11

Lo sciame stazionava nel corridoio del secondo piano. Gli insetti facevano la spola fra il soffitto e la stanza chiusa, passando sotto la porta.

Marcus si avvicinò alla maniglia, ma indossò i guanti di lattice prima di aprire. Quando l’uscio si spalancò, il penitenziere fu investito da una nuvola nera. La scacciò e solo allora avvertì l’odore nauseabondo. Indietreggiò, come respinto da una mano invisibile. Si sforzò di coprirsi naso e bocca con la manica della giacca e avanzò di nuovo, cercando di forzare il blocco. Riuscì a superare la barriera del miasma ed entrò.

Un piccolo bagno di servizio. Era buio, ma le imposte dell’unica finestra erano solo accostate, in modo da lasciare uno spiraglio alle mosche blu.

Il corpo era nella vasca. Legato mani e piedi. Nudo. La descrizione di Rufo era corretta. Il Giocattolaio era grasso e pelato. Lo ricopriva una sostanza vischiosa e giallastra su cui brulicavano migliaia di larve. Il miele dei morti.

Calliphora erythrocephala, meglio nota come «mosca blu».

Marcus aveva riconosciuto subito l’esemplare di fauna cadaverica attratto dal sangue dell’epistassi, sgocciolato sulla sua mano. Poi gli era bastato seguirlo.

Al Giocattolaio era toccata in sorte la peggiore delle torture antiche. La bambola di cera.

Un contrappasso atroce ma, in fondo, elegante. Dopo averlo legato, si cospargeva il condannato di latte dolce. Poi lo si lasciava in una stanza con una finestra aperta. E si attendevano gli insetti.

La mosca blu scambiava per tanfo cadaverico l’odore del latte riscaldato dal calore della pelle. E andava a deporre le uova sulla carne. Dopo qualche giorno, si schiudevano liberando le larve che iniziavano a nutrirsi del malcapitato mentre era ancora in vita.

Dopo aver predisposto il bagno di mosche per il Giocattolaio, l’assassino era sceso di sotto e aveva atteso davanti al computer che il vescovo Gorda attivasse la gogna. Una volta connesso alla rete, lo aveva strozzato a distanza.

Nel frattempo, però, aveva cercato di uccidere anche Marcus, rinchiudendolo nel Tullianum.

Il penitenziere non poté fare a meno di chiedersi ancora una volta che c’entrasse lui con quella storia. Che ruolo aveva? Perché non riusciva a ricordare nulla?

Trova Tobia Frai.

Per adesso aveva trovato solo un tremendo simulacro del bambino. Smise di lacerarsi con gli interrogativi nel momento in cui scorse un marchio sulla caviglia del Giocattolaio.

Come il vescovo, anche lui aveva il tatuaggio dell’eclissi, il cerchio azzurro.

Avrebbe voluto cercare altre anomalie. Ma dalla finestra filtrava una luce sempre più pallida, che presto sarebbe mutata in oscurità. Ci siamo, si disse: il crepuscolo. Non poteva rimanere bloccato lì, doveva andare. Un istinto, però, lo frenava. Non essendo riuscito a capire il senso del cordless accanto alla bambola, voleva sperare che l’assassino avesse lasciato qualche altro segno. Non può finire qui, non può finire così.

Vuole condurmi altrove.

Si inginocchiò davanti al cadavere. Se c’era davvero qualcosa, era lì che doveva cercarlo. Non aveva senso che l’assassino l’avesse piazzato da qualche altra parte. Così si fece forza, immerse una mano nella vasca e cominciò a rovistare il fondo dove si era accumulato uno strato di grasso mieloso, residuo della putrefazione. Trattenne i conati e chiuse gli occhi.

Dopo un po’, sentì qualcosa al tatto. Non si era sbagliato.

Ripescò una sfera di carta appallottolata. Non può essere qui da molto, si disse. Altrimenti gli acidi della decomposizione l’avrebbero corrosa. La aprì. Un’altra pagina strappata al misterioso taccuino. Riconobbe ancora una volta la propria grafia. Nessun riferimento a Tobia Frai.

Stavolta, c’era un altro nome.