Classe e individui

C’è una figura che si aggira nelle strade delle nostre città e che sembra fatta apposta per rappresentare il nostro mondo in via di mutamento: di norma perlopiù maschio, abbastanza giovane da reggere l’impegno fisico, pedala con l’attrezzo da lavoro di sua proprietà, un’arcaica bicicletta, per consegnare pizze e sushi confezionati da altri, ed è parte di un ingranaggio che, dal cliente al produttore, si muove via Internet. Il suo tempo di lavoro, disegnato sull’«h24» della Rete, non prevede pause, però la sua retribuzione è a consegna, quindi monetizza solo i minuti effettivi in cui, ritirato il cibo, pedala per portarlo a chi lo aspetta. Just Eat o Deliveroo, Glovo o Foodora: sul contenitore termico che porta sulle spalle campeggia uno di questi marchi multinazionali. A quale realtà sociale appartiene questo individuo sui pedali? Quali speranze ha di vedersi riconosciuti dei diritti?

De Masi, se Karl Marx lo incontrasse, oggi, in quale classe lo collocherebbe?

Non c’è dubbio: nel proletariato. Proletari, nell’Ottocento, erano chiamati i lavoratori più poveri, quelli che ogni mattina, andando in fabbrica, portavano con sé la propria prole per farsi aiutare. Secondo Marx, che ha nobilitato questa figura sociale elevandola al rango di motrice della storia, era proletario chi non aveva nessuna sicurezza di lavoro e di cibo, chi viveva nella continua paura di essere spinto ancora più giù, nell’estrema periferia della società dove tentavano di sopravvivere i sottoproletari, gli «stracci al vento».

Fino a qui abbiamo parlato di lavoro, di paura, di impegno. È dunque arrivato il momento di analizzare il concetto di «classe»: l’unico soggetto collettivo che può aiutare l’individuo sfruttato a vincere il disorientamento attraverso la presa di coscienza del proprio stato di subordinazione e attraverso l’impegno necessario per liberarsene.

La parola «classe» era già usata dai Romani. Per loro la classis era la flotta, cioè l’insieme delle navi che solo procedendo unite potevano vincere una battaglia. Marx, quindi, non inventa il termine ma ne intuisce un nuovo significato. La classe aggrega coloro che hanno in comune uno stesso parametro: può essere la proprietà – o meno – dei mezzi di produzione, può essere il livello d’istruzione, può essere il conto in banca. Alla ricerca di un parametro oggettivo da cui partire, Marx individua la condizione economica: tu ricco e io povero apparteniamo a classi diverse. Questa la chiama «classe in sé». E siamo al primo step.

Ora, qui è la genialità di Marx: al contrario dei liberisti, lui dice che la produzione di ricchezza non finirà automaticamente per alleggerire le differenze di classe, anzi, le aggraverà. Se guardiamo il mondo oggi, a un secolo e mezzo di distanza, è indiscutibile che avesse visto giusto. Ma a questo punto Marx si chiede: perché, se i ricchi sono pochi e i poveri moltissimi, i ricchi non vengono neutralizzati o eliminati? Stando al nostro presente: se oggi sul pianeta otto persone detengono una ricchezza uguale a quella spartita da tre miliardi e mezzo di poveri, perché questa massa enorme non si appropria dei beni di quegli otto, mettendo fine a una così smaccata ingiustizia? Oppure, per dirla con Voltaire, perché 2498 aristocratici nel Settecento si spartivano le ricchezze della Francia intera, se i francesi erano 23 milioni o più?

Ed ecco come lo spiega Marx: i ricchi sono convinti del proprio diritto di essere tali e sanno, anche, che i loro interessi coincidono, quindi fanno lobbying per difenderli. I poveri, a loro volta, hanno introiettato l’idea inculcata loro dai ricchi secondo cui essere poveri non è ingiusto ma del tutto naturale. Lo dirà anche l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII: siamo diversi l’uno dall’altro per intelligenza, per casato, per simpatia, per istruzione; la diversità è tipica del genere umano e, per diversità, s’intende gerarchia. A è diverso da B ed è sopra B, dunque ha diritto a più denaro, più potere, più istruzione, più tutele. Solo dopo la morte, nella vita eterna, la giustizia divina rimetterà a posto i conti.

Senza aver letto l’enciclica, perché uscirà otto anni dopo la sua morte, Marx diceva che la religione è l’oppio dei popoli perché, rimandando il sogno di giustizia alla vita ultraterrena, ammansisce i poveri e li induce ad accettare supinamente le condizioni di sfruttamento cui sono costretti su questa Terra.

La condizione oggettiva di ricco o di povero è ciò che Marx chiama «classe in sé». I ricchi, in quanto ricchi, sono per se stessi borghesia; i poveri, in quanto poveri, sono per se stessi proletari.

Definita questa dicotomia quasi ovvia, l’analisi marxiana delle classi compie un secondo passaggio, affermando che, oltre alla collocazione effettiva nella classe dei ricchi o in quella dei poveri, occorre la consapevolezza di appartenere all’una o all’altra. Nel caso dei proletari, occorre la consapevolezza dell’ingiustizia subita. Faccio un esempio puramente ipotetico: ammettiamo che in un universo di cento persone ci siano dieci ricchi, consapevoli che esistono le differenze di classe e convinti anche di essere nel loro diritto, perché, dicono, io sono più intelligente, mio padre ha faticato più del tuo, sono più fortunato, perché… perché… perché…; comunque sono ricco e ne ho pieno diritto. E ammettiamo che ci siano novanta poveri, di cui settanta convinti che sia naturale esserlo, perché gliel’hanno detto a scuola, in fabbrica, in chiesa. Questi settanta, secondo Marx, sono «alienati», cioè ognuno di loro è povero ma ragiona come se fosse un alius, un altro, un ricco.

La parola «alienazione» è diventata di uso comune. Diciamolo: viene usata perlopiù a casaccio. Marx quale significato le attribuisce?

Della parola «alienazione» si sono poi appropriati soprattutto gli psicologi, gli psichiatri, gli psicanalisti. Per Marx «alienato» è chi appartiene a una classe ma pensa e si comporta come se appartenesse a un’altra. Sono povero e ragiono come i ricchi, cioè non percepisco la mia condizione come ingiusta. Sono un americano a rischio povertà e voto per un miliardario come Donald Trump illudendomi che i nostri interessi coincidano. La stessa cosa vale per il minatore del Sulcis che vota Berlusconi.

Di alienazione avevano già parlato altri, ma le quindici paginette dei Manoscritti in cui Marx, ventiseienne, descrive il «lavoro alienato» rappresentano una grande scoperta: sono l’equivalente, in sociologia, della scoperta del Dna in biologia. Quindici pagine strepitose in cui si racconta come avviene l’alienazione.

Cosa dicono di così strepitoso?

È un passo cruciale del modello comunista di società. Ne ho già parlato diffusamente sia nel libro Mappa Mundi, sia nel più recente Il lavoro nel XXI secolo, qui ci è più utile una rapida sintesi.

Tutta l’ingiustizia del mondo, per cui il proletariato subisce uno sfruttamento totale da parte della borghesia, è possibile grazie al fatto che i lavoratori sono, per la maggior parte, alienati, cioè resi estranei al loro stesso prodotto, al loro stesso lavoro, a loro stessi, agli altri uomini e alla loro stessa specie. Questa degradazione del lavoratore avviene in funzione della maggiore produttività di oggetti di consumo per cui «la svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose».

Un passo complesso. Cosa significa che l’operaio è estraneo al suo stesso prodotto?

Quando l’operaio ha terminato la produzione di un oggetto in fabbrica, questo oggetto non è più suo, gli diventa estraneo, vive indipendentemente da lui che lo ha prodotto, anzi gli si contrappone come un nemico perché torna unicamente a beneficio del capitale, cioè del suo nemico. Quanto più lavoro l’operaio trasferisce nella materia, tanto più mette se stesso in oggetti che poi non gli apparterranno. Marx dice che il lavoro dell’operaio «produce per i ricchi cose meravigliose; ma per gli operai produce soltanto privazioni. Produce palazzi, ma per l’operaio spelonche. Produce bellezza, ma per l’operaio deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli operai in un lavoro barbarico e trasforma l’altra parte in macchina. Produce cose dello spirito, ma per l’operaio idiotaggine e cretinismo».

Per dare una misura a questo discorso, torniamo ai numeri che abbiamo già evidenziato: ai tempi di Marx nella città più industriale d’Inghilterra e del mondo, Manchester, su cento lavoratori dipendenti, 94 erano operai; agli inizi del Novecento, nelle fabbriche organizzate da Taylor e da Ford, su cento dipendenti 85 erano operai e 15 erano impiegati addetti, perlopiù, a pratiche ripetitive. L’imprenditore e pochissimi dirigenti monopolizzavano tutta la parte creativa dell’organizzazione.

Oggi a Manchester come a Detroit gli operai sono circa il 30 per cento e tutti gli altri svolgono lavori intellettuali. Ma l’estraneità, l’alienazione che allora accompagnava il lavoro fisico, oggi accompagna l’attività dell’impiegato, del professional e persino del manager.

Un altro elemento di estraneità, oltre il prodotto: cosa intende Marx quando, ancora giovanissimo, scrive che l’operaio è estraneo al suo stesso lavoro?

Intende che non è lui a organizzare la produzione, non è lui a stabilire cosa e come produrre, non è lui ad assegnare i ruoli e definire i ritmi. È il padrone con la sua tecnostruttura, cioè con i suoi manager, a decidere tutto. Quindi l’operaio nel suo lavoro non si realizza, non sviluppa, non libera le proprie energie fisiche, intellettuali e spirituali, non è soddisfatto e felice, ma si sacrifica, si mortifica, sfinisce il proprio corpo e distrugge il proprio spirito.

Il lavoro non appartiene più a lui ma al padrone, non è un lavoro volontario ma costretto, forzato. Non è un fine nobile ma un semplice mezzo estraneo e volgare per sopravvivere. «La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste.»

Anche in questo caso, l’alienazione che ai tempi di Marx riguardava l’operaio oggi è estesa a gran parte dei lavoratori intellettuali.

Proseguendo, cosa significa per Marx che l’operaio è estraneo a se stesso e alla sua specie?

Il lavoro non è per l’uomo ciò che il movimento è per la bestia. Non è una merce qualunque come vuole l’economia politica e neppure un castigo divino subito in conseguenza del peccato originale come vuole la religione cristiana. Il lavoro, secondo Marx, è l’essenza dell’uomo. Se il lavoro diviene estraneo al lavoratore, il lavoratore resta estraniato dalla sua stessa essenza. E poiché il lavoro serve per trasformare la natura, dalla quale la specie umana trae materie prime, sostentamento e godimento spirituale, estraniarsi dal lavoro significa estraniarsi dalla specie umana. Attraverso il lavoro estraniato, l’individuo diventa egoista e concentra la sua attività coatta sulla conservazione di se stesso, invece di esplicare la sua attività libera, vitale e cosciente per la vita della sua specie.

Sotto il pungolo del bisogno fisico e immediato, l’animale produce solo ciò che gli serve qui e ora per sé e per i suoi cuccioli, e riproduce soltanto se stesso. L’uomo, invece, dovrebbe trasformare la natura, progettare e produrre anche il futuro proprio, della sua e di tutte le altre specie. Tutto questo dovrebbe produrlo in modo universale, utile e bello: «L’animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza». Sottraendo all’operaio il suo lavoro e il suo prodotto, gli si sottrae bellezza e possibilità di contribuire liberamente al progresso della propria specie e della natura intera, quindi lo si rende persino inferiore alle bestie, inferiore all’ape, alla formica, al castoro che perlomeno sono liberi di costruire il proprio nido e lo fanno in misura prodigiosamente estetica.

A questo punto è facile capire cosa intende dire Marx quando scrive che l’uomo è estraneo all’altro uomo.

Se ogni lavoratore è estraneo al suo prodotto, al suo lavoro, alla sua specie, dunque è estraneo anche agli altri uomini, ai loro prodotti, al loro lavoro, alla loro specie. L’industria capitalistica crea contrapposizione tra uomo e uomo, li mette in concorrenza l’un l’altro, li rende reciprocamente nemici. È questa l’estraniazione dell’uomo dall’uomo per cui l’attività dell’operaio è in concorrenza con quella di ogni altro operaio e, tutti insieme, essendo caduti «sotto il dominio, la coercizione e il giogo di un altro uomo», non possono non essergli ostili.

Crolla così ogni possibilità di azione solidale, di libera collaborazione, di comunità, per fare posto alla concorrenza reciproca, al mors tua, vita mea, all’homo homini lupus.

Riprendiamo il nostro discorso astratto sulla formazione delle classi. Eravamo rimasti al fatto che, su cento persone, ci sono dieci ricchi e novanta poveri, di cui settanta così alienati da credere che sia del tutto naturale, fatale, inevitabile esserlo. Cosa succede ai venti poveri che sono riusciti a scampare all’alienazione?

Per capirlo vediamo prima come stanno i settanta alienati, costretti a produrre beni e servizi di cui non condividono la necessità e il fine, a sfornare bulloni senza sapere se andranno a finire in un aereo o in un’automobile, a sbrigare pratiche smaccatamente inutili. Sono alienati perché, invece di comportarsi in solidale sinergia con i colleghi, sono aizzati l’uno contro l’altro nella distruttiva rincorsa della carriera. Sono alienati perché, invece di ribellarsi a tutto questo, spendono ore a guardare in tv due «altezze reali» che si sposano a Londra dissipando milioni di sterline dei cittadini britannici. Sono alienati perché, invece di indignarsi, si fingono di essere essi stessi al posto di Harry d’Inghilterra e Meghan Markle, di stare in loro vece sulla carrozza sorridendo alle folle ebeti di sudditi acclamanti.

Però, per fortuna, restano venti proletari che, riflettendo sulla loro condizione, si rendono conto del fatto che essa rappresenta una grave ingiustizia sociale, un vergognoso sfruttamento che va combattuto ed eliminato.

Ecco che, secondo Marx, una parte sia pure minoritaria della «classe in sé» ha fatto un passo avanti nella sua maturazione politica diventando «classe per sé»: ha coscienza di ciò che è e del fatto che il suo interesse non coincide con quello del ricco, anzi, a quello si contrappone.

Tuttavia questi venti proletari, consapevoli di essere tali, non sono ancora una vera e propria classe proletaria. Per essere tali occorre che si diano un obiettivo egualitario da raggiungere e un’organizzazione con cui lottare per raggiungerlo. Debbono perciò esprimere quelle che Lenin chiamava «avanguardie», capaci di guidare il processo, debbono individuare con precisione quali sono la posta in gioco, i nemici da combattere e gli alleati su cui poter contare. Solo quando è compiuto tutto questo percorso selettivo e organizzativo, ci troviamo in presenza di una classe vera e propria e di un’efficace lotta di classe.

Ma tutta questa dinamica sociale vale solo per i proletari?

Tutt’altro. Nella classe agiata si crea un processo speculare a quello della classe proletaria. San Francesco era figlio di un mercante e si fece povero tra i poveri; a modo suo, si alienò. La stessa cosa vale per Marx, di origine borghese, e per sua moglie di origine aristocratica. Fratel Carlo di Gesù, il missionario dei tuareg, era visconte di Pontbriand; Albert Schweitzer, medico e musicista, fu missionario a Lambaréné; Edoardo, lo sventurato figlio di Gianni Agnelli, rifiutò le idee del capitalismo e simpatizzò per un marxismo-leninismo misticheggiante.

Altri ricchi, invece, sono consapevoli della loro condizione, si battono per difenderla e per migliorarla ulteriormente. Ovviamente gli strumenti della classe agiata sono ben più potenti, disponendo essa dei mezzi di produzione, di attrazione, di convocazione, di decisione e di manipolazione, cioè dei mass media, delle lobby, delle forze armate, delle agenzie culturali, insomma del potere. La lotta di classe dei ricchi contro i poveri è combattuta con armi ben diverse, solo apparentemente meno violente, rispetto a quelle con cui i poveri possono combattere la loro guerra contro i ricchi. Inoltre i ricchi, essendo pochi e, appunto, ricchi, sono più compatti, conoscono le lingue, studiano di più e spesso all’estero, mantengono contatti internazionali, fruiscono di organizzazioni sovranazionali e di consulenze altamente specializzate.

Dunque, passando da «classe in sé» a «classe per sé», i numeri diminuiscono. Quelli che prendono coscienza di appartenere a una medesima classe sono meno numerosi di coloro che appartengono oggettivamente a quella classe, e solo una parte minima di coloro che ne prendono coscienza poi si organizza per difendere la propria condizione o per migliorarla.

Nel 1974 pubblicai una vasta ricerca empirica intitolata I lavoratori nell’industria italiana, con cui cercavo di capire come cambiava il mondo del lavoro dopo l’approvazione dello Statuto. Tra l’altro, cercavo di capire quanti, tra i vari milioni di operai e impiegati, compissero per l’appunto tutto il ciclo della maturazione di classe e fossero concretamente impegnati in una lotta di classe. In particolare mi interessava capire cosa impedisse ai lavoratori di passare dalla condizione oggettiva di «classe in sé» a una consapevole condizione di «classe per sé» e poi a un’attiva azione organizzativa e combattiva.

Rancore senza sbocco, per esempio?

Non per forza. Per usare un esempio letterario, lo zio Tom del romanzo di Harriet Beecher Stowe, al contrario, si identifica con le ragioni del suo padrone, sudista, schiavista, ma «buono». Questa la sua alienazione.

Qualcosa di simile accade soprattutto agli impiegati e ai manager quando si identificano con il padrone e parlano dell’azienda come se ne fossero gli azionisti di maggioranza: «Noi della Fiat…». Spesso i datori di lavoro incoraggiano questa identificazione e, per ammorbidire l’antagonismo dei lavoratori, mettono in campo un comportamento paternalistico con annessi slogan tipo «Siamo tutti nella stessa barca», «Siamo tutti una grande famiglia».

Cosa si aspetta chi scala il secondo step e acquista consapevolezza di essere sfruttato?

Ci sono i combattivi, convinti che combattere sia l’unico orizzonte possibile, però lo fanno da soli…

L’anarchico Bresci regicida, per intenderci?

Appunto. Oggi ci sono quelli che chiamiamo «lupi solitari», soggetti inclini a operare liberi da legami sociali e quindi poco propensi a compattarsi e organizzarsi in modo solidale. Ciò che li blocca è l’anomia di cui parlava Émile Durkheim: mancanza di nomos, ossia di legame.

Per tradizione sindacale e per formazione politica gli operai sono più propensi a muoversi collettivamente. Sono soprattutto gli impiegati e più ancora i manager che cercano di condurre le loro rivendicazioni in modo isolato, trattando ciascuno il proprio scatto di stipendio o di carriera direttamente con il capo del personale. È l’opposto della solidarietà di classe, è appunto il comportamento anomico.

Ma anche quando si capisce che è necessario associarsi, non è detto che ci si associ rigidamente solo con coloro che si trovano nella stessa condizione oggettiva di classe, dando luogo a un’organizzazione classista. Le corporazioni fasciste, ad esempio, mettevano insieme i datori di lavoro e i lavoratori; la Democrazia cristiana era un partito dichiaratamente interclassista; il Partito comunista di Togliatti era prevalentemente classista e proletario ma le sue successive metamorfosi hanno portato a un Pd capace di raccogliere più voti ai Parioli e in via Montenapoleone che nelle periferie urbane.

Se capisci che la tua condizione è di sfruttato, sei disposto a lottare per riscattarti da questa subalternità e lo fai unendoti agli altri sfruttati, allora fai parte compiutamente di una classe – quella proletaria – e conduci la lotta di classe proletaria.

E siamo così all’ultima casella di un vero gioco dell’oca.

Purtroppo Marx non ha mai concluso la sua riflessione sulle classi, alla quale ha dedicato gran parte delle sue straordinarie energie intellettuali. In alcuni testi parla di sette-otto classi sociali, in altre di due o tre. Man mano, però, si avvicina all’idea che, in fin dei conti, a prescindere dalle sfumature, le grandi aggregazioni sono due e sono tra loro antagoniste: proletariato e borghesia. Questa contraddizione storica ingloba e risolve tutte le altre. Condizione maschile e femminile, colonialismo e autonomia, centro e periferia sono contraddizioni importanti, ma non possono essere risolte se prima non si risolve quella tra proletariato e borghesia.

Nel Manifesto, scritto a quattro mani con Engels, parla, ad esempio, del rapporto uomo-donna e osserva: i borghesi vanno dicendo che noi comunisti vogliamo mettere in comune anche le donne, perché sanno che noi vogliamo mettere in comune le cose e, siccome considerano le donne come «cose», pensano che vogliamo mettere in comune anch’esse.

Sia nelle lettere a Engels, sia nel primo e nel secondo libro del Capitale, promette che, al momento opportuno, esporrà in modo esauriente e sistematico il suo concetto delle classi sociali.

E, finalmente, il XXXII capitolo del terzo libro del Capitale s’intitola Delle classi sociali. Solo che, dopo appena due pagine, interviene Engels e scrive: «Il manoscritto si interrompe qui». Perché Marx è morto.

A riprendere il filo, molti anni dopo, sarà il sociologo tedesco Ralf Dahrendorf, con un saggio molto originale, che provocò un appassionato dibattito. Pubblicato nel 1957 in tedesco e poi, nel 1959, in inglese, quando l’autore era appena trentenne, Classi e conflitto di classe nella società industriale dedicava un capitolo alla ricostruzione del pensiero marxiano intorno al concetto di classe. Dopo avere ripescato nella vasta produzione di Marx tutti i passaggi dedicati alle classi sociali, Il XXXII capitolo non scritto di Dahrendorf immaginava cosa avrebbe aggiunto lo stesso Marx per conferire un senso compiuto a questi passaggi.

Dahrendorf, intellettuale del Novecento a pieno titolo (è nato nel 1929 ed è morto nel 2009), aderisce in tutto alla teoria ottocentesca marxiana?

No, registra un cambiamento avvenuto durante i duecento anni della società industriale e giunge alla conclusione che ormai la lotta di classe non verte più tanto sulla proprietà dei mezzi di produzione, come avveniva ai tempi di Marx, quanto piuttosto sulla distribuzione del potere. E poiché il potere è a somma zero (se un soggetto ne ha di più, occorre che un altro soggetto ne abbia meno), il conflitto, per quanto articolato voglia essere il sistema sociale, finisce sempre per ridursi a contrapposizione frontale fra due forze.

Dunque il conflitto non è determinato esclusivamente da dislivelli economici, cioè strutturali, ma prevalentemente da dislivelli politici, cioè sovrastrutturali. Oggi, dice Dahrendorf, possono esserci persone che hanno un potere enorme senza possedere nulla di patrimoniale: né fabbriche, né ville, né yacht, né pacchetti azionari. Si pensi a Mussolini o a Hitler, ma anche a Gandhi o a Mandela.

Dunque, il quadro si articola: ci sono delle classi sociali fondate sul potere, oltre a quelle fondate sull’avere, e non sempre i due campi del contendere coincidono proprio perché il potere, a differenza dell’avere, è sempre a somma zero. Quando c’è da prendere una decisione, sia fra imprenditori e operai in fabbrica, sia fra moglie e marito in famiglia, se uno ha più potere, l’altro ne ha di meno. Dunque, tra le classi, c’è di necessità conflitto.

Ecco, il conflitto. Significa sempre rivoluzione?

Verso il conflitto si registrano tre posizioni. In base alla prima, il conflitto è sempre dannoso e sta al corpo sociale come la malattia sta al corpo umano: la malattia va prevenuta o, se c’è, va curata e circoscritta. A dirlo sono da un lato la teoria manageriale che fa capo a Taylor e Ford, dall’altro la dottrina cattolica, in particolare l’enciclica Rerum novarum che rimonta al 1891 e che afferma a chiare lettere: i ricchi e i poveri non sono fatti per battagliare tra loro. In base alla seconda posizione i conflitti sono consustanziali all’organizzazione capitalista della società e potranno essere eliminati alla radice solo abolendo la proprietà privata. Quindi, in un caso e nell’altro, l’orizzonte è la loro eliminazione: prevenendo il conflitto e reprimendolo, secondo i primi; o superandolo con la rivoluzione, per i secondi. In mezzo ci sono i «riformisti conflittualisti» come il citato Dahrendorf o come Lewis Coser. Dahrendorf sostiene che la società è il conflitto e il progresso nasce proprio dalla dialettica fra parti contrapposte. Ma, perché il conflitto non mandi in frantumi la società, ci vuole un arbitro super partes: lo Stato.

Siamo ai giorni nostri. Oggi le classi ci sono?

Marx ritiene che lo spartiacque sia di natura economica e contrapponga i proletari che lavorano ai proprietari dei mezzi di produzione che si appropriano del prodotto delle loro fatiche. Dahrendorf sostiene che la contrapposizione sia fra chi ha il potere di prendere le decisioni e chi le subisce.

Il socialismo reale sapeva distribuire la ricchezza ma non la sapeva produrre; il nostro capitalismo sa produrre la ricchezza ma non la sa distribuire. Oltre alla ricchezza, non sa distribuire il potere (così come denunziava Dahrendorf) e non sa distribuire il lavoro, il sapere, le opportunità e le tutele. Infiniti problemi nascono dall’intreccio di queste incapacità distributive e la confusione che ne deriva è tale che, se pure il socialismo reale ha perso, non possiamo però dire che il capitalismo abbia vinto.

Questa è una prima differenza rispetto ai tempi di Marx e anche a quelli di Dahrendorf. Ce ne sono altre?

Ce ne sono molte, come abbiamo in parte già segnalato. Per effetto congiunto del progresso tecnologico, dello sviluppo organizzativo, della globalizzazione, dei mass media e della scolarizzazione diffusa, l’assetto sociale di tipo industriale, durato dalla metà del Settecento alla metà del Novecento e centrato sulla produzione in grandi serie di beni materiali, a partire dalla Seconda guerra mondiale è stato via via sostituito da un assetto postindustriale, centrato sulla produzione di beni immateriali come i servizi, le informazioni, i simboli, i valori, l’estetica.

I dati, lo abbiamo visto, sono inequivocabili: in Italia, durante l’ultimo mezzo secolo, gli addetti all’agricoltura sono scesi dal 29 al 3 per cento; gli addetti all’industria sono scesi dal 41 al 27; gli addetti ai servizi sono saliti dal 30 al 70. A livello mondiale, oggi il contributo dell’agricoltura al Pil complessivo è appena del 3 per cento; quello dell’industria è del 28; quello dei servizi è del 69 per cento.

Questa la fotografia della situazione. Quali sono state le conseguenze sociopolitiche?

Ai tempi di Marx, chi era proletario lo era in tutto: non sapeva leggere e scrivere, si nutriva di cibi scarsi e poveri, era vulnerabile alle malattie, se ammalato non poteva curarsi, non aveva diritto di voto, moriva prima del borghese, in caso di guerra era spedito in prima linea. Oggi una stessa persona può essere dominante in azienda e subalterna rispetto ai media; può essere molto ricca ma molto ignorante o, viceversa, può essere un grande scienziato scarsamente retribuito e onorato rispetto a un calciatore o una ballerina.

Ai tempi di Marx la classe dominante tendeva a incrementare i poteri acquisiti progettando il futuro e la classe subalterna tendeva a sottrarglieli. Oggi, come ha osservato Touraine, nella classe dominante vi sono sia reazionari che si accontentano di conservare i propri privilegi, sia progressisti che progettano innovazioni, così come nella classe subalterna vi sono proletari cui basta salvaguardare i diritti acquisiti e proletari che lottano per un progetto di futuro migliore. Il sociologo francese chiama tutto questo «doppia dialettica delle classi».

Se hai imprenditori e forza lavoro entrambi innovatori, ecco la Silicon Valley. Se hai un ministro, Gianni De Michelis, che vuole chiudere un’acciaieria obsoleta e riconvertire l’area alla ricerca scientifica, ma gli operai siderurgici glielo impediscono, ecco la storia di Bagnoli. Ma in Italia è anche frequente la situazione opposta: un sindacato progressista che propone innovazione mentre gli imprenditori reazionari la rifiutano. Altrettanto frequente la convivenza, nella stessa impresa, di datori di lavoro e di lavoratori entrambi conservatori, capaci solo di provocare stagnazione.

Viene da chiedersi se il lavoro rappresenti tuttora una categoria centrale nella vita degli individui e nell’economia della società.

Nella conversazione che abbiamo dedicato al lavoro ho ricordato che per secoli esso fu considerato un sordido compito da schiavi e una punizione divina. Bisogna arrivare a Smith e a Marx per nobilitarlo fino a farne la misura del valore di ogni cosa e addirittura l’essenza dell’uomo. Da allora a oggi l’introduzione di macchine sempre più potenti e l’adozione di sistemi organizzativi sempre più efficienti hanno consentito di ridurre la settimana lavorativa dell’operaio da sessanta a quaranta ore mentre alcuni imprenditori, manager e creativi hanno continuato a lavorare molto di più, fino a sacrificare ogni interesse ludico e affettivo alla propria professione.

Ho anche ricordato che la società postindustriale ha ripartito il pianeta in aree del Primo mondo dove si producono prevalentemente idee sotto forma di brevetti, Paesi emergenti dove vengono delocalizzate le fabbriche e Terzo mondo che fornisce materie prime e manodopera a buon mercato. Grazie al progresso tecnologico e allo sviluppo organizzativo abbiamo imparato a produrre sempre più beni e servizi con sempre meno lavoro umano per cui, ogni volta che si adottano nuove tecnologie, occorre ridurre l’orario di lavoro altrimenti aumentano i disoccupati e i precari.

Tutto questo nel mercato del lavoro. Dentro l’azienda, invece, sono diminuiti percentualmente gli operai e gli impiegati mentre sono aumentati i creativi. La prevalenza di lavoratori intellettuali ha consentito modalità di lavoro, come ad esempio lo smart working, destrutturate nel tempo e nello spazio.

In estrema sintesi, essendo mediamente diminuita la quantità complessiva di tempo che un individuo dedica al lavoro ed essendosi allungata di molto la sua vita, l’importanza del lavoro è scemata mentre quella del tempo libero è cresciuta.

Come si traduce questo fenomeno in termini di classe? Le classi, se esistono ancora, hanno interessi divergenti o convergenti?

Ripetiamolo, il fatto che aumenti la ricchezza non significa che sia ben distribuita e che la distanza tra ricchi e poveri si riduca. Anzi. In Italia, tra l’inizio e la fine dell’ultima crisi economica i poveri sono raddoppiati e molti ricchi sono diventati ancora più ricchi. Lo scorso anno la ricchezza complessiva prodotta a livello mondiale è aumentata del 3,5 per cento ma l’80 per cento di tutto questo immenso surplus è andato nelle tasche di sole 1200 persone.

Altro che fine delle classi! I proletari sono diventati più numerosi e più poveri mentre i ricchi sono diventati meno numerosi e più ricchi. Dunque, tornando alla terminologia marxiana che ho ricordato all’inizio di questa chiacchierata, di sicuro esistono due grandi «classi in sé».

E come mai l’una è così preponderante sull’altra? Come mai i poveri, pur essendo una maggioranza schiacciante, tuttavia non si ribellano?

Perché una di queste due «classi in sé», cioè il proletariato, è disorientata, alienata, stenta a diventare «classe per sé», cioè stenta a prendere atto della propria condizione subalterna, dei meccanismi con cui essa è sfruttata, di chi sono gli sfruttatori, di chi sono i veri e i falsi compagni di classe, di come organizzarsi per ribaltare questa ingiustizia planetaria.

Questa forte debolezza dipende dai vari fattori che ho in parte già elencato – globalizzazione, progresso tecnologico ecc. – cui occorre aggiungere la grave carenza di ideologi capaci di fornire il modello di società più giusta da costruire e di avanguardie capaci di organizzare sia la pars destruens della vecchia società, sia la pars construens della nuova.

I ragazzi della scuola di Barbiana capivano di essere poveri e di dover studiare per riscattarsi perché c’era don Milani che li formava. Da soli non ce l’avrebbero fatta. Oggi il proletariato postindustriale paga il vuoto pedagogico dei suoi partiti, dei suoi sindacati, dei suoi intellettuali.

La lotta di classe, nel nuovo millennio, è praticabile? Oppure ha avuto l’ultima fiammata negli anni Settanta del Novecento e va oggi archiviata come un reperto?

Vediamo in sintesi cosa è successo in questo passato relativamente recente. In Italia e in Francia, dopo la Seconda guerra mondiale, la classe operaia si è trovata per la prima volta in una posizione di grande forza: i più poveri avevano combattuto e, in entrambi i Paesi, erano stati protagonisti della Resistenza e della Liberazione. Dovunque i tedeschi avessero distrutto le fabbriche, erano stati poi gli operai a ricostruirle. Così fu per Bagnoli, per esempio. In Italia avevamo il più grande partito comunista d’Occidente.

Negli anni Sessanta ha inizio un fenomeno imprevisto: i figli degli operai cominciano ad andare all’università. Loro sanno che la condizione dei proletari è abominevole, così che nel Sessantotto le lotte studentesche e quelle in fabbrica fanno fronte comune. In pochi anni, nelle fabbriche e nelle università si conquistano diritti mai ottenuti nei duecento anni precedenti. Nel 1970 si arriva allo Statuto dei lavoratori. E la classe dei ricchi capisce che così non può andare avanti, dà inizio alla «sua» lotta di classe per vanificare le conquiste proletarie e riprendersi tutto il potere. Con ogni mezzo.

Già alla vigilia della firma dello Statuto, dicembre 1969, con la bomba di piazza Fontana assistemmo alla prima delle stragi.

La borghesia mobilitò studiosi, consulenti, giornalisti, organi di stampa, televisioni, cattedre universitarie; contrattaccò su tutti i fronti: sul welfare, riducendo sanità pubblica e scolarizzazione; sui media, boicottando la funzione culturale della televisione; in economia, provocando o incrudelendo crisi economiche dalle quali i ricchi usciranno più forti e i poveri più umiliati. Soprattutto in coincidenza con la rimonta neoliberista di Reagan negli Stati Uniti e della Thatcher in Inghilterra, la battaglia culturale e materiale contro il welfare, lo stato industriale, la socialdemocrazia, la scuola e gli altri settori pubblici nel loro complesso, divenne martellante e senza esclusione di colpi. Insomma la borghesia si prese la sua rivincita e non solo in Italia. Più tardi Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo, dichiarerà senza mezzi termini: «C’è la guerra di classe, d’accordo. Ma è la mia classe, siamo noi ricchi che stiamo facendo la guerra, e la stiamo vincendo».

Nel frattempo, come ho già detto, era successo qualcosa di profondo: la società, da industriale, stava diventando postindustriale. Nelle fabbriche i robot sostituivano la forza lavoro operaia e, nella stessa industria, il ruolo principale andava ai creativi.

Così si andavano rimescolando le carte: all’epoca di Marx la borghesia era per definizione conservatrice perché difendeva lo status quo, e il proletariato era oggettivamente innovatore, perché voleva cambiare l’assetto socioeconomico; da ora in poi ritroveremo conservatori e innovatori in entrambe le classi: imprenditori come Olivetti che vogliono migliorare tutto, fabbrica e società; operai iscritti ai sindacati gialli che puntano solo a conservare i diritti già acquisiti. E che poi voteranno per Trump.

Il consumismo attenua o aggrava le differenze di classe? E aiuta a prendere coscienza del proprio status sociale o confonde?

Molti sono i fattori che hanno impedito al proletariato come «classe in sé» di evolvere fino a diventare «classe per sé», antagonista, dotata di un suo progetto alternativo di società e di una propria organizzazione per imporlo. Il consumismo è senz’altro uno di questi fattori.

Quando il consumo riguarda i servizi, il ruolo che viene svolto dall’appartenenza di classe è tutto particolare. Oggi una serie di consumi è accessibile a tutti: un telegiornale lo vede l’operaio Fiat e lo vede il suo amministratore delegato Mike Manley; su Spotify migliaia di brani musicali sono a disposizione dell’uno e dell’altro. Eppure, come ho detto, ognuno di noi è borghese per alcuni versi e proletario per altri. La specializzazione del sapere rende ciascuno subalterno a qualche altro. Lo è il medico privato quando chiede un progetto all’architetto privato e lo è l’architetto privato quando si fa operare da un medico privato. Più i saperi si specializzano, più si moltiplica il fenomeno. Però, architetto privato e medico privato appartengono entrambi alla classe egemone mentre, se sei un operaio, dovrai andare dal medico che ti passa la sanità pubblica. In questo caso, tra paziente e medico c’è non solo una diversità disciplinare ma anche una differenza di classe, quindi c’è una doppia dipendenza, un modo ben diverso di chiedere e ottenere il servizio.

Insisto: il consumismo ci rende più uguali o il contrario?

Se parliamo di consumo di cose materiali, oggi c’è meno distanza di un tempo tra la cena del padrone e quella del lavoratore. Il consumismo ha bisogno di vendere merci, quindi è di necessità democratico, anche se la borghesia usa questo strumento, tra gli altri, per marcare la sua superiorità, per distinguersi e per imporre i propri modelli culturali anche a chi non ha i mezzi per metterli in pratica. Una borsa di Prada o di Vuitton serve per imporre un canone estetico e serve per distanziare chi se la può permettere da chi si deve limitare a guardarla e desiderarla.

Altra cosa è il consumo di idee, di sapere. Anche in questo caso le differenze tra borghesia e proletariato sono enormi ma il passaggio di milioni di bambini da analfabeti ad alfabetizzati apre una grande speranza perché la società postindustriale, con i suoi media e i suoi social media, mette a disposizione gratuita alcune fonti di acculturazione ben più copiose di quelle concesse al vecchio operaio o al vecchio contadino. Come l’acqua corrente ha reso meno giustificabile essere sporchi, così i media e la scuola pubblica hanno reso meno giustificabile essere ignoranti. Don Milani pretendeva sforzi inauditi dai suoi allievi contadini perché «sono troppo poveri per permettersi di essere pure ignoranti».

La borghesia, però, è sempre pronta a ristabilire le distanze. Dal momento che tutti possono accedere all’istruzione, il nuovo discrimine diventa non solo il titolo di studio più o meno prestigioso, ma l’università dove lo hai conseguito, il voto che hai ottenuto, chi è stato il relatore della tua tesi. E mentre la scuola pubblica viene sistematicamente dequalificata (negli ultimi sette anni i professori di ruolo nelle università italiane sono diminuiti del 20 per cento), le famiglie ricche spediscono i loro figli a Boston o a Cambridge. Dopo la laurea diventa discriminante la possibilità e capacità di approvvigionarsi di informazioni preziose e tempestive restando agganciati al circuito delle informazioni più riservate attraverso le lobby più esclusive.

La lobby. Che rapporto con la classe?

Rispetto alla classe, la lobby ha confini meno netti, più fluidi. È fatta di simpatie personali, di gusti condivisi, di luoghi frequentati e di interessi complementari. Interessi economici, ma anche sociali, estetici, sessuali. Il prototipo nobile è il circolo di Bloomsbury, con la sua Hogarth Press e i suoi negozi di design. Lobby del sapere allo stato puro: a parte Keynes, che giocava in borsa, e Vita Sackville-West, che era ricca di suo, per la maggior parte, Virginia Woolf in testa, erano spiantati. Però non potevi pubblicare un romanzo o ottenere una buona recensione se non eri dei loro. Oggi si parla, a ragione o a torto, di lobby gay, lobby delle femministe, quella dei votanti del premio Strega, quella dei massoni… Leonel Brizola, grande uomo politico brasiliano, diceva che la vera differenza tra ricchi e poveri è che i poveri non hanno lobby.

In effetti non esiste un club Bilderberg o un Aspen Institute dei poveri…

E questo ha forti conseguenze, soprattutto nel mondo globalizzato. Il cardinale italiano non ha legami solo con il presidente della Repubblica italiana, ma anche con quello del Nicaragua. Un lobbista di alto livello passa le serate al telefono coi corrispettivi di mezzo mondo, mentre il povero conosce solo i vicini di casa. Perché il sindacato è debole e gli imprenditori sono forti? Perché gli imprenditori, soprattutto quelli più ricchi, sono una lobby mondiale mentre il sindacato è nazionale. I petrolieri di tutto il pianeta agiscono all’unisono quando si tratta di stabilire il prezzo di un barile e le televisioni di tutto il mondo si mettono d’accordo quando si tratta di salvare la privacy o coprire lo scandalo di un magnate. Se invece sciopera la Cgil in Italia, il sindacato inglese o quello tedesco si guardano bene dallo scioperare per solidarietà.

L’internazionale dei banchieri, quella dei finanzieri o dei produttori cinematografici, benché occulte, funzionano alla perfezione. L’internazionale dei lavoratori, invece, fa acqua da tutte le parti. «Proletari di tutto il mondo, unitevi!», l’incitamento con cui Marx ed Engels chiudevano il loro Manifesto, è stato realizzato dalla borghesia, che lo ha reso irrealizzabile per il proletariato.

Da qui in poi, nella società postindustriale, questo fronte sarà fondamentale. Torniamo appunto a classi e conflitti nel presente.

Siamo in una situazione per certi versi simile a quella che si creò a cavallo tra Settecento e Ottocento, quando la classe degli operai esisteva «in sé» ma stentava a coagularsi, a darsi una strategia di lotta per diventare proletariato. Oggi i ragazzi che lavorano da Amazon, i disoccupati, gli inoccupati, i lavoratori che guadagnano meno di quanto serve a sostentare se stessi e una famiglia, sono una «classe in sé» che attende di diventare esercito. Come ho già detto, per fare blocco, combattere e vincere devi sapere da dove parti, dove vuoi arrivare, quali tappe preventivare, chi sono i tuoi nemici e i tuoi alleati di classe, qual è la posta in gioco. E, per sapere tutto questo, ci vogliono degli intellettuali che sposino la causa e si trasformino da guida teorica ad avanguardia combattiva, come ha fatto Lenin, per esempio.

Come mai questi intellettuali non ci sono più? Hanno abbandonato la causa del proletariato, lasciando i lavoratori in balia dei datori di lavoro?

Quando il modello liberale entrò in crisi, sotto i colpi della Grande depressione del ’29, del New Deal e delle corrosive critiche di Keynes, alcuni intellettuali si rimboccarono le maniche e lo rattopparono. Economisti come Alexander Rüstow, Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises, filosofi come Louis Rougier, giornalisti come Walter Lippmann, sociologi come Raymond Aron, elaborarono una sorta di terza via tra il laissez-faire e la pianificazione comunista. Von Hayek aggregò una schiera di colleghi nella Mont Pelerin Society, fondata proprio per elaborare e diffondere il neoliberismo. Stessa cosa fecero Milton Friedman e José Piñera con la loro Scuola di Chicago. In poco tempo il neoliberismo divenne la teoria più corteggiata dagli intellettuali, più insegnata nelle università, più condivisa dalle politiche economiche dei governi.

Anche il marxismo entrò in crisi, trascinato a fondo dal fallimento del socialismo reale, ma il vuoto apparve agli occhi dei marxisti così incolmabile e il successo del neoliberismo così innegabile, che essi ritennero opportuno adottarne le idee e gli sembrò elegante esibirle come patente di rinnovata modernità.

Figurarsi se proprio da questi cicisbei di sinistra, che si sono identificati più con Marchionne e De Benedetti che con Gramsci e Berlinguer, potevano nascere idee, azioni, organizzazioni capaci di rivoluzionare lo Stato neoliberista per fondarne uno socialdemocratico!

Mi pare di capire che, in queste condizioni, il ciclista che porta pizza e sushi per una multinazionale non potrà mai ripercorrere gli stessi passi compiuti dall’operaio dell’Ottocento?

Quell’operaio prima era un contadino o un artigiano o un disoccupato. Poi ha cominciato ad andare ogni mattina alla stessa ora nello stesso luogo dove persone della sua stessa condizione condividevano con lui la stessa catena di montaggio, con lo stesso salario e le stesse vessazioni; se donne, subendo le stesse molestie dal padrone.

È proprio questa possibilità di specchiarsi in compagni di sfruttamento, e quindi di capire che la sua non è una condizione soggettiva, che manca oggi al nostro ciclista?

Sì. Lui è solo: riceve le commesse via cellulare e va in una casa, poi in un’altra, un’altra ancora. Non condivide con i suoi colleghi né luogo né orari. Non li incontra se non di sfuggita. Marx aveva intuito che, a differenza della campagna o della bottega artigianale, la fabbrica, benché oppressiva, era anche il luogo dove il lavoratore poteva riconoscersi come classe e organizzarsi come proletariato. In fabbrica capisci le tue debolezze: che non hai lobby e che la tv, quando parla di te, dice cose che non corrispondono a quello che tu vivi. Ma capisci anche quali desideri e quali potenzialità condividi con gli altri compagni.

A quel ragazzo precario che lavora per Foodora manca tutto questo: mancano le condizioni per trasformarsi da sabbia in mattone, da «classe in sé» a «classe per sé». Non ha un Engels e non ha un Marx. L’operaio dell’Ottocento aveva un Engels che, figlio del padrone, poco più che ventenne, era andato di casa in casa a chiedere: «Avete il gabinetto? In quanti vivete qui? Come passate il tempo libero? Quanti di voi si ubriacano? Quanti di voi vengono addirittura drogati dal padrone?». E ne venne fuori un libro, La situazione della classe operaia in Inghilterra, che è un classico della letteratura sociologica e che va letto ancora oggi con profitto. In quegli anni avvenne qualcosa di miracoloso: quell’operaio studiato da Engels, e prima ancora da Owen, e poi ancora da Marx, ha avuto una schiera di teorici che si sono dedicati alla sua causa, riconoscendone la giustezza intrinseca. E, siccome quegli studiosi appartenevano alla classe borghese, sapevano bene come combatterla per rovesciare la situazione. Si dedicavano anima e corpo a trasformare la sabbia in mattone. E sapevano che ci sarebbe voluto tempo. Marx non si è mai illuso di suscitare una rivoluzione dall’oggi al domani.

Mentre per i nuovi sfruttati non si intravede né un Engels né un Marx.

Ci sono libri descrittivi come Al posto tuo o come Lavoretti di Riccardo Staglianò. Ci sono accorate denunzie come il mio Lavorare gratis, lavorare tutti e soprattutto come L’orrore economico di Viviane Forrester. Ci sono analisi scientifiche molto accurate come quelle di André Gorz, di Dominique Méda, di Ulrich Beck. Ma il fatto è che, in questi ultimi anni, sono intervenuti quasi ogni giorno fattori che hanno scombinato le nostre certezze. Come ho detto, pensavamo che, con la fine della catena di montaggio, almeno quel tipo di alienazione fosse stato risolto e che l’umanità avesse davanti un’altra problematica, cioè la fine del lavoro. Invece in dieci anni la popolazione mondiale è cresciuta di un miliardo di persone; le donne sono entrate in numero sempre maggiore nel mercato; grazie alle nuove tecnologie possono lavorare anche categorie come i disabili; la catena di montaggio in buona parte sopravvive e, per il resto, si è trasformata in gig economy.

La quantità di lavoratori inoccupati o disoccupati che si è riversata sul mercato è stata tale da ridurne drasticamente il valore sicché, se un robot costa dieci ma un essere umano costa sette, scegli l’essere umano. Ed ecco le nuove catene di montaggio: quelle nei depositi di Amazon e quelle atipiche, ma parimenti alienanti, della gig economy.

Dunque, non c’è nulla da fare per il nostro rider?

Tutt’altro. Al posto della fabbrica, il rider ha la rete. È questa la sua croce ma anche la sua delizia. Se con la rete il padrone lo tiranneggia, con la rete il rider deve organizzarsi, collegarsi con i colleghi parimenti sfruttati, fare un programma di riscatto e metterlo in pratica con coraggio.

L’attuale problema dello sfruttamento ha una causa anzitutto demografica?

È un tutt’uno: demografia, tecnologia, scolarizzazione diffusa, media, globalizzazione. Oggi, se un imprenditore informatico del Primo mondo ha un problema conflittuale nel suo Paese, delocalizza lo stabilimento in India dove trova ottimi informatici a basso prezzo e privi di garanzie contrattuali. Se ha un call center, lo sposta in Albania, dove trova giovani istruiti, che costano la metà, parlano italiano e, grazie a Internet, è come se stessero qui.

I sindacati italiani si sono accorti troppo tardi degli effetti della delocalizzazione e non hanno saputo contrapporre tempestivamente alle imprese multinazionali delle organizzazioni sindacali parimenti multinazionali. Uno degli elementi della debolezza di classe è stato quello di non riuscire a vedere le cose prima che accadessero.

Oggi la sfasatura di tempo e luogo tra chi decide come sarà il futuro e chi, quel futuro, deve viverlo, si è dilatata. Un tempo il padrone provava la nuova catena di montaggio nello stesso stabilimento in cui i suoi operai lavoravano e loro, con il sindacato, potevano quindi contrattare le condizioni prima che la catena entrasse in attività. Oggi, mentre noi siamo seduti qui a parlare, qualcuno chissà dove sta inventando la macchina che, tra poco, ci ruberà il lavoro. Ora, potremmo intervenire nella progettazione in modo da renderla meno dannosa per noi, ma non sappiamo chi sta progettando questa macchina e dove. Quando essa sarà sul mercato, potremo solo scegliere se comprarla o no.

Da che cosa dipende questa nuova distanza?

Anzitutto dal fatto che, molto più che in passato, le invenzioni non vengono più messe a punto lì dove verranno applicate. Ad esempio, un computer che introdurrà novità in aziende tessili viene ideato nella Silicon Valley, dove non ci sono industrie tessili ma solo informatici. Sempre nella Silicon Valley possono ideare un robot che fabbrica i gelati e che entrerà in funzione nelle gelaterie di mezzo mondo. Il proprietario del laboratorio informatico in California non ha niente in comune con il gelataio che fa i coni a Ravello. Non solo è lontana l’ideazione dall’uso, ma anche l’esecuzione dal comando: sempre più spesso il padrone di un lavoratore che lavora a Taranto è una multinazionale che ha il capo del personale a Tokyo, sicché il destino del metalmeccanico tarantino è nelle mani di un manager – cioè di un potere – remoto e astratto.

Torniamo alla lotta di classe. Anche da questo punto di vista bisogna ragionare su scala globale?

Sì, ma, come si comprende, tutto questo rende molto difficile effettuare quel passaggio indispensabile da «classe in sé» a «classe per sé». Oggi io posso esportare la produzione nel Terzo mondo. Ma posso anche, se una produzione non è esportabile, per esempio la coltura di pomodori, importare il Terzo mondo, cioè un lavoratore nigeriano, e pagarlo in Puglia o in Calabria quanto lo pagherei in Nigeria.

Un tempo il padrone dello stabilimento tessile di Manchester era di Manchester come i suoi operai, come Adriano Olivetti era di Ivrea così come molti suoi dipendenti. Se gli operai scioperavano, il padrone ci rimetteva e la fabbrica rischiava di chiudere. Oggi il proprietario ha fabbriche contemporaneamente a Brescia, a Bangalore e in Corea del Sud. In presenza di uno sciopero nello stabilimento A, accelera la produzione nello stabilimento B o C. I costi di trasporto delle merci incidono ormai pochissimo, il 3-4 per cento del prezzo, quindi il margine di guadagno dell’imprenditore che delocalizza resta sempre sicuro e alto. Fare fronte comune tra gli operai di Manchester, di Ivrea, di Bangalore e di Seul è pressoché impossibile per la distanza geografica, per la differenza di lingua e di mentalità e perché gli interessi, oltre a essere diversi, sono a volte divergenti.

Per non parlare delle situazioni in cui l’operaio si trova in concorrenza con una macchina che, al contrario di lui, non si ammala, non rimane incinta, non ha bisogno di pause e di turni, non ha sbalzi di umore, non sciopera. L’operaio, quindi, ha contro di sé sia le macchine sia i colleghi che, in altri Paesi, producono le stesse cose con paghe inferiori e diritti inesistenti. I padroni invece solidarizzano non solo con gli altri padroni ovunque essi stiano, ma anche con le macchine, i mercati, i media, le università, gli esperti. Per loro importante è comprare, produrre e vendere. Comprare a basso prezzo nel Terzo mondo; produrre a basso prezzo ovunque convenga; indurre al consumo il maggior numero di potenziali acquirenti; vendere al più alto prezzo possibile qualunque cosa a chiunque sia stato convinto a consumare.

Torniamo al nostro ciclista. Lui in più vive la condizione di solitudine. Però, rispetto agli operai di Engels, ha una marcia in più: è scolarizzato. Probabilmente è diplomato, forse è iscritto all’università, forse è addirittura laureato. Non è un vantaggio?

Certo, ma non sempre. Dipende dalle scuole che ha fatto e dai professori che ha avuto. Il più delle volte è stato educato alla subalternità, non alla critica e alla rivolta. Quando senti dire che la scuola deve preparare i giovani al lavoro, perlopiù si intende dire che la scuola non deve educare ad altro che al lavoro. E non solo sul piano tecnico, ma anche sul piano organizzativo, nel senso che deve inculcare un atteggiamento di obbedienza verso il sistema organizzativo e verso i superiori gerarchici. Così, più scolarizzato sei, più sei educato all’obbedienza o, al massimo, a una contrattazione individuale lubrificata da un atteggiamento ossequente.

Per motivi storici la propensione a iscriversi al sindacato e a difendersi collettivamente è molto più forte nell’operaio che nell’impiegato, nel manager, nel professional. Più il lavoro è intellettualizzato, meno il lavoratore è sindacalizzato. Il top manager non ricorre a un sindacato ma a una lobby. Il lavoratore intellettuale, se c’è da difendere la propria situazione, gioca da solo. Il manager che non ha avuto lo sperato aumento di stipendio, va dal proprio capo o dal capo del capo e, se pure si rivolgesse a un sindacato di categoria, si ritroverebbe ad avere a che fare con un sindacato di privilegiati che tendono solo a difendere, conservare e incrementare i propri privilegi. Questo vale anche per i giornalisti come te, e vale anche per i professori come me.

Dal punto di vista della coscienza di classe, l’identità lavoratore/cliente che cosa comporta?

Il nostro rider, incastrato in un ciclo produttivo che garantisce la rapida consegna di kebab e pizze a ogni ora del giorno, è, quasi certamente, utente di Amazon o di altri siti che lavorano «h24» come il suo e dove, quindi, sono impiegate figure professionali come la sua, parimenti sfruttate.

Questa è un’altra delle tante piccole astuzie della dinamica sociale che cospirano a favore del datore di lavoro e contro il lavoratore. Dunque il dipendente di Amazon dovrebbe stare doppiamente in allarme: il suo lavoro assomiglia così tanto a quello di una macchina che è sempre più possibile sostituirlo con una macchina vera e propria, con un drone ad esempio. Magari a Cupertino stanno già studiando questa macchina che lo ridurrà sul lastrico e, quando lui lo saprà, sarà troppo tardi per opporsi e lottare.

Ma c’è già qui e ora un fenomeno che cospira contro il nostro rider: l’alleanza tra padrone e consumatore che scavalca il produttore.

Tu cerchi un libro cartaceo e non hai voglia di girare per librerie, oppure di librerie, dove vivi, proprio non ce ne sono. Amazon ti offre due soluzioni vantaggiose. Uno: tu puoi vedere se questo libro esiste, ed eccolo sul tuo schermo senza dover fare un passo. Due: se lo commissioni, con un minimo costo in più o addirittura con un notevole sconto rispetto al prezzo di copertina, questo libro te lo consegno entro… E qui entra in gioco la complicità del consumatore. Entro quanto tempo lo vuoi questo libro cartaceo? L’ideale sarebbe che, appena spento lo schermo, il libro si materializzasse, il che avverrà quando in ogni casa ci sarà una stampante 3D. Per ora, siccome non esiste questa stampante, cosa ti propone Amazon? Potrebbe dirti che te lo consegnerà fra quarantott’ore e tu, probabilmente, ne saresti soddisfatto, tanto più che questa minima di attesa in più ti renderebbe il libro ancora più desiderato e poi gradito. Invece Amazon ti assicura che te lo consegnerà entro ventiquattr’ore e tu ne sarai entusiasta, persino orgoglioso, ti sentirai consumatore privilegiato di un libro servito su un piatto d’argento, e loderai Amazon con i tuoi amici che, così, saranno indotti a servirsene a loro volta.

Comportandoti in questo modo tu, consumatore, sarai diventato complice di Amazon nel costringere i ragazzi che devono trovare il libro, inscatolarlo e spedirlo, a lavorare con un ritmo che è il doppio, il triplo, il quadruplo di quello che avrebbe potuto essere. Chi lavora ad Amazon deve correre con il passo di Amazon, che ha come scopo sia accontentare il consumatore, che solo in questo modo potrà avere il suo libro entro ventiquattr’ore, sia arricchire Amazon che, così, non smisterà mille libri alla settimana, ma diecimila, centomila, guadagnando sempre di più.

Il driver di Foodora, a sua volta, è indotto a pensare: anche io più corro e più guadagno. E così siamo tornati al cottimo, quello che aveva creato Taylor a suo tempo. Con la differenza che l’operaio di Taylor lavorava otto ore al giorno usando una macchina del padrone mentre il nostro giovane portatore di pizze usa un motorino di sua proprietà e, secondo il datore di lavoro, dovrebbe essere disponibile ventiquattr’ore su ventiquattro.

In entrambi i casi, tra l’imprenditore che vuole guadagnare sempre di più e il consumatore che vuole avere la pizza o il libro sempre più rapidamente, si crea una connivenza micidiale per il driver.

Insomma, è dietro il tentativo di accelerare i consumi, facendo in modo che ricchi e poveri possano avere la pizza a casa in mezz’ora e un libro in ventiquattr’ore, che si nascondono le nuove forme di sfruttamento?

Sì, ma la vera novità è anche che in ognuno di noi convivono condizioni di proletario e di sfruttatore. Se quando ordino la pizza e non mi arriva entro un’ora, io telefono a Foodora urlando: «La pizza non è arrivata, che schifo!», in quel momento sono una carogna come il proprietario delle filande a Manchester nell’Ottocento. Poi, magari, io per primo lavoro con Uber e sono soggetto alle stesse angherie cui è soggetto il ragazzo di Amazon.

Il fatto è che siamo tutti più proletari di un tempo. Proletario era il lavoratore che portava con sé in fabbrica la propria prole, come fossero degli attrezzi supplementari. La sua tragedia era l’insicurezza: anche se aveva cosa mangiare oggi, non aveva nessuna sicurezza di mangiare il giorno successivo. Rispetto agli anni in cui conquistarono lo Statuto, oggi i lavoratori di ogni settore e di ogni livello hanno perso ampi margini di tutele e di opportunità. Siamo tutti precari. L’abolizione dell’articolo 18 ne è un esempio e un sintomo.

Non è che ci vorrà una rivoluzione?

Questo è sicuro. Le riforme non bastano più.