5

11 ore e 23 minuti all’alba

La biondina del negozio di telefonia si chiamava Caterina e aveva paura.

Rufo lo Scarafaggio poteva leggerglielo in faccia mentre la osservava, nascosto dalla pioggia battente. Era in piedi sul balcone di casa della ragazza. Si era arrampicato fino al quinto piano con l’attrezzatura da alpinismo che conservava nello zaino. Era perfettamente visibile dietro i vetri, ma Caterina non si era ancora voltata nella sua direzione. Il suo piccolo cervello le diceva che tanto il pericolo non sarebbe mai arrivato da lì. Se ne stava seduta sul pavimento, con la schiena contro il muro, fissando in allerta la porta d’ingresso. Impugnava una torcia spenta ma si era circondata di candele accese. Aveva preparato una tana col piumone e tutto l’occorrente per affrontare una lunga notte di veglia – un libro che non avrebbe aperto, bottigliette d’acqua che non avrebbe bevuto, una scatola di biscotti al cioccolato che non avrebbe nemmeno assaggiato. E teneva accanto a sé un grosso coltello da cucina.

Sei sola, povera Katy. E la solitudine è la punizione per quelle carine come te. A furia di tirartela con tutti, adesso non hai nessun fidanzato che ti protegga.

Rufo lo Scarafaggio si sistemò bene la videocamera GoPro sul caschetto. Era giunto il momento di entrare in scena.

Quando il vetro s’infranse in mille pezzi, Caterina ebbe il tempo di voltarsi e di stupirsi. Ma non poté fare altro. Né afferrare il coltello, né urlare. Non era abbastanza lucida per capire che l’estraneo che aveva sfondato la finestra e ora si avvicinava a grandi passi verso di lei era il pericolo che, in fondo, aveva atteso fino a quel momento. Lo Scarafaggio ebbe tutto il tempo per arrivarle di fronte e tramortirla con un diretto in piena faccia. Proprio così: il ragazzo timido e gracilino a cui una volta lei aveva mostrato un cellulare era invece tanto forte e risoluto da farle una cosa del genere. Rufo agiva a volto scoperto perché era sicuro che lei non l’avrebbe mai ricollegato alla scena di qualche mese prima, dato che – come tutte le altre – poi si era subito scordata di lui.

Era svenuta. L’afferrò per i piedi e la distese per bene. Poi estrasse dalla cintola il proprio coltello – l’unico amico che non l’aveva mai tradito – e lo usò per squartarle il ridicolo pigiama di felpa. Quando spalancò i lembi ricavati dalla blusa, gli apparvero due enormi seni, rosa e sodi. Rufo non poté fare a meno di estasiarsi a tale vista. Si chinò su di lei per annusarla, sicuro che emanasse un profumo caldo e dolcissimo – peccato che la videocamera non potesse registrare anche quello. Lo Scarafaggio chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Poi le mise una mano fra le gambe e si accorse che era bagnata. Se l’è fatta addosso, pensò. Che tenerezza, allora le aveva fatto davvero paura. Meglio, sarebbe stata più facile da penetrare. Sentì di avere già un’erezione poderosa. Provò una breve fitta al basso ventre, ricordo dell’incontro di qualche ora prima con il Guastafeste. Lo maledisse. Tornato al garage aveva messo i testicoli a mollo nel ghiaccio, ma sembrava che adesso là sotto tutto funzionasse a dovere. Si abbassò i pantaloni e le mutande, e chinò il capo con la GoPro per fare un meritato primo piano. Poi con una mano abbassò l’elastico dei pantaloni del pigiama della ragazza insieme alle mutandine rosa. Appoggiò il membro sulla morbida peluria bionda e, per la seconda volta quel giorno, qualcuno gli afferrò in una morsa i testicoli.

«Bastardo figlio di puttana» gli sussurrò il castratore, strappandogli un urlo stridulo e lacerante.

Rufo smarrì la cognizione di tutto ciò che lo circondava. La vista si annebbiò e temette di perdere i sensi. Non riusciva a comprendere ciò che gli stava succedendo. Qualcuno gli aveva sradicato le palle e gli aveva tolto con la forza la videocamera dalla testa, lanciandola chissà dove. Ma poi, lo stupratore di stupratori lo chiamò per nome.

«Rufo, amico mio» disse.

Lo Scarafaggio non era affatto certo di conoscerlo. Di sicuro, però, non era il vecchio Guastafeste. Questo era uno nuovo e, dal tono della voce più che dalla potenza della stretta, comprese che stavolta sarebbe stato davvero complicato uscirne vivo. Cominciò a fare a mente un elenco di chi poteva volergli male. L’ha mandato mia madre, si convinse. Ma delirava.

Lo sconosciuto lo tirò su e, con modi stranamente delicati, lo sistemò con le spalle al muro. Rufo si teneva stretto lo scroto, socchiuse gli occhi e, attraverso le lacrime che inondavano inarrestabili il suo campo visivo, notò un tipo con l’impermeabile beige che si lisciava una cravatta blu indossata su un completo grigio chiaro. Portava anche degli orrendi mocassini marroni. «Cosa vuoi da me? Ci conosciamo?» domandò con quel poco di fiato che riuscì a emettere.

«Non proprio» ammise Vitali. «In fondo, ho scoperto da poco chi sei. Forse è meglio fare prima le presentazioni, non credi?» E gli assestò un calcio nello stomaco.

Lo Scarafaggio si piegò in due per il dolore. «Sei uno sbirro» affermò sicuro. «Solo voi bastardi picchiate così.»

«Sei perspicace, Rufo. Sono stupito: non mi aspettavo nemmeno che fossi intelligente.»

«Come mi hai trovato?» chiese con voce rotta.

«Poco fa sono passato dal tuo garage e ho avuto modo di ammirare la tua piccola attività imprenditoriale. Mi complimento... Ma la prossima volta cerca di non lasciare in giro tracce su ciò che stai per combinare.»

Rufo poteva tollerare tutto, tranne il biasimo. Lo faceva proprio andare fuori di testa. «Cosa vuoi da me? Soldi? Ne ho abbastanza da parte, devi solo aspettare domattina e te ne posso dare quanti ne vuoi.»

Vitali scosse il capo. «Ti sembro un tipo venale?»

«Non lo so, dimmelo tu.» Rufo iniziò a provare un brivido e la cosa non gli piacque.

«Ho solo bisogno del tuo aiuto, Scarafaggio.» L’ispettore si piegò sulle ginocchia per guardarlo meglio. «Tempo fa hai trascorso due mesi in ospedale con una vertebra incrinata e le palle spappolate. Sei stato tanto idiota da sporgere denuncia, è stato così che ti ho trovato.»

Sì, era vero: era stato un perfetto idiota a rivolgersi alla polizia, ma era così incazzato che voleva vendicarsi di chi l’aveva ridotto in quelle condizioni.

«Hai dichiarato di essere stato aggredito da un tizio che voleva rapinarti. L’hai descritto abbastanza bene: sui quarant’anni, occhi e capelli scuri, e una cicatrice sulla tempia sinistra. È esatto?»

Rufo annuì.

«Poi hai aggiunto un particolare che mi ha colpito. Hai detto che, a un certo punto, senza che tu l’avessi toccato, il rapinatore ha cominciato a sanguinare dal naso.»

Non vuole me. Sta cercando il Guastafeste, si disse Rufo. Forse aveva una speranza di cavarsela.

«Ora, considerando il genere di attività a cui ti dedichi, ho pensato che forse la storia della rapina era una balla colossale e che, probabilmente, con la denuncia volevi solo farla pagare a chi ti aveva conciato per le feste.»

Rufo scosse il capo. «Non lo conosco.» Poi si sforzò di sorridere. «Ma sei un uomo fortunato, perché oggi è venuto a trovarmi.» Notò che gli occhi dello sbirro brillarono improvvisamente. Sì, poteva farla franca, bastava giocare bene le carte che aveva in mano. «Ha voluto che lo portassi a casa di un tale che abita ai Parioli, lo chiamano il Giocattolaio.»

«E poi che è successo?»

«Niente, perché quello non c’era. Però in una stanza abbiamo trovato una cosa strana... C’era una bambola, la riproduzione a grandezza naturale di un bambino scomparso nove anni fa. Sapevo pure come si chiamava, perché quando ero un ragazzino i giornali e la tv non facevano che parlarne.»

«Chi?»

«Tobia, il cognome però non me lo ricordo.»

Poco male, pensò Vitali. L’avrebbe scoperto da sé.

In quel momento, la ragazza sul piumone si riebbe. Vedendo i due estranei in casa sua, cominciò a strillare.

«Sono un poliziotto» le urlò Vitali, mostrandole il distintivo. «Fa’ la brava.» E lei tacque, rintanandosi in un angolo. L’ispettore tornò a dedicarsi a Rufo. «Giovanni Rufoletti... Toglimi una curiosità: perché ti fai chiamare Rufo?»

«È più figo.»

«Hai ragione, avrei dovuto capirlo da solo. Scusa.» Vitali si rimise in piedi, estrasse la pistola da sotto la giacca ed esplose un colpo mirando al ginocchio destro dello Scarafaggio.

Il grido di Rufo fu quasi più forte del rumore dello sparo. La ragazza si tappò le orecchie, terrorizzata.

L’unico tranquillo nella stanza era Vitali. «Il nome del tizio con l’epistassi» intimò.

«Non lo so» disse Rufo, piangendo. «Io lo chiamo il Guastafeste.»

Il secondo proiettile toccò al ginocchio sinistro. Altre urla.

«Il suo nome» ribadì il poliziotto e, senza attendere la risposta, spostò la mira sulla coscia e fece ancora fuoco.

Ormai Rufo non parlava più, si disperava soltanto. Il viso era una maschera ripugnante di lacrime e muco.

«La regola del gioco è questa» disse Vitali. «Continuerò a sparare finché non mi dirai ciò che voglio. Se muori prima, allora vuol dire che è vero che non lo sai.» Sparò ancora. Una, due volte, tre. Ormai non mirava neanche, procedeva a caso. Rufo sobbalzava come una bambola di pezza. Quando Vitali ne ebbe abbastanza, gli piazzò il colpo di grazia in mezzo alla fronte. Le braccia di Rufo ricaddero lungo i fianchi. Rimase con gli occhi spalancati e il pene flaccido che gli spuntava fuori dai calzoni.

A quel punto, Vitali si voltò verso la ragazza bionda. «Tutto bene?»

Lei, ancora sconvolta, si trascinò verso di lui per trovare rifugio. Si avvinghiò alle sue gambe. Tremava. Poi sollevò il capo e lo guardò. «Grazie» disse riconoscente. «Lei mi ha salvato la vita.»

Vitali ripose la pistola nella fondina e le accarezzò il capo. «Di niente, piccola. Di niente.» Poi si portò la mano alla patta dei pantaloni, e abbassò la cerniera.