32.
China si siede davanti, con Sebastián, che insiste a voler guidare per l’intero tragitto da San Nicolás a La Plata. Lei preferirebbe dietro, per stare accanto a Román, e anche perché non si sente a suo agio vicino a Sebastián Petit. Nonostante ciò, non dice niente; capisce che sia logico viaggiare sul sedile anteriore, una coppia suscita meno sospetti a prima vista. Una famiglia che va a fare una gita, con il bambino, lo zio e il nonno dietro. O qualcosa del genere, nell’immaginario dei luoghi comuni lungo la strada. Non penserebbero mai a quattro temerari che scappano con un bambino di tre anni, scommettendo che tutto andrà per il verso giusto. Prima di partire, China chiede un minuto per andare a lasciare le chiavi dell’auto che le hanno prestato sotto il sedile. E appendere allo specchietto retrovisore le mutandine che sono nel cruscotto. Ovviamente non dice delle mutandine, parla solo delle chiavi. Ma già che c’è... Deve assolutamente lasciare le chiavi nascoste ma a portata di mano, nel caso che Iván mandi qualcuno a riprendere la sua auto quando lei lo informerà – non adesso ma quando le circostanze glielo consentiranno – che è parcheggiata a duecentotrentasette chilometri da dove lui abita. Quando torna, dopo un paio di minuti, Sebastián si mostra contrariato per il ritardo. China lo ignora; è evidente che lei non gli va a genio, ma è reciproco. Quindi sono pari.
Román e Adolfo si siedono dietro. Román ha rimesso il berretto e gli occhiali scuri. Joaquín sta in mezzo; l’auto non dispone di un sedile apposito per bambini piccoli, per cui Román gli mette la cintura di sicurezza stringendola fino al limite massimo.
“Pronti?” chiede Sebastián.
“Pronti,” rispondono gli altri.
“Voglio pensare che tutti abbiate tolto il localizzatore dal cellulare.”
“Io neanche ce l’ho il cellulare, ho tolto la batteria e la scheda prima di partire da Buenos Aires,” dice Román.
“Ben fatto,” ribatte Sebastián.
“Niente localizzatore,” dice China disattivandolo, fingendo che non fosse necessario l’avvertimento di Sebastián.
“Io ho un vecchio Nokia che funziona a meraviglia ma lo uso solo per fare telefonate o inviare messaggi,” lo avvisa Adolfo. “Dove lo trovo questo localizzatore?”
“No, lascia perdere, non preoccuparti,” risponde Sebastián, a cui è bastata un’occhiata di sbieco al suo telefonino per capire che è antecedente a qualsiasi tecnologia sofisticata. “Mettiamoci in marcia,” dice, e mette in moto.
Qualche isolato dopo, imboccano già la strada che li porterà a destinazione. Il viaggio è teso; ma anche se nell’abitacolo aleggia un certo timore, prevale la speranza. Nessuno lo dice, tuttavia i quattro nutrono l’improbabile illusione che il futuro potrebbe rivelarsi migliore. Joaquín, per il quale, data la sua età, esiste solo il presente, è l’unico a viaggiare nella totale incoscienza del pericolo che stanno correndo, muovendo le gambine come se ballasse e ridendo senza un motivo preciso.
Una volta presa la statale Sebastián, che non deve più preoccuparsi di sbagliare strada, comincia a parlare senza sosta, quasi ossessivamente. Espone a tutti una lectio magistralis sulla città di La Plata e la sua storia. Ogni tanto China riesce ad aggiungere qualcosa riguardo la fondazione della città. Ma soprattutto prende nota mentalmente dei particolari a lei sconosciuti che sta fornendo Sebastián e che le serviranno per La maledizione di Alsina. A parte questi sporadici scambi di pareri, lui riprende inesorabilmente a dominare la conversazione.
“Sono stato io a spedirvi le copie del quadro di Quinzio Cenni.”
“Ah, ma guarda un po’. Mi ero illusa di avere un ammiratore anonimo,” dice China. “E cos’è che ci volevi far capire con quel quadro?”
“Non granché, solo quello che si vede nell’immagine, cioè che al momento della fondazione mancarono i luminari della politica e Dardo Rocha li aveva aggiunti a uso dei posteri. Fece un atto di finzione storica. La narrazione fittizia non è nuova nella nostra storia. La politica che manipola la realtà a suo piacimento, che ti mostra un fotomontaggio. L’ho spedito anonimamente, con macchie e frasi confuse affinché Román si appassionasse al mistero e si mettesse a indagare sulla provenienza di queste piste da seguire. Fu dopo l’omicidio di Lucrecia Bonara, quando si chiuse in casa e niente sembrava riuscire a rimetterlo in marcia. Anche se ho l’impressione che quel quadro non lo abbia minimamente incuriosito. Dico bene, Román?”
“Non so nemmeno di cosa parli,” risponde lui.
“I miei metodi non sono sempre infallibili,” ribatte Sebastián con ironia.
“Mi auguro non oggi...” dice Adolfo.
“A me è servito, mi ha permesso di aggiungere un intero capitolo al libro. Il che non mi pare poco,” confessa China, ed è la sua maniera di cominciare a fare la pace con lui.
“Me ne rallegro,” dice Sebastián.
E ancora una volta interrompe la conversazione e torna al suo monologo, che non lascia spazio agli interventi di nessun altro, mentre percorrono ad alta velocità la strada quasi deserta, diretti a una città che Rovira considera maledetta. Román gliene è grato, lui non ha alcuna voglia di parlare e sente che, essendo il protagonista di questa avventura, se calasse il silenzio avrebbe il dovere di infrangerlo. Quindi, ogni tanto dice qualche frase per incentivare Sebastián a proseguire. E quello lo fa con erudizione enciclopedica, parla del tracciato originale di La Plata, dei simboli massonici, dei miti platensi, della numerazione delle avenidas, dell’algoritmo per calcolare tra quali vie si trovi un determinato indirizzo. E in particolare, del perché è praticamente sicuro che Rovira abbia il terrore di avvicinarsi a quella città.
“Ho sentito cosa diceva con la madre e con Vargas. Quel tipo è pazzo. Sono certo che l’avversione per La Plata vada al di là di una semplice superstizione. Sembra uno in gamba e invece è fuori di testa.”
“Come tanti politici che governano intere nazioni. Il mondo è gestito da un branco di dementi. Triste ma vero,” dice Adolfo.
“E se fondiamo un partito e ci presentiamo alle elezioni?” chiede Sebastián, e appare chiaro che la sua proposta non è una semplice battuta.
“Io non mi farò fregare da un altro partito, neanche per sogno,” risponde Román, e nemmeno lui scherza.
“Io meno ancora,” aggiunge China.
“Io sono un radicale,” afferma Adolfo, “e un radicale muore radicale.”
“Abbiamo fin troppi esempi di radicali che hanno cambiato partito,” insinua Sebastián.
“Quelli non erano radicali,” si inalbera Adolfo, “non lo sono mai stati, ci hanno usato come trampolino per spiccare il balzo. Opportunisti da comitati elettorali. Voltagabbana di mestiere!”
Lo dice con tanta fermezza che nessuno si azzarda a contraddirlo. Seguono diversi chilometri in un silenzio che stavolta è lui stesso a rompere.
“Ma se invece hai intenzione di mettere in piedi qualcosa di serio, un partito per la gente, con idee, con un progetto politico, con proposte concrete, allora avvisami, che potrei tentare di organizzare un’alleanza per il prossimo Congresso nazionale.”
“Ti ringrazio per l’offerta, Adolfo,” dice Sebastián. “Ma voi avete ancora voglia di fare alleanze?”
Adolfo stenta a trattenersi, ma si controlla per non dire la prima cosa che gli viene in mente e magari sbraitando. Tira un profondo respiro, quasi un sospiro. Solo a questo punto decide di esprimersi.
“Hai ragione. Meglio di no. Quando hai ragione, hai ragione.”
“Se nessuno di voi si unisce a me, mi resta pur sempre Joaquín. Magari tra qualche anno lo convincerò...” dice Sebastián.
“Dovrai passare sul mio cadavere,” interviene Román, “non dimenticare che sono suo padre,” aggiunge, e tutti ridono per la prima volta da quando sono partiti.
Fanno una sosta a Escobar per fare il pieno di gasolio. È calata la notte. Román consiglia di andare in bagno, comprare qualcosa da bere e da mangiare, e approfittarne per sgranchire le gambe. Preferisce non fare un’altra sosta fino a La Plata. Vuole che una volta pronti a ripartire, si riuniscano fuori dall’auto per organizzare il da farsi. Lo preoccupa il fatto che rimangano ancora diversi compiti da definire e altri sui quali devono ottenere conferme. Accompagna Joaquín in bagno nonostante il bambino insista che non gli scappa e preferisca correre in giro per la stazione di servizio. Sebastián si occupa dell’auto e China va a comprare panini e bibite. Adolfo si avvicina al distributore, dove Sebastián sta facendo rifornimento.
“Posso darti una mano?”
“No, grazie, ho già fatto.”
“Siamo in orario, no?”
“Sì. Arriveremo prima dell’alba. Arrivando a La Plata cerchiamo un posto sicuro per riposare un po’ e poi andiamo in piazza con la luce del giorno. Abbiamo bisogno di dormire un paio d’ore. Dovremo fare i turni per riposare mentre uno di noi monta la guardia.”
“Perfetto, io faccio il primo turno,” dice Adolfo, e resta con Sebastián mentre paga il pieno di gasolio, cercando l’occasione di togliersi i dubbi che gli rimangono.
“Dimmi una cosa, ma quello che ci hai raccontato durante il viaggio riguardo La Plata, tu come fai a sapere tutte queste cose? Sei un massone?”
“No. Sono uno studioso, leggo tutto e di più riguardo ciò che mi interessa. Ma se anche fossi massone?”
“No, niente. Una curiosità, è che non ho mai capito bene cosa sia la massoneria.”
“Dicono che la massoneria può capirla solo un massone.”
“Infatti, tu la capisci piuttosto bene...”
“Solo a grandi linee. Come qualsiasi società segreta, mantengono il riserbo su molte cose. I massoni sono guidati dal razionalismo. Loro formano leader, puntano a piazzare massoni nei posti di potere per trasformare il mondo. E si definiscono un’organizzazione filosofica, filantropa e progressista, senza alcuna religione sebbene tolleranti. Voi avete dei famosi compagni di partito che ne fanno parte.”
“A chi ti riferisci?”
“Leandro N. Alem, Hipólito Yrigoyen.”
“Ho i miei dubbi, sì, ho sentito dire qualcosa... Ma vai a sapere...”
“E Napoleone, José de San Martín, Arthur Conan Doyle, Isaac Asimov, Phil Collins... E Massera, Pinochet... Insomma, c’è un po’ di tutto...”
“Altroché, porca puttana...”
Román e Joaquín tornano dalla toilette. Subito dopo arriva anche China. Román dice che purtroppo il bambino non ha fatto la pipì, è talmente eccitato, nonostante l’ora, che non c’è stato verso, vuole solo giocare. Sebastián dice di non preoccuparsi, se ce ne sarà bisogno faranno un’altra sosta. E propone di fare una riunione su strategia e logistica; vuole riprendere il cammino prima possibile. Román chiede a China di chiedere conferma ai suoi contatti se abbiano ricevuto i file con la sua storia. Non appena ne avrà conferma, lui invierà una copia a Fernando Rovira con WeTransfer mettendo in chiaro che esistono copie conservate in luoghi diversi non rintracciabili e con l’ordine di divulgarle nel caso accada qualcosa a uno qualunque di loro. Non farà nomi di persone specifiche ma solo di alcune istituzioni che sono in possesso delle sue dichiarazioni, perché Rovira si renda conto che fa sul serio. Sebastián suggerisce che, quando lo farà, lo avverta che hanno già lasciato San Nicolás e che si metterà in contatto con lui per dirgli dove si trova. Chiede a China di chiamare la sua redazione e di accordarsi per organizzare un servizio televisivo con la massima urgenza in plaza Moreno a La Plata e di coinvolgere altri colleghi.
“Sì, ma faccio a modo mio. A ciascuno il suo lavoro. Chiederò una troupe, su questo puoi contarci. Ma non sono una capo ufficio stampa per poter convocare i colleghi. Sembrerebbe troppo strano. Su come ottenere attenzione dai media lascia fare a me. Farò qualcosa di meglio,” dice China.
“E cosa, se non sono indiscreto,” chiede Sebastián.
“Certo che sei indiscreto, ma te lo dico lo stesso: dirò a un paio di colleghi senza scrupoli se mi possono sostituire in una lezione che dovrei tenere all’università perché domani in plaza Moreno mi è saltata fuori un’esclusiva per il servizio della mia vita e non posso perdermelo, e devo farlo di prima mattina, perché dopo il mio intervistato avrà addosso tutti i media. Si scuseranno per non potermi rimpiazzare alla lezione, visto che non sono mai riuscita a ottenere un favore da loro. Ma scommetto che saranno i primi ad arrivare in piazza...”
“Tutti contro tutti per uno scoop...” dice Román.
“Puoi contarci,” ribatte China, “mi hanno sempre fregata ogni volta che si è presentata l’occasione. Figurati se mi farebbero mai un favore. Scriverò anche in un gruppo di WhatsApp formato da alcuni colleghi: ‘Qualcuno sa qual è la bomba che domani scoppierà in plaza Moreno a La Plata? Pensate che andrebbe bene essere lì alle sette o meglio andarci ancora prima?’. E così ci garantiamo altri giornalisti in più.”
“Perfetto. Abbiamo bisogno che allo spuntare del sole la piazza sia piena di gente e telecamere,” dice Román. “Avere tanta gente intorno sarà il nostro scudo. Il modo migliore per proteggerci.”
“Posso chiedere ai radicali del comitato di La Plata che riempiano la zona di militanti e striscioni, se necessario. Non c’è bisogno che spieghi loro il motivo. Con alcuni ho un rapporto da tanti anni, una fiducia cieca. Se dico loro che devono esserci, ci saranno e porteranno altri. Io farei la stessa cosa.”
“Ci servirebbe, eccome,” dice Sebastián. “Più testimoni ci saranno, più sarà difficile che Rovira mandi qualcuno a farci chissà cosa. Non ho dubbi che lui non si azzarderà a venire di persona, ma di sicuro avrà qualcuno per fare il lavoro al posto suo. I media e i militanti sono un’ottima protezione.”
“Pensi che debba già scrivere a Rovira? O lo chiamo?” chiede consiglio Román a Sebastián.
“Rovira sarà ormai arrivato a San Nicolás. O starà andando alla Triple Frontera, se ha funzionato l’esca su Facebook. Comunque, quando gli manderai il video si fermerà. Credo che dovresti scrivergli non appena China confermerà che i video sono arrivati a destinazione. Poi gli invii una copia, gli diamo un po’ di tempo per rendersi conto della situazione, e a quel punto lo chiami, gli dici della tua proposta e che lo aspetti a La Plata, davanti alla prima pietra della fondazione. Deve sembrare l’appuntamento per una sfida a duello. Non accetterà. Ma farà la sua mossa. E noi saremo già a La Plata per fare le nostre.”
“Mettiamoci in marcia, voglio che tutto questo finisca una volta per tutte,” dice Román.
“Stiamo intraprendendo una fase che sarà sicuramente difficile,” dice Adolfo, “perché abbiamo tutti l’enorme responsabilità di garantire oggi, e per i tempi a venire, la democrazia e il rispetto della dignità degli esseri umani in terra argentina.”
China e Sebastián lo guardano senza capire cosa c’entri quella frase così ridondante. Román lo sa.
“Zio...” lo sprona a spiegarsi.
“Sono le prime parole pronunciate da Alfonsín al momento di assumere i poteri presidenziali di fronte al Congresso,” chiarisce Adolfo.
“Tutti i miei contatti hanno confermato di aver ricevuto il video,” dice China, che ha appena controllato sul cellulare.
“Adesso sì che tocca a te, Román,” sentenzia Sebastián.
Román chiede a China di dargli il cellulare. Lei glielo porge con una certa solennità, come se consegnasse un tesoro, qualcosa di prezioso, ben cosciente di cosa significhi. Gli altri rimangono tesi, in attesa che lui faccia ciò che sta per fare, smaniosi malgrado i timori. Román si appresta a inviare a Fernando Rovira il video che ha registrato; ci mette un certo tempo. Il rumore dei camion che ogni tanto transitano sulla strada è l’unico indizio che il mondo va avanti mentre loro aspettano.
“Inviato,” dice Román, finalmente.
“Alea jacta est,” dice Adolfo. “Ma questa non è di Alfonsín.”