Impegno e egoismo
Abbiamo parlato di paura e coraggio. A queste due parole, per De Masi, se ne aggiunge una terza che ha avuto molto corso tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento e che, oggi, sembra caduta in crisi: «impegno». Traduzione e rivisitazione, in quegli anni lontani, del francese engagement degli intellettuali teorizzato ancora prima, nei Quaranta, da Sartre e Merleau-Ponty. De Masi inscrive sotto il termine «impegno» il suo «curriculum parallelo», ovvero la mole di attività, a titolo gratuito, che ha svolto oltre la sua professione in azienda e all’università: tanto per isolarne qualcuna, la partecipazione politica così come la creazione di una scuola di formazione postuniversitaria per i suoi allievi, la S3.Studium, la presidenza dell’Inarch, Istituto nazionale di architettura, così come il ruolo di assessore alla Cultura e la direzione della Fondazione Ravello… Ora racconta che in treno ha incontrato un gruppo di ventenni e, facendosi raccontare le loro vite «in trasferta» – erano italiani studenti universitari a Londra – l’orecchio del sociologo ha colto in quella conversazione una declinazione tutta particolare di questo concetto, l’«impegno».
Oggi un giovane ha più tempo disponibile, perché dispone di macchine digitali obbedienti, che gli offrono mille supporti rapidi, flessibili e precisi. Eppure, più raramente lo utilizza in impegni di carattere sociale: è il concetto di sociale, di collettivo, che è in crisi. Vi sono giovani che s’impegnano intensamente per raggiungere mete personali come la carriera, il matrimonio, il successo; altri si impegnano in attività di volontariato; altri ancora, forse la maggioranza, ignorano che l’impegno è una cosa bella perché dà senso alla vita.
Questo dalle nostre parti. Altrove ci sono i giovani africani che fanno chilometri nel deserto per raggiungere i campi di concentramento libici da cui tentare la traversata del Mediterraneo; ci sono i giovani cinesi che studiano notte e giorno per non perdere il sussidio statale dal quale dipende la possibilità di scansare la vita contadina nei campi o quella operaia nelle fabbriche; ci sono i giovani americani alienati dal miraggio del successo, che si accollano prestiti enormi per frequentare scuole come la Phillips Academy o la Harvard Business School, in cui la meritocrazia impone ritmi stressanti. Per non parlare dei duecentomila giovani che prestano servizio militare, spesso rischiando la pelle, in una delle ottocento basi Usa attive in 177 diversi Paesi del mondo.
Sdraiati, nullafacenti, digitali, approssimativi, pigri, introversi, isolati, sciatti, inconcludenti sono i figli degli ex impegnati di sinistra descritti da Michele Serra, che è uno di questi. Matteo Renzi, a sua volta, vede anch’egli sdraiati sui divani, inutili e nullafacenti, i giovani disoccupati o poveri che percepiranno il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 stelle.
Noi invece abbiamo in precedenza distinto i giovani digitali dagli adulti analogici, constatando una difficoltà intrinseca di questi a capire quelli: difficoltà destinata a sanarsi man mano che gli analogici si estingueranno per ragioni anagrafiche e i digitali, sorgendo dai divani per assumere finalmente la posizione verticale, potranno realizzare la società che hanno a lungo vagheggiato durante la loro fase orizzontale.
Com’è la società che vagheggiano dal loro divano?
Riepiloghiamo quanto già detto: molto probabilmente basteranno poche ore di lavoro alla settimana – Keynes ne prevede quindici appena – per produrre tutti i beni e i servizi che ci occorrono. Il maggiore tempo disponibile sarà impiegato nella propria crescita culturale, nelle attività familiari e nella gestione della polis, cioè nella politica. Le attività saranno meno frenetiche per il semplice fatto che i robot e l’intelligenza artificiale svolgeranno molti compiti fisici e intellettuali che ora sono affidati a operai, impiegati e creativi.
Sotto questo aspetto, l’attuale pigrizia degli «sdraiati» potrebbe preludere a una sorta di mutazione psicofisica della nostra specie, che si prepara al passaggio da una società tutta basata sul lavoro a una società in cui il lavoro rappresenta solo una parte minima della vita.
Nel nuovo mondo ci saranno attività sociali in cui l’apporto umano resterà imprescindibile?
Di sicuro toccherà a noi il compito di prevedere e progettare il futuro. È questo il primo e maggiore impegno che ci toccherà onorare. L’intelligenza artificiale ci darà ottimi supporti per svolgerlo, ma resteremo noi i progettisti.
L’uomo postindustriale è il primo, nella lunga genealogia della sua specie, a trovarsi nella condizione effettiva per cui il proprio avvenire – sia la distruzione nucleare della vita sulla Terra, sia la completa sconfitta della fame nel mondo – dipende esclusivamente da lui, è nelle sue mani, solo lui può e deve programmarlo in anticipo.
Per questo la sociologa ungherese Zsuzsa Hegedus è arrivata a denominare la società postindustriale come «società programmata», cioè una società la cui natura e sorte sono legate, più che ai tradizionali rapporti di potere, alla possibilità di programmare il progresso o, comunque, di condizionarlo. Programmare il futuro significa chiudere la gamma delle scelte possibili e privilegiare quella più promettente al fine di produrre, tra tutti i futuri prevedibili, quello più capace di soddisfare i bisogni di chi programma.
Ma non tutti preferiscono, e preferiranno, lo stesso futuro. Scoppieranno conflitti? Se sì, di che genere saranno?
Questo problema è di massimo rilievo perché ci dice che, nello stesso sistema sociale, c’è chi s’impegna per raggiungere uno scopo e chi s’impegna per uno scopo diverso e magari opposto. In ogni società scoppiano contraddizioni di questo genere. Molto probabilmente nella società postindustriale la contraddizione maggiore scoppierà tra chi si batte per il progresso e chi si batte per le sue vittime.
Mi spiego meglio. Da una parte, la società postindustriale richiede grandi capacità di prevedere il corso della storia, di anticiparne la traiettoria, di progettarne tempestivamente il percorso verso una meta prestabilita e di raggiungerla. Dall’altra, il progresso, oltre a portare i suoi vantaggi, fa sempre le sue vittime: così, ad esempio, al vantaggio del progresso tecnologico e alla riduzione dei costi di produzione, si è quasi sempre accoppiato lo svantaggio della disoccupazione.
La «contraddizione tendenziale degli addetti al progresso», studiata dal sociologo Alain Touraine e da Hegedus, consiste appunto nel fatto che i progettisti di futuro, coloro che hanno il potere di programmare l’avvenire, tendono a sottovalutare le vittime del progresso che essi producono, le ignorano quando elaborano i propri piani, le rimuovono quando calcolano i preventivi dei propri budget.
I difensori delle vittime, invece, sanno calcolare molto meglio i danni causati dal progresso ma risultano meno inclini a progettarlo e più critici verso le proposte dei progettisti. Ne risulta una doppia necessità: che chi ha il potere di programmare impari a valutare e a evitare preventivamente i danni prodotti dal progresso; che i difensori delle vittime potenziali del progresso imparino a elaborare dei contropiani alternativi, capaci di produrre progresso senza vittime.
Questa dinamica sociale, come si può comprendere, richiede due tipi diversi di impegno, corrispondenti a due diverse vocazioni.
Torniamo alla parola d’oggi: impegno, appunto. In una società come la nostra e come quella prossima ventura, che posto c’è per chi non conosce questo termine in nessuna delle sue accezioni?
Senza impegno la vita è priva di senso perché resta ancorata al presente, senza slancio verso il futuro laddove, come abbiamo visto, la nostra società postindustriale è centrata proprio sulla previsione e progettazione del futuro.
Io metterei in programma, al primo anno delle scuole superiori e poi di nuovo al primo anno di università, una disciplina che insegni come scandagliare il futuro scientificamente, come costruire scenari e programmi alternativi circa il futuro della propria famiglia, della città in cui si abita, della società in cui si vive, a cinque, dieci, venti anni. In questo modo si aiuterebbero i giovani a capire quale tra i tanti futuri possibili merita l’impegno necessario per essere realizzato, cosa occorre fare oggi affinché domani si avveri il futuro preferito, a quale prezzo economico e umano esso potrà essere raggiunto, a chi tocca mettere mano all’impresa, come condurla, a chi servirà domani e come sarà usato ciò che si costruisce oggi: una famiglia, una casa, un’azienda, una città.
Proviamo a stilare un programma di questo corso di «analisi del futuro» per chi comincia il liceo o l’università.
Come esistono testi di letteratura italiana, storia, chimica, fisica, ci vorrebbe un testo di futurologia che dica: «Oggi in Italia siamo x milioni, domani saremo tot milioni; nel pianeta siamo x miliardi, saremo tot miliardi; la disponibilità di acqua sarà tanta e tanta la disponibilità di uranio». Un testo che fornisca ai giovani le informazioni necessarie per definire possibilità e limiti del proprio futuro, riducendone la carica ansiogena e minacciosa. Dire loro: fra dieci anni il microprocessore del vostro cellulare avrà una potenza di tante volte in più per cui con lo smartphone potrete fare questo e quello, i prezzi dei treni diminuiranno e quelli degli aerei… Insomma, quel tipo di informazioni di cui le aziende sono fornitissime per pianificare i loro affari dovrebbero essere messe a disposizione del comune cittadino. Un’impresa automobilistica, prima di impiantare una linea di montaggio, cerca di capire con precisione, attraverso costose ricerche di mercato, quante auto e di che tipo si consumeranno tra cinque e dieci anni, perché deve organizzare le strutture produttive e decidere dove dislocarle. Perché una possibilità analoga non viene data anche al cittadino? La progettazione del futuro è il nocciolo della società postindustriale. Perché non si forniscono gli strumenti per progettarlo all’individuo o alle famiglie? È, in fondo, quello che fa un genitore quando si sacrifica per far studiare i figli: progetta per lui o lei un futuro migliore del proprio. Il ricco progetta bene il futuro del figlio, così come il re progettava il futuro del suo erede facendolo educare da monarca fin da piccolo. I Borboni avevano una serie di astuzie perfino crudeli per educare il bambino a diventare sovrano. Oggi questa necessità progettuale riguarda chiunque. E, se non sei tu a progettare il tuo futuro, c’è qualcun altro che lo progetta per te.
Nella società industriale, a livello individuale, non si progettava?
Molto meno. Quando compravi una macchina, sapevi che sarebbe durata vent’anni. Un tornio durava una vita… Oggi l’obsolescenza è tale che, se non prevedi le cose in tempo utile, ti trovi spiazzato.
Nell’epoca della sua massima diffusione, nel sentire comune la parola «impegno» rimandava a due culture: il marxismo e il cattolicesimo, appunto, «impegnato». Un giovane «impegnato» a sinistra faceva servizio d’ordine durante le manifestazioni, marxista o cattolico il sabato andava al cinema d’essai o a fare doposcuola ai bambini in borgata. Invece il «non impegnato» andava a ballare o a giocare al pallone.
Si potrebbe dire che l’impegno cattolico mirava alla realizzazione del modello capitalistico visto attraverso la lente delle encicliche sociali mentre quello marxista mirava alla costruzione antagonistica di un contromodello ispirato alla riduzione delle distanze tra le classi, attraverso una più equa distribuzione della ricchezza, del potere, del sapere e delle opportunità. Però entrambi – comunista e cattolico – erano modelli attenti alla solidarietà e venivano perseguiti con passione, a volte persino con fanatismo. Ma anche la danza può essere fatta in modo più dilettantesco e casuale o in modo più impegnato e sistematico. Lo sport può essere semplicemente visto da spettatore più o meno entusiasta o può essere vissuto esercitandolo in prima persona, appassionatamente.
Oggi l’impegno resta intenso almeno in due campi: nelle facoltà scientifiche, dove lo studente di fisica o di matematica o di informatica si applica più o meno con la stessa passione dei tempi di Enrico Fermi; e nei conservatori musicali, dove i giovani studiano e suonano dieci ore al giorno, dedicandosi anima e corpo alla propria vocazione. Quando i nostri ministri della Pubblica istruzione insistono nel raccomandare: «Studiate negli istituti tecnici e nelle facoltà scientifiche», intendono dire che le materie umanistiche non meritano pari impegno perché sono meno spendibili sul mercato del lavoro.
Purtroppo vi è anche un terzo settore in cui l’impegno richiesto al giovane affiliato resta totale: parlo della criminalità organizzata, la mafia, la ’ndrangheta, la camorra, dove la posta in gioco è la ricchezza o la morte.
Insomma, se studi medicina, devi prefiggerti di salvare quante più vite umane è possibile; se fai il camorrista devi essere bravo a sparare e avere coraggio per affrontare il nemico.
C’è un tratto che li accomuna nell’impegno?
Io per impegno intendo la forte tensione verso uno scopo, nella convinzione che quello scopo meriti di essere perseguito con ragione e passione, sistematicamente, tenacemente.
Ci sono due frasi che, lette come due facce della stessa medaglia, possono darci il senso esatto dell’impegno. Una è di Herman Melville che, a un personaggio di Moby Dick, fa dire: «Non mi piace dar mano che a lavori puliti, vergini, matematici, come si deve; qualcosa che cominci regolarmente dal principio, nel mezzo sia alla metà, e alla fine sia concluso». L’altra frase è di Antoine de Saint-Exupéry e dice: «Se vuoi costruire una nave non chiamare a raccolta gli uomini per procurare la legna e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito».
La persona impegnata è pronta a tendere tutte le corde della propria esistenza nello sforzo di raggiungere il risultato che si prefigge. Nella Grecia di Pericle i cittadini di Atene vivevano con la stessa, estrema intensità sia la ginnastica sia la retorica, sia l’arte sia la politica, perché condividevano lo scopo di fare della loro città un modello assoluto di bellezza felice.
Nella nuova agorà, i social network, non occorre «impegno»? Il seguace dei 5 Stelle, che di quel mondo è attivo partecipante, non è «impegnato»?
Sono molto impegnati i leader e abbastanza impegnata la base, ma siamo ben lontani dall’impegno che otteneva Gramsci dai suoi compagni o don Milani dai suoi scolari. Un gruppo più somiglia a un movimento e più suscita impegno; più somiglia a un partito e più si burocratizza. Le Brigate rosse richiedono più impegno di un partito di sinistra, CasaPound più impegno della Lega, un sindacato di base più impegno della Cisl, l’associazione Libera più impegno di un partito come il Pd.
Il sociologo italiano Robert Michels, morto nel 1936, sosteneva che vi è una «legge ferrea» per cui tutti i movimenti prima o poi tendono a trasformarsi in partiti, perdendo in termini di entusiasmo ciò che guadagnano in termini di organizzazione. Del resto, un detto popolare ci ricorda che «si nasce incendiari e si muore pompieri».
Grazie alla loro natura rivoluzionaria e carismatica, i movimenti costituiscono gruppi di riferimento per la battaglia politica e per il trionfo delle idee di cui sono portatori; grazie alla loro tendenza burocratica, i partiti diventano gruppi di riferimento per ottenere protezione e promozione.
L’impegno può essere individuale e comune. Nel discorso con i ventenni in treno mancava – forse – la parola «noi»?
Per oltre cinquant’anni ho trascorso molte ore al giorno con i miei studenti universitari e ho potuto scrutarne le trasformazioni. La parola «noi» significa sociale, collettivo. Prima di pensare che i giovani d’oggi rifiutino quello che gli psicologi chiamano «noità», contrapposta all’individualismo, bisogna andare a fondo nell’analisi. Si scoprirà che stanno cambiando le forme di «noità» e i giovani ci appaiono individualisti, isolati, solitari, semplicemente perché frequentano forme di «noità» diverse da quelle che frequentavamo noi.
Per un sociologo ci sono tante forme di vita collettiva: un movimento o un’istituzione, come ho già accennato; un gruppo primario, un gruppo secondario, una comunità, una società. I «noi» sono tanti. E sono diversi.
Una forte differenza nei comportamenti si nota a seconda che prendiamo in considerazione un gruppo piccolo, di una decina di persone al massimo, o un grande gruppo, magari una folla. Il piccolo gruppo è più razionale e analitico quando affronta un problema e prende una decisione; un grande gruppo – si pensi agli spettatori in uno stadio – è molto più emotivo e passionale; può degenerare persino in forme incontrollabili di violenza o di panico. In un piccolo gruppo l’impegno particolare di un singolo componente è subito notato e, se accompagnato da composta creatività, finisce per tradursi in leadership; in un grande gruppo l’impegno del singolo si disperde ed egli può diventare capopopolo solo grazie alle sue doti carismatiche.
Un altro sociologo, questa volta il tedesco Ferdinand Tönnies, ha distinto i grandi aggregati in Gemeinschaft, ossia comunità e in Gesellschaft, cioè società. I significati e i termini dell’impegno mutano radicalmente quando si passa dall’una all’altra tipologia.
Cosa intende Tönnies per «comunità»?
Un gruppo come la famiglia, il parentado, il clan, il villaggio, il quartiere, dove tutti si conoscono, uniti da legami di consanguineità, di etnia o di territorialità. La comunità è come un organismo vivente, dove la convivenza durevole e genuina privilegia i rapporti «caldi», fiduciari, confidenziali, intimi, esclusivi e personalizzati in cui vengono premiati la fedeltà, l’affetto, il dono. Nella comunità una persona si trova legata ai suoi fin dalla nascita, nel bene e nel male.
I rapporti comunitari hanno uno spazio limitato dove l’individuo si sente nutrito, sicuro, tutelato, ma anche controllato a vista, oppresso, deprivato di più vasti orizzonti.
Un esempio ormai classico è quello di Chiaromonte, un paese della Lucania studiato dal sociologo americano Edward Banfield e descritto nel libro Le basi morali di una società arretrata dove il collante era costituito dal «familismo amorale».
In un simile contesto, dove ognuno contribuisce all’organizzazione con tutto se stesso ricevendone in cambio una tutela altrettanto completa, l’impegno consiste nell’assicurare agli altri membri del gruppo il proprio affetto, la propria tenerezza, la propria dedizione. In passato era frequente nella comunità una netta differenziazione tra uomini e donne, per cui dai primi si esigeva l’impegno al sostentamento economico della famiglia e dalle seconde l’impegno della cura. Oggi tutti i membri della comunità hanno pari diritti e doveri e, per la prima volta nella storia, Enea sorregge Anchise: sono cioè i vecchi pensionati a mantenere i giovani Not engaged in Education, Employment or Training, i Neet.
E invece, per il sociologo tedesco, cosa dobbiamo intendere per «società»?
Secondo Tönnies la società è «una cerchia di uomini che, come nella comunità, vivono e operano pacificamente l’uno accanto all’altro, ma che sono non già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati, rimanendo separati nonostante tutti i legami, mentre là rimangono legati nonostante tutte le separazioni». La società costituisce una forma più evoluta di vita collettiva, caratteristica del mondo industriale e postindustriale, basata sull’interesse, sull’organizzazione aziendale e burocratica, sul contratto, sulle categorie professionali. Essa privilegia i rapporti formali, «freddi» e spersonalizzati in cui vengono premiati la competenza e il merito. Se nella comunità ci si dà del «tu», nella società ci si dà del «lei».
In questo ambito, ognuno sta per conto proprio e in uno stato di tensione verso tutti gli altri. Le migliaia di operai, di impiegati, di quadri, di professionals, di manager, di dirigenti che ogni mattina entrano in azienda e vi restano per otto ore lavorando insieme e insieme perseguendo lo stesso fine produttivo, sono un classico esempio di «società». La loro vicinanza è più un aggregato quasi meccanico di attività parallele che una confluenza di tutti i soggetti in un unico tessuto organico. È il mondo dell’estraneità reciproca, delle mansioni definite, dell’organizzazione urbano-industriale, dei colletti bianchi, della folla solitaria. È il mondo delle associazioni di professionisti, delle grandi corporazioni burocratiche, delle multinazionali.
Un membro della «società» è un «numero» del grande «collegio», un punto di riferimento di certe funzioni, un polo di diritti e di doveri elencati in un regolamento e in un contratto, un «cittadino» o un «dipendente» che ha rapporti con altri cittadini e con altri colleghi in un numero che può crescere all’infinito.
Nella «società» l’impegno richiesto consiste essenzialmente nel rispetto scrupoloso del regolamento contrattato, nel puntuale compimento delle mansioni assegnate, in sinergia con tutti gli altri, nell’onesta scalata dei vari gradini previsti dalla programmazione delle carriere.
Caliamo questa distinzione sul nostro esempio: i giovani «sdraiati» assumono impegni in un contesto comunitario o societario?
Può darsi che i giovani incontrati in treno non abbiano un impegno collettivo del genere societario perché sono disoccupati o non vanno a votare, ma ciò non esclude che non abbiano impegni di tipo comunitario. Certamente ognuno di loro partecipa sui social a più gruppi con altri giovani, magari dislocati in varie parti del mondo, si connette con loro più volte al giorno e li incontra fisicamente in particolari circostanze come un concerto o una partita di calcio o un pellegrinaggio. Probabilmente parecchi tra loro mantengono contatti fecondi con gruppi di immigrati, accorrono a prestare il loro aiuto disinteressato in caso di incendi o terremoti, si cimentano nella street art emulando Os Gêmeos o Banksy o fumettisti come Zerocalcare.
Poi c’è l’impegno individuale. Migliaia di giovani emigrano da un Paese all’altro per motivi di studio o di lavoro. Andare a studiare a Londra è un lusso ma anche un sacrificio e un disorientamento per un giovane che deve sradicarsi dal suo contesto e ricollocarsi in un ambiente estraneo.
L’impegno implica sempre l’idea di promuovere se stesso o altri, migliorare qualcosa su questa Terra, compiendo opere di bene per guadagnarsi il Paradiso. Promuoversi significa salire di livello: andare in Paradiso anziché in Purgatorio, se l’orizzonte è quello teologico della religione; raggiungere il ruolo e lo status di dirigente anziché accontentarsi di fare l’impiegato, se l’orizzonte è quello professionale dell’azienda.
Al divide tra analogici e digitali di cui abbiamo parlato in una precedente conversazione bisogna aggiungere, quindi, il divide tra impegnati e disimpegnati.
Nelle aziende e nelle burocrazie usare il «noi» è più frequente tra gli operai che si sentono solidali tra loro e accomunati da una sia pur declinante solidarietà di classe, mentre è raro tra i lavoratori intellettuali: il manager è sempre stato meno sindacalizzato dell’impiegato e l’impiegato dell’operaio. Quando l’operaio dice «noi» intende la classe operaia o il sindacato, quando l’impiegato e più ancora il manager dice «noi» intende l’azienda, con la quale si identifica.
Quando sei poco sindacalizzato, cerchi di risolvere i tuoi problemi discutendoli a tu per tu con il tuo capo diretto o con il capo del personale. E siccome ormai i lavoratori intellettuali – impiegati, manager, dirigenti – sono la stragrande maggioranza della forza lavoro, il loro impegno, quando c’è, tende a essere individuale sia se si tratta di fare carriera, sia se si tratta di difendere i propri diritti.
In effetti fece clamore nel 1980 la «marcia dei quarantamila», quella dei quadri Fiat scesi in piazza…
Quello resta un caso raro se non unico. E fu un’iniziativa presa appunto per autopromuoversi, perché era dettata dalla paura di essere scalzati totalmente dal potere detenuto nei reparti di produzione e negli uffici. Quella impiegatizia, quella dei capi intermedi, era la fascia più erosa nei suoi diritti dall’ascesa operaia: l’operaio non toglieva potere ad Agnelli, toglieva potere al caposquadra e il caposquadra si ribellò.
Cosa potrebbe succedere a una società in cui esista ancora l’impegno individuale, ma manchi quello collettivo?
Insisto sull’idea che nei giovani d’oggi non manca l’impegno collettivo tout court, ma solo determinati tipi d’impegno. Nell’attuale governo ben ventisette parlamentari hanno meno di trent’anni e un giovane trentaduenne è contemporaneamente vicepresidente del Consiglio, ministro del Lavoro e ministro dello Sviluppo economico.
È vero che c’è disimpegno politico, ma la compagine che ha raccolto maggiori voti alle ultime elezioni è un movimento composto prevalentemente da giovani molto impegnati in prima persona nell’organizzazione del consenso.
Con questo non intendo minimizzare il pericolo insito nel disimpegno politico: la subordinazione delle masse a una ristretta élite autoritaria lucidamente prevista da Tocqueville. Quella subordinazione può essere contrastata ed evitata solo attraverso l’azione collettiva.
Qual è il nesso tra azione individuale e collettiva?
L’impegno si può esplicare a diversi livelli progressivi. Al primo livello c’è chi è del tutto disimpegnato, perfino per se stesso, chi, nel suo nichilismo, si dice: «Non c’è niente da fare, i giochi sono troppo più alti di me, non sono io che posso incidere sul futuro». Il secondo livello è di chi pensa che l’impegno ci voglia, ma solo quello individuale e si ripete: «Me la devo cavare da solo, devo sgomitare per arrivare a conquistare determinati punti». C’è poi un terzo livello raggiungibile da chi capisce che sgomitando da solo non otterrà mai nulla e che tra dieci anni, se continua a giocare da solo, si ritroverà allo stesso livello di oggi.
I ragazzi del treno erano fermi al secondo livello?
Parlando con quello specifico gruppo, incontrato casualmente, ho avuto l’impressione che quei giovani abbiano riflettuto su questo tema per la prima volta nel corso del nostro colloquio.
Acquistare consapevolezza significa capire bene dove voglio arrivare, qual è la posta in gioco, chi è dalla mia parte, chi è il nemico oggettivo che mi ostacolerà, come posso allearmi con i primi e contrappormi ai secondi. Insomma, ci vogliono tattica e strategia. Devo avere delle avanguardie che mi conducano o farmi avanguardia io stesso. È il processo che abbiamo già visto, quello attraverso cui il mucchio di sabbia diventa un mattone.
Ma oggi l’esigenza di mutamento sociale è o negata o osteggiata: noi stiamo mutando e avanzando in campo tecnologico, ma siamo fermi in tutto il resto o stiamo addirittura arretrando. La condizione operaia, ad esempio, è molto peggiore di vent’anni fa. Oggi un impiegato, se è stato assunto quando certi diritti erano acquisiti, a Natale prende la tredicesima e d’estate la quattordicesima; un ragazzo neoassunto, invece, ha lo smartphone, ma siccome ha un contratto precario viene licenziato da una stagione all’altra. Paradossalmente, il progresso tecnologico rende più difficile il progresso dei diritti.
Perché?
Perché contribuisce a rendere superflui i corpi intermedi: il partito come il sindacato. È la disintermediazione di cui, a proposito proprio del sindacato, ha parlato l’attuale ministro dello Sviluppo economico che, per risolvere la questione dell’Ilva come quella dei precari della gig economy, ha incontrato direttamente i lavoratori e le aziende, senza passare attraverso i sindacati. Stessa cosa fece Matteo Renzi quando, da presidente del Consiglio dei ministri e da segretario di un partito di sinistra, disse: «Per i problemi di lavoro preferisco parlare con Marchionne, amministratore delegato della Fiat, piuttosto che con la Camusso, segretario generale della Cgil».
I datori di lavoro hanno sempre cercato di scavalcare il sindacato e trattare direttamente con i singoli lavoratori perché, in questo modo, i rapporti di forza pendono certamente dalla loro parte. Il singolo lavoratore è inerme e perdente se non è spalleggiato da un sindacato. Quando, negli anni Cinquanta, Valletta volle sconfiggere la Cgil che mobilitava gli operai della Fiat, arrivò a creare un sindacato «giallo», emissario della direzione aziendale.
La maggioranza dei datori di lavoro ha sempre visto il sindacato come il fumo negli occhi e ha diffuso l’idea che i loro interessi non siano contrapposti ma complementari rispetto agli interessi dei lavoratori: «Siamo tutti nella stessa barca, siamo una grande famiglia… Che bisogno c’è di avere difensori intermedi? Non c’è niente che vi minaccia».
In che misura certe forme di comunicazione diretta – tanto Twitter quanto Facebook – confliggono con l’impegno collettivo?
Le nuove tecnologie ti danno veramente l’impressione che te la puoi cavare da solo. Oggi tutto spinge ad abolire le rappresentanze, gli intermediari. Per un’operazione bancaria basta il computer; per prenotare una stanza d’albergo, un posto in treno o in aereo basta Internet. Le rubriche di arredamento, in Rete o alla tv, puntano a trasformare la casalinga in arredatrice in proprio. Le rubriche sulla salute inducono chi legge a farsi da solo la diagnosi e assegnarsi la cura. E il risultato finale qual è? In politica, è il sorteggio proposto da Grillo. Se puoi decidere per tuo conto se sposarti, se fare un figlio, come arredarti la casa, che aspirina prendere, allora non hai neppure bisogno di qualcuno che ti rappresenti in politica. A quel punto, uno vale uno, sotto tutti i punti di vista.
«Uno vale uno» in realtà c’è già nella nostra Costituzione: il voto di Benedetto Croce o di Umberto Eco vale quanto quello dell’analfabeta… La democrazia si distingue da altre forme di organizzazione politica proprio per questo. Ma il sorteggio proposto da Grillo per individuare i senatori, e già adottato in Italia per la scelta di alcuni magistrati e di alcune commissioni universitarie, presuppone che tutti i potenziali sorteggiati posseggano un grado equivalente di cultura e di professionalità.
L’esempio tuttora insuperato di questa democrazia diretta è l’Atene di Pericle dove, però, i cittadini a pieno titolo (cioè gli adulti maschi e liberi) erano 40.000. Le donne, i 20.000 meteci e i 150.000 schiavi erano considerati come altrettanti utensili, dotati di voce, ma privi di anima e di cittadinanza.
Gli ateniesi ritenevano che solo i dieci generali e alcuni altri funzionari, per un complesso di cento cariche particolarmente delicate e specialistiche, come ad esempio la gestione del sistema idrico, dovessero essere elettive in base alla competenza. Per tutte le altre mille cariche bastava il sorteggio tra i 40.000 cittadini a pieno titolo. Tra l’altro, il sorteggio era preferito affinché anche gli dei, padroni del caso, si assumessero le loro responsabilità.
Va ricordato, però, che tutti questi cittadini sorteggiabili avevano frequentato la scuola obbligatoria che durava fino a vent’anni; nei ginnasi, nell’Accademia e nel Liceo insegnavano professori del calibro di Platone e di Aristotele; la formazione riguardava sia la sfera fisica, con esercizi ginnici e militari, sia quella spirituale; all’educazione iniziale dei giovani, affidata alle discipline scolastiche, si aggiungeva la formazione permanente degli adulti affidata alle storie raffigurate sui vasi e nei templi, ai racconti mitologici, alle sacre rappresentazioni, alle gare poetiche, ginniche e ippiche, alle stagioni teatrali, alle sculture, alla musica, alla danza, ai simposi. Un ateniese, giunto a quarant’anni, aveva già assistito almeno a trecento rappresentazioni teatrali di drammi e commedie di altissima qualità.
Erano questi i cittadini tra i quali si sorteggiavano le cariche pubbliche, tutte della durata di un anno. E il metodo del sorteggio era giustificato da Aristotele: «Non è detto che l’autore di un’opera sia giudice capace di apprezzarla più di quelli che dell’arte non si intendono: per esempio, la casa l’apprezza non solo chi l’ha fatta, ma ancora, e meglio, chi la deve abitare… Similmente il pilota porterà sul timone giudizio più giusto di chi lo ha fabbricato, e del convito meglio il convitato che il cuoco».
Opposto il giudizio di Socrate, in netta minoranza: «È assurdo che i governanti della città debbano essere assunti per sorteggio, quando nessuno impiegherebbe un nocchiere o un falegname o un flautista scelto a sorte, anche se gli errori che questi possono compiere sono molto meno dannosi degli sbagli nel campo della politica che riguarda la cosa pubblica».
Si può dunque accogliere tranquillamente la proposta di Grillo: sceglieremo i senatori per sorteggio, ma quando tutti i cittadini italiani avranno seguito con profitto i loro studi fino a vent’anni e avranno assistito a trecento rappresentazioni teatrali del calibro di Antigone e di Edipo re.
Chi sono oggi, se ci sono, gli «impegnati» a pieno titolo?
In tanti sono impegnati come volontari, nell’ambito di associazioni sia laiche sia religiose.
Intendiamoci, in tutti i settori si trovano persone impegnate, anche in quelli dove più eccentriche sono le modalità organizzative e più occhiuto è il datore di lavoro: si pensi ad Amazon o a Foodora, dove si cominciano a intravedere i primi segni di aggregazione antagonistica, frutto di un’esasperazione dei lavoratori che ha superato ogni limite. Prima bastavano molti meno soprusi e intrusioni del datore di lavoro per provocare una forte reazione sindacale; oggi il lavoratore può essere controllato attimo per attimo attraverso braccialetti elettronici e ho letto da qualche parte che in Cina stanno sperimentando persino dei chip impiantati sottopelle per dirigere il lavoratore verso le postazioni desiderate dall’organizzazione, per tenerlo sotto controllo costante e per valutarne i minimi comportamenti. Persino Taylor, con il suo cronometro e la sua divisione scientifica del lavoro, si rivolterebbe nella tomba.
Anche nella scuola e nell’università lo studente è meno reattivo?
Nel Sessantotto bastava una piccola angheria da parte del professore – che ne so, bastava spostare la data di un esame – per provocare scioperi e occupazioni. Oggi il docente può fare quello che vuole e non ci sarà neppure uno studente a ribellarsi.
Meno che mai si ribellano i professori ai soprusi subiti da parte dei governi. In sette anni i docenti universitari sono diminuiti del 20 per cento e i finanziamenti sono stati ridotti – benché l’Italia viva un grave deficit di laureati. Praticamente è stata messa a punto una vera, accanita strategia contro la scuola e contro il ceto degli insegnanti ma, quando è partita la lotta dei docenti precari, ha scioperato solo una quota minima del corpo docente.
Salvo che nei trasporti pubblici, lo sciopero sembra diventato uno strumento del passato, obsoleto, fuori moda.
Nessuno crede più all’azione collettiva. D’altra parte i mass media si sono accaniti a convincerci che gli scioperi non servono più a niente. Non c’è più un impegno rivoluzionario in nessun settore lavorativo. Una parte del ceto medio si è proletarizzata e il proletariato, tutto intero, non è più il motore della storia, quello che – secondo Marx – riscattando se stesso avrebbe riscattato l’intera umanità.
Sono disperati pure i parroci che non trovano più chierici e le badesse che non trovano più monache e devono importarle dall’India.
Il fenomeno delle Ong che soccorrono i migranti nel Mediterraneo non è un esempio – straordinario – di nuovo impegno?
Non c’è dubbio. E si tratta quasi sempre di soccorritori giovanissimi. Bisognerebbe studiare davvero chi vi presta la sua opera per capire quale motivazione li spinge. Peter Drucker, grande guru del management, scrisse un saggio molto interessante su ciò che le imprese profit possono apprendere dalle imprese non-profit. Io ho dedicato l’ultimo capitolo del mio libro Il lavoro nel XXI secolo a questo, ovvero al fatto che l’organizzazione del lavoro postindustriale dovrebbe copiare dal non-profit come si sostituisce la molla del denaro e della competitività con la motivazione derivante dalla gioia di imparare, donare e cooperare.
Capita, se chiedi a un giovane precario come mai svolge tutti i giorni e per tutto il giorno un certo lavoro presso un’azienda che neppure lo paga, ti senti rispondere: «Perché mi piace».
Abbiamo visto il nesso tra «impegno» e «progettazione». Ma si può progettare solo se si può avanzare, se la società, cioè, prevede mobilità. Nella società industriale, rispetto alla nostra, la mobilità sociale era maggiore o minore?
Era molto maggiore rispetto alla società rurale, dove il servo della gleba restava tale per tutta la vita. Ma era raro che un operaio diventasse impiegato. E raro che una donna arrivasse a posizioni di comando. In compenso c’era poca mobilità discendente: quando eri salito di livello c’erano molte probabilità di restarci. Se eri figlio di notaio, diventavi notaio, era molto difficile che diventassi qualcosa di meno prestigioso. Se il figlio di un medico diventava operaio, era uno scandalo.
Oggi, al contrario, c’è molta mobilità discendente?
Decisamente. Tutti i disoccupati sono figli di un occupato, basterebbe già questo a dimostrarlo. Di sicuro i padri di quei ragazzi con cui parlavo in treno a trent’anni erano già professionisti affermati. I posti disponibili erano meno, però erano sicuri anche perché gli italiani, che oggi sono 61 milioni, subito dopo la guerra erano appena 45 milioni.
Ma parlando di andamento del mercato del lavoro, bisogna ricordare che un’influenza ce l’ha anche la frammentazione del sapere: le poche discipline di un tempo si sono sfioccate in decine di facoltà, e ogni facoltà ha decine di corsi di laurea, perché la mole di cose da conoscere è cresciuta enormemente. Prima c’erano delle facoltà passepartout come ad esempio Giurisprudenza. Con quella laurea potevi insegnare perfino le lingue, oltre a fare il notaio e l’avvocato penalista, il civilista e il magistrato. Oggi la rigidità dei corsi offre, inoltre, meno opportunità di scelta e di impiego coerente con la laurea e il laureato è costretto a ripiegare su professioni di minore prestigio. Mi capita di incontrare miei ex studenti, magari laureati con il massimo dei voti e titolari di ottimi master, che fanno i camerieri in un bar o i bigliettai sui treni. Una mia ottima laureata, esperta in formazione manageriale, dopo avere diretto una summer school di management culturale ha fatto l’addetta al marketing in un teatro e, quando il datore di lavoro ha ridotto gli organici, si è messa in proprio e ha avviato un centro di massaggi.
Se non si recupera una vera sfera collettiva, da qui al nostro 2030 cosa può succedere?
Opposto della solidarietà e dell’azione collettiva è l’egoismo. Aumenta la sabbia e si rimpiccolisce il mattone. Però stiamo attenti: i granelli di sabbia attuali sono disoccupati, oppure operai, working poors davvero privi di sicurezze e garanzie. Non sono i proletari bene organizzati in classe sociale, con un contratto a tempo indeterminato, in Fiat dai diciotto ai sessant’anni, poi in pensione. Sono granelli di sabbia in perenne oscillazione esistenziale, in un ciclo – altro che alternanza scuola-lavoro! – che alterna il lavoro e la disoccupazione senza nessun paracadute.
Con le prossime ondate di progresso tecnologico e con la conseguente riduzione drastica del monte ore di lavoro necessario per produrre tutto ciò che ci occorre, molti dovranno vivere per forza con il reddito di cittadinanza; anzi, reddito di esistenza. Se esisti oggi, per il solo fatto di esistere, avrai diritto a esistere anche domani. Avrai cibo, perché il cibo ci sarà per tutti. E ci vorrà cultura, crescita culturale, offerte culturali affinché il tempo libero non si riduca a pura vita vegetativa o non degeneri in droga e violenza. Non si tratterà di panem et circenses, come nell’antica Roma, dove la plebe scialacquava una ricchezza immensa, drenata da tutto l’impero, e si abbrutiva gozzovigliando mentre, sotto i loro occhi, le belve sbranavano i cristiani o i gladiatori, educati alla mattanza, si eliminavano a vicenda. Per sfamare e divertire con oscena crudeltà quella plebe lavoravano tutti gli schiavi e i barbari dell’impero; per nutrire e coltivare intellettualmente, esteticamente, eticamente i cittadini della società postindustriale lavoreranno i robot, gli apparati di intelligenza artificiale e le menti dei creativi.
Esiste un modello cui ispirare questa futura età del tempo libero? E qual è?
Il modello ateniese. La scuola del futuro dovrà ispirarsi all’unico modello che abbia capito che, quando i cittadini non hanno bisogno di lavorare, il problema è la gestione del tempo. Allora non esistevano i robot, ma il cittadino libero aveva a disposizione meteci e schiavi. Nel IV secolo a.C., tra il 317 e il 307, Demetrio Falereo ordinò un censimento generale dell’Attica, che risultò abitata da 21.000 cittadini a pieno diritto, 10.000 meteci, cioè stranieri addetti al commercio e all’artigianato, e 40.000 schiavi. Praticamente per ogni cittadino vi erano più di due persone prive di diritti civili che lavoravano per lui quasi gratis. E i cittadini si occupavano prevalentemente dell’organizzazione della polis, gestita con l’intento di rendere il più felice possibile i suoi abitanti.
In Mappa mundi ho affrontato in modo specifico il confronto tra diversi modelli, da quello confuciano a quello islamico, da quello illuminista a quello comunista. Ma nessuno più di quello ateniese mi sembra adatto a ispirare il modello di convivenza che dovremo adottare quando ognuno di noi avrà a disposizione due o tre schiavi meccanici che lavorano per lui. Certo, oggi al posto della polis c’è l’intero pianeta, ma i mezzi di comunicazione che abbiamo a disposizione trasformano il mondo in un villaggio ancora più piccolo, a misura umana e interconnesso di quanto non fosse l’Atene di Pericle.
Con sette miliardi di persone, che nel 2030 saranno diventati otto?
Ai pionieri che in America volevano praterie più vaste bastava spostare con la forza gli accampamenti indiani e appropriarsi del loro territorio. Ai contadini poveri del Veneto o dell’Irpinia che cercavano lavoro bastava emigrare negli Stati Uniti o in Brasile per trovare un’occupazione decorosa. Ora nessuno si illude che, fra cinquant’anni, mancando lo spazio o il lavoro, si possa traslocare su Marte. Perciò abbiamo la sensazione di essere ormai alla fine di un ciclo: non esiste più l’estero, la terra straniera, il luogo in cui espatriare. Un tempo si diceva, quasi utopisticamente, che «tutto il mondo è paese». Con la globalizzazione ormai compiuta, quella frase è diventata reale: siamo un solo villaggio chiuso dal quale è impossibile evadere.
John Kennedy, di fronte alla difficoltà degli Stati Uniti di allargare all’infinito i propri confini a scapito di altri, propose agli americani una «nuova frontiera»: non più estendere orizzontalmente il proprio dominio con le portaerei e gli eserciti, ma recuperare verticalmente gli emarginati del Paese includendoli con il welfare nel sistema di opportunità e di tutele riservate ai privilegiati.
L’impegno che Kennedy chiese ai suoi cittadini per varcare la nuova frontiera degli Stati Uniti è lo stesso impegno richiesto oggi a tutti i privilegiati del mondo – un miliardo di persone su sette – per ridurre le disparità che l’economia neoliberista ha reso scandalose.
Noi sappiamo alcune cose. Sappiamo che, di sicuro, occorrerà sempre meno lavoro per produrre sempre più cose. Sappiamo che, di sicuro, il disagio crescente non deriva dalla carenza di risorse, ma dal fatto che alcuni si appropriano di una porzione talmente esorbitante di esse da costringere altri alla povertà assoluta. Sappiamo che, di sicuro, se dividessimo equamente la ricchezza prodotta, questa basterebbe per assicurare il benessere a tutti. Sappiamo anche che, di sicuro, questa situazione, se prosegue con il trend attuale, si risolverà solo con un’azione rivoluzionaria, perché mai i detentori di questa ricchezza crescente la redistribuiranno spontaneamente.
I numeri ci aiutano ancora una volta a spiegarci meglio: oggi il prodotto interno lordo pro capite negli Stati Uniti è di 56.000 dollari; se ogni americano disponesse davvero di questa cifra, non ci sarebbero, come ci sono, 40 milioni di poveri. Nei Paesi della zona Euro il Pil pro capite è di 35.000 dollari; se ogni europeo disponesse davvero di questa cifra, non ci sarebbero, come ci sono, 117 milioni di poveri. Nei 196 Paesi del mondo il Pil pro capite è di 10.000 dollari; anche con questa cifra, se ciascuno dei 7,4 miliardi di abitanti della Terra potesse davvero percepirla, tutti potremmo vivere comodamente. Questa redistribuzione dovrebbe rappresentare il massimo impegno delle Nazioni Unite. Purtroppo, però, la stragrande maggioranza degli economisti si ostina a insegnare che la povertà è un male ineliminabile e che questo, forse, è persino un bene.
Cosa possiamo prevedere sul fronte delle migrazioni? Che cosa succederà da qui al 2030?
Sappiamo che nel 2030 il mondo sarà più ricco e il Pil pro capite crescerà fino a 15.000 dollari rispetto agli attuali 10.000. Sappiamo pure che la ricchezza continuerà a essere distribuita in modo ineguale: già oggi una mucca da latte in Europa riceve un sussidio di 913 dollari mentre un abitante dell’Africa subsahariana riceve 8 dollari. Sappiamo che tra questa parte povera dell’Africa e l’Europa il gap resterà più o meno lo stesso di oggi: uno a dieci. Sappiamo, infine, che, nonostante il mainstream, la visibilità di queste macroscopiche disuguaglianze alimenterà movimenti e conflitti. Cento anni fa l’abitante del Ciad o del Sudan, se non era cattolico, nemmeno sapeva dell’esistenza di Roma, mentre oggi la vede in tv così come vede lo sciupio vistoso di tutta l’Europa.
D’altra parte, nella sponda sud del Mediterraneo la Libia ha un Pil pro capite di 8000 dollari, l’Algeria di 4000, il Marocco di 3000, il Ciad di 780, il Niger di 361 dollari. Invece nella sponda nord la Spagna ha 26.000 dollari, la Francia 38.000, l’Italia 30.000, la Germania 42.000, la Svizzera 81.000. Tra queste due realtà così sfasate vi è di mezzo la più fluida delle barriere: il mare.
Quindi la spinta al flusso migratorio dall’Africa, ma anche dalla Siria e dalle altre zone di guerra, sarà uguale se non maggiore di quella attuale, tanto più che, come abbiamo visto nella conversazione sulla longevità, la popolazione africana aumenterà e quella europea diminuirà. Identica, invece, resterà la propensione dei Paesi ricchi a sfruttare, anziché aiutare, i Paesi poveri, impedendo così il loro sviluppo. Una di queste mattine alla radio un ascoltatore di Prima pagina, già a lungo volontario in alcuni Paesi africani, così riassumeva la situazione: «Oggi, come trent’anni fa, i bambini nelle miniere del Ghana scavano l’uranio, l’uranio viene loro pagato quattro euro al chilo, ma arrivato in Italia ne vale quattrocentomila; le mamme di questi ragazzi, come trent’anni, fa devono fare dieci chilometri per pigliare un secchio d’acqua. Intanto ogni giorno partono dagli Stati Uniti ottanta navi cariche di detriti tossici da scaricare in Africa».
Quindi il problema sono gli Stati Uniti e l’Europa.
L’Europa continuerà a blindarsi. E si ripeterà, questa volta a livello planetario, una situazione simile a quella sperimentata in Sudafrica, quando a Città del Capo il quartiere dei bianchi era assediato dai neri. Puoi pure mettere in galera Mandela per ventisei anni, ma alla fine devi venire a patti.
Potremmo usare il poco tempo che ancora ci resta, prima che l’uomo bianco sia assediato dall’uomo nero, per creare una società multietnica, ridurre le distanze culturali tra i popoli, incrementare l’integrazione, moltiplicare il dono reciproco di sapere e di arte.
Invece sta prevalendo una prima pulsione, la più infantile e autolesionista: «Chiudiamo tutto». Una seconda pulsione un poco più evoluta, ma per ora velleitaria, è: «Chiudiamo tutto ma intanto realizziamo urgentemente un grande Piano Marshall per l’Africa». Per realizzare questo piano, però, il primo passo dovrebbe consistere nella riduzione dello sfruttamento, mentre i Paesi che alzano i muri sono gli stessi che spalancano le loro frontiere quando si tratta di far passare le materie prime e la manodopera comprate a basso costo. Le navi possono attraccare nei nostri porti se sbarcano uranio o petrolio, non se sbarcano migranti.
Una terza pulsione, la più adulta, quale potrebbe essere?
Promuovere non solo aiuti economici, ma anche culturali: un grande piano di sviluppo per finanziare scuole locali, università, laboratori di ricerca e media affinché i Paesi poveri acquistino coscienza dello sfruttamento cui sono sottoposti e trovino una loro autonoma via di progresso, liberandosi della subordinazione politica, militare e finanziaria con cui vengono colonizzati.
È giusto evocare l’immagine del Piano Marshall?
Sì. Però all’epoca ci fu un solo Paese, gli Stati Uniti, che aiutò più Paesi europei. Oggi sarebbero molti Paesi europei ad aiutare molti Paesi africani, dal Ghana alla Mauritania. E questo da una parte complica le cose, dall’altra le rende più corali e meritevoli.
Eccoci di nuovo alla parola «impegno». Pianificazione contro egoismo: è questo che si chiederebbe ai Paesi impegnati nel nuovo Piano Marshall?
A mio avviso il disimpegno dei giovani, se e quando c’è, non è altro che la proiezione a livello individuale di un disimpegno più generale che caratterizza l’intero pianeta. Bisogna ammettere che finora non abbiamo mai avuto un esempio storico d’impegno planetario da parte dei popoli privilegiati in favore dei popoli sfruttati. Ma è anche vero che solo ora, per la prima volta, abbiamo la tangibile percezione e consapevolezza di vivere in un pianeta concluso, in una patria comune, dove condividiamo un comune destino: prima di tutto ecologico.
Tra gli anni Sessanta-Settanta e i Novanta del Novecento l’impegno ecologico ha goduto di grande attenzione e fortuna. Perché oggi sembra derubricato?
I problemi in realtà si sono aggravati, ma anche la coscienza ecologica mi sembra più estesa e cresciuta. Negli ultimi decenni del secolo scorso sono fiorite sia le ricerche scientifiche sia i dibattiti divulgativi sui temi relativi ai limiti dello sviluppo, alla complessità, all’epistemologia. Da Kuhn a Feyerabend, da Lakatos a Edgar Morin, da Bocchi a Ceruti, da Maturana a Varela c’è stata tutta una vasta produzione di saggi che hanno scandagliato i percorsi della conoscenza e i rapporti dell’uomo con l’ambiente. Da ultimo papa Francesco ha dedicato un’intera enciclica, Laudato si’, a questi problemi, chiedendo a tutti – governi, istituzioni, singoli – un impegno prioritario per risolverli.
Qual è il messaggio del papa?
Vale la pena, in questa sede, di sottolinearne almeno tre aspetti, strettamente connessi al tema dell’impegno. Colpisce, anzi tutto, l’intento dichiaratamente rivoluzionario impresso alla lettera: «Mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli. […] Ciò che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale. […] Ogni aspirazione a curare e migliorare il mondo richiede di cambiare profondamente gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società».
Il secondo aspetto che balza agli occhi è la concezione unitaria e interconnessa che papa Francesco ha dell’universo e dell’umanità. «Tutto è collegato. Per questo si richiede una preoccupazione per l’ambiente unita al sincero amore per gli esseri umani e un costante impegno riguardo ai problemi della società. […] Non ci sono frontiere e barriere politiche o sociali che ci permettano di isolarci, e per ciò stesso non c’è nemmeno spazio per la globalizzazione dell’indifferenza. […] Il sole e la luna, il cedro e il piccolo fiore, l’aquila e il passero: le innumerevoli diversità e disuguaglianze stanno a significare che nessuna creatura basta a se stessa, che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per completarsi vicendevolmente, al servizio le une delle altre».
Il terzo aspetto rilevante è l’evidenza posta sul rapporto tra i privilegi dei ricchi che inquinano e la miseria dei poveri che subiscono l’inquinamento: «Il riscaldamento causato dall’enorme consumo di alcuni Paesi ricchi ha ripercussioni nei luoghi più poveri della Terra, specialmente in Africa, dove l’aumento della temperatura unito alla siccità ha effetti disastrosi sul rendimento delle coltivazioni. A questo si uniscono i danni causati dall’esportazione verso i Paesi in via di sviluppo di rifiuti solidi e liquidi tossici e dall’attività inquinante di imprese che fanno nei Paesi meno sviluppati ciò che non è loro permesso nei Paesi sviluppati o del cosiddetto Primo mondo».
Da qualunque parte si analizzi, l’impegno è l’opposto dell’egoismo. Per un sociologo che cos’è l’«egoismo»?
L’egoismo è una passione e quindi fa parte della nostra sfera emotiva. Dunque richiederebbe una riflessione psicologica e psicanalitica. Io non sono né psicologo né psicanalista, perciò mi limito a qualche flash di ordine sociologico ed economico, affrontando il concetto da tre angoli di visuale: quello di Smith, quello di Marx e quello della Chiesa cattolica.
Si deve a Adam Smith, padre dell’economia liberista, se il concetto di egoismo è stato sdoganato eticamente e collocato al centro del nostro agire economico. Celebre il passaggio del suo capolavoro, La ricchezza delle nazioni: «Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio, o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo e parliamo dei loro vantaggi, mai delle loro necessità».
E invece cosa dice Marx?
Marx parte da un altro punto di vista: gli esseri umani sono egoisti a causa dell’organizzazione capitalistica che rende tutti competitivi. Se i mezzi di produzione e i prodotti appartenessero a tutti, non saremmo egoisti ma spontaneamente portati alla reciproca felicità. Il secondo libro del Capitale si conclude con questa frase: «Se tu ami senza destare una amorosa corrispondenza, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è una infelicità».
E infine la Chiesa.
Tutte le grandi encicliche sociali hanno come bersagli da una parte il comunismo e dall’altra il liberismo. Nella Populorum progressio Paolo VI bolla severamente «il profitto, come motivo essenziale del progresso economico; la concorrenza, come legge suprema dell’economia; la proprietà privata dei mezzi di produzione, come un diritto assoluto senza limiti né obblighi sociali corrispondenti». Ma ancora più drastico è papa Francesco nella sua esortazione apostolica – la Evangelii gaudium – del 24 novembre 2013. Vale la pena di leggerne un passo: «Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questa è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questa è iniquità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate. Senza lavoro, senza prospettive, senza vie d’uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello scarto, che addirittura viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo. Con l’esclusione resta colpita nella sua stessa radice l’appartenenza alla società in cui si vive dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono sfruttati, ma rifiuti, sono avanzi. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza».
Come si esce da questo vicolo cieco? Quale impegno dovremmo prendere?
Oggi il reddito del mondo supera i 75 trilioni di dollari. Secondo l’Onu basterebbero 100 miliardi ogni anno per sradicare la fame dal pianeta. Ma se la quota del Pil destinata a remunerare il capitale finanziario continuerà a crescere, la ricchezza si accentrerà ulteriormente in pochissime mani con disastrose conseguenze economiche, ecologiche e sociali.
Le ingiuste disuguaglianze, cioè la fonte principale di crisi e di conflitti, possono essere debellate solo attraverso un grande patto sociale. Serge Latouche sintetizzerebbe tutto questo invitandoci a «sostituire l’atteggiamento del predatore con quello del giardiniere». È questo l’impegno che occorre.