Longevità e vecchiaia

Accettando il presupposto che questo in cui oggi viviamo sia il migliore dei mondi esistiti finora, cerchiamo di individuare i punti fermi su cui si fonda questo presupposto, in modo da farne altrettanti punti fermi cui ancorare la nostra esistenza e sconfiggere il nostro disorientamento.

Questo il filo logico suggerito da De Masi.

Cominciamo dalla longevità, allora: cosa succederà su questo fronte nel prossimo futuro? Si toccherà il record dei 122 anni vissuti dalla persona più longeva di tutti i tempi, Jeanne Calment, la donna francese che riuscì ad assistere dal vivo ai funerali di Victor Hugo ma vide anche in tv il crollo del Muro di Berlino? Soprattutto, però: il proliferare di nonagenari e centenari, nei Paesi ricchi, ha un carattere di fenomeno «epocale»? E in che misura, chiediamo a De Masi, la parte di mondo più svantaggiata partecipa a questa nuova abbondanza di anni di vita?

Rispetto alle altre discipline la demografia ha il vantaggio di avere una notevole capacità predittiva, se non altro perché ogni 365 giorni i viventi hanno un anno in più. Così, ad esempio, possiamo dire con assoluta certezza che in Italia i bambini nati nel 2024 andranno alla prima elementare nel 2030. Nello stesso anno è prevedibile che entrino nel mercato del lavoro i giovani nati tra il 2005 e il 2010 e vadano in pensione gli anziani nati nel 1965.

Passando dal livello italiano a quello mondiale, sappiamo, ma con una certezza leggermente inferiore, che nello stesso 2030 gli anziani con più di 65 anni ammonteranno a 910 milioni rispetto agli attuali 420 milioni, per cui siamo legittimati a pensare che il XXI secolo sarà degli anziani e dei vecchi così come il XX secolo è stato dei giovani e degli adulti. L’età, da inconveniente che era, si trasforma in opportunità sociale: per motivi di quantità, di consumi, di potere decisionale, di efficienza persino.

Come si vede, la demografia maneggia soprattutto numeri, e i numeri, che sono noiosi quando non li si legge con attenzione, diventano interessantissimi, persino seducenti se si fa il piccolo sforzo di spremerne il significato. La sociologia non potrebbe esistere senza la statistica e la statistica non potrebbe esistere senza i numeri.

Al momento della sua nascita l’uomo di Neanderthal aveva una speranza di vita pari a 29 anni; gli ateniesi dell’età di Pericle raggiungevano i 36 anni; nell’Ottocento i sudditi di Napoleone non superavano i 45 anni. Oggi, dopo soli duecento anni dall’epoca napoleonica, la speranza di vita dei 7,4 miliardi di viventi sul nostro pianeta ha raggiunto i 69 anni per gli uomini e i 74 anni per le donne. Come si vede, ci sono voluti molti millenni perché la vita umana riuscisse ad allungarsi di una quindicina d’anni, e poi sono bastati duecento anni perché si allungasse di una trentina d’anni.

In Italia come sono andate le cose?

Nel 1920 la vita media degli italiani era di una cinquantina d’anni. Nel 1960 era ancora così bassa da collocarci al diciannovesimo posto in Europa e al ventitreesimo nel mondo. Oggi, con una speranza di vita di 84,8 anni, l’Italia è al terzo posto tra i 196 Paesi che compongono lo scacchiere internazionale, dopo il principato di Monaco, dove gli uomini raggiungono gli 86 anni e le donne addirittura superano i 94, e il Giappone, dove la speranza di vita è di 85,5 anni. Le donne italiane godono di una vita media che raggiunge gli 86 anni; gli uomini debbono accontentarsi di cinque anni in meno. Non a caso abbiamo 750.822 vedovi contro 3.737.232 vedove.

L’allungamento della vita media produce un sentimento sociale di sicurezza oppure è vero il contrario?

In termini di psicologia individuale dovrebbe comportare una maggiore sicurezza. Se oggi hai trent’anni e sai che ne vivrai presumibilmente altri cinquanta, dovresti sentirti più sicuro del trentenne che nell’Ottocento aveva buoni motivi per temere di andarsene entro i vent’anni successivi.

L’allungamento della vita media dovrebbe indurci a una ristrutturazione del tempo: viviamo più a lungo, 700.000 ore, e lavoriamo 80.000 ore al massimo, mentre i nostri trisavoli vivevano 300.000 ore e ne lavoravano 150.000. Quindi abbiamo più tempo oggettivamente. In più abbiamo inventato una serie di macchine che ci servono per gestire meglio il tempo disponibile: macchine che ce lo fanno risparmiare, come la lavatrice, il telefono o l’automobile; macchine per arricchirlo perché ci consentono di fare due o più cose contemporaneamente; macchine per stoccare il tempo, come un registratore o una segreteria telefonica; macchine per programmare il tempo, come il calendario sul cellulare, che ci ricorda man mano gli impegni della giornata.

Paradossalmente, più tempo abbiamo e più impegni e scadenze ci accolliamo, per cui, invece di avere la rasserenante sensazione di un tempo che si dilati all’infinito, siamo assillati e stressati dalla sua mancanza.

La longevità stimola frenesia anziché quiete?

Ci vorrebbe saggezza. Ridurre gli impegni e lasciare tempo per l’introspezione, il gioco, l’amicizia, l’amore, la convivialità, la contemplazione della bellezza. Insomma occorre capire che la felicità consiste anche nel non avere scadenze.

Torniamo alla demografia. Di fatto, oggi in Italia sono quasi scomparse le famiglie numerose.

Fino all’epoca dei nostri bisnonni occorreva fare molti figli affinché due o tre di essi avessero una buona probabilità di raggiungere l’età adulta scampando alle pestilenze, alle malattie, alle mille altre insidie della natura. Quelli che superavano la barriera di una dipartita precoce avevano visto morire accanto a sé più di un coetaneo, riportandone un senso pessimista della vita, un fatalistico abbandono ai capricci del destino.

I regnanti, per assicurarsi almeno un erede maschio, ricorrevano a una prole numerosa: Maria Teresa d’Austria fece sedici figli e sua figlia Maria Carolina di Napoli ne ebbe sette. Chi ora nasce nei Paesi del Primo mondo, invece, ha tutte le probabilità di arrivare fino a ottant’anni, e chi vuole un figlio unico non ha bisogno di farne due o tre. Non a caso le donne che ricorrono ai metodi moderni di contraccezione sono l’82 per cento in Cina, l’80 per cento nel Regno Unito e solo il 12 per cento in Mauritania o in Angola. Ancora oggi il tasso di fecondità è di 7 figli per ogni donna nel Niger, contro 1,4 in Italia. Disoccupazione e problemi economici, paura per il futuro dei figli, assenza da casa delle madri che lavorano, mancanza di servizi sociali e di abitazioni, mutata concezione della vita sono alla base di questo comportamento demografico che, in pochi anni, ha trasformato l’Italia da uno dei Paesi più sconsideratamente prolifici in uno dei Paesi più cauti nel procreare.

Quale è stato l’andamento della mortalità infantile?

In Italia alla fine dell’Ottocento il tasso di mortalità infantile era di 326 bambini morti ogni mille nati vivi. Oggi in Italia, così come in Germania, Spagna e Francia, il tasso è di appena 3 bambini per mille; in Giappone di 2 e negli Stati Uniti è di 6 bambini per mille. Il merito di questo progresso va in parte ai vaccini e in parte al miglioramento complessivo delle condizioni di vita. Dove più lento è stato questo progresso, più alti restano i tassi di mortalità infantile: in Afghanistan, ad esempio, sono tuttora al 111 e in Somalia al 95 per mille.

In base a dati recenti si è appreso che in Italia il numero delle nascite continua a diminuire mentre quello delle morti continua ad aumentare. La cosa ha destato un certo allarme.

Sotto il profilo demografico, gli ultimi tre anni sono stati connotati da alcune novità negative di cui non si sono ancora definite con precisione le cause. Nel 2015 il numero dei morti in Italia è cresciuto dell’11 per cento rispetto al 2014, passando mediamente da 50.000 a 55.000 ogni mese. Negli ultimi cento anni un’impennata simile si era avuta solo in occasione delle due guerre mondiali: nel periodo 1915-18 e nel 1943.

Secondo le ipotesi più plausibili, la colpa va attribuita sia alla crisi economica internazionale sia alla concomitante riduzione del welfare.

Alle stesse cause riporta anche la seconda novità allarmante: benché sia cresciuta la speranza di vita della popolazione italiana, è invece diminuito il numero di anni che gli over sessanta trascorrono in condizione di salute. Non basta vivere a lungo: ciò che conta è vivere bene. Ma, purtroppo, negli ultimi venti anni la quantità di vita sana goduta dagli italiani si è accorciata. A questo fenomeno ha contribuito il maggiore inquinamento atmosferico, che determina malattie di vario genere, la crisi economica, che ha costretto una fascia crescente di popolazione a consumare cibi meno salutari, il progressivo smantellamento del nostro servizio sanitario nazionale che ha ridotto la prevenzione e ha aumentato i ticket.

Il rapporto tra reddito e salute è strettissimo. Basti pensare che i cibi biologici sono consumati per il 70 per cento nel Nord Italia, per il 23 per cento nel Centro e per il 7 per cento nel Sud. I napoletani hanno una vita media di tre anni più breve rispetto ai milanesi. Come notava già Orwell: «Meno soldi si hanno e meno si è disposti a spenderli per la salute e per i cibi sani».

Questo per quanto riguarda le morti. E le nascite?

Mi permetto una curiosa digressione. Un tempo, in Italia, spopolavano i nomi della Sacra famiglia e la maggioranza delle persone si chiamavano Maria, Giuseppe, Anna e Giovanni; con l’aggiunta di due santi patroni: Antonio e Francesco. Poi prevalsero i personaggi delle telenovele: Samantha, Patrizia, Igor e Michel. Ora le bambine si chiamano Giulia e Aurora; tra i bambini, grazie a papa Bergoglio, è riapparso il nome di Francesco, affiancato da Alessandro e superato – non si capisce perché – da Leonardo in ben dieci regioni. La maggioranza dei bambini stranieri, invece, si chiama Adam e Sofia.

La geografia dei nomi si rinnova mentre resta costante il calo delle nascite. Come è noto, per preservare la quantità della popolazione esistente il tasso di sostituzione deve essere di 2,1 figli per ogni donna. Ottanta anni fa una donna italiana partoriva in media 2,5 figli; nel 2010 ne partoriva 1,34; oggi ne partorisce 1,26. Negli ultimi otto anni le nascite sono diminuite di oltre centomila unità, raggiungendo il picco minimo degli ultimi quaranta anni.

Il fenomeno della denatalità è tutto italiano o si riscontra anche in altri Paesi europei?

Mentre in Italia quest’anno sono nati 12.000 bambini in meno rispetto all’anno scorso, in Germania sono nati 55.000 bambini in più. Perché mai questa evidente divaricazione tra due Paesi così vicini? Man mano che le donne autoctone diventano ricche e abbandonano l’agricoltura, smettono di fare figli e il tasso di sostituzione può essere mantenuto solo grazie alla maggiore prolificità delle donne immigrate. I bambini nati in Germania nel 2016 sono stati il 7 per cento più di quelli nati nell’anno precedente, ma le nascite da donne straniere sono aumentate addirittura del 25 per cento.

In Italia, invece, le nascite decrescono sia tra le donne italiane sia tra quelle straniere. Nel 2010 ogni donna straniera residente in Italia aveva 2,4 figli; oggi ne ha 1,97. Praticamente una donna straniera che arriva in Germania vi trova le condizioni favorevoli per continuare a mantenere la stessa prolificità cui era stata educata nel Paese di provenienza, mentre arrivando in Italia vi trova condizioni che la dissuadono dall’avere figli.

Quali sono le condizioni che in Italia determinano la denatalità persino tra le donne straniere?

Certamente incisivo è il fatto che negli ultimi dieci anni le donne in età fertile (15-50 anni) sono calate quasi di un milione. Oltre a essere meno numerose, le donne fertili hanno minore propensione ad avere figli per due motivi contrapposti: o perché non glielo consente la condizione economica disagiata, aggravata dalla crisi e non compensata da un adeguato welfare; o perché la condizione economica è sufficientemente agiata da indurre la donna ad anteporre la carriera alla maternità.

Un altro fattore che incide sulla denatalità è che si tende ad avere figli soprattutto se sposati, ma i matrimoni diminuiscono (132.000 in meno nell’arco di otto anni).

Un quarto fattore è che sono sempre più frequenti i casi in cui la donna rinvia più volte la decisione della maternità per poi finire col raggiungere quei 44 anni di età in cui anche la fecondazione assistita diventa complicata, perché la riserva ovarica è ormai vicina all’esaurimento. Oggi in Italia l’età media del primo parto è salita a 32 anni e quindi è diventato difficile per una donna avere più di un figlio.

Il risultato complessivo è che cresce il numero di coppie senza figli o con un figlio unico e, come abbiamo visto, l’Italia, a differenza della Germania, non riesce a compensare il deficit demografico delle donne autoctone con l’apporto delle donne immigrate.

Dagli inizi del Duemila, in Italia, la vicenda delle «dimissioni in bianco» – la lettera fatta firmare, senza data, alla lavoratrice al momento dell’assunzione, in cui si rassegnano le dimissioni in caso di gravidanza – ha portato alla luce un fenomeno sociale che si è ulteriormente aggravato con l’inizio della crisi. Ovvero l’inconciliabilità in crescita tra lavoro e maternità: stando all’Istat, nel 2008-2009, circa 800.000 madri dichiaravano di essere state licenziate o messe in condizione di doversi dimettere in seguito a una gravidanza. Nel 2007 la «Legge Nicchi», la 188, puniva questa pratica. Nel 2008, appena insediato, il governo Berlusconi abrogava la nuova norma. Nel 2012 il ddl di riforma del mercato del lavoro è intervenuto ancora sulla materia… Non sono decenni, questi, in cui sulla questione maternità-lavoro si combatte una vera guerra?

Parliamoci chiaro: sotto alcuni aspetti l’impresa è ancora indietro rispetto alla società civile. Ne sono esempi eloquenti la mancata parità contrattuale uomo-donna e la fobia delle aziende per la maternità delle dipendenti, che si traduce in abusi aberranti come quelli da te citati. Queste disparità sono diversamente marcate a seconda dei settori e dei livelli gerarchici. Una legge del 2012, prendendo atto di ciò, previde incentivi per l’assunzione di donne nei settori e nelle professioni in cui il divario di stipendio superava il 25 per cento. Vale la pena di ricordarli: i settori erano l’agricoltura, l’industria delle costruzioni, l’industria estrattiva, acqua e gestione dei rifiuti, l’industria energetica, l’industria manifatturiera, il trasporto e magazzinaggio, l’informazione e comunicazione, i servizi generali della pubblica amministrazione. Le professioni incentivate, invece erano la conduzione di veicoli e macchinari, le attività di progettazione, la direzione d’azienda e molte lavorazioni artigianali.

Come si vede, le donne mediamente percepiscono una paga inferiore del 25 per cento rispetto a quella dei maschi in quasi tutti i settori e in un numero considerevole di professioni.

Torniamo alla natalità. Vi sono altre cause del suo decremento?

Vi sono cause di natura economica: l’alto costo di una gravidanza, di un parto, del mantenimento di un figlio; la crescente flessibilità del lavoro, la precarietà occupazionale, la crisi economica, i frequenti ritardi nei pagamenti degli stipendi. Tutti questi fattori interrompono la continuità dei mezzi di sussistenza e generano l’insicurezza che scoraggia la procreazione.

Intrecciate con le cause economiche vi sono quelle di natura sociopolitica: le deficienze del welfare (permessi, ferie e sussidi insufficienti, scuole materne e asili inadeguati ecc.); l’assenza o la lontananza geografica di parenti, soprattutto nonni, cui affidare i bambini mentre i genitori lavorano; la situazione non rara in cui i coniugi lavorano in due località distanti tra loro, per cui raddoppiano le spese e diventa complicata la cura dei figli; il disinteresse della politica per la questione demografica, anche perché gli anziani votano e i neonati no.

Si tratta di tutte cause di natura per così dire «oggettiva». Ve ne sono altre ricollegabili a fattori soggettivi?

Certo. La vita di coppia dura sempre meno; gli studi si prolungano sempre più occupando buona parte dell’età fertile delle donne; il lavoro e la carriera si pongono come ostacoli alla procreazione e all’educazione dei figli; gli uomini recalcitrano all’idea di condividere con le donne le incombenze relative alla vita domestica e all’allevamento della prole; in molti casi i figli sono visti come un ostacolo alla vita sociale, alla libertà, al consumismo, al raggiungimento di altri obiettivi, soprattutto professionali; la paura che i figli messi al mondo possano fare una brutta fine o possano restare disoccupati.

Comunque occorre tenere presente che il tasso di natalità è più alto in quei Paesi come Svezia e Norvegia in cui la parità uomo-donna è più avanzata.

Oltre al numero di abitanti è rilevante la loro distribuzione per fasce di età. Un Paese dove prevalgono i giovani è diverso, sotto molti aspetti, da un Paese in cui prevalgono i vecchi.

Attualmente ci sono nel mondo quasi 1,2 miliardi di persone tra i quindici e i ventiquattro anni e la maggior parte di essi vive in Africa. Il Paese più «giovane» del mondo è il Niger, con un’età media di 15 anni. In Nigeria i cittadini con meno di venticinque anni rappresentano il 63 per cento della popolazione (in Italia sono il 23); quelli sopra i settant’anni raggiungono appena l’1,4 per cento (contro il nostro 16). L’Italia è uno dei Paesi più «vecchi» del mondo: per ogni 100 ragazzi con meno di 15 anni, vi sono 165 persone con 65 anni e più. Ma bisogna stare attenti quando si dice «vecchi»…

In che senso? Come è stata considerata la vecchiaia nel corso dei secoli?

Due secoli fa chi aveva cinquant’anni era già vecchio. I pochi nonni venivano venerati perché la loro esperienza costituiva un prezioso patrimonio di nozioni pratiche, una sorta di enciclopedia vivente cui fare appello nelle quotidiane emergenze. Il lavoro accompagnava l’uomo durante tutta la sua esistenza: dall’apprendistato precoce e severo, alla morte che coglieva quasi sempre i lavoratori mentre ancora esercitavano i loro mestieri.

Quando si è modificato questo stato di cose plurisecolare?

È stata la società industriale a modificare radicalmente il trend della vita umana: i nuovi farmaci, l’igiene pubblica e privata più curata, la medicina e la chirurgia, l’informazione e la prevenzione, i vaccini, l’alimentazione più abbondante e sana, le condizioni abitative più decorose hanno permesso in pochi decenni ciò che era apparso inimmaginabile lungo l’arco dei millenni precedenti. Dal 1840 a oggi, nei Paesi industrializzati, la vita media è cresciuta in maniera costante. Allora un uomo viveva in media quarant’anni; intorno al 2000 ha raggiunto gli ottanta. In altri termini, in meno di un secolo e mezzo la vita media è raddoppiata. Intanto sono diminuite le ore che dedichiamo al lavoro e il logoramento del corpo, durante l’attività lavorativa, è stato notevolmente attenuato.

Intorno alla Seconda guerra mondiale è avvenuto un altro mutamento epocale: i progressi della scienza, della cultura, della tecnologia, convergendo in una grande ondata di innovazioni rivoluzionarie, hanno determinato l’avvento della società postindustriale e, con essa, la sostituzione di molti lavori faticosi e pericolosi con attività di natura intellettuale, portando a un ulteriore allungamento della vita media, che oggi nel mondo è di 72 anni, ma oscilla dai 90 del Principato di Monaco ai 50 del Ciad.

In Russia, subito dopo la caduta del comunismo, la vita media si è accorciata ma ora si sta riallungando, anche se persiste un forte divario tra quella degli uomini (65) e quella delle donne (76). In Cina la speranza di vita era di 42 anni nel 1950 ma da allora è cresciuta a un ritmo di sei mesi ogni anno, e oggi un cinese vive in media 77 anni. Qualcosa di analogo è avvenuto in India, dove attualmente l’aspettativa di vita è di 69 anni.

L’emigrazione in massa dall’Africa all’Europa dipende soprattutto dal forte divario economico tra questi due continenti. A quanto ammonta questo divario?

L’Europa è undici volte più ricca del Sahel e dei Paesi subsahariani. Fra trent’anni lo sarà dieci volte.

Anche se per un solo punto, il divario quindi diminuisce?

Qualcosa cambia anche in Africa, su questo non c’è dubbio, ma con una lentezza che si lascia dietro lo strascico di milioni di morti per denutrizione e per guerre. In questo momento ci sono conflitti in 34 Paesi del mondo e in altri 12 non si può dire che ci sia la pace.

Il Paese africano che conosco meglio è lo Zaire, dove sono stato per motivi di lavoro. Lì, per esempio, arrivano tuttora, sì, le medicine scadute, ma scadute da un po’ meno tempo e quindi un poco più efficaci o un poco meno pericolose. Se solo si riportassero in Africa i capitali che i suoi corrotti governanti esportano all’estero, si potrebbe debellare per intero l’analfabetismo di quel continente.

Quale futuro demografico ci attende? La vita media aumenterà ancora?

Le previsioni in proposito non sono unanimi. Se la vita media continuasse a crescere con il ritmo di tre mesi per ogni anno, i bambini nati nel Duemila vivrebbero venti anni più di chi è morto nel Duemila, dunque un centinaio d’anni. In questo momento in Italia ben 192 persone hanno più di 110 anni. Del resto la Bibbia pronosticava che si arrivasse a 190 anni. Vi sono poi futurologi così utopisti da prevedere l’immortalità.

Il dato sicuro è che muoiono sempre meno bambini, quindi aumenta la durata media della vita. Nel passato, se Michelangelo quasi novantenne e Tiziano ottantottenne erano eccezioni, speculari ai Mozart e gli Schubert morti poco più che trentenni, e se si moriva giovani in guerra oppure per tubercolosi, malaria o sifilide, molti però vivevano fino a sessantacinque, settant’anni, un’età abbastanza avanzata.

La forte riduzione della mortalità infantile ha determinato in noi un diverso rapporto psicologico con la morte: un tempo un bambino sopravvissuto fino a dieci anni aveva visto morire tre, quattro fratellini; un sopravvissuto di trent’anni aveva visto morire fratelli, genitori e, di sicuro, i nonni. Oggi un sopravvissuto non è sopravvissuto: è l’unico figlio nato e l’unico figlio vivo. Giunto a trent’anni, avrà ancora i nonni, a volte i bisnonni, così come i suoi figli. La media si è alzata. E coincide sempre più con la mediana.

C’è più uniformità, quindi. Questo cosa comporta?

Mentre prima la media della vita umana derivava da un Michelangelo novantenne e da decine e decine di neonati subito morti, adesso deriva da un Michelangelo novantenne e da molti settantenni. Ciò non è privo di significato dal punto di vista culturale, perché modifica il sentimento di vita e di morte: aver visto morire molti fratelli significava introiettare un senso di insicurezza nei confronti della vita, un fatalismo paralizzante, ma anche un senso di fortuna, come in una lotteria, per essere quello scampato.

In un certo senso conferiva valore al vivere.

Appunto. Oggi, se hai sessant’anni e non hai visto andarsene nessun fratello, perché non ne hai avuti o perché sono ancora vivi, non hai né questa visione di fragilità umana, né questa gratitudine verso la sorte. Il sentimento di fragilità ce lo comunicano molto più gli incidenti d’auto – tutti abbiamo assistito a qualche disastro, persino mortale – che non la paura di un bacillo come quello della tubercolosi, o di una puntura di zanzara anofele.

Cosa colpisce di più lo studioso, nel modo con cui si modifica la famiglia?

La progressiva scomparsa di alcune figure familiari: lo zio e la zia sono sempre più rari. Sono invece proliferate figure un tempo rarissime come il nonno e addirittura il bisnonno. Io, che da molti anni sono nonno di quattro nipoti, non ho conosciuto nessuno dei miei quattro nonni, che erano già tutti morti quando sono nato. Prima era frequente la domanda: «Tu quanti nonni hai conosciuto?»; adesso credo che nessuno ponga più interrogativi del genere.

Il bisnonno era una figura eccezionale, mentre ora è prassi…

Come adesso sono di prassi i novantenni. Non ricordo di avere conosciuto personalmente dei novantenni prima che io stesso superassi i cinquant’anni. Ora ne conosco quattro o cinque: Lina Wertmüller e Luciano De Crescenzo lo sono, Francesco Rosi è morto a novantadue anni, mia madre a novantaquattro. Ma è anche la qualità della vita in questa tarda età a essere cambiata. Raffaele La Capria, che ha da poco compiuto novantasei anni, ha qualche problema con l’udito ma continua a scrivere cose godibilissime.

La morte di Gillo Dorfles a centosette anni, vissuti con lucidità fino alla fine, ha cominciato a fare apparire meno «estrema» anche la soglia dei cento…

Non tutti hanno lo stesso tasso di obsolescenza. E ciascuno di noi sperimenta un’obsolescenza settoriale: non solo un individuo muore prima di un altro, ma dentro uno stesso individuo alcuni organi invecchiano prima di altri. C’è chi è sordo, appunto, chi ha l’artrosi, chi vede di meno. Noi non moriamo tutti in blocco, ma un poco alla volta.

Borges giustamente dice che si muore decine di volte al giorno: se esco per strada e guardo un passante, probabilmente è la prima ma anche l’ultima volta che lo vedo nella mia vita; se da adesso non andassi più in Brasile, per me la morte del Brasile sarebbe già avvenuta l’ultima volta che ci sono stato. Ci sono tante cose che facciamo per l’ultima volta. Uno ci pensa, arrivato a una certa età. Per esempio, quando parto da Ravello alla fine dell’estate mi dico: chissà se l’anno venturo potrò tornarci.

Compiuti gli ottant’anni, De Masi può dirci come cambia la concezione della vita e la considerazione di se stessi man mano che si va avanti? Per lui come sono cambiate?

A trent’anni ero convinto che i trentenni fossero il cuore della Terra: i cavalieri della luce colmi d’amore e di trasgressione, destinati a raddrizzare il mondo prima che le regole riuscissero a sopraffare le emozioni, prima che il mondo li ferisse a morte integrandoli nelle sue procedure.

A quarant’anni ero convinto che i quarantenni fossero il sale della Terra: le truppe d’assalto destinate a sostituire i dominanti con i dirigenti; capaci finalmente di dare un senso alle emozioni e un sentimento alle regole.

A cinquant’anni ero convinto che i cinquantenni fossero la mente della Terra, i depositari delle scienze pure e delle scienze applicate, dell’arte e dell’organizzazione, della pace e della guerra; capaci di imporre una regola anche alle emozioni.

A sessant’anni ero convinto che i sessantenni fossero la sintesi della Terra, l’estuario delle dialettiche, il punto in cui converge il massimo di indignazione col massimo di tolleranza, in cui l’emozione e la regola, stanche di battagliare, si sposano finalmente in un’opera totale.

A settant’anni ero convinto che i settantenni fossero le pietre miliari della Terra, cui il mondo affida la sua rotta quando, disorientato, ha bisogno di un modello cui riferirsi per distinguere il bene dal male, il vero dal falso, il bello dal brutto.

A ottant’anni sono convinto che gli ottantenni siano l’energia della Terra: i dispensatori di coraggio e di equilibrio, gli intransigenti cultori di giustizia e di gioia, i consapevoli amanti delle opere e dei giorni, un poco più vicini alla morte e, perciò, un poco più innamorati della vita.

E a novanta? A novant’anni – ammesso ch’io ci arrivi – sarò convinto che i novantenni sono i testimoni della vita sulla Terra, unici autorizzati a certificare e garantire la perdurante giovinezza del mondo.

E a cento? A cent’anni comprenderò finalmente cosa intendeva dire Eraclito l’oscuro quando scrisse che «il tempo è un fanciullo che gioca».

A me sembra che ci sia un sentimento che prevale oggi, per motivi obiettivi, nel mondo: la nostalgia. La nostalgia del migrante che arriva quassù dall’Africa; la nostalgia delle colf e delle badanti filippine che vedono via Skype i figli piccoli lasciati con i nonni; ma anche la nostalgia dei nostri nuovi emigrati, ragazzi e ragazze che, per trovare un posto da barman o un assegno di ricerca, vanno a Barcellona o a Londra. Ecco, quali sono i tratti della nostalgia legata alla longevità?

La nostalgia delle cose perdute trova l’humus favorevole nelle condizioni oggettive del mondo contemporaneo, tra cui ovviamente anche la longevità. Più a lungo si vive, più aumenta il rammarico per le persone perdute, le occasioni sprecate, i momenti intensi che non torneranno.

Quando la sera ci vediamo con gli amici, non c’è più Antonio Ghirelli, non c’è più Filippo Alison, per dire. Tra i miei conoscenti non c’è più Federico Fellini, non ci sono più Umberto Eco e Alberto Moravia, non c’è più Leonardo Sciascia col quale feci anche un bel viaggio in Andalusia per trascorrervi la Settimana santa insieme alle nostre mogli. Quante volte, con tutti questi amici, abbiamo cenato insieme in quel delizioso simposio che si formava la sera a casa di Lina Wertmüller ed Enrico Job. Ricordo il rammarico pensoso di Fellini quando gli dissi che, a mio avviso, nel prossimo futuro avremmo visto i film a casa e saremmo andati al cinema solo come oggi si va all’opera lirica. Ricordo la sicurezza di Moravia, quando lo festeggiammo per il suo ottantesimo compleanno e io gli chiesi quale fosse la differenza maggiore tra i tempi nostri e quelli della sua giovinezza. E lui, senza nessuna esitazione, mi indicò l’estetica: le città – mi disse – le case, le strade, le singole persone sono molto più belle e curate oggi rispetto a ieri.

Se vado a Rio de Janeiro non c’è più Oscar Niemeyer, al quale mi hanno legato trent’anni di intensa amicizia. Quindi, se morte significa tagliare tutti i fili, non è che questi fili si taglino di colpo tutti insieme: si tagliano uno alla volta fin quando, alla fine, si recidono gli ultimi. Lo stesso Niemeyer mi diceva: «Praticamente tutti quelli che ho amato e conosciuto sono morti». Aveva centocinque anni e si era risposato a novantanove anni con Vera, una «ragazza» di settantasette. Perfino la figlia se ne era andata alcuni anni prima. Una volta gli chiesi se lui, che aveva creato tante bellezze architettoniche, credeva che sarebbe stata la bellezza a salvare il mondo, come afferma Dostoevskij, e lui mi rispose che la bellezza non ha mai salvato niente: per salvare il mondo, ci vuole la rivoluzione! Oscar mi ha donato molti disegni e, soprattutto, il progetto completo dell’Auditorium di Ravello. Pochi mesi prima di morire mi copiò su un grande foglio, perché lo conservassi, una frase che aveva scritto su un muro del suo studio, tanto più significativa perché pensata da un grande architetto, uno dei più grandi del XX secolo: «Ciò che conta non è l’architettura ma la vita, gli amici, la famiglia e questo mondo ingiusto che dobbiamo modificare».

Col passare degli anni, cambia anche l’atteggiamento verso la realtà?

Quando mia madre era ormai molto anziana, se moriva qualche conoscente avevamo remore a informarla per timore che le facesse troppa impressione. In realtà, se veniva comunque a saperlo, aveva una reazione molto meno disperata di quanto ci aspettassimo. Forse c’era anche un po’, sotto sotto, inconsciamente, la soddisfazione che non fosse ancora toccato a lei. Io credo che, cambiando l’età, cambi persino la valutazione della morte, considerata una questione sempre meno distante e improbabile, sempre più vicina e ovvia.

De Masi vuole aggiungere qualche riflessione sulla nostalgia?

Sì, e dire che ce ne sono di più tipi. Starei attento a non confondere quella di noi stanziali con quella dei migranti. Anche tra i sentimenti vi sono quelli poveri e quelli di lusso. E la nostra nostalgia è romanticamente lussuosa rispetto a quella tragicamente misera degli immigrati. In cosa consiste il tragico? Consiste in ciò che è necessario e tuttavia impossibile. Per un giovane fuggito dalle carestie subsahariane, torturato in un campo di concentramento libico, costretto a sfidare la morte su un barcone, sarebbe necessario essere accolto come un fratello; sarebbe necessario per lui ricongiungersi con i parenti rimasti lontano. Ma è impossibile, perché il nostro egoismo crescente glielo impedisce.

Se nostro figlio è triste, ci affrettiamo a portarlo dallo psicologo infantile; però assistiamo, ormai mitridatizzati, a situazioni inumane in cui alcuni genitori siriani o africani, pur di sottrarre i figli a una morte violenta e certa, li affidano, ancora bambini, ai trafficanti di vite umane.

Nostalgia? Magari quei bambini potessero soffrire nostalgie lussuose come le nostre! Sono messi in un tritacarne dei sentimenti, dal quale non si riprenderanno mai e dal quale potrebbero uscire suicidi o terroristi.

L’amministrazione Trump nel giugno 2018 sembra avere scientemente allestito, al confine tra Messico e Stati Uniti, una fabbrica di dolore e di odio futuro.

Trump ha ordinato barbaramente di separare i figli ancora piccoli dai genitori messicani immigrati clandestinamente, e li ha fatti chiudere in gabbia come bestie in uno zoo. Molti di loro non ritroveranno mai più i genitori.

Attribuire a questi bambini dei sentimenti nostalgici sarebbe ridurre a un quadretto color pastello le tinte fosche suscitate dall’odio, dalla rottura, dallo sradicamento totale. Queste povere creature inermi sono state sradicate dal loro Paese, dove avevano le persone e i luoghi cari; poi sono state portate in un posto che non conoscono, che non somiglia minimamente a quello dal quale sono fuggite e, come se non bastasse, sono state strappate con la forza dalle braccia dei genitori, che le serravano al petto. Hanno subito una totale lacerazione fisica e psichica delle loro radici. Altro che nostalgia!

In questo abisso si potrebbe guardare solo se esistesse, inevitabile, in vista di un bene superiore. Ma non può darsi nessun bene talmente «superiore» da giustificare quest’abisso. Nel caso di Trump e dei suoi elettori, lo squallore opulento si riduce a questo: un popolo di obesi che si rifiuta di condividere parte della propria obesità con degli scheletri umani. La stessa verità in cui si raggruma il cinismo con cui noi europei, altrettanto obesi, ricacciamo in mare i migranti altrettanto affamati.

Dicono che è in nome della suprema ragione del diritto.

«Pazzo è colui che ha perso tutto tranne la ragione» diceva Chesterton. Se un pazzo si crede Napoleone, quando ti incontra non ti chiama Maria Serena, ti chiama Giuseppina Beauharnais. Trump e i suoi elettori sono pazzi raziocinanti, alleati e complici dei pazzi raziocinanti di casa nostra.

Tornando ai temi di partenza, longevità e vecchiaia, cosa possiamo aggiungere?

Prima, dicendo che l’Italia è uno dei Paesi più «vecchi» del mondo perché ci sono molti più adulti over sessantacinque che ragazzi con meno di quindici anni, mi sono lasciato scappare che bisogna stare attenti quando si dice «vecchi». Ecco, noi indichiamo con le parole «vecchi» e «vecchiaia» un’età indefinita, che include persone in ottima salute e in piena attività, persone arzille ma ormai inattive, anziani malandati o decrepiti. Le statistiche ufficiali, dopo avere indicato le varie fasce di età, in cui si collocano i bambini, i ragazzi, i giovani e gli adulti, poi piazzano tutti gli altri sotto la generica etichetta residuale di «sessantacinque anni e più».

Dove sta l’equivoco?

Generalmente diciamo che i giovani costituiscono la «prima età», gli adulti costituiscono la «seconda età» e tutti gli altri fanno parte della «terza età». Così facendo, definiamo la vecchiaia di una persona in base alla data in cui essa è nata, mentre andrebbe definita in base alla data in cui morirà. Non si muore tutti alla stessa età, e alcuni sono già vecchi a sessant’anni mentre altri sono ancora vivi e vegeti a ottanta.

Un buon indicatore della debilitazione corrispondente alla vera e propria vecchiaia è l’uso dei farmaci, come mi suggerì una volta l’avvocato Gianni Agnelli. Si è infatti calcolato che una persona, negli ultimi due anni di vita, quando corpo e anima cominciano a fare cilecca, tende a spendere per i farmaci una somma pari a quella che ha speso in tutto il resto della sua vita. In base a questa constatazione possiamo convenire che nella maggioranza dei casi si diventa veramente vecchi, non più autosufficienti, un paio di anni prima di morire e che, quando si comincia a usare molti farmaci, significa che mancano solo un paio di anni alla fine.

Dunque, quando si moriva intorno ai 60 anni, si diventava vecchi mediamente a 58; oggi che si muore a 85 anni, si diventa vecchi a 83. Ciò significa che, a differenza di quanto avveniva in passato, oggi le età dell’uomo non sono più tre ma quattro: dopo la «seconda età», cioè l’età adulta, vi è una «terza età» che corre da circa 60 a circa 80 anni, e vi è una «quarta età» che corrisponde agli ultimi anni, la vecchiaia vera e propria, con scarsa autonomia psicomotoria.

La nuova «terza età», alla quale prima accedevano solo pochi fortunati, è la vera grande novità demografica. Mentre un tempo la categoria era pressoché disabitata, oggi è affollata di persone non più adulte ma non ancora vecchie, che vogliono ancora fare cose, muoversi, avere voce in capitolo, produrre e persino riprodursi. Insomma, l’età si è allungata, sì, ma non si è allungata la vecchiaia, che oggi come ieri occupa solo un paio d’anni, in fondo alla vita.

Ma queste sono verità difficili da far capire.

Capita di frequente che chi scruta il futuro resti una Cassandra incompresa?

Questo è uno dei problemi perenni dell’intellettuale. Se si spinge troppo avanti con le sue congetture, poi la gente non gli crede anche se quelle congetture sono azzeccate. Meno che mai gli crede la sua comunità scientifica d’appartenenza. Ho letto da qualche parte che Einstein, quando scoprì la formula della relatività e i suoi colleghi non lo prendevano sul serio perché non lo capivano, era terrorizzato dall’eventualità di morire prima di essere riuscito a spiegare a qualcuno la propria scoperta.

Quando, agli inizi degli anni Ottanta, pubblicai L’avvento postindustriale, che fu poi ristampato in ben undici edizioni, la tesi in esso contenuta – il declino della società centrata sulla produzione in serie di beni materiali e la nascita di una società nuova, centrata sulla produzione di beni immateriali – fu ignorata, travisata e persino irrisa da molti miei colleghi. Poiché, dati alla mano, sostenevo che la componente operaia sarebbe percentualmente diminuita a scapito della componente impiegatizia e manageriale, un amico sindacalista, ravvisandovi un attacco al proletariato, mi tolse il saluto.

In questi casi non manca neppure un certo atteggiamento provinciale: la tesi avanzata da uno studioso italiano non è accettata fin quando un’identica tesi non viene pubblicata da uno studioso straniero. Ho tra le mani l’articolo di un noto giornalista del «Corriere della Sera» che riporta come primizie le idee di Kai-Fu Lee, uno scienziato e imprenditore mezzo cinese e mezzo americano. Passeggiando tra i padiglioni del Massachusetts Institute of Technology, Kai-Fu gli ha rivelato che il progresso tecnologico distruggerà più posti di lavoro di quanti ne creerà, per cui sarà necessario modificare l’etica del lavoro e mettere in atto protezioni sociali. Una trentina di anni fa avevo già affermato qualcosa del genere nel mio libro Il futuro del lavoro, purtroppo scritto da un italiano, in lingua italiana e pubblicato da una casa editrice italiana, quindi totalmente privo di appeal per il nostro giornalista italiano.

Nel caso della longevità qual è il messaggio che è necessario trasmettere?

Che, se la vita si allunga, la vecchiaia non si allunga, piuttosto si rinvia. Si sente dire: il vecchio costa, riferendosi alle cure mediche. Ma il vecchio non costa per queste cure a partire dai sessant’anni di età, come nella prima metà del Novecento; mediamente costa dagli ottanta anni in poi, cioè dall’età in cui si diventa davvero vecchi oggigiorno.

Cosa consegue da questo diverso computo delle età dell’uomo e da questa diversa concezione della vecchiaia?

Secondo logica, poiché ognuno invecchia e muore in età diverse, è assurdo andare in pensione tutti alla stessa età, nello stesso anno e nello stesso giorno della propria vita. Per ogni lavoratore, in ogni settore, dovrebbe valere la regola ora in vigore per i professori universitari degli Stati Uniti: fissata un’età minima di pensionamento, poi si dovrebbe essere liberi di ritirarsi allo scadere di quell’età o contrattare con il proprio datore di lavoro come e quanto prolungare l’attività. Perché un minatore deve andare in pensione alla stessa età di un giornalista? E perché un giornalista deve andare in pensione a sessantacinque anni in punto, magari proprio quando ha finalmente imparato come si usano i congiuntivi?

Andare in pensione poco prima della morte, insomma?

Andare in pensione quando le parti in causa sono concordi nel volerlo. L’alternativa è quella in vigore attualmente: fissare una minore durata della vita lavorativa per coloro che svolgono mansioni usuranti e, per tutti gli altri lavoratori, posticipare l’età di pensionamento man mano che la vita media si allunga. Però, in questo secondo caso, se non si riduce contestualmente il monte complessivo di ore di lavoro, il rinvio del pensionamento si traduce in meno occupazione per i giovani.

Se resta un ampio margine di anni tra il momento della pensione e la vecchiaia vera e propria, una seconda carriera con cui arricchire di significato la «terza età» rappresenta una possibile soluzione gratificante, tanto più che il lavoratore potrà contare su macchine sempre più produttive e su gerontologi sempre più esperti. Il pensionato che intraprende una seconda carriera può finalmente svolgere lavori che mai prima avrebbe pensato di poter fare e dai quali può ricavare quelle soddisfazioni che la prima carriera non gli ha mai dato. Inoltre, con la pensione percepisce solo l’80 per cento dello stipendio precedente, mentre i suoi bisogni sono rimasti vivi al 100 per cento, se non sono addirittura cresciuti. I guadagni ricavati dalla seconda carriera possono consentirgli di soddisfarli pienamente.

I pensionati si arruolano anche nel volontariato.

Sì. A Roma, per esempio, ci sono migliaia di associazioni del settore e in quasi tutte vi è una presenza folta e attiva di over sessanta. Il volontariato è un’opera prestata gratuitamente in cui motivazione e libertà conferiscono un senso diverso all’impegno. Oggi queste associazioni sono molto studiate dagli esperti di management, sia perché in passato sono state un punto di forza della democrazia americana sia perché rappresentano un esempio eccellente di organizzazione, capace di motivare i propri soci molto più di quanto sappiano fare le imprese. Un famoso guru come Peter Drucker ha scritto un saggio dal titolo eloquente: Che cosa possono imparare le aziende dagli enti non-profit.

Quindi occorrerebbe modificare tutta l’impalcatura del welfare relativo alle pensioni?

Agli inizi del Novecento, quando la speranza di vita in Europa era di 62 anni, in Germania si andava in pensione a 70 anni in base a una legge approvata nel 1889. A quota 70 fu fissata l’età di pensionamento anche in Inghilterra con una legge del 1908. Nel 1910 fu la volta della Francia che stabilì invece un tetto di 65 anni, così come poi fece anche l’Italia nel 1919.

Praticamente, la maggioranza dei lavoratori moriva prima di arrivare all’età pensionabile e gli istituti di previdenza sociale incassavano, tramite le tasse assicurative, molti più fondi di quanti poi ne erogavano. È come se oggi, che si muore mediamente intorno agli 80 anni, l’età pensionabile fosse fissata a 100 anni. Poiché, invece, è fissata a una quindicina di anni prima di quando mediamente si muore, i conti dell’Inps non tornano più. Chi dice che non tornano perché aumenta il numero dei vecchi, commette un errore: l’Inps è in crisi non perché i vecchi sono troppi, ma perché l’età di pensionamento non segue con puntualità l’evolvere dell’aspettativa di vita.

Dietro la questione previdenziale, di cui oggi si discute ampiamente, c’è insomma una questione culturale che resta per ora poco esplorata?

Esatto. È con lentezza che le leggi, la cultura, la pubblica consapevolezza si adattano ai cambiamenti strutturali. Tra l’altro, la vita media non si è allungata da un giorno all’altro, ma un poco ogni anno, quindi avremmo avuto tutto il tempo per modificare le leggi che la riguardano. Invece abbiamo tardato così tanto che il ministro Fornero ha dovuto prendere in un colpo solo decisioni che, diluite negli anni, sarebbero state metabolizzate più agevolmente.

Parlare di longevità e vecchiaia, poi, costringe a sconfinare nel concetto di welfare, perché è lì il punto di attacco del neoliberismo contro la socialdemocrazia.

In che senso?

Il welfare, come è noto, fu la risposta riformista, socialdemocratica, umanitaria alle sfide della società industriale, alle rivendicazioni sindacali, alle istanze religiose, alla lotta di classe, alle spinte rivoluzionarie. Nel 1883 il cancelliere Bismarck, che non era esattamente un filantropo, rese tuttavia obbligatorie le assicurazioni per i lavoratori. Sei anni dopo, nel 1889, l’Italia introdusse l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro. Poi, via via, il welfare si estese all’invalidità, alla morte del coniuge, alle malattie, alla disoccupazione, ai carichi familiari insostenibili, ai servizi sociali per persone non autosufficienti, al reddito minimo garantito, ai sussidi, ai congedi e agli anni sabbatici per la formazione, ai servizi per l’impiego, ai sostegni alla mobilità, alle politiche attive, ai congedi per motivi di cura parentale, ai congedi di maternità e di paternità.

Come ha detto William Beveridge, che a questi problemi ha dedicato tutte le sue energie intellettuali, «il welfare aiuta a liberare la società da quattro mostri: il bisogno, la malattia, l’ignoranza e lo squallore». Nei fatti, il welfare ha contribuito alla modernizzazione dell’Europa bilanciando gli eccessi del liberismo, riducendo la conflittualità sociale, stabilizzando l’economia di mercato, consolidando le istituzioni democratiche, fornendo risposte originali ai bisogni dei lavoratori e dei cittadini. In sintesi, ha rappresentato il «modello sociale europeo» cui si sono ispirati anche altri Paesi, dagli Stati Uniti al Giappone e all’Australia.

Ma come mai questo modello squisitamente socialdemocratico è entrato in crisi?

Perché è arrivato il neoliberismo con la curva tracciata nel 1974 dal professor Arthur Laffer secondo cui occorre ridurre le tasse al minimo perché, se crescono, gli imprenditori le evadono e smettono di investire. Persuaso da questa ricetta, negli anni Ottanta un campione neoliberista come il presidente Ronald Reagan ha abbassato dal 70 al 28 per cento il top tax rate, cioè la tassazione dei più ricchi. A persuaderlo fu pure un’altra curva, quella tracciata fin dal 1955 dal premio Nobel Simon Kuznets, secondo cui il progresso genera disuguaglianze e inquinamento solo in un primo momento; perché poi la ricchezza accumulata dai ricchi sgocciola giù giù fino a «debellare la povertà, estendere la libertà umana e pulire il pianeta», come disse un altro campione del neoliberismo, il presidente George W. Bush.

È questa la teoria del trickle-down, smentita dal fatto che proprio la sua applicazione ha determinato la maggiore disuguaglianza della storia umana e che la ricchezza, lungi dallo sgocciolare automaticamente dal vertice ricco alla base povera, in realtà sgocciola sempre contro natura: dal basso verso l’alto. Dopo venti anni di applicazione di questa sciagurata politica neoliberista, nel 2002 lo Human Development Report delle Nazioni Unite ha certificato che l’1 per cento più ricco della popolazione mondiale si era accaparrato un reddito pari a quello del 57 per cento più povero.

E come hanno reagito i governi?

Nella maggior parte dei casi hanno perseverato diabolicamente nelle loro politiche neoliberiste, e quando le casse dello Stato sono rimaste all’asciutto hanno ridotto via via le spese per il welfare, a cominciare proprio dalle pensioni. Il 23 febbraio 2012 Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, è arrivato a dichiarare al «Wall Street Journal»: «Quel che si profila in Grecia è un nuovo mondo che abolirà il vecchio regime e ci libererà dei sepolcri imbiancati. All’esterno paiono belli ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. Lo stato sociale è morto».

Eppure è opinione ampiamente diffusa e condivisa che una società in cui prevalgono i giovani sia decisamente più dinamica e creativa di una società in cui prevalgono i vecchi.

Dati alla mano, la società postindustriale vedrà la progressiva avanzata degli over sessanta sia nel mondo del lavoro che in quello della ricchezza e del potere. Già solo per motivi di numero, essi rappresentano una quota così consistente della popolazione da imporre la loro presenza, i loro gusti, le loro decisioni. Del resto, l’elettorato giovanile va calando numericamente e quello senile va aumentando: già vent’anni fa ogni deputato della Repubblica poteva contare su 7500 voti di giovani e su 22.000 voti di anziani.

Allo stato attuale, l’unico punto debole degli over sessanta consiste nel digital divide: per ora essi hanno minore dimestichezza dei giovani con l’informatica, la virtualità e le nuove tecnologie. Ma è un gap anagrafico destinato a scomparire man mano che essi escono di scena e fanno posto agli attuali giovani digitalizzati.

Ci sono altri fattori che giocano a favore degli over sessanta?

Il segmento sempre più vasto e vario che essi occupano nel mercato dei consumi. Se, infatti, il declino delle nascite comporta minori spese familiari e pubbliche per l’educazione, la nutrizione e gli altri bisogni dei bambini, d’altra parte l’incremento delle fasce anziane comporta spese crescenti per la cura del corpo, la salute, l’estetica, i loisirs e via dicendo.

Ho letto da qualche parte che già venti anni fa, negli Stati Uniti, il 55 per cento degli anziani mangiava abitualmente fuori casa, il 70 faceva vacanze di quattro settimane e oltre, il 49 leggeva libri, il 22 andava al cinema, il 13 viaggiava. Si tratta, dunque, di un target assai vasto di «consumatori invisibili», come li chiamano gli immaginifici esperti di marketing, dotati di notevole potere d’acquisto.

Il marketing quindi ha individuato questa nuova platea?

Gli esperti del marketing scrutano in modo sistematico e capillare i desideri e i bisogni, gli stili di vita e i costumi relazionali della terza e della quarta età. Una buona percentuale delle persone che rientrano nella fascia superiore ai sessant’anni è costituita da vedove che vivono sole e quindi sommano in sé il potere d’acquisto che prima condividevano con i mariti. Ciò avvantaggia il mercato di beni pensati per le donne di una certa età.

Nel suo complesso, il mercato della terza e della quarta età muove una massa enorme di beni e di servizi – cioè, di ricchezza – forniti dalle strutture pubbliche, dalle strutture religiose, dalle agenzie per il tempo libero, dagli operatori dell’occulto, dalle aziende, dai partiti, dalle associazioni e via dicendo.

Molti vanno in pensione ormai spossati e con una grande voglia di riposare, ma altri, costretti alla pensione pur essendo in pieno possesso delle proprie qualità fisiche e intellettuali, non si trovano spinti a cercarsi una nuova attività?

Sì, come ho già detto. Anni fa la mia amica Federica Olivares, che aveva avviato una nuova casa editrice, mi chiese di scrivere l’introduzione a un bel libro di Xavier Gaullier intitolato Seconda carriera e terza età. Vi si sosteneva che un altro motivo per cui gli anziani sono destinati ad assumere una crescente importanza sociale è dato dal valore delle loro capacità professionali. Le aziende continuano a disfarsi di sessantenni, benché ancora forti, sani e lucidi, molto esperti, bene addestrati, meno bellicosi, dotati di una vasta rete di conoscenze, liberi dai problemi familiari che comportano licenze matrimoniali e assenze per maternità, e li sostituiscono con giovani assai più inesperti, conflittuali e assenteisti che, appena accumulato un certo curriculum, spesso passano alla concorrenza.

Al momento di andare in pensione, gli uomini hanno ancora da vivere mediamente quattordici anni e le donne diciannove. Dunque molti pensionati costituiscono una preziosa riserva professionale, per cui alcuni aprono dei propri uffici operativi e di consulenza, altri stringono rapporti formali o informali con start-up innovative. E ciò è tanto più diffuso quanto più il lavoro fisico viene delegato alle macchine e il lavoro intellettuale, che non richiede forza muscolare, viene richiesto a persone dotate di esperienza, cultura, equilibrio e motivazione.

De Masi, quindi, sembra rovesciare il paradigma: una società in cui prevalgono persone appartenenti alla terza e alla quarta età non è peggiore di una società in cui prevalgono i giovani e i maturi.

Una più massiccia presenza di anziani nella nostra società non può che dare un forte impulso alla pace, induce a lottare con più impegno contro le malattie e contro il dolore, determina un migliore stile di vita – meno alcool, meno droghe, meno violenze –, incrementa l’attenzione per i problemi ambientali, diffonde maggiore saggezza e maggiore professionalità, facilita la solidarietà, riduce il consumismo, riafferma il ruolo sociale dei gruppi primari, mantiene viva l’attenzione sugli aspetti essenziali della vita. Un numero maggiore di persone che hanno davanti a sé la prospettiva della morte come scadenza prossima conduce tutta la società a meditare sui valori più profondi, a riporre più fiducia nell’amore, nell’amicizia, nella convivialità che non nel potere e nella ricchezza materiale.