Androginia e generi

Dal 1962 nel pianeta ci sono più uomini che donne. Da allora il divario di genere, in termini numerici, è andato allargandosi e in questi anni del nuovo millennio, sulla Terra, stando ai World Population Prospects elaborati dal dipartimento per gli Affari economici e sociali dell’Onu, vivono 100 donne ogni 101-102 uomini. A metterci il buon peso sono in particolare l’India e la Cina: nella penisola indiana gli individui di sesso maschile sono 43 milioni più di quelli di sesso femminile, in Cina 50 milioni. Madre Natura non c’entra: in India si pratica l’infanticidio delle neonate, in Cina la politica del figlio unico ha provocato una massa di aborti selettivi con scarto degli embrioni a doppio cromosoma X.

Al contrario, però, nel frattempo in Occidente l’allungamento della vita premia le donne. E questo ha le sue conseguenze sulla condivisione del potere… Di qua al 2030 che cosa succederà su questo piano?

De Masi usa una parola che accenna a una fusione: androginia. Perché la considera il termine giusto?

Se vogliamo diradare il nostro disorientamento, dobbiamo ancorarci a una lettura razionale della realtà in cui siamo immersi, coglierne il trend storico e gli eventuali segni positivi.

In termini numerici il divario tra i due sessi c’è, ma non è l’aspetto più rilevante. Immaginiamo una bilancia, su un piatto tutti i maschi, sull’altro tutte le femmine: anche se dal punto di vista del peso fisico fossero in equilibrio, dal punto di vista del potere il piatto maschile penderebbe incredibilmente di più.

In realtà ci vorrebbero tante distinte bilance, una per l’Occidente europeo, una per i soli Paesi scandinavi, una per l’Islam, una per l’Africa e via di seguito. Ho sotto mano una foto di gruppo del governing council della Banca centrale europea, cioè il presidente Mario Draghi assieme ai 24 membri. Ebbene, sono 25 persone di cui 23 maschi vestiti di nero; una, la cipriota Chrystalla Georghadji, indossa un completo scuro per mimetizzarsi tra tutti i colleghi maschi; l’altra, la tedesca Sabine Lautenschläger, osa esibire coraggiosamente, su un pantalone nero, una sgargiante giacca rossa. Ho anche una foto di gruppo dei governatori e dei ministri delle finanze che guidano il Fondo monetario internazionale: su 111 membri, 7 donne; però qui cominciamo a registrare una novità: presidente è l’economista Christine Lagarde.

Ci troviamo quindi nel pieno di un processo evolutivo?

È chiaro che in alcune zone del mondo nell’ultimo secolo lo squilibrio tra i due piatti della bilancia è andato diminuendo. Se poi usiamo bilance diverse, quella in cui mettiamo soltanto la borghesia, quella in cui mettiamo soltanto il proletariato, quella in cui mettiamo soltanto i contadini ecc., registriamo situazioni differenti. È noto che nel mondo rurale la donna ha molta più importanza che non nel mondo industriale: è lei che genera i figli, cioè le braccia, è la matriarca cui si tributa ossequio. Nel mondo industriale, invece, la donna, considerata fisicamente debole, restava in casa mentre il marito andava a lavorare. Bisogna risalire a Roma e alla Grecia per trovare un’emarginazione del sesso femminile forte quanto quella dell’epoca industriale.

Cosa sta succedendo adesso? Il transitare progressivo da una situazione di totale gregariato a una rivendicazione di diritti, di parità, ma anche oltre: di rispetto, cioè, della specificità dei due sessi. E il prossimo traguardo è significativo: nel 2030 nel mondo le donne, in media, vivranno tre anni più degli uomini.

Nella nostra parte di pianeta il divario non è già ora maggiore?

Senza dubbio. In Italia, ad esempio, siamo a sei anni di distanza tra i maschi e le femmine. Le già citate statistiche demografiche dell’Istat registrano che oggi ci sono 750.822 vedovi e 3.737.232 vedove.

E si dice che, nel 2030, le donne degli Stati Uniti controlleranno i due terzi dell’intera ricchezza.

La ricchezza, insomma, sarà nelle mani delle vedove dei magnati del Web, la vedova di Steve Jobs e man mano le altre?

Quelle sono già azioniste. Il dato più significativo è che nel 2030 saranno di sesso femminile il 60 per cento degli studenti universitari, il 60 per cento dei laureati, il 60 per cento dei possessori di master.

La redistribuzione di ricchezza tra i sessi cosa comporterà sul piano dei costumi?

Molte donne sposeranno uomini più giovani. Noi uomini sposavamo donne più giovani per avere maggiore sicurezza di un erede e una badante gratuita durante la vecchiaia, oltre a godere di una compagna più bella e meno deteriorata di noi.

C’è una logica naturale nella tendenza in atto: se gli uomini muoiono prima non è illogico sposarne uno più giovane, no?

Ma è soprattutto una questione di potere. Molte donne, poi, avranno un figlio senza avere un compagno o un marito. Questo è un passaggio epocale perché gli uomini, invece, non potranno avere figli senza far ricorso a una donna, fosse pure un utero in affitto. Per tutto questo le donne saranno al centro del sistema sociale.

Già nel 2030?

Già oggi la maggior parte delle attività di formazione e delle attività creative – moda, televisione, cinema, design – è in mano alle donne.

E soprattutto, con sei anni in più di vita, c’è poco da fare: ogni uomo sposato lascerà dietro di sé una vedova che per sei anni farà il bello e il cattivo tempo. Erediterà i beni materiali. Ma anche, mettiamo, la biblioteca e gli scritti nel caso di uno scrittore. Potrà essere una vedova che, come la moglie di Italo Calvino, amministrerà la sua memoria o che, come la moglie di Mozart, non metterà neppure una croce sulla tomba del marito, sicché oggi i mozartiani come me non sanno dove portargli dei fiori. Non è di poco conto il fatto che la memoria di lui sarà nelle mani di lei, non viceversa.

Le donne saranno al centro del processo sociale. E possiamo prevedere che vorranno gestire il potere con la durezza ispirata dai torti subiti nei millenni precedenti.

Proviamo a fare un conto: nelle civiltà mediterranee l’ultima traccia di potere matriarcale è quella lasciata da Hatshepsut, la faraona della diciottesima dinastia che regnò nel XV secolo a.C. Una rinascita del potere femminile che cosa comporterà?

Mentre nell’uomo venivano inculcati soprattutto l’aggressività e la competitività, i valori che storicamente sono stati coltivati nella donna – cioè l’estetica, la soggettività, l’emotività e la flessibilità – finiranno per colonizzare anche gli uomini. Perciò io parlo di androginia e non di femminilizzazione.

È un sistema di vasi comunicanti?

Certo. D’altra parte, persino sul piano fisico, noi maschi abbiamo una parte femminile difficile da spiegare: perché abbiamo i seni? L’ho chiesto a vari etologi, anche famosi. Con questi seni sembrerebbe che in qualche epoca lontana abbiamo allattato e che poi il non uso abbia atrofizzato l’organo. Il quale, però, non è scomparso del tutto. Stessa cosa si può dire per il clitoride nella donna.

Negli stili di vita si diffonderà la sexual fluidity, cioè il frequente scambio di ruoli, ma anche il frequente scambio di propensioni, per esempio, al trucco o al profumo. Finora, se una coppia usciva per andare a teatro e uno dei due portava il profumo, era la moglie; ora, invece, può essere pure il marito.

Si diffonderanno pansessualità e androginia. Tutto questo eserciterà una serie di influenze su tutti i settori della nostra vita sociale, a cominciare dal mercato del lavoro dove, praticamente, si sta quasi raddoppiando la popolazione attiva.

Che cosa si intende esattamente con questa espressione?

Per prassi, chiamiamo popolazione attiva quella tra i quindici e i sessantacinque anni che non rientra in determinate categorie: non è incluso nella popolazione attiva chi studia, non lo era chi faceva il militare di leva, non lo sono i carcerati, non lo è l’inabile e non lo è la casalinga «esplicita».

«Esplicita»?

Con questo termine indichiamo la donna che fa la casalinga e basta, che ha come principale occupazione lo svolgimento delle faccende domestiche; quella di cui il marito di solito dice: «Mia moglie non lavora, sta a casa». «Implicita», invece, è la casalinga che fa l’operaia, la manager o la giornalista ma che, contemporaneamente, cura i figli, cucina, insomma svolge sistematicamente attività di governo della famiglia e della casa. Negli ultimi decenni il numero delle casalinghe esplicite si è ridotto notevolmente a favore di quello delle casalinghe implicite.

Fu negli anni Ottanta che, quasi da un anno all’altro, l’Istat si ritrovò con 11 milioni di disoccupati in più perché 11 milioni di casalinghe si erano dichiarate non più tali, ma appunto «disoccupate». Oggi quante sono le casalinghe in Italia?

Le donne che si autodefiniscono «casalinghe» sono circa 7 milioni, pari al 23 per cento del totale, mentre le donne «lavoratrici» sono 9,6 milioni. Le casalinghe sono prevalentemente meridionali, anziane e hanno limitato i loro studi alla scuola dell’obbligo. Rappresentano un gruppo sociale in progressiva diminuzione, tanto che dieci anni fa erano mezzo milione in più e oggi quelle con meno di 34 anni sono appena l’8,5 per cento. Anche queste vorrebbero sfuggire alla condizione casalinga ma non riescono a trovare un lavoro extradomestico.

In casa, invece, di lavoro ce n’è tanto, anche se non viene riconosciuto e retribuito. Una casalinga svolge mediamente 2539 ore di lavoro l’anno, mentre tutti gli altri lavoratori ne svolgono 1725. Secondo un rapporto dell’Istat, sette milioni di casalinghe, da sole, effettuano un numero di ore di lavoro non retribuito pari a quello di 25 milioni di uomini.

La casella «casalingo» esiste, nelle statistiche, per gli uomini?

La differenza è questa: secondo l’Istat un uomo che lavora fa parte della popolazione attiva; se perde il lavoro, diventa disoccupato, ma pure così, se cerca un nuovo lavoro, resta inserito nella cosiddetta popolazione attiva. Sta a lui, se vuole, dichiararsi «casalingo». Invece la donna che perde il lavoro ha davanti due opzioni: può cercarne «attivamente» uno nuovo, quindi passare per esempio dall’ufficio di collocamento, e in quel caso è una disoccupata in cerca di impiego e resta nella popolazione attiva; oppure può non farlo, e in questo caso diventa automaticamente «casalinga». Fuori dalla coorte «attiva».

Chissà quanti sanno, oggi, che dietro queste caselle si nasconde un dibattito che continua da mezzo secolo. Riconoscere il lavoro di cura come lavoro a tutti gli effetti? Dare stipendio e pensione alla donna che lo compie? Oppure lottare perché sia equamente diviso tra i due sessi? E, ora che esistono le unioni civili tra omosessuali, quali differenze porteranno queste unioni lì, nella divisione del lavoro domestico? E questo peserà sul piano statistico?

Torniamo però a spiegare il tema di partenza, l’androginia.

Come ho detto, sul piano della cultura stiamo assistendo e assisteremo sempre più a questo travaso di propensioni: quelle doti che si attribuivano alla donna – comportamenti, secondo me, più indotti dall’educazione che dalla natura – sono sempre meno estranee anche ai maschi. Molti, per esempio, curano il proprio corpo, mentre prima era indice di «effeminatezza»: questo il termine che si usava in senso dispregiativo, per definire l’adozione di alcune abitudini, di alcuni comportamenti usualmente femminili. La moda collabora: giacche coloratissime, perfino la gonna per maschi.

Certo la moda sempre più destrutturata, informale, contribuisce ad avvicinare gli stili dei due sessi.

Contribuisce ma non costringe. La moda in se stessa sta declinando perché i produttori hanno sempre meno bisogno di omologare i consumi. Il motivo è squisitamente tecnico. Le macchine di un tempo, meccaniche ed elettromeccaniche, erano pensate per un certo prodotto specifico: ad esempio, per fare una stoffa di una certa dimensione e a quadrettini di un certo colore, per cui riuscivano a fare sempre e solo stoffe di quella dimensione e di quel colore. Dunque, per smerciarle, occorreva creare la moda dei vestiti a quadrettini e per creare questa moda occorreva fare indossare un abito del genere a Brigitte Bardot. Oggi la macchina è elettronica, a controllo numerico, per cui tu puoi dire alla stessa macchina di farti sette metri di stoffa di un colore e di un disegno, cinque di un altro, quindici di un altro ecc. L’azienda produttrice non ha più nessun bisogno d’imporre tutti abiti a quadrettini o tutti eschimo verdi, perché le è economicamente indifferente farli verdi, gialli o rossi. La tendenza è arrivare a dire: «Che colore vuoi? Te lo faccio».

Seguendo questa breve divagazione, l’ultima invenzione è stata quella del marchio spagnolo che professa la «disuguaglianza» e mescola una serie di elementi – a patchwork – in modo diverso in tutti i pezzi che produce, vestiti, scarpe, borse, costumi. Così siamo tutti uguali nel vestirci disuguali?

Oggi le aziende tendono a produrre serie di piccole serie. Ci troviamo, cioè, in mezzo al guado. Nell’epoca industriale alle aziende conveniva sfornare prodotti in grandi serie, come la famosa Modello T della Ford, che gli americani chiamavano amichevolmente Tin Lizzie, cioè «lucertolina di latta», o Flivver, cioè «macinino», di cui si produssero 15.007.033 esemplari pressoché uguali dal 1908 al 1927. Come milioni di donne furono indotte a vestirsi con abiti a quadretti per identificarsi con Brigitte Bardot, così milioni di operai e impiegati furono indotti a comprare una Modello T per corrispondere allo slogan di Henry Ford: «Gli americani possono scegliere automobili di qualsiasi colore, purché le scelgano nere».

Nella nostra società postindustriale, dove la produzione è affidata a macchine digitali di sconfinata flessibilità, posso fare ciò che ha già fatto la Fiat al Salone dell’auto di qualche anno fa: posso dirti di suggerirmi tu stesso, acquirente, il colore della tua Cinquecento. Blu di Prussia? Eccola.

Nell’attuale fase di transizione tra la produzione in grandi serie e la produzione totalmente personalizzata, si ricorre alle serie di piccole serie: un milione di abiti né tutti uguali né tutti diversi, ma cinquemila in un modo, settemila in un altro…

Forse la prima azienda a inaugurare questo metodo con successo è stata la Swatch, che ha fatto un lancio stagionale dei suoi orologi, proprio come le case di moda, e in numero limitato. Ciò ha indotto al collezionismo, che la Swatch ha alimentato arrivando persino a «deserializzare». Ad esempio, questo orologio totalmente nero che mi ha regalato mia figlia, con le ore praticamente invisibili, prodotto in un numero minimo di copie e ormai introvabile, è diventato una rarità ricercata come il famoso francobollo Gronchi rosa.

Dunque, mentre le donne, da qui al 2030, incrementeranno il proprio potere, agli uomini che cosa succederà?

Il potere, come si sa, è a somma zero. Questo significa che mentre la donna è in una fase gloriosa, il maschio è in una fase penosa… Perdere il potere è molto più brutto che conquistarlo. So che noi maschi stiamo subendo una punizione per angherie inferte alle donne lungo migliaia di anni precedenti, ma ciò non toglie che si tratti di una punizione dolorosa.

Si pensi, ad esempio, al disorientamento sessuale: l’uomo si è abituato per millenni a essere il cacciatore, con la donna costretta a fare da preda. Oggi invertire i rapporti appare al maschio quasi come un comportamento contro natura. L’aumento così rapido di coppie omosessuali tra i maschi, e ho avuto modo di parlarne con i miei studenti, forse è dovuto anche al fatto che l’uomo ha ormai una sorta di paura a prendere l’iniziativa del rapporto sessuale con una donna di cui si sente inferiore dal punto di vista della vitalità, della cultura e dell’autostima.

La paura della non prestazione, una profezia che si autoavvera… Così crescono i rapporti gay tra i maschi e, anche per riflesso, quelli lesbici tra le donne. Da una parte cresce la paura, dall’altra diminuiscono le barriere psicologiche.

Sul piano del costume è stata superata un’altra frontiera: le riviste di gossip ora hanno alcune pagine dedicate alle coppie lei & lei, lui & lui. Fino alla scorsa estate il piatto forte erano classiche storie di adulterio o topless colti «all’insaputa» dell’interessata. Ora, sotto lo stesso titolo «L’estate rovente di…» si trovano coppie gay paparazzate in barca o in spiaggia. Dà l’idea che stia avvenendo per questa strada il definitivo sdoganamento dell’omoerotismo. Però viene da chiedersi: le coppie omosessuali erano così numerose già prima oppure la questione concerne solo i media? Cioè, semplicemente, ora se ne parla e prima no? In particolare per il lesbismo, perché l’omosessualità femminile è stata il vero tabù.

Tutto questo messo insieme, probabilmente. Io credo che nel maschio ci sia la difficoltà di gestire un comportamento completamente nuovo della donna, non più preda che fugge – o finge di fuggire – per cui accresce il desiderio del maschio, ma cacciatrice a sua volta. C’è sempre stata la donna che incoraggiava l’uomo a corteggiarla: tutta la letteratura e tutta l’opera lirica vertono su questo. Oggi il problema è diverso: la donna, se le piace un maschio, lo corteggia.

Un diciottenne attuale darebbe per scontato che a farsi avanti sia la donna.

No, non è scontato che sia così; è scontato che possa essere così. È diverso. Ormai è del tutto normale sia che l’uomo corteggi la donna, sia che la donna corteggi l’uomo. Ma quando lui è corteggiato da lei, ha delle reazioni strane; mette in atto una fuga ben diversa da quella simulata della donna, che fingeva di fuggire per farsi inseguire: fugge davvero e fugge per paura. Mi diceva giorni fa la figlia di una mia amica, molto carina: «Ho corteggiato sere fa un uomo e quando gli ho detto “Vengo da te al mare, nella tua casa in Sardegna, così stiamo insieme” lui immediatamente si è dileguato». Ai miei tempi, la fortuna di una donna che ti diceva «Vengo da te in Sardegna» sarebbe stata considerata un miracolo di san Gennaro.

A questo punto, quali sono le soluzioni per il maschio in fuga?

Qui ci vorrebbe uno specialista come Francesco Alberoni. Io sono sociologo e di queste cose non mi intendo. Forse un giovane di oggi vuole riservarsi gelosamente alla principessa azzurra che spera di incontrare.

O ricorre alla masturbazione che – a quanto ho sentito da alcune studentesse – comincia a essere la loro maggiore concorrente, il ripiego maschile più frequente, supportato da Internet con siti come YouPorn. O al limite ripiega nei rapporti omosessuali, magari con un amico che ha avuto un’analoga frustrazione.

Più di una ragazza mi ha detto di avere una difficoltà oggettiva a trovare un uomo con cui fare l’amore. Di certo, in questo campo, c’è una mutazione rivoluzionaria rispetto alla dimensione canonica che ho vissuto io da ragazzo.

Sul piano sessuale la novità cruciale nell’ultimo mezzo secolo – stiamo celebrando i cinquant’anni dal Sessantotto – è stata lo sdoganamento del desiderio femminile. Prima una donna non poteva dire di provare desiderio sessuale…

La domanda da farsi è: a cosa attribuire questa liberalizzazione?

Al fatto che abbiamo mandato i padri al macero? Al femminismo? Ma appunto, fra tutte le rotture col passato questa è una delle meno dette e ricordate: il desiderio sessuale delle donne ha ottenuto diritto di cittadinanza.

Cinquant’anni dopo non bisognerebbe cominciare a chiedersi se questo abbia prodotto maggiore ricchezza nelle vite sessuali di donne e uomini, maggiore piacere?

Credo che la data cruciale di questa rivoluzione sia stata il 1961, quando venne diffusa la pillola anticoncezionale. Fu un mutamento scientifico con un marcato risvolto politico. Prima ogni rapporto sessuale era accompagnato dal pensiero di una possibile gravidanza, aggravato dal divieto dell’aborto. Di qui tutta l’enfasi sull’importanza della verginità femminile e tutta l’emarginazione punitiva della ragazza-madre, per dissuadere altre giovanissime dal cadere in un peccato così poco conveniente sul piano economico prima ancora che reputazionale. Contemporaneamente erano bollati anche gli atti sessuali «contro natura», cioè non finalizzati alla procreazione, ma tuttavia pericolosi perché facili a trasformarsi in atti «secondo natura». Quella che si pretendeva era l’astensione totale da ogni rapporto erotico: l’erotismo doveva restare un desiderio represso. La purezza era considerata la virtù per eccellenza, la «bella virtù»: difenderla come ha fatto santa Maria Goretti, o anche solo praticarla come ha fatto san Domenico Savio, valeva una beatificazione o una canonizzazione.

Che ruolo hanno svolto i media in tutto questo?

Negli anni Sessanta il monopolio televisivo della Rai mutuava e diffondeva solo il morigerato verbo cattolico. Negli anni Settanta l’avvento della televisione privata sostanzialmente non ha modificato la pedagogia sessuale dei nostri media. Drive In della Fininvest è stato più generoso in seni e cosce, mutuando questa abbondanza dal mensile americano «Playboy» che ormai circolava anche in Italia, insieme al più efebico e raffinato «Playmen» nostrano.

Sono stati invece alcuni film a sdoganare non solo l’atto sessuale in sé, come aveva fatto la pillola, ma le sue variegate meccaniche.

In pochi anni c’è stata un’escalation: se si esclude Clara Calamai che, nel lontano 1942, aveva mostrato fugacemente i seni nudi nel film di Blasetti La cena delle beffe, occorre attendere il 1964 perché una giovane, quasi anoressica ragazza di colore mostri altrettanto fugacemente i suoi seni a un invecchiato e intristito Rod Steiger nel film di Sidney Lumet L’uomo del banco dei pegni. Eppure quella scena, che oggi apparirebbe angelica, attirò gli spettatori molto più della bellezza intrinseca del capolavoro cinematografico di un grande regista e di un protagonista famoso. Qualche anno dopo, nel 1970, con Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni e poi, due anni dopo, con Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, hanno acquistato liceità posizioni del kamasutra che prima erano considerate irriferibili. Come si vede, il cinema italiano ha dato un suo buon contributo alla liberalizzazione dei costumi sessuali.

Negli stessi anni proseguivano la secolarizzazione e la laicizzazione. Nel 1970 fu approvata la legge sul divorzio, poi riconfermata con un referendum; nel 1978 fu la volta della legge sull’aborto. Si trattò di vere e proprie rivoluzioni, se si pensa che tutto questo avveniva nel Paese più cattolico del mondo, dove ha sede il Vaticano. Ma era anche il Paese europeo con il più forte partito comunista, con un partito socialista al governo e con un movimento radicale iperattivo.

E come reagirono le altre agenzie formative?

Furono quelli gli anni in cui proliferarono i corsi di laurea in Sociologia, dove migliaia di studenti impararono a trasformare i dogmi indiscutibili del nostro tardigrado sistema sociale in ipotesi da verificare empiricamente.

Nel 1958 don Lorenzo Milani aveva pubblicato Esperienze pastorali, con cui la sociologia aveva fatto irruzione persino nelle parrocchie, ma poi due ricercatori della facoltà di Sociologia di Trento condussero una ricerca empirica per verificare se la Chiesa di base, soprattutto i parroci, fosse in linea con la direttiva centrale che vietava ogni controllo delle nascite con la sola, prudente eccezione del metodo Ogino-Knaus. I due ricercatori estrassero un campione di confessori e andarono a confessarsi, chiedendo ogni volta l’autorizzazione a usare vari metodi di controllo delle nascite. Se le condizioni familiari descritte dai sociologi mutavano (famiglia più o meno povera, numero crescente di figli ecc.) mutava pure l’atteggiamento del confessore, passando da severo a permissivo.

La stampa cattolica si scandalizzò, considerando l’indagine dissacratoria e inammissibile. Ricordo che Umberto Eco tagliò la testa al toro sostenendo che, se il confessore può rivelare il peccato ma non il peccatore, il sociologo può rivelare la confessione ma non il confessore. Non so se ci credesse veramente; di sicuro gli piaceva il gioco di parole.

De Masi era tra i contrari a quella ricerca?

All’epoca insegnavo Metodi e tecniche della ricerca sociale. Io ho sempre detto ai miei studenti che il cittadino scelto da un sociologo per fare parte di un campione rappresentativo deve essere informato sul fatto che sta partecipando a una ricerca, deve conoscere lo scopo della ricerca, deve essere consenziente e, alla fine, deve essere messo al corrente dei risultati. Questa è la corretta etica professionale di un ricercatore sociale, altrimenti si scade nel gossip o nello spionaggio.

Più tardi, mi pare nel 1980, vi fu un episodio per certi versi analogo a quello dei sociologi trentini: alcune femministe assoldarono Véronique La Croix, ventisette anni, parigina di origini cecoslovacche, e filmarono il comportamento dei suoi clienti ripresi a loro insaputa. Ne venne fuori un documentario, A.A.A. Offresi, che doveva andare in onda ma che la Rai censurò. Quasi tutti i miei colleghi di facoltà sottoscrissero una petizione per dissequestrare il documentario, ma io non firmai.

Il gruppo di autrici che lo realizzò – Loredana Rotondo, Annabella Miscuglio, Paola De Martiis, Rony Daopoulo, Anna Carini e Maria Grazia Belmonti – era lo stesso che un anno e mezzo prima aveva realizzato Processo per stupro, un film-documento che costituì un passo fondamentale per arrivare alla legge sulla violenza sessuale.

Il documentario A.A.A. Offresi aveva un encomiabile scopo di denunzia e di formazione, non era contro le prostitute ma contro i loro clienti: perciò, chi non firmava la petizione, rischiava di essere considerato un difensore di questi sfruttatori. Ma io non firmai perché, sul piano della ricerca sociologica, il metodo usato dalle ricercatrici era truffaldino.

Androginia: parola-chiave per il 2030. Chissà cosa comporterà relativamente al mercato sessuale…

Intanto ha avuto un effetto salvifico nei confronti della piaga maschilista…

Secondo De Masi l’androginia potrebbe curare la nostra società dal maschilismo?

Una delle più interessanti scrittrici femministe, Germaine Greer, l’autrice di L’eunuco femmina, ha scritto che «il maschilismo è come l’emofilia: attacca gli uomini ma è trasmesso dalle donne». Milioni di uomini hanno appreso il loro comportamento maschilista dalle mamme che glielo hanno inculcato. In passato sono state le mamme a impartire un’educazione diametralmente diversa ai figli e alle figlie, avvalorando l’idea che l’uno era libero e superiore, l’altra era soggetta e gregaria.

Fino a qualche anno fa, se un mio studente e una mia studentessa, fratello e sorella, vivevano fuori sede, la sorella accudiva il fratello, gli rifaceva il letto, gli stirava le camicie, gli preparava la colazione, proprio come aveva visto fare alla mamma nei confronti del padre e dei figli maschi. Oggi non è più così: si è finalmente interrotta questa catena di subordinazione ereditaria e le mamme più giovani hanno imparato a trattare i figli con pari dignità e secondo una naturale differenza di genere.

Però, come ho detto, non è ancora chiaro se nel prossimo futuro le donne si accontenteranno di un rapporto di pari dignità o se, una volta occupato il centro del sistema sociale, non saranno tentate di gestirne il potere con la durezza che deriva loro dai torti subiti nei diecimila anni precedenti. La seconda ipotesi mi sembra più probabile.

Di sicuro, però, per quanto si considera il ruolo che la donna può svolgere nella società e lo status che gliene deriva, quello attuale è il migliore dei mondi esistiti finora.

Siamo sicuri che in passato, in Occidente, di qua dal Mediterraneo, non ci siano stati periodi paragonabili a questo per quanto riguarda la parità di genere?

In tutta la Grecia antica credo che solo a Sparta le donne abbiano goduto di qualche diritto, benché la città fosse talmente votata alle attività belliche che Senofonte chiamava gli spartani «professionisti della guerra». Di fatto le spartane erano le donne più libere di tutta la Grecia e i loro rapporti con i maschi erano quasi paritari. Si pensi che nel IV secolo a.C. esse possedevano il 35-40 per cento di tutte le terre dello Stato, provvedevano direttamente alla loro gestione e, se ricevevano un’eredità, potevano amministrarla di persona. Anche se erano escluse dalla vita politica, potevano però assistere alle discussioni pubbliche e godevano di libertà di parola. Euripide riferisce che erano solite starsene disinvoltamente «fuori casa insieme ai giovani, a gambe nude e con gli abiti ondeggianti». Si sposavano più tardi delle altre donne greche e non erano sottoposte all’autorità maritale.

I maschi erano tenuti nettamente separati dalle donne, erano educati all’obbedienza, alla scaltrezza, alla rivalità e all’aggressività. Quelli di età compresa tra i venti e i trent’anni dovevano svolgere nei confronti dei ragazzi non ancora ventenni una funzione educatrice che includeva i rapporti omosessuali tra il giovane amante e il ragazzo amato.

A trent’anni ogni spartano – che trascorreva gran parte del giorno con i suoi compagni-commilitoni e cenava esclusivamente con loro – doveva scegliersi tra le ventenni di Sparta una sposa con cui avere almeno un figlio. Diversamente dalle ateniesi, che erano educate in modo molle e sedentario, le spartane ricevevano una severa educazione, separata da quella maschile ma simile a essa e con essa promiscua, contrassegnata dall’omosessualità, dalle attività ginniche e dalla partecipazione ai cori. Obbedendo alle leggi di Licurgo, le ragazze erano abituate, proprio come i giovani, a mostrarsi nude nelle processioni, danzando e cantando sotto gli occhi dei maschi.

Era curioso anche il periodo immediatamente successivo al matrimonio perché, fino a quel momento, lo sposo era abituato a fare sesso solo con uomini e la fidanzata solo con donne. Per iniziare i due ai rapporti eterosessuali, Plutarco ci racconta che il fidanzato fingeva di rapire la futura sposa. Poi «la fanciulla rapita era affidata alle mani di una donna che le rasava i capelli, la infagottava con abiti e calzari maschili e la faceva coricare su un pagliericcio, sola e al buio. Il fidanzato, che aveva consumato il pasto con i suoi compagni, come al solito, entrato, le scioglieva la cintura, e, prendendola fra le sue braccia, la portava sul letto. Dopo aver passato con lei un tempo assai breve, tornava a dormire con i suoi compagni».

In altri termini, la sposa aveva i capelli rasati e indossava abiti maschili in modo da somigliare il più possibile a un ragazzo e il rapporto carnale, che avveniva proprio come tra due maschi omosessuali, non comportava la procreazione, i figli sarebbero venuti successivamente, solo quando la coppia, autodidatta dell’amore, avrebbe finalmente scoperto i rapporti eterosessuali.

Sessualità a parte, un buon indicatore dello status conquistato dalla donna nella società è rappresentato dal diritto di voto.

Zoomando a ritroso da Sparta ai tempi nostri, troviamo che in Italia, dopo l’Unità, alle donne era vietato votare ed essere votate, proprio come agli analfabeti, ai falliti e ai condannati. Nel 1890 fu concesso il voto femminile solo nei consigli di amministrazione delle istituzioni di beneficenza e, negli anni successivi, le donne furono ammesse al voto amministrativo nei collegi di probiviri chiamati a risolvere i conflitti di lavoro, nelle camere di commercio e negli organi dell’istruzione elementare e popolare.

Agli inizi del Novecento Pio X si schierò senza mezzi termini: «La donna non deve votare ma votarsi ad un’alta idealità di bene umano… Dio ci guardi dal femminismo politico».

Bisognerà attendere quarant’anni perché, nel 1945, venga emanato il decreto legislativo che conferisce il diritto di voto attivo alle italiane (con la sola esclusione delle prostitute schedate che lavorano al di fuori delle case di tolleranza)…

Una «svista» fece sì che in prima istanza il voto fosse solo attivo.

Sì, solo nel 1946 le italiane ottennero anche il diritto di essere elette. Dal momento che le donne erano favorevoli alla Democrazia cristiana e sfavorevoli al Partito comunista, questa volta il papa, che era Pio XII, considerò il loro voto non solo come un diritto ma addirittura come un dovere: «Ogni donna, dunque, senza eccezione, ha, intendete bene, il dovere, lo stretto dovere di coscienza, di non rimanere assente, di entrare in azione… per contenere le correnti che minacciano il focolare, per combattere le dottrine che ne scalzano le fondamenta, per preparare, organizzare e compiere la sua restaurazione».

Dal 1948 a oggi abbiamo avuto 65 governi, 13 dei quali sono stati composti esclusivamente da uomini. Su oltre 1500 incarichi di ministro assommati in questi governi, le donne ne hanno ricoperti solo 78. Eppure, se si considera il complesso della popolazione, gli uomini sono solo 95 ogni 100 donne. Non c’è dubbio, come ci dicono queste cifre, che la rappresentanza parlamentare resta percentualmente sbilanciata a favore degli uomini.

Ma, osservato in senso diacronico, l’andamento della rappresentanza femminile segna un progressivo avvicinarsi della forza politica femminile a quella maschile. Il 18 aprile 1948, quando si tennero le prime elezioni, le donne elette furono solo 49, pari al 5 per cento dei parlamentari. Oggi sono circa il 35 per cento sia tra i deputati che tra i senatori e su 18 ministri 5 sono donne; nel precedente governo Renzi, su 16 ministri, la metà erano donne.

Per concludere, ci spiega come va quanto a distribuzione di potere in altri Paesi? A volo d’uccello, quali sono le aree della Terra più arretrate e quali le più evolute?

Una ricerca realizzata cinque anni fa dalla Thomson Reuters Foundation nei ventidue Stati della Lega araba, volta ad appurare il grado in cui erano rispettati i diritti delle donne, dimostrava che all’ultimo posto c’era l’Egitto, dove erano ancora più diffusi i matrimoni forzati in cui la moglie era oggetto di compravendita, dove il 99 per cento delle donne e delle bambine subiva molestie sessuali e dove al 91 per cento delle bambine veniva praticata la mutilazione dei genitali. Seguivano l’Iraq e l’Arabia Saudita. Qualche mese fa in Arabia le donne hanno conquistato il diritto di guidare l’automobile da sole ma restano tuttora sottoposte a un regime di tutela da parte del parente uomo più prossimo (marito, padre o fratello) la cui autorizzazione è indispensabile per viaggiare, sposarsi, frequentare le scuole e ricevere assistenza sanitaria.

I Paesi arabi sono quelli in cui più tenace resta la supremazia dell’uomo sulla donna.

Il primo Paese al mondo che ha esteso il voto alle donne è stato la Nuova Zelanda nel 1893. In Russia le donne hanno conquistato il diritto di voto nel 1917; l’anno successivo è stata la volta del Regno Unito, che ha concesso il voto alle sole mogli dei capifamiglia con oltre trent’anni di età; negli Stati Uniti il suffragio universale è stato introdotto nel 1920. Buon’ultima in Occidente, la «civilissima» Svizzera ha esteso il diritto di voto alle donne solo nel 1971.

Finalmente nel 1960 una donna – Sirima Bandaranaike – è diventata primo ministro in un Paese del mondo: lo Sri Lanka. E oggi il Parlamento con la più alta percentuale femminile è quello del Rwanda, in Africa, con il 61 per cento dei seggi occupato da deputate.