Disorientamento e progetto
È «disorientamento» la prima delle nostre parole-chiave. Negli ultimi anni è diventato un termine centrale nella riflessione del sociologo che gli ha dedicato un intero volume, Mappa Mundi. Modelli di vita per una società senza orientamento e alcune pagine di Tag. Le parole del tempo.
De Masi, noi terrestri del terzo millennio siamo i primi nella storia umana a sentirci «disorientati»?
Siamo i primi a provare un disorientamento totale. A 360 gradi. Non in una singola sfera della vita, ma in tutte. In questo senso il nostro smarrimento costituisce una categoria nuova. Perché, in realtà, esso spunta e diventa imperioso in tutte le epoche di passaggio, mentre si registra molto meno nelle fasi assestate. Sono le scoperte «paradigmatiche» a suscitarlo. Immaginiamo il disorientamento provocato dall’impatto del cristianesimo sull’Impero romano: in un impero che dice «beati i forti, beati i ricchi, beati i prepotenti» arriva uno sconosciuto che dice «beati i poveri, beati gli afflitti, beati i deboli». Ma invenzioni o esplorazioni che hanno cambiato il paradigma del mondo sono anche, per esempio, quella del purgatorio, quando si stabilì che nell’aldilà, oltre a inferno e paradiso, c’era questo terzo regno in cui le pene dei morti potevano essere scontate con le indulgenze guadagnate dai vivi. Altre scoperte rivoluzionarie furono quella dell’America, così come il modo in cui Lutero riscrisse il rapporto tra Cielo e Terra. Però ci sono mutamenti di paradigma che si compiono dopo una lunga gestazione e quindi vengono metabolizzati meglio, mentre altri arrivano quasi all’improvviso. L’idea di purgatorio, per esempio, venne sì messa a punto nel XII secolo, ma già sant’Agostino, pregando per sua mamma morta, chiedeva al Signore una sospensione del giudizio. Per oltre mille anni i padri della Chiesa ne discussero, avanzando varie proposte. Alla fine, ben tre concili – quello di Lione, quello di Firenze e quello di Trento – sancirono una volta per tutte che il purgatorio esiste e, da quel momento in poi, cambiò non solo la geografia celeste ma anche il mondo terrestre, la sua antropologia e la sua economia. Nei conventi e nei santuari confluirono ricchezze enormi e, per garantirne una gestione oculata, nacquero le banche. Cioè il capitalismo.
Spesso sono gli artisti che provvedono a dare nomi e forme a un sentimento. Ci sono artisti che, in pittura o in letteratura, nella musica o nella scultura, abbiano saputo esprimere il disorientamento?
Semmai, il disorientamento gli artisti hanno contribuito a crearlo. Piero della Francesca, quando teorizza la prospettiva, di sicuro costringe tutto il mondo dell’arte a rivedere le sue certezze. E la stessa cosa fa Picasso quando, quattro secoli e mezzo dopo, con Les demoiselles d’Avignon cancella a sua volta il paradigma di Piero. Per non parlare del postmoderno che accatasta stili diversi di epoche diverse ed elimina le differenze tra il dentro e il fuori, il contenuto e il contenitore, la sostanza e la forma. Il palazzo di Hans Hollein dirimpetto al duomo di Vienna ne è un bell’esempio, con la facciata postmoderna che non corrisponde affatto all’interno e che rispecchia, invece, quella diversissima e antica della cattedrale. L’arte, se rappresenta il disorientamento, nel farlo lo provoca.
E poi Schönberg, con la musica atonale. Musil in letteratura con l’opera aperta. Le Corbusier con la Maison Dom-Ino in architettura. Nietzsche con la sua contrapposizione di apollineo e dionisiaco e il suo tentativo, in parte riuscito, di smantellare i valori dell’Occidente. Mentre Freud distruggeva il concetto tradizionale di psicologia e Einstein quello di fisica. Ecco, noi veniamo dopo un secolo che ha visto quei mutamenti di paradigma, in tutti i settori, nello stesso scorcio d’anni. Ma veniamo anche dopo la Seconda guerra mondiale che ha reso obsoleta gran parte del mondo di prima. E, per giunta, viviamo in un pianeta dove i mass media danno a tutti, al filosofo come all’analfabeta, una stessa sensazione: quella di vivere in un mondo globalizzato che l’uomo fa mutare così rapidamente da non riuscire poi a comprenderlo. Se oggi avvenisse la scoperta dell’America, lo sapremmo il giorno stesso in diretta televisiva o via streaming. Nel 1492 chi lo seppe? Nessuno, neppure lo stesso Cristoforo Colombo, che si illudeva di essere arrivato nelle Indie. Il contadino analfabeta di Frosinone, poi, cosa sapeva della scoperta dell’America? Niente. Forse ne ha avuto notizia solo quando in Ciociaria, nel 1944, sono arrivate le truppe americane.
I mass media – questa dimensione connaturata al nostro mondo attuale – invece di fornirci strumenti di navigazione contribuiscono al nostro disorientamento?
Sì. Oggi un numero enorme di persone scolarizzate si informa, in modo puntuale. E, non ottenendo risposte alle proprie domande, si disorienta. Il bisogno di sapere, se rimane inevaso, accresce lo smarrimento.
Quali sono i campi in cui oggi il cambiamento è più radicale, più rapido e più frastornante?
«Siamo in una fase di transizione. Come sempre» diceva Ennio Flaiano. E questa è una paradossale verità. Però ci sono mutamenti più rapidi o più profondi o più complessivi. E poi c’è questo cambiamento epocale in cui siamo immersi noi, che, per la prima volta, è contemporaneamente tutte e tre le cose. Quanto alla rapidità, per esempio, la società rurale è durata settemila anni, invece la società industriale, nata alla fine del Settecento, sta già scomparendo…
Siamo sicuri che il cambiamento sia epocale? Oppure ci appare tale perché siamo noi a viverlo?
Prendiamo lo scontro fra Donald Trump e Kim Jong-un: su che cosa trattano questi due potenti della Terra? Non su una vertenza territoriale, come si sarebbe fatto in quei settemila anni in cui la terra era la vera ricchezza; né, come in una contesa otto-novecentesca, su una questione di mercato industriale. Trattano sull’atomica. A partire dalla bomba di Hiroshima quello è il nodo: l’invenzione tecnologica e l’utilizzo di quell’arma.
Oggi i motivi di disorientamento sono innumerevoli. Per esempio dobbiamo abituarci a una vita più lunga e con maggiori interessi, e non è mica semplice; è molto più difficile abituarsi alla decrescita, al passare da ricchi a poveri, però anche passare da poveri a ricchi richiede adattamento. C’è, poi, lo smarrimento che deriva dal cambiamento dei rapporti tra i sessi. Ma, per deformazione professionale, quello che a me appare preminente è il disorientamento sociale, ovvero il passaggio dalla società industriale alla società postindustriale, un cappello che contiene tutto il resto.
Vediamo con ordine, allora, «il resto»: quali dimensioni delle nostre esistenze ne vengano toccate…
Un fattore di disorientamento sociale risiede nelle grandi migrazioni che non riusciamo a gestire se non in termini di apartheid. Mentre i tedeschi che abitavano intorno ai campi di sterminio nazisti godevano dell’alibi di non sapere cosa avvenisse all’interno di quei campi, noi, oggi, dell’attuale tragedia migratoria sappiamo tutto, in tempo reale, attraverso i siti, i giornali, i servizi televisivi, i film, i documentari e le scene cui assistiamo ogni giorno nelle nostre città.
Al festival di «Internazionale» che si è tenuto a Ferrara nell’ottobre 2018 il disegnatore Gipi ha letto a uno a uno i nomi degli oltre trentaquattromila migranti morti nel tentativo di raggiungere l’Europa, pubblicati in un allegato della rivista. Il primo è Kimpua Nsimba, un giovane di ventiquattro anni dello Zaire, trovato impiccato in un centro di detenzione cinque giorni dopo il suo arrivo in Gran Bretagna. Poi Wasantha di Barrova, morto vicino a Vienna insieme ad altri connazionali dello Sri Lanka con i quali viaggiava nascosto nel vano di un bus. E poi migliaia di bambini annegati in mare, assieme ai genitori e ai fratelli. In centinaia di migliaia, dall’Africa, dalla Macedonia, dalla Siria, dal Perù, da ogni parte del mondo, hanno cercato di raggiungere l’Europa e molti sono morti prima di riuscirci: dal 1993 a oggi la Ong United for Intercultural Action ne ha contati 34.361, e certamente l’elenco non è completo.
Prima ancora di imbarcarsi, molti migranti fanno un lungo viaggio a piedi o sui camion di fortuna attraverso il Sahara. Dal 1996 a oggi sono morte più di duemila di queste persone in fuga, cui vanno aggiunte migliaia di vittime delle deportazioni di massa praticate dai governi di Tripoli, Algeri e Rabat, abbandonate al loro destino nelle zone di frontiera in pieno deserto. Viaggiando nascosti nei Tir o nei treni hanno perso la vita per soffocamento centinaia di persone, altre sono morte assiderate nei vani-carrello degli aerei, altre sono annegate attraversando a nuoto i fiumi frontalieri, altre sono morte tentando di superare a piedi i valichi di confine o i campi minati. Le polizie di frontiera hanno ammazzato centinaia di fuggiaschi e altri sono stati uccisi dai contrabbandieri beduini del Sinai.
Tutto questo ci lascia sconcertati per l’imponenza del fenomeno, la disperazione totale dei migranti incalzati dalla fame e dalla violenza, l’inedita crudeltà delle popolazioni opulente che dovrebbero accoglierli.
Ma il disorientamento causato dagli attuali flussi migratori internazionali si somma a quello, molto meno drammatico ma non per questo indolore, vissuto sulla propria pelle dai nostri genitori e dai nostri nonni e inciso per sempre, rimasto nel nostro inconscio collettivo.
Nell’Italia del dopoguerra milioni di italiani si sono spostati, spinti dalla miseria e in cerca di lavoro, dal Sud al Nord, dalle zone interne alle zone costiere, dai paesi di montagna alla valle, dai centri piccoli ai centri più grandi.
Il fenomeno dell’urbanizzazione non è stato solo italiano: i centri urbani si sono gonfiati in tutto il mondo e, se oggi vive in città il 52 per cento dell’umanità, nel 2030 si supererà il 60. In Italia non c’è paese che non abbia visto spostarsi il suo baricentro giù, verso la pianura… Sgominata col ddt la malaria, non c’è stato più bisogno di rifugiarsi alle altitudini in cui la zanzara anofele moriva. A valle correvano le strade statali, asfaltate, mentre le provinciali e comunali erano di terra battuta; a valle c’erano la ferrovia e lo «scalo», la stazione, un luogo di traffico e di vita in cui sopravvivere più umanamente e da cui fuggire più agevolmente.
Torniamo ai mass media. Nato nel 1938, Domenico De Masi può raccontarci, come testimone dal vivo, l’arrivo della tv?
Prima di vederla coi miei occhi, me la sono fatta raccontare: un nostro parente che tornava in Italia da Philadelphia mi diceva: «È uno schermo dove puoi vedere una conferenza, o altro, a seconda di quello che trasmettono. A volte capita di vedere anche degli amici». Poi ero in gita scolastica a Torino, avevo diciassette anni, quando sotto i portici abbiamo notato un capannello di persone che guardavano dentro una vetrina: sotto quel portico ho visto per la prima volta uno schermo, era acceso, e quello è stato il mio primo televisore.
Da lì, più che dall’avvento della radio, prende le mosse il passaggio dalla cultura tangibile alla cultura virtuale. È quello che ci avrebbe condotto, poi, dagli atomi ai bit, per dirla con Nicholas Negroponte. La cultura fisica si pesa e si misura – cade sotto i sensi, direbbe Aristotele – mentre quella virtuale no, se non quando si manifesta in suoni, dati e immagini. Un quadro di Caravaggio è «fisico». Non puoi modificarne colori o dimensione. Invece con il suo corrispettivo virtuale, reperibile in Rete, fai quello che vuoi, lo cambi, lo trasporti, ne prendi un pezzo…
Il passaggio dal tangibile al virtuale accentua le disuguaglianze o le appiattisce? Omologa o differenzia?
Dipende. Sul piano sovrastrutturale rende più uguali. Al mio paese, la domenica – giorno di mercato – i contadini, benché si mettessero l’abito della festa, erano immediatamente riconoscibili. Uno era il contadino, l’altro il medico o l’avvocato… La stessa cosa in fabbrica: se ti piazzavi ai cancelli e vedevi uscire l’operaio, l’impiegato, il manager e il padrone, capivi subito chi era chi e perché. Erano vestiti in modo diverso, parlavano in modo diverso, si muovevano con mezzi diversi, la bicicletta, la Vespa, l’automobile. Fino agli anni Sessanta, se vedevi un corteo riconoscevi, dentro, chi c’era e cosa faceva. Era durante e dopo il ’68 che tutti i ragazzi vestivano con l’eskimo verde, e tutte le ragazze con la gonna lunga indiana. E non era solo un fatto di abbigliamento: Agnelli e il suo operaio ormai la sera vedevano in tv lo stesso telegiornale.
I media hanno omologato anzitutto la lingua, si è cominciato a parlare tutti italiano. Ma anche l’esperienza: quando mai un mio compaesano, o io stesso, prima della tv eravamo entrati che so, nel Quirinale o in uno zoo, oppure eravamo penetrati nella casa di un ricco? Neppure sapevamo come era fatta e arredata la casa di un miliardario. E all’improvviso entravi nella villa di Mike Bongiorno. Quell’omologazione, che oggi appare scontata, è stata violentissima, e non solo tra ricchi e poveri, anche tra donne e uomini, tra giovani e anziani, tra il cittadino e il paesano. Di che cosa si parla a Sant’Agata de’ Goti la sera? Si vede la televisione, la stessa che stanno vedendo a Roma e a Milano. E l’omologazione, se avviene solo a livello visivo, non induce sicurezza ma disorientamento.
Non si tratta di un’omologazione solo di facciata? Tu povero puoi vedere Londra in tv, ma solo io ricco posso mandare mio figlio alla London School of Economics…
È un diverso tipo di distanza. Tra un analfabeta e un alfabetizzato la distanza è infinita. Tra uno che sa leggere e scrivere e un laureato è misurabile; tra chi studia alla Sapienza e chi a Cambridge anche. Nel nostro mondo sono le distanze infinite che non hanno più luogo.
La questione delle disuguaglianze è, anche, politica. Siamo disorientati pure su questo piano?
Certo. Cominciamo con un’occhiata allo scacchiere internazionale. Cento anni fa gli Stati nel mondo erano meno di 100, adesso sono 196. Cento anni fa, quando lo scacchiere internazionale era popolato da pochi Stati e alcuni di essi, con la loro potenza, imperavano su aree vastissime del pianeta, era difficile che una qualunque persona di media cultura non conoscesse tutti i pochi Stati sul mappamondo e, probabilmente, le relative capitali. Oggi anche noi, abbastanza colti, non conosciamo né tutti gli uni, né tutte le altre. Di Stati nuovi ne nascono ogni giorno.
Questo è un primo fattore di disorientamento politico. Ce ne sono altri?
L’altro fattore che impedisce di ridurre il disorientamento è la mancanza di grandi leader sia a livello nazionale sia mondiale.
Nel mese seguito alle ultime elezioni politiche, i commentatori si sono lasciati andare con frequenza crescente a paragoni sconsolati tra i leader miracolati dalle urne e i «grandi» uomini politici del passato. Che rapporto esiste tra questi nuovi leader da una parte e un De Gasperi, un Togliatti, un Andreotti, un La Malfa, un Nenni dall’altra? Perché i protagonisti attuali ci sembrano pigmei rispetto a quelli del passato e il paragone ci suona quasi blasfemo?
Può darsi che i nuovi leader non siano meno intelligenti di De Gasperi e di Togliatti. Neppure l’età ci dice molto: quando si tennero le elezioni importantissime del 1948, Andreotti aveva ventotto anni, Ugo La Malfa quarantaquattro, Nenni cinquantasette e De Gasperi dieci di più.
A ben vedere, le ragioni per cui i fondatori della Prima repubblica risultano infinitamente più prestigiosi di quelli della Terza sono soprattutto due. La prima consiste nel fatto che ognuno di quei politici del ’48 aveva alle spalle un’ideologia forte, un paradigma solido, un modello di società ben delineato da grandi maestri del pensiero. Dietro Togliatti vi erano Marx ed Engels, Lenin e Gramsci; vi erano la Rivoluzione d’ottobre e il dramma dello stalinismo. Dietro De Gasperi e Andreotti vi erano duemila anni di cristianesimo, i padri della Chiesa, gli ordini religiosi, Leone XIII e Sturzo. Dietro Nenni e Saragat vi erano Owen e Proudhon, Bernstein e Rosa Luxemburg. Dietro Ugo La Malfa vi erano Gaetano Salvemini e Benedetto Croce, Ugo Spirito e il New Deal di Roosevelt.
Ognuno di questi politici del 1948 aveva in mente – ben chiaro – quale Italia voleva costruire, quali punti dei rispettivi programmi erano irrinunziabili, quali mezzi e quali tempi richiedeva la realizzazione di quei punti programmatici. I complessi, serrati ma esaltanti lavori della Costituente – dal 25 giugno 1946 al 31 gennaio 1948 – furono il banco di prova in cui ciascuna formazione politica poté collaudare la propria forza e raffinare la propria competenza.
La seconda ragione per cui i fondatori della Prima repubblica ci risultano giganti rispetto a quelli della Terza è che essi si erano formati sotto e contro il fascismo, in vent’anni cruciali in cui l’impegno si pagava con il carcere o con l’esilio. Inoltre, alcuni avevano specializzato la loro cultura presso organismi di estrema raffinatezza intellettuale, come La Malfa alla Treccani di Giovanni Gentile e De Gasperi nella Biblioteca vaticana.
L’insieme di questi fattori vanifica ogni paragone. E provoca quasi una vertigine, al pensiero che qualunque governo venga fuori da queste consultazioni sarà, comunque, affidato a governanti probabilmente privi di un solido modello teorico, di una visione lungimirante, di un’esperienza varia e profonda. Cioè di quelle doti che distinguono un politico da uno statista e che sono indispensabili per trasformare un Paese malconcio in una nazione esemplare.
Di qui una fonte tutt’altro che trascurabile di disorientamento.
Fin qui, l’Italia. È diversa la situazione a livello mondiale? E, da noi come nel resto del mondo, in che misura una maggiore alfabetizzazione può aiutare la nascita di nuovi leader?
Se anche in un certo Paese, o in tutti i Paesi, la cultura cresce quantitativamente, cioè se anche si passa da analfabeti ad alfabetizzati, e da alfabetizzati a laureati, questo non garantisce automaticamente una migliore selezione dei leader. In California i laureati sono il 66 per cento della popolazione, eppure quello Stato, che ospita le maggiori imprese innovative del mondo e continua a sfornare le tecnologie più rivoluzionarie, non mi pare abbia espresso leader altrettanto rivoluzionari in campo politico, capaci di sperimentare nuove forme di convivenza, adeguate ai tempi nuovi che quelle tecnologie determinano.
Figurarsi in Italia, dove i laureati sono appena il 23 per cento!
Anche Trump, Macron e Theresa May sono personaggi minori rispetto a Roosevelt, De Gaulle o Churchill, senza scomodare Augusto o Napoleone.
Quando gli elettori erano un’élite, si sceglieva comunque all’interno dell’élite. Come veniva fatta la selezione subito dopo l’Unità d’Italia? Ce lo racconta Il gattopardo: addirittura parte da Torino l’emissario di Cavour per andare fino in Sicilia a convincere il principe di Salina a fare il parlamentare. Perché Cavour lo vuole al governo? Perché è l’élite dell’élite, è il siciliano più colto e prestigioso. Oggi potremmo immaginarci Grillo che parte da Genova per andare in Sicilia a scegliere il più colto e il più raffinato, il principe di Salina di turno, principe non per motivi nobiliari, ma per motivi etici e culturali?
Accanto al vuoto dei grandi statisti vi è quello dei grandi maîtres à penser, guide morali e intellettuali che, con il loro pensiero e il loro esempio, orientano intere società. Penso a Diderot e Voltaire, a Marx e Mazzini, a Croce e Sartre. Gli intellettuali che oggi vanno in televisione per divulgare le proprie idee possono essere meritevolmente impegnati e diventare anche famosi, ma non ce n’è nessuno che rappresenti un punto di riferimento etico e comportamentale.
Leader e maîtres à penser… Ma a governarci oggi non sono, piuttosto, realtà a cui non possiamo dare né un volto né un nome?
L’azione svolta da entità più potenti degli Stati, cioè dalle multinazionali, mette, appunto, intere nazioni in balia di decisioni prese altrove e finalizzate a interessi privati, spesso in conflitto con gli interessi dei cittadini. Si pensi ai tanti casi d’inquinamento mortale e di sfruttamento di manodopera nel Terzo mondo, addebitati alle grandi industrie: la Nestlé, ad esempio, accusata di ricorrere al lavoro minorile nella Costa d’Avorio; la Pfizer, accusata di avere testato alcuni medicinali su bambini nigeriani poveri e malati, mascherando il tutto come «missione umanitaria»; la Monsanto, accusata di commercializzare erbicidi produttori di diossina, defolianti Agent Orange, fertilizzanti, pesticidi e antigelo.
Nella società postindustriale l’economia ha sopraffatto la politica, la finanza ha sopraffatto l’economia, le agenzie di rating hanno sopraffatto la finanza. Ognuna di queste sfere ha indebolito l’altra, l’ha fagocitata e ora la egemonizza. Per loro natura, la politica dovrebbe guardare alle prossime generazioni con uno sguardo lungo, l’economia dovrebbe guardare al prossimo esercizio finanziario con uno sguardo di medio raggio, mentre le agenzie di rating determinano e certificano gli andamenti immediati delle borse. Da quando i mercati finanziari impongono la loro agenda anche ai governi, questi sono costretti a navigare a vista, rincorrendo l’indice Nasdaq o il Dow Jones e lasciando sguarniti i cittadini di ogni visione strategica sul futuro proprio e dei loro figli.
E tutto questo, di nuovo, provoca in noi disorientamento politico.
La scienza quale ruolo gioca?
Il disorientamento genetico è una cosa seria. Avevamo una certezza che attribuivamo alla natura: il bianco era bianco, il nero era nero, il maschio era maschio e la femmina era femmina, il vivo era vivo e il morto era morto. L’ingegneria genetica sta distruggendo totalmente queste certezze. Si pensi alla fecondazione assistita: se una ragazza fa fecondare un suo ovulo e lo impianta nell’utero che sua madre le presta e da cui poi nasce una bambina, quali sono poi i ruoli? Chi è madre di chi? Chi è sorella? E non è necessario che la cosa avvenga concretamente: a disorientarci basta già il fatto che la cosa sia teoricamente e tecnicamente possibile.
Poi c’è l’omosessualità. Fino a un recente passato era considerata qualcosa da nascondere, e così il «problema», messo sotto il tappeto, non complicava i rapporti sociali. Era una soluzione bigotta, crudele nei confronti di chi si sentiva omosessuale, ma pacificatrice e semplificatrice sul piano della convivenza.
Ora puoi avere alla luce del sole lesbiche, gay, transgender in due direzioni, e tutta la serie di varianti e di combinazioni che ne derivano, nelle unioni di coppia, nel gioco di ruoli, così come nei figli che nascono. Anche in questo campo, tutto è in evoluzione. E tutto, almeno per ora, è causa di disorientamento.
Portare le cose alla luce del sole e darne una spiegazione scientifica può provocarci smarrimento, anziché tranquillizzarci?
Nel caso di cui parliamo, come in tanti altri, le antiche certezze derivavano dal fatto che si ignorava la complessità dei fenomeni e si adottavano delle scorciatoie mentali per descriverli e per gestirli. Nel mio libro di chimica, usato al liceo sessant’anni fa, all’argomento «atomo» erano dedicate solo due pagine; nel libro di chimica che usa mia nipote ce ne sono dodici. Ma già le due pagine dei miei tempi erano molto, rispetto all’idea di atomo che avevano gli uomini del Rinascimento o dell’Ottocento.
Lo scultore rumeno Constantin Brâncuşi diceva che «la semplicità è una complessità risolta».
Vi è una semplicità infantile, primitiva che deriva dall’ignoranza dei fenomeni o dalla volontà, magari inconscia ma caparbia, di non vederne la complessità.
Thomas Kuhn porta l’esempio della luce che ai greci appariva misteriosa e che spiegavano ricorrendo al mito di Giove. Con quel mito si spiegavano il giorno e la notte, l’alba e il tramonto. Ma, man mano che si raccoglievano sistematicamente dati ed esperienze, la spiegazione mitica andava rivelando la sua insufficienza. Ci vollero molti secoli prima che Newton dimostrasse che si trattava di un fenomeno corpuscolare. E gran parte degli scienziati gli andarono dietro. Ma poi, con il tempo e con la riflessione, si accorsero che la spiegazione newtoniana aveva, a sua volta, lacune inaccettabili e tentarono nuove strade, finché Augustin-Jean Fresnel e poi Thomas Young non pervennero a una soluzione più convincente, secondo cui la luce è un fenomeno ondulatorio perché composta da onde trasversali. Anche questa teoria guadagnò per un certo tempo la fiducia della comunità scientifica, fin quando non rivelò le sue crepe. Si riprese a cercare e ora gli scienziati di fisica ottica condividono la spiegazione successiva, fornita da Einstein nel 1905 con un lavoro che gli valse il premio Nobel: la luce non è un fenomeno corpuscolare e nemmeno ondulatorio; la sua natura ha a che fare con i quanti di luce, cioè con pacchetti di energia che poi sarebbero stati chiamati fotoni.
Secondo l’epistemologo Karl Popper, «ogni qualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile, prendilo come un segno che non hai capito né la teoria, né il problema che si intendeva risolvere». Dunque, prima o poi anche la spiegazione di Einstein risulterà inadeguata. E i fisici cadranno in uno stato di disorientamento destinato a durare finché un nuovo genio non fornirà una spiegazione più convincente, aprendo un periodo di pace mentale. Comunque destinato a essere scompigliato da nuove obiezioni e a trascinare i cultori in un nuovo disorientamento.
Dunque, per ogni campo della nostra esistenza, siamo destinati ad alternare fasi di tranquillizzante certezza a fasi di inquietante disorientamento. Quando un fenomeno ci appare misterioso, prima lo semplifichiamo descrivendolo in termini poetici, mitici, teologici e poi, dopo averne analizzato l’essenza con metodo rigoroso, lo semplifichiamo di nuovo, ma questa volta scientificamente, magari riducendolo in una formula breve, memorizzabile, così come ha fatto Einstein con l’energia.
Passiamo a un altro cambiamento epocale: l’allungamento della vita.
La longevità, su cui torneremo più diffusamente, comporta la compresenza di più generazioni. Sono ormai frequenti le famiglie in cui convivono bisnonni, nonni, genitori e figli. Anche la compresenza di generazioni provoca disorientamento, perché non sono più tanto i giovani ad assumere rapidamente i paradigmi elaborati dagli anziani, come avveniva prima, quanto, piuttosto, i vecchi che oggi cedono alla tentazione del giovanilismo.
E poi c’è la sequenza, l’incontro e lo scontro di ruoli e di status, ben riassunti da Anna Laura Zanatta nel suo libro Le nuove famiglie: «Un singolo individuo può fare l’esperienza di vivere una sequenza di forme familiari: può iniziare la sua vita in una famiglia tradizionale; poi in seguito al divorzio dei genitori può entrare a far parte di una famiglia con un solo genitore (perlopiù la madre), quindi di una famiglia ricomposta, se la madre si risposa, acquisendo eventualmente nuovi fratelli e sorelle, con una specie di padre sociale, sia pure non riconosciuto, che si aggiunge, senza sostituirsi, al padre biologico e legale».
E non basta: «Raggiunta l’età adulta, può vivere temporaneamente da solo, dando vita a una famiglia unipersonale; mettere poi in piedi una convivenza (famiglia di fatto), e successivamente sposarsi, non necessariamente con la stessa persona con cui ha convissuto; non si può escludere che poi divorzi, come hanno fatto i suoi genitori, e dia vita a sua volta a una famiglia ricomposta, non più in veste di figlia o di figlio, ma di coniuge o partner, forse sperimentando di nuovo, prima o dopo, un periodo di solitudine o di convivenza. Infine – se si tratta di una donna, con maggiore probabilità rispetto a un uomo – concluderà la sua vita di nuovo da solo, come vedovo o vedova. La famiglia tende sempre più a trasformarsi da esperienza totale e permanente in esperienza parziale e transitoria nella vita individuale».
Alla fine di questa riflessione Zanatta si chiede, senza pervenire a una risposta, se questa ipotetica persona sarà più o meno felice rispetto a chi ha seguito una traiettoria di vita più tradizionale, dalla casa dei genitori a quella coniugale, fino alla fine dei suoi giorni. Io non so dire se sarà più o meno felice, però credo di non sbagliare quando penso che sarà certamente più disorientata.
Quanto contribuisce la secolarizzazione al nostro smarrimento?
Il disorientamento religioso è un dato di fatto. Per la prima volta in Italia c’è una massiccia compresenza di più religioni, a volte perfino nello stesso nucleo familiare. In molte famiglie c’è una baby sitter o una badante di religione diversa, per cui il bambino che passa molte più ore con lei che non con la mamma o con il papà assiste a usi, riti e costumi religiosi che non coincidono con quelli della sua famiglia. Aumenta la percentuale di non credenti e di credenti non praticanti, per cui gli atei, i miscredenti e i credenti sono costretti a interagire molto più di un tempo, quando gli atei o i fedeli di altre religioni venivano emarginati, isolati e persino sepolti in cimiteri diversi.
E poi, a livello macrosociale, sono palesemente in atto due ordini di conflitti: tra scienza e fede, da un lato, e tra coscienza individuale ed etica religiosa, dall’altro. Il tutto rientra nel fenomeno, già esaminato, del tramonto delle ideologie. Oggi i singoli, le associazioni, persino i sindacati e i partiti si vantano di essere a-ideologici, né di destra né di sinistra, rinunziando alle certezze che le ideologie sono in grado di procurare, essendo come autostrade che, una volta imboccate, ti esentano dal chiederti dove sei diretto e come arrivarci.
A ciò si aggiunge che, come ho detto, mancano grandi leader politici e grandi maestri di pensiero.
Non ci sono più i cervelli di un tempo? O diamo meno valore ai cervelli, ai geni?
La genialità ha andamenti molto capricciosi. Nell’Atene di Pericle, su quarantamila cittadini liberi e ventimila meteci vi erano decine di geni del calibro di Aristotele o di Aristofane. Nella Firenze dei Medici, su una popolazione di circa ventimila cittadini, almeno un centinaio erano geni assoluti e tutti autoctoni, al massimo arrivavano da Vinci o da Caprese. Poi ci sono i poli attrattivi, come Parigi negli anni Venti e Trenta del Novecento o New York dopo la guerra. O la Roma antica dove, sia pure in tempi diversi, c’era Catullo arrivato da Sirmione, Orazio da Venosa, sant’Agostino da Ippona. Oggi in campo scientifico ci sono grandi geni. Ma se penso al mio campo, non ne vedo. Io sono arrivato alla sociologia in un’epoca in cui giganteggiavano maestri come Talcott Parsons, Adorno, Merton, Wright Mills: erano studiosi che avevano elaborato dei paradigmi, potevi essere d’accordo o in disaccordo con loro, però si trattava di cavalli di razza.
Rispetto a ieri, oggi la scolarizzazione diffusa e i media offrono a un numero infinitamente maggiore di cittadini la possibilità di acculturarsi. Più persone leggono e più persone scrivono, ma basta andare in una libreria di catena per constatare quanta carta stampata si accumula di giorno in giorno e quanti libri restano in vetrina una settimana appena, per poi scomparire nel nulla.
Questo ha a che fare, piuttosto, con la calcolata follia del mercato editoriale. Ma, tornando al nostro tema, su quali altri piani siamo smarriti?
Abbiamo un profondo disorientamento estetico, provocato a bella posta dall’arte contemporanea che, come teorizza Adorno, dal Romanticismo in poi non ha più cercato di essere bella ma di essere originale perseguendo sistematicamente la novità, il cambiamento, la distorsione, lo shock.
Vi è una forte oscillazione del gusto: un tempo un cappotto ti durava tutta la vita e comunque il modello era quello; ora si succedono le sfilate stagionali, le riviste fanno a gara per proporti le novità e Amazon si incarica di portartele a casa nel giro di ventiquattr’ore.
Aggiungi il disorientamento spaziotemporale: con Skype non possiamo essere ovunque in ogni momento?
Le nuove tecnologie, dopo venti anni di euforia, però, ci stanno deludendo proprio perché, avendoci promesso certezze, democrazia, onnipotenza e ubiquità, ce ne stanno mostrando i risvolti spiacevoli. Ci avevano assicurato un’informazione più esauriente e attendibile, un’economia e una politica più trasparenti, persino una democrazia diretta. Ci avevano prospettato un mondo con meno disuguaglianze, lavoro più gradevole, retribuzioni più eque, maggiori opportunità e tutele, decentramento del potere, acquisti più convenienti, rapporti più fluidi.
Ci hanno dato, invece, accanto a vantaggi innegabili come la musica per tutti di Spotify, l’erudizione per tutti di Wikipedia, le immagini per tutti di Instagram, anche la giungla di fake news e di trolls, le truffe planetarie sottese alla sharing economy, l’inedita concentrazione di ricchezza, di informazioni e di pubblicità che ricrea monopoli che neppure il peggiore capitalismo aveva osato creare.
Ultimo, ma non ultimo, il disorientamento educativo.
Prima, di padre in figlio e di nonno in nipote si trasmettevano tradizioni, stereotipi, canoni. Oggi, la generazione global è sempre più estesa: non più solo il figlio dell’ambasciatore che segue il padre a Londra e a Rio de Janeiro, ma il ragazzino che in compagnia di un adulto, o anche da solo, arriva in gommone. Ci sono milioni e milioni di persone che, dopo un’infanzia in un villaggio subsahariano, partono e affrontano un viaggio nel deserto, quando arrivano in Libia hanno già visto morire padre, fratello, amici, e se e quando approdano in Europa vedono per la prima volta l’acqua corrente e le case col frigorifero. Tutto questo, senza l’accompagnamento di una scuola, di un educatore. Pensa che smarrimento.
Ma pensa anche al disorientamento di un bambino italiano che nella sua aula si ritrova con una coetanea del Camerun, con un’altra dell’Afghanistan, con un’altra siriana, e incontra, fin dalla sua giovanissima età, persone che hanno altre idee, altre culture, che mangiano altro o si guardano bene dal mangiare quello che lui mangia.
Dunque è come se ci sentissimo su un’imbarcazione che naviga alla deriva. Che cosa ci servirebbe per sentirci di nuovo padroni della rotta?
Ci servirebbe un modello e una cultura centrata su quel modello. Il disorientamento è parente della complessità. Ho ricordato la frase di Brâncuşi, per cui la semplicità è una complessità risolta. Una cosa complessa è come un gioco di prestigio: fin quando non comprendo il trucco, mi sembra prodigioso; appena scopro il trucco mi appare persino banale. Nel mio libro Una semplice rivoluzione comincio con il descrivere proprio un’opera di Brâncuşi, Bird in Space, alla quale lo scultore rumeno lavorò in molte varianti, per raggiungere la sintesi suprema: quell’Uccello nello spazio con cui – diceva lui stesso – finalmente sperimentava «la gioia dell’anima liberata dalla materia». In quella sede ponevo il problema di come si smonti un meccanismo, in quel caso in che modo Brâncuşi riuscisse a suggerire l’essenza del volo, senza soffermarsi sull’apparenza.
Quando si tratta di rapporti tra sistemi, come in una società, però, bisogna andare oltre. Non basta smontare e capire i meccanismi, i sistemi uno per uno; ci vuole un modello complessivo, che ci aiuti a interpretare, prevedere, comportarci. Noi oggi non ne abbiamo e la mancanza di un compiuto modello di riferimento priva l’insegnante della possibilità di indicare ai suoi allievi, il manager ai suoi collaboratori, il genitore ai suoi figli cosa è bene e cosa è male, cosa è bello e cosa è brutto, cosa è giusto e cosa è sbagliato.
Quali sono stati dei passaggi epocali in cui, al contrario, l’umanità ha avuto il modello cui rapportarsi?
Il Sacro romano impero nasce perché il Vangelo e, poi, i padri della Chiesa avevano elaborato un concetto cristiano di società; quindi arriva Carlo Magno e s’incarica di costruirlo. Lenin crea la Russia sovietica sulla scorta del modello di comunismo teorizzato da Marx ed Engels. Cavour fa l’Italia con le idee di Cattaneo, Gioberti e Mazzini e su quelle idee modula l’azione militare e diplomatica: così crea uno Stato che prima non esisteva.
La società postindustriale – la nostra – non ha teorici alle spalle?
Questa, secondo me, è la prima società in assoluto nata senza un preventivo modello di riferimento e questa carenza rappresenta forse la vera novità della società postindustriale: è nata per germinazione spontanea da quella che l’ha preceduta, perché quella – la società industriale – ha accelerato il progresso tecnologico, lo sviluppo organizzativo e la globalizzazione: fenomeni che ci sono sempre stati ma che, appunto, in duecento anni hanno acquistato velocità ed estensione. Ha accelerato, inoltre, l’alfabetizzazione delle masse e la loro manipolazione tramite i media e, ora, i social media. A tutto questo, poi, si è aggiunto il grande detonatore della Seconda guerra mondiale.
Ed ecco la società nuova in cui siamo, ma di cui solo ora prendiamo progressivamente consapevolezza. Quando ci sono i mutamenti non tutti se ne accorgono, né tutti se ne accorgono con pari rapidità e pari profondità. Così, chi li percepisce tempestivamente, magari ci fa i miliardi. Berlusconi si è accorto che era arrivato il nuovo mondo e ha investito nelle televisioni; la famiglia Agnelli non se ne è accorta e ha continuato a investire nell’automobile, cioè in un simbolo della società che stava scomparendo.
Torniamo al modello. Senza un Vangelo né un Marx a dirci dove andiamo, che cosa ci succede?
Se non hai un modello, perdi il metro di giudizio. Il modello è l’elemento in base al quale giudichi se una cosa è buona o cattiva. Hai il Corano? Il Corano ti dice che cosa puoi fare o non fare; chi puoi sposare o non sposare, se puoi o non puoi investire in quel genere di affari. Sei comunista? Il modello marxista ti dice se una determinata azione porta o non porta alla conflittualità, al superamento delle classi o, al contrario, all’incrudelirsi della distanza fra di esse. Senza modello teorico di comportamento, oggi un genitore non sa se dire al figlio che una cosa va fatta o non va fatta e il figlio, a sua volta, non obbedisce perché non riesce a capire se il padre ha ragione o ha torto. Del resto, parliamoci chiaro, non lo sa neppure il padre. Io, professore, non so come rispondere alle obiezioni che mi muove uno studente, il giornalista non sa come giudicare un certo governo, il critico d’arte non sa quanto vale l’installazione di un artista cervellotico. Ennio Flaiano diceva: «L’arte astratta io non la compro: me la faccio da me». Come faccio a dire che Pollock è bello o brutto? Potrò dire al massimo che mi affascina, che mi dà delle vibrazioni. Come faccio a dire se una cosa è di destra o di sinistra, dal momento che gli intellettuali dicono tutto e il contrario di tutto, a qualunque fazione sostengano di appartenere ma senza essere «organici» a nessuna fazione?
È la «postideologia»: così viene chiamata.
Appunto. Il che equivale a dire che non si ha nessuna ideologia. E magari nessuna idea.
Sotto questo aspetto è tutto postideologico. Siamo arrivati al punto in cui è difficile dire persino se una persona è viva o è morta. Non a caso abbiamo discusso per diciassette anni sulla sorte di Eluana Englaro in stato vegetativo.
Un modello di riferimento, quando c’è, diventa una preziosa scorciatoia intellettuale perché ci impone certi comportamenti e ce ne vieta altri. In un certo senso è anche una camicia di forza, assunta, però, in ragione di una sintesi culturale che mi giova. Ad esempio mi si può chiedere di fare delle rinunzie, ma in vista di un vantaggio complessivo che quel modello mi assicura. Un modello mi offre la capacità di gestire una realtà, quindi di possederla, di tranquillizzarmi. Non avere un modello mi disorienta perché, come dice Seneca, «nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove vuole andare». E noi, non sapendo dove vogliamo andare, possiamo considerare qualunque tragitto, indifferentemente, come positivo o negativo, senza poter tracciare con consapevolezza una rotta salvifica.
Nelle società chi ha il compito di creare modelli? E chi, quindi, nella nostra ha mancato questo compito?
Gli intellettuali. Intellettuali erano Gesù Cristo, Maometto e Martin Lutero, intellettuale era Mazzini, intellettuali erano Marx ed Engels. Noi finora abbiamo assistito solo a tentativi più o meno riusciti di aggiornare i modelli precedenti. Non ne abbiamo pensato uno compiutamente nuovo, adeguato alla complessità del nostro nuovo sistema sociale, come fecero a loro tempo gli illuministi o come fece a suo tempo Marx. Cioè dei rivoluzionari. Noi abbiamo avuto paura della rivoluzione. E abbiamo corteggiato il concetto di riforma.
Quanto tempo ci vuole perché una società trovi il suo profeta? Per restare vicini a noi, quanto tempo ha dovuto aspettare la società industriale perché, a decodificarla, arrivasse Karl Marx?
La tempistica, in questo caso, ha del miracoloso: del 1776 è La ricchezza delle nazioni di Smith; del 1844 i Manoscritti economico-filosofici di Marx. Per capire la portata di queste opere bisogna tenere conto del fatto che durante tutta la lunga società rurale il lavoro era stato considerato una cosa disdicevole, degna solo delle bestie e degli schiavi, privi di anima e privi di tempo e modo per crescere intellettualmente.
Quindi, se datiamo la nascita della nostra società postindustriale al secondo dopoguerra, possiamo non essere così disperati, può darsi che un Marx stia per arrivare…
Non arriverà fino a quando gli intellettuali non ne percepiranno la necessità. Noi, ora, non creiamo un modello perché nessun intellettuale si è posto il problema. Da parte mia, è quello che cerco di mettere sul tavolo.
Negli ultimi due decenni ha avuto molta fortuna l’idea di «società liquida» proposta da Zygmunt Bauman. Non è, quello, un modello?
Ho letto Bauman con interesse, così come leggo ogni studio che si proponga di elaborare un nuovo modello sociale. Ma anche il suo, alla prova dei fatti, si riduce alla descrizione di ciò che sta sotto i nostri occhi, senza coglierne l’essenza, spiegarne il sistema, prevederne gli esiti, suggerire una strategia. Liquido è qualcosa che piglia la forma del contenitore. Ma siccome non si sa quale sia il contenitore, non si conosce neppure la forma, sia pure liquida, che assumerà di volta in volta la nostra società. Dire «società liquida» non significa nulla. La fortuna di questa formula, che si sente ripetere meccanicamente e non senza compiacimento, deriva dal fatto che offre uno slogan, un escamotage solo apparentemente risolutivo a chi vorrebbe dire qualcosa di acuto senza avere nulla da dire.
Questa società può anche apparire liquida, scorrevole, fusa, fluida, disciolta, come dice Bauman, ma la verità qual è? Forse è fusa e liquida la nostra mente, nel senso che non riesce a rendere solido – perché non esiste ancora – il modello in base al quale essa si è modellata e senza il quale ci è impossibile interpretarne i segni, prevederne il cammino e governarne l’evoluzione. Dire che la società è liquida non mi consente di sapere come debbo comportarmi. Liquido – ma potremmo ugualmente dire gassoso – è un aggettivo che descrive in modo sfuggente ma non spiega né indirizza. Disorienta.
Che cosa bisognerà fare, allora, per individuare il modello che ci renda comprensibile il mondo in cui viviamo oggi?
Da anni mi pongo questo problema. Molti si tolgono d’impaccio sostenendo che un modello non occorre e che la società postindustriale, per sua natura, non ammette modelli, non ammette ideologie, non ammette distinzioni «superate» come destra e sinistra, rivoluzione e riformismo ecc. Per dare un contributo sia pure modesto, ma non per questo poco faticoso, alla elaborazione, a posteriori, di un modello adeguato alla nostra società, ho pensato che fosse necessario rianalizzare con attenzione i grandi modelli di società finora elaborati dall’uomo nel corso della sua storia, per capire cosa risulta ormai obsoleto, cosa va salvato e incorporato nel nuovo modello postindustriale che ci tocca costruire. È stato un lavoro che mi ha assorbito a lungo e che trova una certificazione nel volume Mappa Mundi. Modelli di vita per una società senza orientamento. Si tratta di una semplice ricognizione che poteva essere effettuata da un singolo ricercatore. Ma la pars construens necessaria per progettare un nuovo modello di società richiede l’apporto interdisciplinare di più esperti. Qualcosa di simile a ciò che riuscirono a fare, nel metodo e nei risultati, gli illuministi, realizzando quell’ineguagliabile monumento all’intelligenza umana che è l’Encyclopédie.
Qual è la proposta di De Masi? Da dove bisognerebbe cominciare a «ricostruire»?
Da due certezze inconfutabili. La prima è che il mondo in cui oggi viviamo non è certo il migliore dei mondi possibili ma è certamente il migliore dei mondi esistiti fino a oggi. Mai prima d’ora la Terra è stata abitata da sette miliardi di cervelli in buona parte istruiti e sempre più interconnessi. Mai gli uomini sono stati così longevi; mai le famiglie hanno raccolto tante generazioni e tante esperienze sotto uno stesso tetto; mai l’ubiquità è stata così possibile e praticata; mai come oggi abbiamo debellato il dolore fisico; mai il pianeta ha prodotto tanta ricchezza e sfamato tante bocche; mai tanti Paesi hanno conosciuto la democrazia; mai abbiamo fatto tante scoperte scientifiche e costruito opere così sorprendenti.
La seconda certezza è che l’opera creatrice dell’uomo è solo all’inizio del suo cammino e, per la prima volta nella storia dell’umanità, sta a noi proseguirla o interromperla per sempre. «Il mondo è giovane ancora» direbbe Giambattista Vico nel proporci la sua vita nuova.