Introduzione

«Il mondo è giovane ancora.»

GIAMBATTISTA VICO

In un suo fortunato libro sui gruppi creativi, L’emozione e la regola, per evocare il mondo in cui fiorì l’opera del maestro del design Michael Thonet, Domenico De Masi fa ricorso al brano iniziale dell’autobiografia di Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Sono le parole con le quali nel 1941 il grande scrittore austriaco descriveva l’«Austria felix» spazzata via dalla Prima guerra mondiale, quel mondo dal quale lui stesso era stato proiettato in un panorama nuovo e feroce, instabile e precario. Ebreo, profugo in Brasile, l’anno dopo morirà suicida.

Ma eccola, questa pagina: «Se tento di trovare una formula comoda per definire quel tempo che precedette la Prima guerra mondiale, il tempo in cui son cresciuto, credo di essere il più conciso possibile dicendo: fu l’età d’oro della sicurezza».

Poi Zweig prosegue: «Nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità. I diritti da lui concessi ai cittadini erano garantiti dal Parlamento, dalla rappresentanza del popolo liberamente eletta, e ogni dovere aveva i suoi precisi limiti. La nostra moneta, la corona austriaca, circolava in pezzi d’oro e garantiva così la sua stabilità. Ognuno sapeva quanto possedeva e quanto gli era dovuto, quel che era permesso e quel che era proibito: tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi. Chi possedeva un capitale era in grado di calcolare con esattezza il reddito annuo corrispondente; il funzionario, l’ufficiale potevano cercare con certezza nel calendario l’anno dell’avanzamento o quello della pensione; ogni famiglia aveva un bilancio preciso, sapeva quanto potesse spendere per l’affitto e il vitto, per le vacanze o per gli obblighi sociali, e vi era anche sempre una piccola riserva per gli imprevisti, per le malattie e il medico. Chi possedeva una casa la considerava asilo sicuro dei figli e dei nipoti; fattorie e aziende passavano per eredità di generazione in generazione; appena un neonato era in culla, si metteva nel salvadanaio o si deponeva alla cassa di risparmio il primo obolo per il suo avvenire, una piccola riserva per il suo cammino».

E così conclude: «Tutto nel vasto impero appariva saldo e inamovibile e al posto più alto stava il sovrano vegliardo; ma in caso di sua morte si sapeva (o si credeva di sapere) che un altro gli sarebbe succeduto, senza che nulla si mutasse nell’ordine prestabilito. Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale, ogni violenza apparivano ormai impossibili nell’età della ragione. Questo senso di sicurezza era il possesso più ambito, l’ideale comune di milioni e milioni».

Perché siamo tornati su questa pagina di ottant’anni fa? Perché parlando della «sua» Austria, Stefan Zweig dipingeva in realtà quello che, a ogni latitudine e in ogni epoca, può essere il sogno di ciascun cittadino comune. Un sogno infantile? Sì, se lo è quello di vivere in un mondo solido e saldo, dove tutto volge al bene, senza imprevisti e senza ansia.

Questo scenario non è l’opposto di quello in cui viviamo oggi? Questo nostro mondo dove non c’è un sovrano che come un buon padre vegli su di noi e dove – altro che fiorini e corone d’oro zecchino! – perfino la moneta che usiamo, l’euro, è di conio recentissimo, ma già domani potrebbe scomparire…

Con Domenico De Masi abbiamo realizzato in una stagione lontana – il 1995 – Ozio creativo, un libro nel quale, sotto forma di conversazione, il sociologo esponeva la sua teoria sulla categoria del tempo nella società postindustriale. Il libro, fatto raro, è ancora in libreria. E l’espressione coniata all’epoca da De Masi è diventata nel frattempo di uso largo, diffuso.

Ora stiamo partendo per un breve viaggio nel futuro. Un futuro prossimo: diciamo il 2030. Come sarà il mondo in quell’anno?

Nel suo ultimo libro, Il lavoro nel XXI secolo, De Masi (classe 1938) si descrive così: «Sono nato in un piccolo paese rurale del Mezzogiorno d’Italia quando non era ancora dotato di energia elettrica e di acqua corrente. Ho ascoltato la prima radio quando avevo otto anni, ho visto la prima televisione quando ne avevo sedici, sono andato a lavorare in una grande acciaieria quando ne avevo ventitré, e l’anno successivo ho visto per la prima volta un computer. Sono stato tra i primi italiani a comprare un fax, a usare un cellulare, a sottoscrivere un abbonamento a Internet».

Questa confessione di un figlio del secolo così prosegue: «Ho dunque l’impagabile fortuna di avere vissuto in prima persona il passaggio della società da un millenario assetto rurale a un bicentenario assetto industriale e a un inedito avvento postindustriale. Ciò mi ha permesso di gustare come primizie o di paventare come minacce tutte le innumerevoli novità tecnologiche che hanno segnato questa transizione e, con esse, tutti i mutamenti antropologici e sociali, compresi l’ascesa e il declino della classe operaia e media, la crescita esponenziale della produzione e il fallimento della ripartizione, l’acuirsi della competitività e il rifiuto della solidarietà

Ecco il bagaglio esistenziale che affianca ai suoi strumenti di sociologo e col quale, dunque, si mette in cammino. C’è un binomio diventato proverbiale che Gramsci nel 1920, in un articolo su «L’Ordine Nuovo», mutuava dal francese Romain Rolland: pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà. Nel viaggio da qui al 2030 che compiamo in queste pagine De Masi opta scientemente per una terza via: un «ottimismo della ragione». È sotto questo segno – chiaramente controcorrente – che qui si indaga una successione di parole: dieci concetti e il loro opposto. Per opporre intelligenza sociologica al nostro sentimento di smarrimento e alle «percezioni» – il fantasma che si aggira nel nostro tempo – dati oggettivi su temi come età e generi, cambiamenti tecnologici e paure.

È un viaggio nel prossimo futuro che De Masi fa approdare a una parola che tutti amiamo e che nessuno usa: «felicità».

Ma un sociologo può ignorare i fenomeni del presente? No. Perciò nel capitolo finale, un’avvertenza che è anche commiato, leggiamo i segnali di «prefascismo» che si vanno manifestando: andremo avanti, verso la «felicità», o torneremo a un’epoca rozza e arcaica?

Per cominciare dobbiamo circoscrivere da quale pedana parta la nostra navetta spaziale. Continuate a leggere. Ecco, appunto, la prima diade: «Disorientamento e progetto»…

Maria Serena Palieri