24.
Eravamo d’accordo che la cosa migliore sarebbe stata che i nostri incontri sessuali avvenissero a casa dei Rovira. Ci fu un incontro preparatorio, fra noi tre, Rovira, Lucrecia e io, in cui ci accordammo su questo e altri dettagli del caso. Non ricordo di aver vissuto una situazione così imbarazzante in tutta la mia vita. Peggio ancora di quando me lo aveva proposto a Cariló. Allora potevo sorprendermi, arrabbiarmi, indignarmi, ma adesso no, mi trovavo lì perché avevo detto di sì, e questo cambiava tutto. Ne parlammo nella cucina di casa loro, nello stesso edificio di Pragma, ma con accesso esclusivo per la famiglia: una zona dello stabile dove fino a quel giorno non ero mai entrato e che, non lo avrei mai immaginato, di lì a qualche tempo sarebbe diventata anche la mia casa. Il percorso che facevo ogni giorno finiva in palestra, che costituiva il limite invalicabile tra gli uffici e la zona a uso esclusivo dei Rovira. La convocazione a quella prima riunione era di fatto un invito a colazione. Non c’era personale di servizio in vista, tanto da dare la sensazione che il caffè appena fatto nella caffettiera, il pane tostato ancora fumante, o la spremuta fresca che Fernando Rovira portava in tavola, fossero stati preparati da loro, cosa che mi risultava falsa, una spudorata messinscena. Ovviamente, era logico che, dovendo parlare di quello per cui eravamo lì, non ci fossero persone presenti, ma non capivo la pantomima della colazione preparata con le loro mani. Arrivati a quel punto era la cosa meno importante, tuttavia mi soffermai proprio su quel particolare: la falsità; me lo ficcai bene in mente, lo anteposi a qualsiasi altro pensiero, per non perdere di vista il vero motivo per cui mi trovavo lì.
Forse per loro, almeno per Lucrecia che sembrava un po’ inquieta, la finzione sortiva lo stesso effetto, dilatando il tempo e rimandando l’argomento che dovevamo affrontare, in attesa di trovare le forze sufficienti per farlo. Per le modalità del nostro incontro, sembrava estremamente difficile riuscirci. Risultava alquanto fuori luogo parlare del perché, del come e del quando dei nostri incontri sessuali, mentre Lucrecia Bonara spalmava la marmellata sul pane tostato e Rovira mi offriva la spremuta d’arancia. Se qualcuno avesse finalmente infranto l’equilibrio assurdo di quella farsa di colazione, quello non sarei stato certo io. Dovevano essere loro a fare la prima mossa. Ero alla loro mercé, si trattava delle regole di un gioco che gestivano loro ma al quale avevo accettato di giocare. Visto che mi sentivo condannato a farlo, non avevo via d’uscita. Allora, una volta che ebbi chiaro questo, mi versai il caffè, tentai di tenere a bada l’ansia o quantomeno finsi di fugarla, cercai di mostrarmi rilassato e mi disposi ad aspettare. Non so se fosse per l’atteggiamento mutato, o per il fatto che la mattinata scorreva o se semplicemente si trattò della scena successiva di un copione scritto da loro, ma mentre Rovira stava riempiendo per la seconda volta la sua tazza di caffè, qualcosa li indusse a rompere il ghiaccio. “Cominci tu o io?” chiese alla moglie. “Prego,” rispose lei. E lui cominciò. Buttò lì una frase, come introduzione.
“Il più naturale possibile.” Questa frase.
E poi continuò. Ribadì che era la sua priorità, e voleva metterlo in chiaro fin dall’inizio. Era assurdo, pretendere che una proposta come quella che mi stavano facendo fosse una cosa naturale. Ma Rovira parlava con tale calma, con tale convinzione, che a un certo punto mi assalì il dubbio che tutto ciò fosse meno strano di quanto apparisse a me. Forse ero troppo limitato, troppo conservatore, troppo inesperto. Forse la gente se la passava ad aiutare gli altri ad avere figli “naturalmente” e io non me ne ero mai accorto. Forse gli uomini e le donne condividevano con altri i corpi del proprio partner con maggiore frequenza di quanto supponessi. Ma tutto questo messo insieme, e con Rovira di mezzo, faceva aleggiare nell’aria una certa perversione palpabile. “Quasi come se nulla fosse. Non il rapporto sessuale, ovvio, ma la sostituzione. Vogliamo che tu sia me, non so se mi capisci.” No, non capivo, o preferivo non capire, e si vedeva. Rovira approfondì la spiegazione. “In un certo senso tu mi presti il tuo corpo, e quello che starà in quel letto sarò io, non tu. Va bene? Essenzialmente, una sostituzione del corpo, non dello spirito.” Mi sembrava incomprensibile, demenziale, non mi importava niente di ciò che potessero dire per giustificarlo. Volevano farlo e li avrei aiutati, ma non potevano pretendere che lo capissi. Da parte mia, volevo solo mantenere l’impegno prima possibile e non dovere niente a Fernando Rovira. Non c’era bisogno di capire. “È per questo che vogliamo che avvenga nel nostro letto, tra le nostre lenzuola, con il nostro odore, con le nostre energie che aleggiano nella stanza,” proseguì. Lucrecia annuiva, ma ogni volta che Rovira provava a darle la parola, preferiva che fosse lui a continuare. “Per esempio, a noi piace farlo con le candele che profumano di cannella, se non hai nulla in contrario le accenderemo come facciamo sempre. E con una luce tenue, calda, ci piace guardarci,” disse, e aspettò la mia risposta. Avrei preferito tacere, ma loro non lo avrebbero accettato, era evidente che pretendevano che stessi al gioco, e questo comportava recitare la mia parte del copione. La situazione mi sembrava insostenibile, non ero preparato ad accettare ciò che stavano proponendo come se fosse qualcosa di naturale. Feci uno sforzo; in fin dei conti, l’importante era concludere quanto prima quell’incontro. “Sì, sì, per me è uguale. Le candele che volete, la musica che volete.” Non erano d’accordo. “In realtà, non vorrei affatto che fosse uguale,” disse Rovira, per precisare subito dopo: “non ci piacerebbe, a nessuno dei due, vorremmo che fosse qualcosa di speciale anche per te. Dico bene, Lu?”. “Sì, certo,” rispose lei.
La conversazione era diventata un campo minato e io stavo purtroppo calpestando tutte le mine sparse.
“Non intendevo dire che per me fa lo stesso, non in senso negativo, ma mi va bene quello che va bene per voi, musica jazz, candele alla cannella, luce tenue, se è questo che volete, faremo così, piaceranno anche a me,” tentai di chiarire, e lo dissi persino con una certa enfasi, come per chiudere una volta per tutte quella faccenda dei dettagli. Poi mi affrettai a portare la conversazione su qualcosa di concreto lasciando da parte certe scempiaggini, e andai dritto su ciò che più mi preoccupava: “Quante volte dovremmo incontrarci? Perché nulla ci garantisce una gravidanza al primo… appuntamento”. Rovira e sua moglie si scambiarono uno sguardo. “Le volte necessarie, dovrai farlo quante volte saranno necessarie,” disse lui, in un tono più perentorio rispetto a quando parlava di corpo e spirito, non era proprio un ordine ma sanciva chi comandava e chi obbediva. Il padrone e lo schiavo, ricordai; il padrone che aveva bisogno dello schiavo persino per avere una discendenza. “Román, stai tranquillo,” disse lei, “io farò una stimolazione ovarica in modo da favorire l’ovulazione, e se possibile, varie volte.” “Questo comporta il rischio di una gravidanza multipla,” intervenne Rovira, “ma lo gestiremo bene, anche avere un paio di gemelli non ci sembra male.” “Inoltre misurerò la temperatura rettale ogni mattina prima di alzarmi per calcolare i giorni più probabili per l’ovulazione, sai di cosa si tratta, no?” Annuii, ovviamente non avevo la benché minima idea di quale rapporto vi fosse tra la temperatura rettale di Lucrecia Bonara e la sua ovulazione, ma non lo avrei ammesso, non intendevo fare domande su nient’altro che non fosse data e orario, e fine della questione. Fu Rovira a tornare sulla temperatura rettale: “Lei ti manderà un messaggio quando la temperatura comincerà a salire, cosa che indica l’inizio dell’ovulazione, da quel momento dovrai farlo per tre o quattro giorni per avere un certo margine di sicurezza. Se rimane incinta, bene, altrimenti, lo ripetiamo il mese dopo”. Quel “lo ripetiamo il mese dopo” mi rimase impresso in testa; solo sentendo quella frase presi coscienza del fatto che la cosa sarebbe potuta andare avanti per mesi. Suonò il cellulare di Rovira, gli ricordavano che era arrivata l’ora dell’appuntamento con Zanetti negli uffici di Pragma, e lui si scusò. “Voi restate pure, io devo andare a parlare di una cosa molto meno piacevole: consolidare l’appoggio economico per la prossima campagna.” Avrei fatto a cambio senza alcuna esitazione. “Magari Román ha ancora qualche dubbio da chiarire,” diede un bacio sulla fronte alla moglie e uscì.
La sua uscita di scena improvvisa mi costrinse ad aspettare un po’ prima di andarmene a mia volta. Si ripeté la situazione di Cariló, quando mi aveva lasciato da solo con sua moglie che prendeva il sole in bikini e lui era andato a fare un sonnellino. Mi chiedevo dopo quanto tempo sarei potuto uscire anch’io da quella porta, senza che lei mi considerasse un cafone e si offendesse un’altra volta. Mentre finivo il caffè, che ormai era freddo, non mi toglieva gli occhi di dosso. Alla fine disse: “Ti risulta orrendo, vero?”. Non risposi. Lucrecia attese un istante e quindi aggiunse: “A me è costato non poco. Non ti giudico. Poi ho capito. Anche se mi è costato fatica, come no. A volte si vive con troppi pregiudizi. Non è facile accettare che tuo marito ti offra a un altro uomo. Fernando è riuscito a convincermi. Ogni tanto mi tornano i dubbi. Ma è ricorso a un argomento inconfutabile: ‘quale maggior rispetto si potrebbe dimostrare a una donna che non sentirsi padrone del suo corpo’. E ha ragione, no?”. Si accese una sigaretta, fece un paio di tiri e continuò. “Bisogna farlo. Sono giunta a questa conclusione vincendo i miei pregiudizi, perché è necessario farlo. E deve essere così, come se ci fosse lui, nel pieno senso del termine, senza che si perda l’anima nell’atto di concepire nostro figlio. Immagino quanto sia stata dura per Fernando accettare che non può farlo, che il suo corpo abbia un difetto. Lui, che può tutto.” Lucrecia Bonara fece una pausa, le si colmarono gli occhi di lacrime, e credo fosse un sentimento genuino. Quando fu sicura di trattenersi dal piangere, continuò. “Ci sono due beni supremi di cui tenere conto: prenderci cura di nostro figlio e proteggere Fernando. Questo è imprescindibile. Nostro figlio, facendo sì che nasca da un atto puro, e Fernando, facendo in modo che nessuno sappia della sua infertilità.” Mi colpì che Lucrecia definisse come atti puri i nostri incontri sessuali pattuiti. E che non includesse lei e me tra le persone da proteggere. Come se, in qualche modo, fossimo noi due i più forti. O quelli che rivestivano il ruolo più importante. O quelli di cui non importava niente a nessuno. “Quello che faremo, per me è un atto di amore in molti sensi, nei confronti di Fernando, del figlio che verrà, e anche nei miei riguardi. E nei tuoi, Román, questo per noi è anche un atto di amore verso di te.” Fece un’altra pausa, non aveva ancora finito e si preparava, o preparava me, a quello che stava per dire. “Ecco perché non abbiamo mai parlato con te di soldi, perché ci è sembrato che non solo sarebbe stato umiliante ma avrebbe anche dissipato tutta la buona energia che ci stiamo mettendo per concepire nostro figlio. Capisco che tu forse ti aspettavi…” La interruppi: “No, per favore, non lo farei mai per i soldi. Assolutamente. Lo faccio perché…” Rimasi senza parole. “Perché lo fai?” mi incalzò lei, facendo un passo verso di me. Si avvicinò così tanto che sentii il suo respiro sul mio viso, l’odore della sigaretta che stava fumando. “Per quello che hai appena detto, perché è ciò che bisogna fare,” risposi, e mi ritrassi con la scusa di riprendere quel poco che mi ero portato, il cellulare e la cartellina che neanche sapevo cosa contenesse. Poi mi scusai: “Perdonami, si è fatto tardi. Ci vediamo quando mi avvisi tu, restiamo d’accordo così”. Lucrecia non aggiunse niente, e mi salutò con un sorriso che mi parve amaro. Temevo di averla nuovamente offesa. Ma avevo fatto anche troppo per loro. Cos’altro volevano da me?
Alla fine avremmo avuto cinque incontri. Due prima di quello che lei definì “il picco ovulatorio”, uno nel giorno del picco e altri due dopo. Come avevamo stabilito, lo facemmo nella camera matrimoniale dei Rovira, nel loro letto, tra le loro lenzuola, con le candele alla cannella accese e musica strumentale di sottofondo, di quelle che si ascoltano spesso nelle sale d’aspetto degli ambulatori medici, una musica alquanto neutra che mi chiedevo se l’avesse scelta lei o lui. Ripetemmo lo stesso meccanismo tutte e cinque le volte. O quasi. Mi presentavo a casa, Fernando Rovira mi accompagnava sulla soglia della camera, apriva la porta e mi faceva cenno di entrare. Lucrecia era già lì. Lui, senza neanche gettare un’occhiata nella stanza, mi lasciava il passo e richiudeva la porta dietro di me. Una volta rimasti soli, ci salutavamo appena, con un cenno o uno sguardo, poi mi spogliavo e mi avvicinavo al letto, Lucrecia mi aspettava sdraiata sopra le lenzuola, indossava soltanto una vestaglia di seta che si slacciava quando mi adagiavo accanto a lei. Le montavo sopra, con cautela, quasi chiedendole il permesso, lei mi cingeva con le braccia, non era esattamente un abbraccio o una carezza, diciamo che mi sosteneva sul suo corpo. Ma sentire le sue mani sulla schiena era l’atto che mi univa a quella donna, il contatto più genuino, il più vero. Quando ci eravamo accomodati in quella posizione, mi sfregavo su di lei fino a raggiungere l’erezione. Non ci baciavamo, ma i nostri volti si sfioravano con i movimenti, respiravamo vicini uno all’altra, sentivamo i nostri odori, pur ignorando qualsiasi altra cosa che non fosse mirata alla procreazione. Quando avvertivo che l’erezione era sufficiente, le chiedevo: “Posso?”. Lei non rispondeva, si limitava ad aiutarmi a entrarle dentro. Guidava il mio pene con la mano. La penetravo, ci muovevamo per un po’ allo stesso ritmo, senza dire una parola, nessun gemito, finché eiaculavo. Dopo essere venuto, non mi concedevo neppure un attimo sopra il suo corpo né al suo fianco. Mi alzavo subito e andavo in bagno. Lucrecia rimaneva sul letto. Mi guardava mentre mi rivestivo. La prima volta chiarì: “Devo rimanere in posizione orizzontale per qualche minuto, affinché sia più efficace”. Fu l’unica volta che disse qualcosa. Potrei giurare che ogni amplesso su quel letto sia stata l’esatta replica del primo.
Finché ci fu il quinto incontro. Prima, le altre quattro volte, a parte un giorno in cui mi sembrò che per un attimo mi accarezzasse i capelli, erano state una sorta di pratica da sbrigare. E in silenzio. L’ultimo giorno, invece, qualcosa cambiò. Me ne accorsi quando entrai. Non stava sopra le lenzuola ma sotto, nuda. Era evidente che era nuda perché la vestaglia di seta giaceva ai piedi del letto. Feci come sempre, mi spogliai e mi avvicinai. Esitai, indeciso se aspettare che fosse lei a scoprire il lenzuolo o se dovessi farlo io. Lucrecia Bonara sollevò il lenzuolo dalla mia parte, dove me ne stavo ancora in piedi, e mi fece cenno di infilarmi sotto. Poi tirò il lenzuolo coprendo non solo i nostri corpi ma anche le teste. E a quel punto, si trasformò in un’altra. Si mise sopra di me e mi baciò. Cercò la mia bocca affannosamente. Più volte. La sua lingua era irrefrenabile. Si scostava un istante, mi guardava negli occhi, e poi riprendeva a baciarmi. Prese a strofinare il ventre sul mio pene eretto che cercava di penetrarla. Non capivo cosa dicesse però parlava, emetteva fruscii, gemeva. Nonostante i miei tentativi, non mi lasciò entrare in lei finché non finì. Lo fece gradualmente, come se una volta sola non le bastasse, come se lasciandosi andare a quel modo, le restasse ancora qualcosa da esprimere. E infine, si fermò. Rimase immobile per un po’, sopra di me, raccogliendo le forze per il gesto successivo. “Stavolta sì che è stato naturale,” sussurrò. Ero tentato di abbracciarla, di passarle le mani sulla schiena, sul culo, di accarezzarla tra le gambe. E invece, niente di tutto questo. Rimasi a braccia distese, morte, abbandonate come non avrebbero dovuto essere. E con il pene ancora eretto. Non sapevo cosa potevo fare e cosa no. E avrei voluto farle di tutto. Lucrecia, dopo qualche istante di silenzio, si mise al mio fianco, mi invitò a montarle sopra, scostò le lenzuola e disse: “Adesso sì, adesso scopami come vuole lui”, facendo un cenno del capo per indicare un punto della parete di fronte a noi. In quel momento mi resi conto che in quei giorni, mentre stavo a letto con Lucrecia Bonara, scopando per farla rimanere incinta, Fernando Rovira ci osservava. Mentre la penetravo per la quinta volta, ora sapendolo, mi chiedevo dove fosse piazzata la telecamera, da quale luogo dell’edificio ci spiasse, e se lo faceva sul cellulare o su uno schermo gigante, se si limitava a guardarci o se si masturbava. Lo detestavo, provavo schifo per Fernando Rovira. Pensavo che Lucrecia aveva ragione, quella situazione era orrenda. Temevo che stavolta l’erezione se ne andasse prima di riuscire a finire. Invece, con mia sorpresa, ero più eccitato che mai. Quella quinta volta scopai la moglie di Rovira come non lo avevo fatto prima, la penetrai con un desiderio fino a quel momento sconosciuto. Prima di venire rimasi dentro di lei più che potei, muovendomi in su e in giù, facendola venire un’altra volta, o illudendomi che così fosse. Finché mi lasciai andare, svuotato, esausto.
Poi, lo stesso copione di sempre. Andai in bagno, mi rivestii, lei rimase a letto, senza muoversi. E uscii. Camminando lungo i corridoi verso l’uscita, lo stordimento si mescolava al timore di incontrare Fernando Rovira e rischiare che finisse a botte. Perché oltre a sentirmi frastornato, temevo che anche lui volesse prendermi a pugni, proprio come me, che avrei voluto spaccargli la faccia. Non accadde nulla di tutto questo. Lucrecia non la rividi nei giorni successivi. Rovira sì, per motivi di lavoro. Ovviamente, nessuno dei due accennò a qualsiasi cosa che riguardasse il nostro patto, e lui manteneva una certa distanza, anche se in alcune occasioni si dimostrò aggressivo. Quando stava per passare un mese dal primo tentativo di fecondazione, cominciai a pensare che avrei ricevuto un messaggio per ripetere gli incontri. Ma non arrivò. Immaginai che, forse, il nostro patto fosse scaduto, che il quinto incontro, chissà, avesse indotto Fernando a rivedere la faccenda, magari non gli sembrava più così naturale che qualcuno lo sostituisse a letto scopandosi la moglie. Cercai di convincermi che la questione fosse finita lì. Io avevo fatto la mia parte e nessuno reclamava. Ma l’inquietudine non cessava.
Fu solo tre mesi dopo che Rovira ci convocò a una riunione nel suo ufficio, a cui partecipavano vari membri di Pragma, non solo noi del GAP. C’era anche Sebastián Petit, e persino la sua segretaria. E pure Arturo Sylvestre, che tecnicamente non faceva parte di Pragma. Ci fecero accomodare nella sala d’aspetto dell’ufficio di Rovira, per qualche minuto. Ignoravamo il motivo della riunione, compreso Sylvestre, che sembrava infastidito nel ritrovarsi in mezzo a tutti noi, senza privilegio alcuno: “Non dev’essere qualcosa che riguarda la campagna, altrimenti lo avrei saputo prima di chiunque altro”. Un cameriere venne a servire lo champagne, e con la coppa in mano, uno dopo l’altro entrammo nell’ufficio di Fernando Rovira. Dentro c’erano lui e sua moglie, ad accoglierci, anche loro con una coppa di champagne in mano. Sorridevano. Una volta che fummo tutti riuniti, Rovira levò in alto la coppa. “Vi ruberemo solo pochi minuti. Voi siete le persone che sento più vicine alla nostra famiglia e volevamo dirvelo prima che lo venga a sapere la stampa.” Rovira guardò la moglie, appoggiò l’altra mano sul suo ventre, e disse:
“Lucrecia è incinta, diventeremo genitori. Ne siamo molto felici”.
La maggior parte dei presenti reagì con sorpresa e allegria. A me si chiuse lo stomaco. Il fatto che Lucrecia Bonara fosse incinta significava, indubbiamente, che ero libero dal patto stipulato con loro. Ma che me lo annunciassero assieme a tutti gli altri mi ferì. Era come se il Román Sabaté che li aveva aiutati a concepire quel figlio e quello che stava brindando con gli altri non fossero la stessa persona. Peggio ancora, era come se quell’altro Román Sabaté fosse scomparso, o addirittura mai esistito.
“Salute,” disse Rovira, e levò la coppa invitando al brindisi. “Salute,” risposero alcuni.
E tutti brindammo.