizzati sulla creazione di auto e, per 5 miliardi di dollari, ha incamerato il gruppo tedesco Kuka, uno dei leader della robotica mondiale.
Ma l’automazione in Cina non è limitata ai processi industriali: ormai ci sono robot impiegati come camerieri nei ristoranti e nei pub, altri fanno da infermieri negli ospedali, altri ancora scrivono articoli per i giornali o svolgono attività di anchormen e anchorwomen nelle trasmissioni televisive. Nel maggio del 2018 a Shanghai ha aperto la prima «banca-robot», senza nemmeno un impiegato umano.
Gli effetti sul mercato del lavoro non si sono fatti attendere: «Negli ultimi tre anni,» secondo un recente articolo del «Financial Times» «l’automazione in alcune aziende cinesi ha sostituito fino al 40 per cento dei lavoratori, evidenziando gli effetti della spinta di Pechino per diventare una superpotenza mondiale nell’intelligenza artificiale». Altri dati: secondo la China Development Research Foundation alcuni centri fondamentali dell’esportazione cinese introducendo l’automazione hanno tagliato il 30-40 per cento della forza lavoro. Una recente indagine condotta da Huang Yu, ricercatrice alla Hong Kong University of Science and Technology, ha rilevato che, nelle quattro grandi aziende che possedevano dati comparativi sull’occupazione prima e dopo l’automazione, il tasso di riduzione della forza lavoro nella linea di produzione oscillava tra il 67 e l’85 per cento.
Ovunque nel mondo la convenienza dei robot è data dal fatto che, rispetto ai lavoratori umani, essi possono svolgere un’ampia gamma di mansioni con maggiore rapidità e precisione, con migliore qualità e meno rischi, lavorando ventiquattr’ore su ventiquattro e sette giorni su sette, senza bisogno di cibo, pause, vacanze o permessi, senza pretendere aumenti salariali e diritti sindacali. Ma in Cina ci sono due motivi in più per accelerare la robotizzazione e l’intelligenza artificiale: in dieci anni il costo del lavoro è triplicato; a causa dell’invecchiamento della popolazione, la forza lavoro attiva, che oggi è di 998 milioni di persone, potrebbe scendere a 800 milioni entro il 2050.
L’intelligenza artificiale sostituirà anche i creativi? E, se avverrà, quali saranno le conseguenze?
Macchine e robot hanno reso superflua molta forza lavoro operaia, mentre i computer hanno reso superflua molta forza lavoro impiegatizia. Ne abbiamo già discusso: solo in Italia il Bancomat ha sostituito più di tremila cassieri; oggi un centro commerciale, molto automatizzato, per ogni posto di lavoro che crea ne distrugge sette.
Il surplus di operai e impiegati ha creato il dramma della disoccupazione: se un tempo il tre o quattro per cento di disoccupati veniva considerato un dato allarmante, poi ci siamo abituati via via a percentuali di due cifre, che tra i giovani del Sud hanno sfiorato il 50 per cento e tra le ragazze meridionali hanno superato il 60. Tutto lascia prevedere che qualcosa di analogo avverrà da qui in poi tra i lavoratori intellettuali, man mano che l’intelligenza artificiale riuscirà a svolgere mansioni di concetto e perfino creative.
Se entro il 2030 saremo un miliardo in più, non è detto che sarà necessario un miliardo in più di cervelli per produrre ciò che ci serve. Può darsi che molte persone, anche se fornite di un’intelligenza eccezionale, non avranno a disposizione le occasioni concrete per dimostrare e impiegare questa loro qualità nei settori produttivi di beni e servizi.
In tutte le epoche c’è stato spreco di intelligenze, o perché l’offerta di posti creativi non si incontrava con la domanda o perché non si offrivano a tutti i creativi l’istruzione e le opportunità necessarie per valorizzare la propria vocazione. Se Leopold, padre di Wolfgang Mozart, non fosse stato musicista ma notaio, avremmo perso un genio musicale; se Dudamel non avesse incontrato José Antonio Abreu e il suo «sistema» musicale, ora forse sarebbe uno spacciatore di droga in qualche favela di Caracas.
Ma allora qual è il vantaggio di portare avanti ricerche – per di più costosissime – per sviluppare l’intelligenza artificiale, se abbiamo a disposizione tanta intelligenza naturale?
Me lo chiedo anch’io. Nel mondo milioni di ragazzi, magari intelligenti o perfino geniali, restano analfabeti per mancanza di scuole, mentre si investono miliardi per creare bambolotti di plastica che riescono appena a balbettare qualche risposta scontata a domandine insulse. Eppure è chiaro che, perfezionando questi bambolotti, investendo su di essi molti più soldi di quanti se ne investano sui ragazzi in carne e ossa, l’intelligenza artificiale renderà sempre meno indispensabile quella umana, almeno per quanto riguarda la produzione di ricchezza materiale. Mentre, però, tutti i lavoratori abbrutiti dalla fatica fisica, eccetto i luddisti, hanno sempre invocato metodi e tecniche capaci di alleviare il loro strazio, l’intelligenza artificiale non è stata invocata dai lavoratori intellettuali che, in linea di massima, non desiderano abbandonare la loro professione, che amano infinitamente più di quanto un manovale o un facchino o un minatore o un becchino amino il loro travaglio.
Il camionista, il chirurgo, l’avvocato, l’insegnante sanno che saranno sostituiti dall’Ai appena essa sarà più destra, affidabile ed economicamente conveniente di loro. Perciò non sono essi a sovvenzionare i laboratori in cui si mira a produrre automi più intelligenti dell’uomo. Le esplorazioni d’avanguardia in materia di Ai o sono portate avanti da ricercatori universitari impegnati nella ricerca pura, che quindi si interessano poco delle ricadute pratiche delle loro invenzioni, o sono promosse da grandi aziende come Google o come Tesla, che investono sul futuro nella certezza di ricavarne profitti stellari.
Quando l’intelligenza artificiale sarà alla portata di ogni azienda, come lo sono oggi i robot, quali saranno le ricadute sulla società?
A mio avviso emergerà via via una nuova struttura sociale di cui già oggi, estrapolandole dall’attuale mercato del lavoro, s’intravedono alcune caratteristiche. Come abbiamo già visto in una conversazione precedente, mentre in passato i ricchi oziavano e i poveri sgobbavano, ora molti imprenditori e top manager lavorano sodo più dei dipendenti mentre i loro rampolli se ne stanno sdraiati, ammazzando il tempo con i social. È probabile che nella nuova struttura i pochi privilegiati avranno lavoro sufficiente a riempire le loro giornate mentre la massa di disoccupati, sempre più scolarizzati e sempre più assistiti con un reddito di esistenza, dovranno riempire il proprio tempo con pigre attività improduttive o dovranno inventarsi nuovi e dinamici modelli di vita. Ciò richiede una vera e propria mutazione della nostra specie, di cui gli «sdraiati» rappresentano un’avvisaglia.
Si porrà allora un problema: sarà cooperativo o conflittuale il rapporto tra le persone intelligenti e autorizzate a dimostrarlo e le persone meno intelligenti o che, pur essendo geniali, non avranno l’opportunità di farlo valere? Possiamo immaginare una specie di città murata, una sorta di campus-astronave come l’Apple Park di Cupertino, all’interno della quale vivono i creativi più fortunati che, con l’aiuto dei robot e dell’intelligenza artificiale, producono tutto quello che serve all’intera umanità, mentre fuori, in un non-spazio attrezzato per il non-lavoro, restano tutti gli altri, gli «inutili», tenuti buoni assicurando loro una sopravvivenza agiata anche se insignificante.
Non è una fantasticheria così paradossale. Gli «inutili» già oggi non sono gli espulsi dal processo produttivo, i licenziati, i disoccupati?
Sì. Ma insieme alla non-occupazione, gli attuali «inutili» hanno l’indigenza. Invece i creativi del prossimo futuro, insieme alle loro macchine potentissime, produrranno tutto il necessario e forse anche il superfluo per tenere buona la massa degli «inutili». Nel peggiore dei casi si ripeterà la situazione sociale della Roma imperiale, quando ricchezze immense arrivavano nella capitale da tutte le periferie dell’impero e la plebe romana – «bestia immane dalle molte teste», come la chiamò, se non erro, Tito Livio – non aveva bisogno di lavorare per vivere. Allora erano le colonie, gli schiavi e gli eserciti che assicuravano alla plebe romana la pace, il frumento e i gladiatori con cui sfamarsi e divertirsi; domani saranno i robot e l’intelligenza artificiale a sostenere e intrattenere gli «inutili».
Quei miliardi di espulsi dal sistema produttivo, in realtà, potrebbero utilizzare la loro intelligenza altrimenti?
Forse è stato l’economista Maynard Keynes, cui piaceva fare lucide e preziose scorribande nei campi della sociologia, a porsi per primo questo problema.
Il progresso era visto da Keynes come un lungo itinerario dell’umanità verso l’intenzionale liberazione dalla fatica fisica prima e dalla fatica intellettuale poi. Dalle origini della nostra storia fino al Medioevo, l’uomo è riuscito a realizzare la propria liberazione dalla schiavitù; dal Medioevo alla prima metà del Novecento ha realizzato la sua liberazione dalla fatica; dalla Seconda guerra mondiale a oggi, finalmente si avvicina alla liberazione dal lavoro tout court.
Secondo un proverbio popolare spagnolo, «hombre que trabaja pierde tiempo precioso». Non so se Keynes conoscesse questo proverbio, certo è che scelse proprio la liberazione dal lavoro come tema per una conferenza tenuta a Madrid nel giugno del 1930, rintracciabile ora nel nono volume dei suoi Collected Writings.
Per quanto lontano dai successivi sviluppi, già nel 1930 il progresso tecnologico doveva apparire a Keynes come un fenomeno portentoso e rivoluzionario, destinato a crescere con un ritmo a valanga. È su questo trend, già percepibile a suo tempo, che l’acuta intelligenza di Keynes impostò il proprio ragionamento profetico: «La disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera. Ma questa è solo una fase di squilibrio transitoria. Visto in prospettiva, infatti, ciò significa che l’umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico».
Man mano che il progresso tecnologico sostituirà le masse lavoratrici, occorrerà redistribuire il lavoro residuo in modo che ognuno possa essere occupato sia pure per un tempo minimo: «Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi». A quel punto, il lavoratore si troverà a disporre di un tempo libero che potrebbe non sapere come impiegare; in altri termini, «per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza».
Si arriverà così alla fase in cui il denaro sarà visto come un semplice mezzo per godere i piaceri della vita e chi insisterà nel considerarlo un fine, dedicandogli una patologica, ripugnante, morbosa passione, sarà consegnato allo specialista di malattie mentali.
Dopo questo periodo di transizione in cui ancora persisteranno l’avarizia, l’usura e la prudenza; mentre ancora alcuni si attarderanno a perseguire impegni intensi e insoddisfatti e altri non sapranno ancora trovare un sostituto plausibile alla ricchezza, l’umanità – profetizza Keynes – saprà finalmente trovare il suo pacifico e fecondo modello postindustriale: «Vedo quindi gli uomini liberi tornare ad alcuni del principi più solidi e autentici della religione e della virtù tradizionali: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro spregevole, e che chi meno s’affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano».
Con l’Ai, quindi, stiamo concludendo il cammino intrapreso un paio di secoli fa oppure ci troviamo catapultati in un mondo nuovo?
Viviamo una nuova discontinuità. Per indicare l’Ai, sento spesso usare il nome di «quarta rivoluzione industriale», come se si trattasse di una semplice continuazione delle fasi precedenti: meccanica, elettromeccanica e digitale. Semplifico al massimo e quasi mi vergogno per la banalità della metafora cui ricorro: immaginiamo che io abbia una prima fidanzata bionda, poi una seconda fidanzata e ancora una terza, anch’esse bionde; se poi ne trovo una bruna, non posso dire che è «la mia quarta fidanzata bionda».
Tra la prima e la seconda rivoluzione industriale la continuità era evidente perché nelle fabbriche si passava dall’alimentazione delle varie macchine tramite cinghie collegate all’asse di un unico motore a vapore, come ai tempi di Taylor, a macchine alimentate ognuna da un suo proprio motore elettrico, come ai tempi di Ford.
Invece il passaggio al digitale è stato un salto in uno scenario inedito e infatti io, a partire dall’impiego dei computer, non parlo di terza e quarta società industriale, ma di «società postindustriale».
L’Ai costituisce un’innovazione radicale anche rispetto a ciò che fino all’altro ieri ci sembrava più futuribile, cioè i robot?
L’intelligenza artificiale non è identificabile con il robot, come si pensa a volte. Durante tutta la sua vita il robot tradizionale sa fare una cosa sola, alla quale è stato predestinato dal suo progettista: per esempio sa avvitare quel determinato bullone o sa suturare quella determinata arteria. L’intelligenza artificiale, ripetiamolo, trasforma il robot in una macchina che apprende: gli fai vedere come si avvita il bullone e quello impara, proprio come farebbe un bambino. Ma poi può anche imparare a svitarlo o a parlarti mentre te lo porge. C’è un netto salto di qualità. Noi ci meravigliamo se un cane obbedisce a un nostro ordine, quando, ad esempio, gettiamo la palla e lui la va a riprendere; ma se paragoniamo questo comportamento semplice e ripetitivo con quello che riesce a fare Maradona con il pallone, si capisce la differenza: il robot tradizionale fa come il cane; il robot fornito di Ai si avvia a fare quello che faceva Maradona.
Dunque, per le macchine, esiste una scala evolutiva?
Nel 1958, quando le aziende non avevano ancora scoperto il computer, J.R. Bright, professore alla mitica Graduate School of Business Administration della Harvard University, pubblicò lo studio Automation and Management, destinato a diventare un classico della letteratura manageriale. Il libro riferiva i risultati di una scrupolosa ricerca condotta in tredici stabilimenti industriali per appurare i diversi, possibili livelli di meccanizzazione. I livelli rilevati furono diciassette e andavano dai lavori fatti con le semplici mani, senza nessun utensile, ai lavori fatti con utensili a mano come una sega, a macchine capaci di autoregolarsi come un termostato, fino a macchine in grado di prevedere le prestazioni richieste e di regolarsi sulla base di queste previsioni.
Oggi Bright dovrebbe aggiungere tre o quattro livelli alla sua scala evolutiva. Noi, per semplificare, possiamo dire che fino a pochissimo tempo fa avevamo dimestichezza con due tipi di macchine: quelle semplici che avevano molti usi e quelle complesse che ne avevano uno solo. A un martello puoi chiedere di battere sui chiodi o, all’occorrenza, di fracassare una testa; al martello pneumatico puoi chiedere solo di sfondare l’asfalto.
E qui aggiungo un’acuta notazione che rubo a Simone Weil: dentro ogni macchina si cela un’ideologia. Se un archeologo, tra diecimila anni, ritroverà il martello, capirà che era pensato per molti usi ed era costruito in modo da essere adoperato nel modo più comodo possibile: quindi, chi lo aveva inventato sapeva di doverlo usare lui stesso. Se invece il nostro archeologo troverà un martello pneumatico, si accorgerà che è più potente di un martello normale ma può svolgere una sola funzione; inoltre è scomodissimo da usare e rumorosissimo: dunque è assai probabile che l’inventore sapesse che non lo avrebbe mai usato personalmente ma l’avrebbe fatto manovrare da un suo subalterno.
Fino a ieri, più la macchina era complessa più era specializzata: il frigorifero serve solo a tenere al freddo gli alimenti, la lavatrice a lavare i panni; l’automobile, è vero, può servirti per andare in ufficio o al cinema o in vacanza, ma comunque svolge sempre la stessa funzione, trasportati da un punto A a un punto B.
Ora stiamo prendendo dimestichezza con un terzo tipo di macchine: quelle capaci di unire la duttilità del martello normale con la complessità e la potenza del martello pneumatico. Con uno smartphone, ad esempio, puoi fare centinaia di cose e, scaricando un’app, puoi aggiungere ulteriori funzioni ancora: puoi ascoltare tutte le radio del pianeta, o sapere in tempo reale a che punto del suo percorso si trova un qualunque aereo di linea in volo. E, se i tuoi contenuti li hai caricati su un cloud, puoi raggiungerli ovunque tu sia, con qualunque computer e una semplice password.
Eccoci dunque a un altro aspetto del passaggio epocale dalla fase industriale a quella postindustriale. Ogni macchina meccanica e elettromeccanica è capace di rispondere a una e una sola domanda: se è frigorifero, tiene freddi i cibi; se è forno li riscalda. Invece ogni macchina digitale, sia essa un notebook, uno smartphone, un apparato di intelligenza artificiale, è in grado di rispondere a molte domande: a più domande di quante io sappia porle.
L’onnipotenza delle macchine è uno dei fattori del nostro – umano – disorientamento?
Di fronte alle novità tecnologiche non reagiamo tutti con la stessa velocità, con la stessa consapevolezza e la stessa fiducia. La curiosità varia da persona a persona e, nella medesima persona, da un campo all’altro. Io nutro molta curiosità per le novità informatiche e non riesco a non entrare in un negozio che espone gli ultimi prodotti; ho amici altrettanto curiosi quando si tratta di automobili, anche se non debbono comprarne una; altri amici non hanno nessun interesse né per i prodotti elettronici né per le automobili ma, se passano davanti a una libreria, non riescono a non entrare per vedere le ultime novità editoriali.
Nel caso dell’informatica, oggi si parla di digital divide non solo tra chi ha dimestichezza con il computer e chi scrive ancora con la penna stilografica, ma anche tra chi si limita a usarlo come una semplice macchina da scrivere e chi spazia tra le sue infinite prestazioni possibili.
Chi ha dimestichezza con le macchine seguendone l’evoluzione e giovandosi del loro aiuto sempre più duttile e intelligente si dota di un supporto formidabile per sconfiggere il disorientamento. Diceva Eraclito: «È nel mutamento che le cose si riposano». E, molto più tardi, con pari saggezza, Voltaire aggiungeva: «Chi non vive lo spirito del suo tempo, del suo tempo si becca solo i mali».
Ma chi resta soggiogato dalle macchine, ne subisce il fascino, ne mutua i ritmi, ne introietta i paradigmi, finisce per scambiare i mezzi con i fini, cadendo nelle inguaribili allucinazioni che Umberto Galimberti ha impietosamente analizzato in un testo fondamentale come Psiche e Techne. L’uomo nell’età della tecnica.
Fin qui abbiamo parlato della versione pacifica dell’Ai.
Alle spalle dell’intelligenza artificiale, così come per molte invenzioni e scoperte, c’è una lunga incubazione avvenuta in campo militare, dove vige il segreto. Solo quando un prodotto è decisamente superato e l’esercito possiede già la versione di gran lunga più potente, esso viene commercializzato tra i civili. Così è per i computer, per i robot e più ancora per l’Ai.
Torniamo, appunto, a questa funzione originaria: all’Ai che sa uccidere. Se digitiamo «drone» e «guerra» su Google, ecco una sventagliata di filmati che ci mostrano piccoli velivoli così come jet capaci di solcare i cieli e agire senza umani a bordo, ma anche la Sea Hunter, la «cacciatrice dei mari», la nave della Us Navy che, da quest’anno, inseguirà senza marinai a bordo i sottomarini nemici. Da un punto di vista militare sono «convenienti» per chi li usa: senza equipaggi, riducono al minimo le spese e il costo delle guerre in vite umane. Da una decina d’anni è ai droni che sono affidate le operazioni militari degli americani in Afghanistan.
Il drone è una serie di cose. Come per un’automobile devi cominciare a dire che ha quattro ruote, una carrozzeria, dei fari, stessa cosa per un drone. Intanto ne esistono centinaia di tipi, a seconda della specializzazione: c’è quello per la caccia e quello per fare riprese cinematografiche.
Il drone non è una semplice invenzione: è il punto d’arrivo di una serie di invenzioni. Al suo interno ha pezzi tradizionali come le ruote, vecchie quanto la Mesopotamia, e cose all’avanguardia come i nuovi materiali. Ma può avere anche un’inedita capacità di autoregolarsi, inseguendo una o più persone che scappano e magari applicando la teoria dei grafi che ottimizza i percorsi.
Nella tecnica regna il processo cumulativo più che in ogni altro ramo del sapere. Non che sia un processo suo esclusivo, ma in essa è preminente. L’accumulazione del sapere c’è perfino nell’estetica: se compari un quadro di Picasso e uno di Raffaello sai quale è stato dipinto prima e quale dopo; ti rendi subito conto che Raffaello non aveva mai visto un quadro di Picasso mentre Picasso ha visto molti quadri di Raffaello.
In che posizione mentale, comportamentale, etica, si trova chi aziona dal Pentagono un drone che uccide in Afghanistan o in Siria?
Immaginiamo che «qualcuno», restandosene negli Stati Uniti, attraverso un video e un mouse azioni il vettore di un’arma potente, precisa, implacabile, mirando sullo schermo a un piccolo bersaglio segnalato da una crocetta, che in effetti si trova dall’altra parte del mondo, in Afghanistan. Quando la bomba giunge a destinazione, sullo schermo la crocetta indica una piccola nuvola bianca. Dentro quella nuvola ci sono morti, feriti che urlano, agonizzanti che gemono. Il «qualcuno» non sente rumori né avverte odori. Spento il computer, torna a casa come un impiegato qualunque e cena tranquillamente con la famigliola.
Così arriva a compimento il processo di spersonalizzazione della morte iniziato con le armi da fuoco e affinato nel Novecento, fino al lancio della bomba atomica.
Pensiamo allo Straniero di Camus. Lì Meursault, condannato a morte, riflette sul macabro rito che lo attende e dice: voi del plotone di esecuzione domani sarete capaci di spararmi perché starete a qualche metro di distanza da me; se doveste appoggiare la canna dei vostri fucili sul mio petto, a distanza così ravvicinata molto probabilmente non avreste il coraggio di premere il grilletto.
In quel caso si trattava di una distanza fisica di una decina di metri tra condannato e plotone d’esecuzione. Nel nostro caso, invece, la distanza tra Stati Uniti e Afghanistan è abissale, psicologicamente più ancora che geograficamente. Chi uccide non è in assetto militare e non si trova nel teatro di guerra: se ne sta in una stanza con l’aria condizionata e la sera cenerà con i suoi, guarderà una serie televisiva di Netflix e parlerà di baseball con i figli.
Si perde l’efferatezza e tutto somiglia sempre più a un game, anzi a uno di quei giochi infantili in cui ci si diverte a fare «bum bum» e ammazzare esseri inventati, piccoli insetti o bambini. Non senti l’urlo. Tu hai dato il via al drone e il drone ha ucciso… È persa definitivamente la parità di condizioni: quella di baionetta contro baionetta; io sbudello te o tu sbudelli me. Quella parità che è stata rispettata perfino nella tauromachia. Perché i picadores stoccano l’osso del collo al toro? Perché altrimenti il torero sarebbe impossibilitato a finirlo. Perché il gioco nell’arena non può durare più di venticinque minuti? Perché in questo lasso di tempo picadores, banderillas e muleta stancano e disorientano il toro, ma il toro ha avuto modo di comprendere le tattiche del torero e, da quel momento in poi, è più forte di lui.
Che cosa succede ai nostri sentimenti, nel nuovo mondo postindustriale?
Le emozioni sono legate, oltre che alla nostra struttura psico-fisica, anche agli accadimenti cui assistiamo, al contesto materiale e sociale in cui siamo immersi, alle categorie del tempo e dello spazio che abbiamo introiettato. Nella lunghissima società rurale la maggior parte dei mutamenti si compivano in un arco di tempo molto superiore a quello di una vita umana. Raramente un principe vedeva portato a termine il palazzo cui aveva dato avvio; raramente un’intera generazione vedeva terminata la costruzione della cattedrale. Ci volevano dieci generazioni perché si cambiasse una tecnica di coltivazione dei campi, mentre oggi in una vita si possono vedere dieci cambiamenti provocati dall’invenzione di altrettanti concimi diversi. Si calcola che l’80 per cento dei prodotti in vendita oggi, dieci anni fa non era stato ancora inventato.
Su quali innovazioni potremo contare – o quali dovremo fronteggiare – nel prossimo futuro?
Gli elaboratori e l’Ai saranno capaci di svolgere tutte le mansioni ripetitive, molte mansioni flessibili, alcune attività creative. Nel 2030, con mille dollari si potrà comprare la potenza equivalente a un cervello umano; nel 2050, con la stessa cifra, si potrà comprare una potenza equivalente a tutti i cervelli umani.
Grazie al genome editing potremo evitare molte anomalie fisiche e grazie alla chirurgia potremo modificare profondamente il nostro corpo. Si produrrà carne di pollo e di maiale senza ammazzare animali, ma partendo dalle loro cellule. Molto più di oggi potremo portare in un taschino tutta la musica, i film, i libri, l’arte e la cultura del mondo, ma resterà il problema di come trasferire questo patrimonio dal taschino al cervello.
Quali tra queste innovazioni condizioneranno maggiormente il nostro modo di pensare e di fare? Ci saranno fattori capaci di influenzare il nostro senso etico ed estetico? E la mutazione entrerà nella nostra sfera più intima, quella dei sentimenti?
La farmacologia ci consentirà di inibire le nostre emozioni e i nostri sentimenti, acuirli, simularli, combinarli. L’informatica affettiva riuscirà a dotare i robot di empatia. La stragrande maggioranza dei lavoratori sarà occupata nel settore dei servizi dove l’affidabilità delle prestazioni e la loro qualità costituiranno il primo vantaggio competitivo. Dunque l’etica dei professionisti costituirà il loro requisito più apprezzato. Come la società industriale è stata più onesta e trasparente di quella rurale, così la società postindustriale sarà più onesta e trasparente di quella industriale. Dunque, se vorremo avere successo, ci toccherà essere galantuomini.
Le tecnologie saranno più precise di quanto occorra a coloro che le useranno: già oggi gli orologi da polso hanno uno scarto di solo un milionesimo di secondo all’anno e sono duecento volte più precisi di quanto occorra ai normali utenti. Dunque il valore di mercato degli oggetti sarà sempre più affidato alla bellezza e alla griffe; quello dei servizi sarà affidato alla puntualità, alla cortesia e all’eleganza. Insomma, la qualità formale degli oggetti interesserà più della loro scontata perfezione tecnica. Perciò l’estetica diventerà uno dei principali fattori competitivi e chi si dedicherà ad attività estetiche sarà più gratificato, anche economicamente, di chi si dedicherà a attività pratiche.
Quali saranno le conseguenze prevedibili nella nostra cultura?
Di molte abbiamo avuto modo di parlare fin qui. L’omologazione globale prevarrà sull’identità locale. Tuttavia, ognuno tenderà a diversificarsi dagli altri per quanto riguarda i desideri, i gusti e i comportamenti soggettivi. La cultura digitale soppianterà quella analogica. La produzione e trasmissione del sapere avverrà secondo il criterio di «molti per molti»: come in Wikipedia o in Facebook, tutti contribuiremo alla produzione di informazioni e di idee e tutti ne fruiremo.
Il significato di paternità, maternità, parentela e figliolanza sarà più incerto di oggi. Valori ritenuti tipicamente femminili come l’estetica, la soggettività, l’emotività e la flessibilità, colonizzeranno anche gli uomini. Negli stili di vita si diffonderanno la sexual fluidity, la pansessualità e l’androginia.
Il concetto di privacy tenderà a scomparire. Sarà quasi impossibile dimenticare, perdersi, annoiarsi, isolarsi. La componente umana resterà fondamentale per codificare, monitorare, regolare, mantenere e riparare le macchine. L’invadenza delle tecnologie farà salva l’esigenza umana di creatività, estetica, etica, collaborazione, pensiero critico e problem solving.
Nel 1759 Adam Smith, che durante queste nostre conversazioni abbiamo più volte citato in relazione al suo celebre saggio sulla Ricchezza delle nazioni, pubblicò un libro rimasto meno noto, dal titolo Teoria dei sentimenti morali. In esso l’autore sosteneva che, nella lista di tali sentimenti, alla simpatia suggerita anche da Hume occorreva aggiungere il dovere, l’obbligo, l’autocontrollo e la coscienza, coerenti con i suoi tempi.
Nei trentuno anni successivi alla prima, Smith pubblicò altre cinque edizioni della Teoria, sempre rivedendola e ampliandola. In tutto quell’arco di tempo il progresso tecnologico si limitò a sostituire i contadini e i tessitori con le trebbiatrici e i telai meccanici. Oggi, se Smith dovesse preparare la settima edizione della sua opera morale, tenendo conto dello sconvolgimento culturale prodotto dalle macchine digitali e dall’intelligenza artificiale, e volendo contribuire alla sconfitta del disorientamento, sarebbe costretto ad aggiungere nel suo repertorio dei sentimenti morali anche l’onestà, la trasparenza, l’estetica, l’empatia e il coraggio.
I sentimenti, questi modi diversi di percepire con i sensi e col cuore, questi stati d’animo al tempo stesso cognitivi e affettivi, più tenaci delle semplici emozioni e meno struggenti delle caustiche passioni, equidistanti dall’ingannevole emotività e dalla fredda razionalità, possono aiutarci ad attingere quel livello di conoscenza che, secondo Leibniz, coincide con la felicità mentale e, secondo Bergson, svela l’essenza vera della realtà.
Se l’emozione confonde, il sentimento comprende e, dunque, può offrirci un grande aiuto nella lotta contro il disorientamento e nella ricerca dei paletti mentali e sociali cui ancorarci per procedere sicuri nel nostro cammino, depurato dall’angoscia e dall’insensatezza.