28.
Alla fine Román si decide a spiegare a China e ad Adolfo il suo piano. Ma prima, perché è andato via in quel modo da Pragma. E prima ancora, a China, che Joaquín è suo figlio. Glielo dice così, senza giri di parole, senza preamboli.
“Joaquín è mio figlio.”
China non rimane troppo sorpresa. Piuttosto, ha la conferma di certe percezioni precedenti. Non fa domande. È suo figlio, punto e basta. Chi è lei per recriminare su vecchie storie avute con un’altra donna. In fondo ha sempre visto Román come il padre di quel bambino. Gli faceva da padre, e adesso risulta che in effetti è suo padre. Niente sarebbe tanto diverso da ciò che era prima né troppo complicato, se non fosse che in tutta la questione c’è di mezzo Rovira.
“L’unica cosa che mi interessa è che Rovira ammetta pubblicamente che Joaquín è figlio mio. Poi, che dia la versione che vuole riguardo le circostanze, quella che più gli serve per la carriera politica. A me non importa niente. Voglio iscriverlo all’anagrafe con il mio cognome, facendo tutte le pratiche necessarie. E poi, che scompaia dalle nostre vite. E noi dalla sua,” dice Román.
“Non sembra facile…” ribatte lei.
“Credo proprio di no,” conferma Adolfo.
“Sì, sarà difficile. Ma non vedo altra strada. E non ho dubbi: devo allontanare da Fernando Rovira le persone a cui tengo di più. E quindi anche te,” dice a China.
L’ultima frase la coglie di sorpresa e non riesce a reagire.
Se guardasse Adolfo si accorgerebbe che anche lui è rimasto sorpreso, ma sorride approvando. Lei no, lei è rimasta impassibile. Ciò che è appena successo è quello che desiderava da tempo, che Román Sabaté la includesse tra le persone a cui tiene di più. Detto così, e in tali circostanze, l’ha fatta ammutolire. Ma come dirgli a sua volta ciò che prova, ora che si sono cacciati in un guaio incalcolabile, per cui non sanno ancora quale prezzo dovranno pagare? Ecco perché non dice niente, qualsiasi commento tra quanti le passano per la testa risulterebbe inadeguato di fronte al pericolo imminente che incombe su di loro. Per il momento lo tiene per sé, rimandandolo al giorno in cui potrà dirgli la stessa cosa, che lui è tra le persone a cui tiene di più. Anzi, è il primo della lista. Adesso guarda Adolfo, che la sta fissando come se già sapesse cosa pensa. Nemmeno lui dice niente. Aspettano entrambi in silenzio che Román continui a parlare, senza riempire i vuoti che lascia indietro, ciò che conta è quello che ha da dire Román Sabaté.
Prima di proseguire, Román si occupa di Joaquín, che si muove tra le sue gambe in cerca di una carezza. Lo solleva. Ha l’aria stanca, assonnata. Ha giocato tutto il giorno, correndo per la casa senza sosta, saltando sul divano come se fosse un trampolino elastico. Avrebbe voluto portarlo un paio d’ore in qualche giardino pubblico o almeno a fare il giro dell’isolato; da quando sono arrivati lì, il bambino non è mai uscito di casa. Ma sa che non sarebbe stato prudente. Román lo mette a sedere sul divano accanto a lui. Sistema i cuscini dietro il bambino per farlo sdraiare. Lo aiuta, Joaquín lo lascia fare mentre Román gli accarezza i capelli. Solo quando lo vede rilassarsi e sul punto di addormentarsi, riprende a parlare.
“Prima di ieri ho cercato una scatola in cui Lucrecia Bonara era solita conservare i certificati medici di Joaquín. Mi serviva il libretto delle vaccinazioni. Me lo chiedevano spesso all’asilo e mi scordavo di cercarlo. Il bambino è stato vaccinato, su questo non ho dubbi, visto che l’ho sempre accompagnato io ogni volta che andava fatto. Mi mancavano solo i certificati, ma non lo ritenevo così importante. Hanno insistito, dicendo che dovevano conservare in archivio una fotocopia del libretto sanitario per essere in regola, che le ispezioni ci fanno caso e loro non volevano problemi. Insomma, sapevo dell’esistenza di quella scatola e Lucrecia Bonara la conservava da qualche parte nella stanza di Joaquín; dato che finora non ne avevo avuto bisogno, non mi ero preoccupato di cercarla. E non lo aveva fatto nessun altro, per fortuna. Martedì l’ho cercata e trovata. È stato semplice, era nell’armadio di Joaquín, su uno scaffale in alto ma a portata di mano. Devo averla vista un’infinità di volte senza notarla. L’ho presa, appoggiata sul letto e aperta. Ho trovato il libretto delle vaccinazioni, e quando stavo per rimetterla al suo posto mi è venuto in mente di controllare gli altri incartamenti per vedere quali documenti ci fossero, nel caso di qualche problema di salute di Joaquín e che potessero servirmi in futuro. A quanto pareva il suo ancor breve curriculum sanitario stava lì e ho voluto dargli un’occhiata. In una cartellina, Lucrecia aveva archiviato le carte della clinica dove era avvenuto il parto e Joaquín era stato registrato da lei e Rovira come genitori biologici. In un’altra busta c’erano le analisi del sangue fatte quando aveva un anno, dopo una febbre alta di cui non si era capita la causa. In un’altra più grande, le radiografie della volta che Joaquín era caduto dalla culla, e anche se il medico aveva ritenuto che non avesse riportato alcun danno erano state fatte per stare più tranquilli. Infine, sotto le radiografie, una busta bianca, chiusa, con scritto “Román Sabaté”. Mi soprese trovare una busta con il mio nome dentro quella scatola. E che per giunta fosse chiusa. Ero indeciso sul da farsi. Non avrei trovato pace se l’avessi lasciata lì, senza vedere cosa conteneva. L’ho aperta pensando che forse Lucrecia aveva voluto completare la documentazione sanitaria del figlio aggiungendo qualche dato su di me, visto che ero io il padre biologico. Mi è sembrato persino sensato che lo avesse fatto. Ma mi sbagliavo. Dentro la busta non c’era nulla che riguardasse il mio stato di salute, bensì una foto, questa,” dice, e va a prenderla nello zainetto.
Román torna e la mostra prima a China. Lei la prende, lui rimane in attesa, in piedi, al suo fianco. È una foto del giorno del matrimonio di Fernando Rovira e Lucrecia Bonara. Scattata nel salone del municipio dove si era tenuta la cerimonia. I due sono sorridenti, felici, tengono in bella vista il certificato di matrimonio come se fosse un trofeo. Dietro di loro, la funzionaria che li ha sposati. E ai lati i testimoni, una donna di fianco a Lucrecia e un uomo con Fernando, che sorridono come gli altri.
“Ha lasciato questa foto lì perché la trovassi. Non so se intuiva che potesse succederle qualcosa. Ma in ogni caso era un messaggio per me.”
“Non capisco,” dice China. “Cosa ha a che fare con te una foto del loro matrimonio?”
Román non risponde. Porge la foto ad Adolfo. Suo zio si mette gli occhiali e la osserva con attenzione.
“Riconosci qualcuno?” gli chiede Román.
“Rovira e sua moglie, suppongo,” risponde Adolfo.
“Sì, ma c’è qualcun altro che conosci. Anche se sono passati un po’ di anni, lì c’è una persona assolutamente riconoscibile.”
“Non saprei…”
“Guarda alla destra di Fernando Rovira, il suo testimone.”
“Mi pare una faccia conosciuta, sì, ma non riesco a ricordarmelo.”
“Martín Capardi, il medico che ha prestato soccorso alla mamma quando ha avuto l’incidente. Ammesso che sia davvero un medico… a questo punto non ci giurerei.”
Adolfo guarda ancora una volta la foto e muta espressione, si irrigidisce. Poi guarda Román e rimane per un istante così, senza azzardarsi a confermare ciò che teme.
“Dimmi che non è quello che sto pensando…” implora Adolfo.
“Non capisco…” protesta China. “Mi potete spiegare cosa succede?”
“Lo conosceva da prima, lo conosceva da sempre… Lo ha messo lì Rovira per farci credere che senza il suo aiuto lei sarebbe morta. Non potrei assicurare quale sia stato il ruolo di Capardi quel giorno. È stato tutto molto strano. Non si è mai chiarito perché mia madre fosse uscita di casa e come avvenne quell’incidente. Ammesso che si sia trattato di un incidente. Comunque, quello che posso assicurare è che hanno finto di non conoscersi e invece sono amici intimi. Ai nostri occhi Capardi è apparso come un salvatore. E invece era il suo uomo sulla scena. Rovira ha pianificato di farci credere a ogni cosa che dicesse. E in modo che sentissi di dovergli un favore talmente grande da non potermi negare ad avere un figlio con sua moglie.”
“Non capisco, Lucrecia e tu eravate o no amanti?” lo interrompe China.
“No. Fernando Rovira è sterile…” risponde Román.
“Hai detto sterile?” chiede China.
“Figlio di puttana…” dice Adolfo. “Ma ti rendi conto che potrebbe addirittura essere stato lui a provocare l’incidente?”
“Sì, me ne rendo conto… E che il coma per arresto cardiaco potrebbe essere stato indotto farmacologicamente. Preferisco non pensare a questa ipotesi perché mi viene voglia di andare ad ammazzarlo,” confessa Román. “Non so se Capardi sia o no un medico, non so se Rovira abbia provocato l’incidente, non so se mia madre fosse davvero così grave oppure no, cioè come in realtà sostenevano i medici che l’hanno presa in cura al Cullen di Santa Fe, e che non abbiamo avuto modo di ascoltare. Non ho più certezze su niente. Quello che so è che Fernando Rovira ha mentito per manipolarmi, che non ha avuto scrupoli nel farlo. E che Lucrecia Bonara ha voluto che io, in determinate circostanze, lo venissi a sapere.”
“Che carogna...” dice Adolfo.
“Mi potete spiegare cosa sta succedendo?!” esclama China.
Román glielo spiega: Capardi che si era trovato a passare, si supponeva per caso, sul luogo dove sua madre aveva avuto l’incidente prestandole soccorso; la discordanza di pareri riguardo la gravità delle sue condizioni tra lui e i medici dell’ospedale di Santa Fe; Rovira che aveva messo a disposizione i suoi contatti, i mezzi e i soldi per curarla; il grosso debito di riconoscenza che lui e suo padre ritenevano di avere nei confronti di Rovira per averle salvato la vita. Tutte menzogne che avevano fatto sì che Román, dopo aver detto fermamente di no, accettasse infine di aiutarli ad avere un figlio. Il figlio che adesso sta dormendo sul divano a casa dei Sabaté a San Nicolás accanto a lui, il suo vero padre.
“Adesso è tutto chiaro?” chiede Román.
“Credo di sì. Hai donato il seme,” risponde China.
“No,” la corregge lui.
“Mi arrendo…” dice lei.
“Ho avuto Joaquín con Lucrecia Bonara, abbiamo fatto sesso consensualmente e con quella finalità. Me lo ha chiesto Fernando Rovira e alla fine ho acconsentito.”
“Stento ancora a crederci…” dice Adolfo.
“Io ci sto provando…” dice China. “Datemi qualche minuto…”
“Mi assumo la responsabilità di ciò che ho fatto. Nessuno mi ha costretto. Ma è chiaro che mi hanno manipolato. E che per tale scopo non hanno esitato a mettere a repentaglio la vita di mia madre.”
“Rovira non ha limiti,” dice Adolfo. “È così, è evidente, non ha alcun limite.”
“Ecco perché non volevo restare lì neanche un minuto di più, e soprattutto con Joaquín. Non posso ricorrere alle vie legali, è logico. Si tratterebbe di una causa impossibile da vincere, e comunque con tempi lunghissimi. Senza contare che ho già superato i termini di legge.”
“Come sarebbe a dire?” chiede Adolfo.
“Si presume che il padre biologico abbia un anno di tempo per farsi avanti, a partire dal giorno in cui ne è venuto a conoscenza. E questo termine di tempo è scaduto da un pezzo, per me.”
“Allora la vedo male...” dice China.
“Così prevede la legge,” ribatte Román.
“Una legge che andrebbe cambiata...” aggiunge lei.
“L’hanno appena approvata,” dice Román, “sta nel nuovo Codice Civile.”
“E allora?” chiede Adolfo.
“Per Joaquín non c’è prescrizione, però dovrebbe fare ricorso a diciotto anni, ammesso che lo voglia. Nel frattempo vivrei lontano da mio figlio e questo arrecherebbe un danno irreparabile al nostro rapporto. Non sono sicuro che ciò che abbiamo costruito in questi tre anni insieme possa resistere alle manipolazioni di Fernando Rovira. Non voglio correre questo rischio. E non voglio che lo corra Joaquín. E soprattutto non voglio che lo tiri su quel mostro, o chiunque lui decida che se ne occupi. È mio figlio. E anche se non lo fosse... io... io voglio bene a questo bambino. Davvero. Non immaginavo che si potesse voler bene a qualcuno come io ne voglio al mio campione.”
Román si china e lo bacia sulla testa. Resta così per un istante, con le labbra sui capelli di Joaquín. Quando si tira su ha gli occhi colmi di lacrime.
“Dimmi come posso aiutarti,” dice China.
“Rovira non ci lascerà andare via senza reagire. Anche se di Joaquín non gliene importa granché. Ti ho chiesto di venire qui perché ho bisogno di organizzare con te il mio lasciapassare. Voglio raccontarti in ogni dettaglio i fatti da quando sono entrato a far parte di Pragma fino a oggi. Devi registrarmi in video. E poi terrai le mie dichiarazioni in un posto sicuro, irrintracciabile. Ne faremo una trascrizione, da passare a organismi internazionali, dove tu riterrai che vi siano persone che Rovira non possa comprare. E quando avremo ottenuto questo, gli farò una proposta. Mi impegnerò a non dire a nessuno tutto quello che so e che è custodito da qualche parte, in cambio della libertà di andarcene. Deve lasciarci andare entrambi, io e Joaquín. Il mio silenzio in cambio di mio figlio. Ma deve avere ben chiaro che se ci succede qualcosa, chi è in possesso del materiale saprà che è giunto il momento di diffondere l’intera storia.”
“Ti rendi conto che stai dicendo a una giornalista che gli racconterai in esclusiva qualcosa di esplosivo che, se tutto va bene, non potrà mai pubblicare integralmente?” chiede China.
“Me ne rendo conto. Anche se non lo sto chiedendo a ‘una giornalista’, lo sto chiedendo a te...”
“Vado a preparare il mate per tutti,” dice Adolfo, accortosi che in quella parte della conversazione è di troppo, e si ritira in cucina con discrezione.
“Cosa ti fa pensare che non userei le informazioni che mi darai se dovessero risultare molto interessanti?” chiede China.
Román riflette un attimo prima di rispondere, tenendo gli occhi fissi in quelli di lei. Tra i due corpi si crea la stessa tensione di quella volta nel punto cieco.
“Quello che sento,” dice Román. “Quello che sento da un certo tempo.”
“Cosa senti?”
“Tante cose. Voglia di baciarti, per esempio,” dice, e fa il gesto di alzarsi per farlo.
Anche China si avvicina a lui, ma in quel preciso istante Joaquín si sveglia piangendo come se avesse avuto un incubo. Allora Román si ferma e rimane sul divano per accarezzargli la testa finché si riaddormenta. Fa un cenno a China perché si avvicini. Lei si siede sul divano assieme a loro, stringendosi. Lui le passa il braccio sulle spalle. Nei loro corpi, così vicini, scorre l’elettricità che China conosce bene. Adolfo arriva con il mate, Román toglie il braccio, China si scosta e lo zio, mentre va verso di loro, chiede:
“Ti vengono in mente dei posti sicuri dove potremmo custodire una copia di quel materiale, China, perché...?”.
Adolfo si interrompe, si accorge di essere arrivato nel momento meno indicato. O sul più bello. Non sa cosa fare. China gli viene in soccorso.
“Ne ho in mente qualcuno,” risponde cercando di dissimulare il suo stato d’animo, ancora un po’ turbata per la conversazione di prima, il bacio mancato e l’elettricità tra i loro corpi. “Voglio sceglierlo con cura. Ho buoni contatti in associazioni del giornalismo, dei diritti umani, colleghi irreprensibili, dovremo distribuirlo fra tre o quattro luoghi strategici.”
“Grazie,” dice Román, e la guarda in un modo che vuol dire tante cose. “Quando vuoi prendi il tuo cellulare e io comincio a raccontare la mia storia registrandola in video.”
“Okay,” dice China.
“Posso rimanere ad ascoltare la versione completa?” chiede Adolfo.
“Ma certo, zio. Tu devi sapere tutto. Adesso sì.”
China prende il cellulare. Controlla il livello della batteria, meno della metà, quindi per precauzione collega il caricatore alla presa. Il racconto di Román potrebbe essere piuttosto lungo e il video consuma molta batteria. Cerca l’icona della videocamera, aziona il rec, e fa un cenno per indicare che possono iniziare.
“Pronto?” chiede lei.
“Pronto,” risponde Román, quindi aspetta qualche secondo e poi inizia a parlare. “Mi chiamo Román Sabaté. E voglio rendere testimonianza su ciò che so dopo essere stato in questi ultimi anni al fianco di Fernando Rovira, leader di Pragma.”
Román si ferma, fa una breve pausa tra l’introduzione e quello che sta per dire. Poi, come se sapesse tutto a memoria, parte deciso:
“Si può arrivare alla politica per svariati motivi. Alcuni legittimi, altri meno. Anche per sbaglio, per inerzia, per non aver saputo dire di no. Perché ci si trova nel posto giusto al momento giusto. O nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Perché di qualcosa bisogna pur vivere, e questo era, per me, un motivo legittimo, allora, cinque anni fa...”.