Digitali e analogici

Nel 2030 il mondo ospiterà un miliardo di persone in più, rispetto a oggi. Saranno, tutti, cittadini del pianeta nati in epoca «digitale». Mentre noi «analogici», nati prima che quest’epoca avesse inizio, ci staremo via via estinguendo. Ciò metterà fine a una delle attuali fonti di conflitto e disorientamento.

Già, ma cosa vuol dire «analogico» e cosa vuol dire «digitale»? E quando ha avuto inizio questa nuova era?

La definizione si deve a Nicholas Negroponte, che ha divulgato tra i primi il concetto di digitalità. Laureato al Massachusetts Institute of Technology, cioè in quello che negli Stati Uniti è a Est la Mecca dell’informatica, così come a Ovest lo resta la California, Negroponte nel 1985 fonda con il presidente del Mit, Jerome Wiesner, un laboratorio destinato a diventare famoso, il Medialab. Per capire chi è Negroponte, pensiamo a Piero Angela: lui fa per l’informatica quello che Angela fa da noi per la scienza. È un ottimo divulgatore, ma è anche un architetto e, studiata da dentro l’informatica, mette a punto l’architettura dei microprocessori così come quella delle piattaforme. Nel 1995, poi, pubblica Essere digitali, un libro che sarà un bestseller praticamente ovunque, in cui spiega in modo molto semplice che tutto ciò che è analogico tratta, manipola, trasporta, importa, esporta atomi, cioè materia. Mentre tutto ciò che è digitale elabora, importa, esporta, crea, distrugge bit. Da Negroponte in poi si comincia a parlare della digitalizzazione e si comincia a capire più chiaramente la differenza fra trasportare una notizia e trasportare un libro, un’automobile o un frigorifero.

Analogico è tutto quello che esisteva prima del digitale? Ed «essere digitali» significa, in fondo, semplicemente saper usare il computer?

Analogici siamo tu e io; digitale è il ragazzino che oggi ha dieci anni… In una prima fase la distinzione aveva a che fare con la dimestichezza con l’informatica, cioè la capacità di elaborare e recepire solo atomi o al contrario anche, o solo, bit. Ma poi, intorno a questo, è cresciuta una serie di atteggiamenti, comportamenti, emozioni e sentimenti. È come quando passi dal carretto all’automobile: non cambi solo veicolo, ma incameri il concetto di velocità, il concetto di meccanico ecc. Così man mano, tutto intorno alla dimestichezza, o meno, con l’informatica, si è venuta creando una serie di propensioni, attributi, capacità. Oggi l’analogico e il digitale sono soggetti portatori di culture sempre più radicalmente diverse. Un passaggio del genere era già avvenuto con l’avvento della luce elettrica che, però, ci ha messo circa settant’anni per affermarsi e per diffondersi.

Mi raccontavi di un capitolo significativo della tua storia familiare che può aiutarci a capire proprio questo genere di passaggio epocale…

Mio nonno paterno, Domenico De Masi come me, viveva a Sant’Agata de’ Goti, in provincia di Benevento. Era un imprenditore geniale e a lui si deve, tra l’altro, la realizzazione della linea ferroviaria da Napoli a Campobasso, un tronco che ha una trentina di ponti. Credo che ancora oggi uno di questi ponti, grandiosi, vicino a Isernia, sia chiamato ponte De Masi.

E lui, nel 1902, il giorno del battesimo di mio padre, inaugurò la rete elettrica di Sant’Agata de’ Goti. L’aveva progettata e creata da solo, con la sua impresa: aveva dedotto una parte dell’acqua dell’acquedotto che andava dal monte Taburno a Caserta per la Reggia, aveva progettato le turbine, realizzato una centrale elettrica e organizzato l’azienda per gestire la distribuzione dell’energia agli utenti locali. Nel 2002, cento anni dopo, per ricordarlo, non solo hanno conferito a me la cittadinanza onoraria, senza altro mio merito che quello di portare il suo nome, ma hanno ristampato il discorso che mio nonno aveva tenuto per convincere il Comune di Sant’Agata a quest’impresa ciclopica. Oggi, di fronte ai ruderi di quella centrale elettrica, ti chiedi: «Ma come ha potuto un uomo da solo, nel 1902, pensare e fare tutto questo?». Nel 1902 Taylor non aveva la forza motrice elettrica nella sua fabbrica di Philadelphia e invece i cittadini di Sant’Agata, un piccolo paese rurale del Mezzogiorno d’Italia, ce l’avevano in casa. All’epoca, se la volevi, non c’era un’Enel alla quale collegarti: te la dovevi fare da te.

Quali argomenti usò Domenico De Masi senior all’alba del Novecento per convincere i suoi compaesani?

Bisogna mettersi nei panni di un uomo che deve spiegare cos’è la luce elettrica a una popolazione in gran parte contadina e analfabeta che, quella luce, non l’ha mai vista. Glielo deve spiegare e deve anche convincere il Comune, retto dai notabili del posto, a investire tanti soldi in un’impresa d’avanguardia per quei tempi.

Ecco cosa dice mio nonno: «Noi ora abbiamo ventotto lampioni a gas che accendiamo nelle sole notti senza la luna». Dunque a quell’epoca, quando c’era la luna, per risparmiare il gas non si accendevano i lampioni, il chiarore lunare bastava e avanzava. Figurarsi, quindi, come dovette sembrare addirittura accecante l’illuminazione elettrica. Poi mio nonno prosegue: «Quei lampioni a gas li chiudiamo ogni notte a mezzanotte e invece con questo sistema potremmo avere per tutta la notte e tutti i giorni dell’anno una luce di gran lunga superiore, come se fossero accese contemporaneamente centinaia di candele. Ma c’è di più: in America si sta studiando come utilizzare questa energia non solo per illuminare, ma anche per azionare una macchina speciale con cui ghiacciare l’acqua, tenere fredda la carne, la verdure e tutto ciò che occorre conservare a lungo. Come se non bastasse, la stessa energia, con un’altra macchina, può riscaldare e cuocere i cibi». Non so immaginare quale fosse la presa di queste argomentazioni sulle mentalità dei compaesani, cert’è che il Comune stanziò la somma necessaria per finanziare l’impresa. Lui anticipò i soldi di tasca sua, l’impresa fu realizzata e Sant’Agata divenne un’attrattiva che gli abitanti dei paesi vicini venivano ad ammirare di notte. C’è solo un piccolo particolare: il Comune non rimborsò mai la somma pattuita, mio nonno fallì e i miei zii, fratelli maggiori di mio padre, furono costretti a emigrare proprio a Philadelphia, la città di Taylor.

Vediamo ancora come si procede in un’era nuova. Che cosa sarà successo ai santagatesi, dopo quel 1902?

Di sicuro non cambiò tutto improvvisamente. Dai racconti ascoltati quando ero bambino, posso ricavare che la prima cosa a cambiare fu la notte in se stessa, e tutto ciò che rappresentava nell’immaginario collettivo. Divenne meno minacciosa, meno misteriosa, più vivibile. Come se il giorno si fosse allungato a scapito delle tenebre. Si diffusero anche pregiudizi che mai come in questo caso possono essere definiti «oscurantisti». Si disse che l’elettricità provocava emicrania e faceva abortire le donne. Per alcuni anni fu utilizzata solo per illuminare, e con parsimonia. Poi, piano piano, sono stati inventati strumenti che non avevano come forza motrice né un animale che girava, né un essere umano che faticava o pedalava, né una macchina a vapore che sbuffava. Da rurali e meccanici siamo diventati elettrici. Così anche a Sant’Agata sono via via arrivati il frigorifero, il ferro da stiro e la cucina elettrica, lo scaldabagno, la radio, il televisore, il computer: tutti strumenti ghiotti di energia elettrica.

Parlandone mi viene in mente ciò che mi è capitato di leggere nel diario di Alma Mahler. L’irrequieta musa del grande compositore Gustav a suo tempo fece installare l’impianto elettrico nella propria casa e, rimasta un giorno senza corrente a causa degli scioperi proletari, stizzita annotò: «È una follia che la macchina ci consenta di raggiungere la libertà. Quanto più noi dipenderemo da essa, tanto più il lavoratore diventerà il nostro “re”. Al tempo delle candele non succedevano queste cose».

L’informatica sta colonizzando il nostro mondo con la stessa progressività?

Ancora più velocemente. Pensa che Microsoft è nata solo 43 anni fa; il Web 27 anni fa; Google 21 anni fa; Skype 15 anni fa; Facebook 14 e Twitter appena 12. Per quanto lentamente l’informatizzazione voglia procedere nei nostri ministeri o nei nostri centri per l’impiego, per quanto tenacemente voglia resistere il mondo cartaceo, tuttavia miliardi di persone portano già un cellulare in tasca e miliardi di oggetti funzionano già grazie a un microprocessore.

Un poco più lentamente, ma con passo altrettanto inesorabile, procede il cambio di mentalità indotto dalla digitalizzazione. Come abbiamo visto, quando arrivò l’energia elettrica, per restare nell’esempio, cambiò il concetto di notte e di giorno: con la nuova luce era possibile fare di notte anche cose che prima si potevano fare solo di giorno.

A che punto siamo con la nuova colonizzazione? Nel mondo ci sono aree ancora vergini, non digitalizzate affatto?

L’elettrificazione di tutti i comuni italiani ha richiesto un centinaio di anni. L’informatizzazione del pianeta procede a tappe forzate, anche se in molte aree permane ancora un notevole digital divide. Negroponte è stato il primo a evocare questo spettro e ad avanzare l’idea del computer supereconomico: i computer, osservava, costano molto, però fanno troppe cose non necessarie. Perciò proponeva di fabbricare elaboratori basic, di metterli sul mercato a cento dollari, di inondarne l’Africa e di farle compiere, così, il grande salto dall’analfabetismo alla digitalizzazione, senza transitare per le fasi intermedie attraverso cui siamo passati noi: penna, macchina da scrivere a martelletto, macchina da scrivere elettrica, computer. Chi non sa scrivere, diceva, imparerà a farlo direttamente sulla tastiera.

Ricapitoliamo le tappe attraverso cui è proceduta questa nostra «digitalizzazione», dalla quale vaste aree dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina sono tuttora emarginate.

È una storia che ogni studente di scuola media conosce ormai alla perfezione. In origine c’è la cellula elementare dell’informatica, il microprocessore, una piastrina di silicio su cui sono impiantati i transistor. Il transistor non è altro che un interruttore che ammette due possibilità: che l’energia passi o che l’energia non passi. Giocando con i transistor aperti o chiusi e facendo corrispondere alle chiusure e alle aperture delle lettere dell’alfabeto o dei numeri, su ogni microprocessore posso scrivere infinite informazioni, a seconda dei transistor che esso contiene. Ormai si è superato il miliardo di transistor impiantati in un microprocessore, il chip. E, per la legge di Moore, la potenza di un chip raddoppia ogni diciotto mesi.

Bill Gates comprende tempestivamente l’immenso business nascosto dentro l’informatica e nel 1975 fonda Microsoft, un’azienda che crea, vende o concede in licenza prodotti software come i sistemi operativi Windows, la suite di produttività personale Microsoft Office e i browser Internet Explorer e Edge.

Prima data, quindi, inizi degli anni Settanta e nascita di Microsoft. Seconda?

1980. Questa volta è l’Europa che si fa avanti e con tutt’altro stile. L’inglese Tim Berners-Lee, premio Turing nel 2016, realizza Enquire al Cern di Ginevra, dove trascorre sei mesi da giugno a dicembre. È il primo software per immagazzinare informazioni usando associazioni casuali ed è destinato a uso interno, per la rete informativa tra i diversi centri del Cern. Ma Berners-Lee capisce che può essere utilizzato per qualunque cosa e, dalla sua collaborazione con il belga Robert Cailliau, nel 1989 nascerà il World Wide Web, l’invenzione che sta a Internet (che già esisteva) come un motore a reazione sta a una vecchia Balilla. Nel 1991 pubblica, per il Cern, il primo sito web al mondo.

Ora è doveroso ricordare che tutti i pionieri dell’informatica, figli della beat generation e della controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta, hanno cominciato ostentando un disinteresse per il profitto e una salvifica intenzione di migliorare il mondo senza scopo di lucro, ma hanno poi finito per accumulare spregiudicatamente ricchezze da nababbi.

Nel 2017 è stata la volta di Jonathan Taplin, prestigioso accademico della University of Southern California, direttore dell’Annenberg Innovation Lab, ma con una carriera americanamente eccentrica: prima di passare all’università aveva organizzato concerti di Bob Dylan e prodotto film di Martin Scorsese. Taplin ha denunziato la degenerazione dei big dell’informatica con un libro coraggioso fin dal titolo: Move Fast and Break Things: How Facebook, Google, and Amazon Cornered Culture and Undermined Democracy, tradotto in Italia come I nuovi sovrani del nostro tempo, dove scrive: «All’inizio i tecnologi della Valle erano effettivamente seguaci della specificità culturale della California libertaria. Ma poi […] il libertario è diventato liberista. È accaduto in modo graduale, ma se devo scegliere una data-cerniera direi il 2004: con la quotazione in borsa, Google diventa un gigante e cambia mentalità».

Nello stesso 2017 il giornalista di «The Atlantic» Franklin Foer alza il tiro con World Without Mind: The Existential Threat of Big Tech (nell’edizione italiana I nuovi poteri forti) in cui, analizzando i casi di Facebook, Amazon, Google e Apple, arriva a concludere che «Big Tech ha costruito il suo impero polverizzando la privacy e ha un programma inquietante: rendere il mondo meno privato, meno individuale, meno creativo, meno umano».

Berners-Lee, invece, esibisce una condotta ben più pulita e generosa. Avendo compreso fino in fondo il valore effettivo della sua invenzione per il progresso dell’umanità, si è rifiutato di brevettarla e lotta da anni per una Magna Charta che sancisca trasparenza e democraticità d’accesso come principi fondamentali del Web. Inoltre, nel 1994 ha fondato presso il Mit di Boston il World Wide Web Consortium (W3C) con tre obiettivi: aggiornare e creare le specifiche di un linguaggio di comunicazione comune a tutti gli apparecchi che accedono a Internet; rendere quanto più agevole possibile l’accesso al Web da parte dei portatori di handicap; evitare qualsiasi freno all’assoluta libertà di creare documenti, metterli online e aiutare chiunque a sviluppare le proprie potenzialità comunicative, dal momento che il Web è unico perché è libero. «Internet deve restare gratis, aperto e neutrale» ribadirà a Roma, nel 2011, intervenendo all’iniziativa Happy Birthday Web.

Ma continuiamo con la cronologia della digitalizzazione…

Come ho già accennato, Google nasce nel 1997, Skype nel 2003, Facebook nel 2004, Twitter nel 2006. Questo significa che nel 2030 chi è nato con Microsoft avrà cinquantacinque anni, chi è nato col Web trentanove, chi è nato con Google trentatré, chi è nato con Skype ventisette, chi è nato con Facebook ventisei e chi è nato con Twitter ventiquattro. Come si vede, la creazione del mondo digitale procede a una velocità crescente, ma è importante anche la velocità con cui la stessa digitalizzazione si espande. La diffusione dell’automobile richiese procedimenti lenti e complicati, impiantando pompe di benzina, garage e officine meccaniche. Invece la diffusione di tutto ciò che è informatico avviene con grande rapidità perché si serve di computer sempre più miniaturizzati, di cloud, di etere e di satelliti. Se per portare la corrente dalla centrale in casa tua occorrevano centinaia di pali e chilometri di fili, qui basta un satellite che serve miliardi di persone in un batter d’occhio. Così nasce, appunto, il concetto di «tempo reale», sconosciuto ai nostri nonni.

È una nuova categoria, in effetti. Cosa significa «tempo reale»?

Lo spiegherei così: i margini necessari per fare un’operazione sono ridotti quasi a zero. Se ascolti una trasmissione radiofonica contemporaneamente alla radio e al computer, avverti una sfasatura di qualche secondo: è il tempo per il passaggio via satellite, un tragitto enorme percorso quasi alla velocità della luce.

Eccoci in quello che significa un mondo «digitalizzato». Quali sono le altre caratteristiche di questo nuovo universo?

Mentre intorno all’elettrificazione si è man mano coagulato il concetto di modernità, intorno all’informatica si è coagulato il concetto di digitalità. Quando oggi dico che uno è digitale o che è analogico, non intendo soltanto che usi o non usi il computer, ma intendo anche se si depila o non si depila, se tende a vivere più di notte o di giorno, se rispetta o meno la puntualità: c’è tutta una conformazione antropologico-psicologica che connota questa categoria rispetto a quella analogica.

È un passaggio generazionale? Si risolve anche in un passaggio di potere? I digitali possiamo definirli «giovani & vincenti»?

Per ora regna ancora questo paradosso: siccome in tutto il mondo, dove più dove meno, esiste la gerontocrazia – in Italia ben maggiore che negli Stati Uniti – e poiché tutte le istituzioni – scuole, ministeri, partiti, sindacati, imprese – hanno organizzazioni gerarchiche e piramidali, gli analogici, che sono prevalentemente anziani, occupano i vertici, mentre i digitali, che sono prevalentemente giovani, restano schiacciati alla base.

In un’azienda il presidente, pagato molto più dell’impiegato, si fa gestire la posta elettronica, operazione semplicissima, dalle giovani segretarie, mentre più giù ancora c’è il giovanissimo usciere che usa Instagram e Twitter. Tra i motivi di disorientamento oggi c’è la convivenza di queste due culture: quella più arretrata detenuta da chi ha più potere, contrariamente a quanto avveniva in passato. E questo è un tallone d’Achille dell’élite: quando oggi diciamo che l’élite è ignorante, certifichiamo che le manca un know-how che le non-élite già hanno.

Ecco allora un’altra caratteristica del nuovo mondo: la perdita di valore dell’esperienza.

In passato gran parte del know-how era affidato, appunto, all’esperienza. L’anziano ne aveva di più perché aveva sbagliato di più e quindi aveva meno probabilità di sbagliare anche in futuro. Laddove oggi, invece, il know-how viene direttamente dall’apprendimento. E se uno ha sessant’anni significa che ha appreso anni fa, quando non c’erano le tecnologie attuali.

È un passaggio di consegne generazionale, però al rovescio rispetto a quanto accadeva in precedenza. Nella società industriale e più ancora nella comunità rurale l’adulto sapeva più del giovane, motivo per cui si faceva carriera con l’età e questa progressione poteva essere perfino automatica, tanto era scontato che tu a sessant’anni sapessi più che a cinquanta. A quell’età eri dirigente, mentre a quarant’anni eri impiegato di prima categoria e a trenta di seconda categoria. Oggi lo scatto automatico di carriera è entrato in crisi – anche se c’è ancora in alcune istituzioni come la magistratura – perché tutta una serie di cose si sanno non per esperienza esistenziale, diretta, ma per esperienza acquisita tramite i libri, i media, la formazione, i viaggi: perché l’ho studiato nella nuova scuola, perché l’ho visto io per primo visitando un’impresa d’avanguardia, perché girando ho capito come si fanno alcune cose in America mentre tu in America non ci sei andato, e così di seguito. Quindi il know-how è ormai sganciato dall’età. E avanza il concetto di meritocrazia, che non è più il merito dovuto automaticamente all’età, ma è un merito che deriva dal tuo impegno, dalla tua curiosità intellettuale, dalla tua intraprendenza, dalla tua tenacia nello studio, oltre che, naturalmente, dalle opportunità. Perciò un Paese democratico deve assicurare a tutti i cittadini pari opportunità e pari tutele.

Continuiamo a sviluppare la fotografia dei digitali. Giovani perlopiù, dunque, ma non per forza vincenti…

Prevalentemente giovani. Spesso disoccupati o precari. Ma questo non significa che siano ignoranti e poveri, perché oggi a volte disoccupazione e precarietà si accompagnano con la cultura e l’agiatezza. Dipende dalla classe sociale cui appartieni. Se sei figlio di persone agiate sarai un precario agiato.

I digitali di oggi, rispetto agli yuppies di ieri, tendono a dare meno importanza al denaro e alla carriera, anche se nel loro immaginario ci sono le classifiche di «Forbes», le ricchezze fulminanti di Mark Zuckerberg e di tutta la Internet economy. Anche il consumo è importante, ma non è ossessivo e compulsivo come lo era nella società industriale e per i campioni della New economy. Bill Gates e Jeff Bezos vanno in blue jeans, mentre Gianni Agnelli, Enrico Cuccia, Adriano Olivetti, sia pure diversificandosi per tipo di eleganza, indossavano il doppiopetto, marcando così, anche con il linguaggio vestimentario, la distanza tra sé e l’operaio in tuta blu.

Pensi che Bill Gates e consimili affidino all’abbigliamento casual una diversa rappresentazione di se stessi, oppure hanno col denaro, nella sostanza, un rapporto diverso rispetto al magnate d’un tempo? Diverso, magari, perché il loro patrimonio è infinito?

Gates in qualche modo somiglia più ai Rockefeller, ai Carnegie, ai Vanderbilt di una volta che ai Larry Page e ai Sergej Brin di oggi, fondatori di Alphabet e di Google. La sua azienda, che ora è tra le prime per capitalizzazione di borsa insieme con Apple, Alphabet, Facebook e Amazon, era in testa già dieci anni fa assieme a vecchie e gloriose imprese come Citigroup, Shell Oil, Exxon Mobil e General Electric. Pensa che Facebook, con 21.000 dipendenti, vale 520 miliardi di dollari, mentre General Electric, Ibm, Ford e AT&T, per mettere tutte insieme lo stesso valore, debbono impiegare 1,1 milioni di dipendenti.

Dunque Bill Gates non è old money come Rockefeller ma nemmeno è new new money come Zuckerberg. Entrambi portano i jeans ma Gates ha uno stile di vita più sobrio, ha preso le distanze dal suo patrimonio e ne investe una parte notevole in attività filantropiche.

D’altra parte, oggi non è più l’abito che fa il monaco. Quando per un vestito principesco o per una corazza occorrevano cifre equivalenti a ettari di terra, si ricorreva a questi indumenti per marcare le distanze tra un re e un duca. Oggi conta molto di più la capitalizzazione in borsa. Ricordo le pagine e pagine impiegate da Maria Bellonci per descrivere il corredo della giovanissima Lucrezia Borgia quando andò in sposa ad Alfonso I d’Este.

In genere, tutti i digitali curano il proprio corpo senza arredarlo in modo vistoso e costoso. E tendono a essere meno pessimisti degli analogici. Credono nel futuro e confidano nella longevità. Sono nati in un mondo in cui la vita già si parametra sui novant’anni.

Credere nel futuro e nella longevità significa credere nello Sviluppo e nel Progresso, con tanto di maiuscole, com’era nella società industriale?

No, i digitali non credono nella crescita infinita dell’economia occidentale; tra loro s’è sparsa la voce che esistono dei limiti allo sviluppo. Hanno un atteggiamento abbastanza positivo verso la vita, verso il destino del pianeta e verso quello dell’umanità. Sanno che da qualche parte – magari a Boston, a Tokyo o a Cupertino – il progresso della tecnologia, della farmacologia, della chirurgia, della biotecnologia, della nanotecnologia, dell’intelligenza artificiale gli sta preparando farmaci e protesi prodigiose con cui allungare e migliorare la propria salute. Tendono a credere, insomma, che grazie al progresso scientifico e alla creatività gli istinti vitali alla fine prevarranno su quelli autodistruttivi. Anche perché, essendo giovani, a differenza dei genitori e dei nonni, non hanno sperimentato direttamente né il fascismo né la guerra. Hanno quasi l’idea e l’illusione che un altro fascismo e un’altra guerra non possano scoppiare: puoi chiudere i porti ai migranti, puoi fare quello che vuoi, ma poi alla fine ci si mette d’accordo. La guerra e la dittatura per loro sono qualcosa che sta altrove, in un Terzo mondo o in un Oriente comunque lontano. Chissà, magari sono solo fake news.

I digitali sono tutti occidentali e del Nord del mondo?

Sono prevalentemente giovani e ormai stanno dovunque. L’addensamento è in Occidente ma, col crescere della popolazione giovanile, cresce il numero dei digitali in India, in Cina, in Sudafrica, dovunque arrivi Internet. La massa dei ragazzi è affascinata dall’onnipotenza di quelle che Scott Galloway, professore di Marketing alla New York University Stern School of Business chiama The Four: Amazon, Apple, Facebook e Google. Il loro valore in borsa cresce a vista d’occhio; Amazon imperversa con la sua flotta aerea, i suoi autotreni e le sue navi; Google con i suoi palloni aerostatici. Intanto Facebook mette in connessione due miliardi di persone e, insieme a Microsoft, posa cavi sottomarini nell’Atlantico.

Questa potenza di potenze, della quale in qualche modo anch’essi fanno parte, fornisce ai digitali l’orgoglio della digitalità e l’impressione di poter contare su una sorta di onnipresente divinità planetaria che li esalta e li schiaccia al tempo stesso. A ciascuno di loro, e a tutti loro messi insieme, Google manipola le capacità conoscitive, Facebook le possibilità di socializzare, Apple il senso estetico, Amazon la propensione ai consumi.

Andiamo avanti con l’identikit.

I digitali hanno una dimestichezza con l’informatica e con la virtualità che rende i rapporti interpersonali sempre più astratti, ma al tempo stesso arricchisce i sensi di nuove dimensioni, anche se la vista e l’udito vengono sollecitati molto più del gusto e dell’olfatto.

Apprezzano e vivono come del tutto normale l’ubiquità consentita dall’informatica e dai nuovi mezzi di trasporto sempre più rapidi e meno costosi. Noi davamo per scontato che se tu telefonavi alla Tim da Roma, chi ti rispondeva era anch’egli a Roma; ora si premurano di informarti che ti stanno rispondendo dall’Albania o dall’India.

La maggioranza dei digitali parla più di una lingua, di cui una è quasi sempre l’inglese, usato come se fosse un metalinguaggio, per sentire una canzone, per agganciare una persona a scopo di affari o per motivi erotici. Danno per scontata la globalizzazione: non si chiedono neppure da dove viene un vestito, che sia made in China o made in Italy gli è del tutto indifferente.

Al loro interno vi è un nucleo ancora più digitalizzato e globalizzato fatto di figli di ambasciatori, di manager di multinazionali, di militari in missione, che cambia continuamente residenza, lingua, usi e costumi. Ma anche tutti gli altri sono tendenzialmente nomadi e non soffrono di jet lag, quindi sperimentano vere e proprie trasformazioni somatiche. Mentre io da bambino soffrivo il mal d’auto e, per evitarlo, prendevo una pillola che si chiamava Xamamina, i miei nipoti hanno viaggiato tanto fin da neonati e considerano l’aereo come un mezzo domestico.

I digitali sono più inclini ad accettare le diversità, la multirazzialità, l’interculturalità. Non sto dicendo che sia così per tutti, ma in prevalenza è così. D’altra parte sono abituati ad andare da un Paese all’altro d’Europa senza mostrare il passaporto e senza cambiare moneta; spesso si considerano più europei che abruzzesi, occitani o gallesi.

Adottano il controllo delle nascite ormai sdoganato da ogni valenza etica. Accettano le pari opportunità: le donne con entusiasmo, alcuni uomini con rassegnazione. Hanno fiducia nell’ingegneria genetica e nei nuovi farmaci, che consentono di sconfiggere le malattie, di modificare il corpo umano e il suo destino biologico.

Propendono per varie forme di secolarizzazione; non sono influenzati più di tanto dalla fede in un aldilà: danno piuttosto per scontato che i giochi si chiudono su questa Terra. Temono più il riscaldamento climatico che non il fuoco dell’inferno, per cui sono sensibili all’ecologia e alla sostenibilità. Non fanno troppa distinzione tra i giorni ufficialmente festivi e quelli ufficialmente feriali; fosse per loro, il dibattito se i negozi debbano stare aperti o no di domenica non esisterebbe.

Mentre la società industriale aveva abituato noi analogici a distinguere nettamente tra le otto ore di lavoro, le otto di tempo libero e le otto di cura della persona e sonno, i digitali non fanno troppa distinzione tra le attività di studio, di lavoro e di tempo libero. Praticano quello che io chiamo ozio creativo, cioè un tipo di attività in cui è difficile capire se uno sta lavorando, sta studiando o si sta divertendo.

A differenza dei genitori e dei nonni non amano il lavoro incondizionatamente, non lo considerano come il fattore centrale della propria esistenza, non gli attribuiscono significati pregnanti di sacrificio, dovere, orgoglio; gli danno più o meno la stessa importanza che riservano al tempo libero. La frequente consuetudine con la precarietà li ha abituati a coniugare spezzoni di lavoro casuali con fasi di studio, viaggi, cura della famiglia e degli amici.

Usano «esperanti» linguistici ed estetici come il rock, il rap, l’informatichese, i tatuaggi, i piercing, le emoticon ecc. Tendono a creare social communities molto cangianti tramite Internet e con esse spaziano oltre i confini della comunità reale, ben più stabile, composta dagli amici quotidiani.

Hanno un atteggiamento disinvolto verso la sessualità. Nei loro stili di vita trovano spazio crescente la sexual fluidity, la pansessualità, l’androginia. Considerano in modo più incerto e sfumato i concetti di paternità, maternità, figliolanza e parentela. Maschi e femmine condividono i valori tradizionalmente «femminili» dell’estetica, della soggettività, dell’emotività e della flessibilità. Oggi il maschio si profuma e si depila mentre prima la donna ricorreva alle cerette e il maschio ostentava il proprio petto villoso.

Qui entriamo in una nuova sfera: la decorazione del corpo e la moda dei tatuaggi. È una filosofia neotribale o, semplicemente, una nuova frontiera del marketing?

Nella cultura tribale primitiva non si usavano abiti. La nudità degli indigeni colpiva tutti gli esploratori, che ne parlano meravigliati nei loro diari di viaggio. Prendiamo gli indios del Brasile. Perché abbiamo poche opere d’arte degli indios? Perché ritenevano che la creatività estetica, l’arte, fosse la parte divina dell’uomo e quindi non si potesse sprecare su un materiale vile come un muro, una tela o un marmo, ma andasse eseguita solo su un supporto prezioso e sacro come il corpo umano. L’artista dava il meglio di sé nell’arredo del proprio corpo o del corpo della persona amata. Naturalmente, essendo i corpi umani morituri a differenza di un muro o di un marmo, abbiamo perso innumerevoli opere d’arte eseguite su pelle umana.

I tatuaggi oggi invece sono una pura offerta del mercato?

Sì, però il mercato fa sempre leva su un bisogno latente. Il bisogno di sentirsi un «soggetto» vivo, attivo, capace di esibire un messaggio di cui ci si sente testimoni orgogliosi. Per questo ti fai tatuare la frase del poeta preferito o il nome della tua squadra del cuore. Con la chirurgia plastica puoi scolpire il tuo corpo; con il tatuaggio puoi trasformarlo nel medium di un messaggio che esibisce i tuoi gusti, le tue scelte, i tuoi amori. In entrambi i casi hai la possibilità di considerare il tuo corpo non una cosa immutabile, data una volta per sempre, ma una cosa scelta, un’espressione postmoderna.

Il paradosso non è che in nome della «variabilità» del proprio corpo ci si fa incidere sulla pelle interi romanzi, intere storyboards a fumetti, che sarebbe un’impresa quasi impossibile e dolorosissima, all’occorrenza, togliere?

Rispondo con una suggestione: viene da un racconto molto suggestivo, scelto da Borges per la collana La Biblioteca di Babele di Franco Maria Ricci. Era di uno scrittore di inizio Novecento, Hector Hugh Munro, in arte Saki. La storia si svolge nel Settecento e parla di un protagonista che viene a Bergamo dalle Fiandre. Qui trova un tatuatore di straordinaria genialità e si fa fare sulla schiena un tatuaggio che viene unanimemente giudicato come un capolavoro. Il problema nasce quando il nostro viaggiatore belga deve ripartire, perché a Bergamo la legge vieta di esportare opere d’arte.

Proseguiamo con la nostra fotografia dei digitali.

I digitali non amano ideologie trascinanti, incandescenti, non coltivano bisogni forti, non credono a distinzioni nette come proletariato e borghesia, destra e sinistra. Quando io ero alle prime armi come professore – siamo agli inizi degli anni Sessanta – se dicevo ai miei studenti «Elencate i bisogni che sentite più impellenti in questa fase della vostra vita», loro indicavano due o tre cose come laurearsi con il massimo dei voti, trovare un buon lavoro, mettere su casa, sposarsi, avere figli. Se lo chiedo oggi, elencano decine di cose di poca importanza, dal motorino all’ultimo tipo di cellulare, dalla PlayStation a una felpa. A pochi bisogni forti per i quali valeva la pena di immolare riposo e divertimento, si è sostituita una miriade di bisogni deboli e per certi versi intercambiabili. E su questa intercambiabilità, terreno fertile per gli esperti di marketing, sono stati seminati a piene mani i bisogni indotti su cui le Big Tech hanno costruito la propria fortuna. Le stesse mode, che venivano lanciate per indurre milioni di consumatori a concentrare i propri acquisti sui pochi prodotti più reclamizzati, sono state poi frammentate in modo da consentire uno smercio di prodotti meno importanti, più numerosi e più volatili. Oggi, ad esempio, la maggior parte dei tanti libri pubblicati resta in vetrina solo per qualche settimana. I ricavi miliardari di Amazon, di Uber, di TripAdvisor e di quasi tutta la sharing economy derivano da prezzi minimi pagati da infiniti clienti.

Inoltre, vengono spudoratamente pubblicizzati dai mass media prodotti che un tempo restavano segreti nell’intimo della famiglia o dei rapporti con il proprio medico di fiducia, come i pannoloni, gli assorbenti, i farmaci per curare la diarrea o la prostata.

Il motivo di queste nuove campagne non è l’allungamento della vita?

Ogni casa farmaceutica spera che i propri clienti abbiano una vita lunga e malaticcia.

Abbiamo tentato un’anatomia della personalità digitale. Passiamo agli analogici?

Quando parlo di analogici e digitali, mi rifaccio sempre mentalmente a una storia molto tenera che ha a che fare con il Sud d’Italia: le nostre masse migranti allora non andavano sui gommoni ma su delle bagnarole, navi grosse che venivano stipate con 600-700 persone, imbarcazioni vecchie, ormai fuori corso, dove gli emigrati venivano accatastati nelle stive. Mi hanno raccontato che, all’ora di pranzo, quando i passeggeri di prima e seconda classe andavano al ristorante, ai nostri poveri emigranti veniva consentito di salire sul ponte per prendere una boccata d’aria. Usciti dai boccaporti si dividevano spontaneamente in due gruppi: quelli che andavano verso poppa, presi dal desiderio nostalgico di vedere l’orizzonte dal quale provenivano e dove avevano lasciato le persone e le cose care, e i più intraprendenti che andavano a prua, con la speranza di essere i primi a vedere la terra promessa. A me pare che i digitali siano gli emigranti di prua, mentre gli analogici sono gli emigranti di poppa. Il digitale aspetta dal futuro la soluzione ai suoi problemi; l’analogico pensa invece che le soluzioni, esistite in una mitica età dell’oro, ormai siano finite per sempre, crollate sotto i colpi della modernità.

Gli analogici sono prevalentemente anziani o adulti. Non si sono ancora assuefatti alla longevità. Sono prevalentemente occupati stabili o pensionati. Mantengono i figli e a volte anche i figli dei figli. Danno più importanza al denaro, alla parsimonia, sono accorti nel risparmio. Da una parte sono convinti che l’economia potrebbe crescere all’infinito, dall’altra sono pessimisti perché, a loro parere, lo sviluppo è ostacolato dai sindacati, dai vincoli europei, dalla cattiveria diffusa e dalla disonestà imperante.

Aderiscono a un mix di ottimismo e pessimismo opposto a quello dei digitali?

Sì, ma con la prevalenza del pessimismo e della paura. Le loro radici industriali li rendono convinti che le materie prime e la creatività umana possano fare miracoli. Vivono le crisi economiche come sfortune transitorie anziché come fatti strutturali. Però sono delusi della vita e temono per il destino del pianeta e dell’umanità. Tendono a credere che gli istinti autodistruttivi prevarranno su quelli vitali. Nutrono una sorda paura di tutto: degli immigrati, dei gay, delle nuove tecnologie, delle epidemie.

Hanno scarsa dimestichezza con Internet, l’informatica, la virtualità e le social communities, di cui intravedono conseguenze prevalentemente negative. Non parlano altre lingue e criticano la tendenza a usare termini inglesi. Temono gli effetti della globalizzazione. Rifiutano diversità, multirazzialità, interculturalità. Danno al lavoro un’importanza cruciale. Hanno un atteggiamento diffidente verso la libertà sessuale, rifiutano l’androginia e la parità di genere. Donne e uomini sono parimenti maschilisti.

La diffidenza verso la libertà sessuale non è stata archiviata cinquant’anni fa, nel Sessantotto?

I ventenni di allora oggi hanno settant’anni, e non tutti parteciparono alla rivoluzione sessantottina. Poi c’è stato il riflusso che ha riportato indietro le lancette della storia.

Gli analogici coltivano ideologie e bisogni forti e – da cattolici se non credenti almeno praticanti – rifiutano il controllo delle nascite. Se non credono nell’aldilà, perlomeno ci sperano. Diffidano dell’ingegneria genetica e dei nuovi farmaci; sono contro le staminali. Temono gli effetti del progresso. Distinguono nettamente i giorni festivi dai giorni feriali, il lavoro dallo studio e dal tempo libero.

Tra queste due coorti può darsi una sintesi?

Non ce n’è bisogno: basta aspettare che si compia il ricambio generazionale tra digitali e analogici, dal momento che, come abbiamo visto, gli analogici sono in progressiva estinzione per motivi anagrafici. Quando tutta la società sarà digitale, scompariranno tutti i difetti e gli inconvenienti congeniti all’epoca industriale. Probabilmente ce ne saranno di nuovi e diversi, consustanziali al mondo virtuale, ma quelli cui eravamo abituati fin dal secolo scorso saranno scomparsi.

Qui e ora la sintesi rimedierebbe a tante storture e forse contribuirebbe ad attenuare i rigurgiti prefascisti ai quali stiamo assistendo e su cui conto di tornare in seguito. Ma per questo, come per tanti altri buoni motivi, occorrerebbe stipulare a livello globale un grande, inedito patto sociale non solo tra analogici e digitali ma tra uomini e donne, autoctoni e immigrati, ricchi e poveri, occupati e disoccupati, per redistribuire equamente la ricchezza, il lavoro, il potere, il sapere, le opportunità e le tutele.