12.
È già andata dal verduraio e dal droghiere. Le rimane la macelleria, ma lì ci andrà domani. Perché lei mangia anche la carne, poca, e non lo dice, si dichiara vegetariana, però la mangia. L’anemia mediterranea che le hanno diagnosticato tanto tempo fa, con la prima gravidanza, la costringe a mangiare certi tipi di carne, altrimenti resterebbe con meno globuli rossi dei pochi che ha ancora in corpo. Deve anche passare a prendere l’avena e i semi di chia nel negozio naturista. Se non avesse un’avversione per i supermercati potrebbe comprare tutto in un solo posto, o al massimo in due, se nel primo non trovasse i prodotti più sofisticati. Preferisce, senza dubbio, fare il giro dei piccoli negozi piuttosto che doversi infilare in uno di quei mostri anonimi, privi di identità, così diversi rispetto al trattamento gentile che riceve dal proprietario di una bottega. L’ultima volta che era andata in un supermercato, solo perché pioveva e lì avrebbe trovato quello di cui aveva bisogno senza dover vagare da un posto all’altro, si era dimenticata gli occhiali a casa. Aveva frugato più volte nella borsa, più per disperazione che per la speranza di trovarli, ricordava perfettamente di averli lasciati accanto al telefono dopo aver fissato un appuntamento a una donna che avrebbe visto per la prima volta. Nonostante si fosse recata nella zona più illuminata, non riusciva a leggere una sola etichetta su barattoli e confezioni. La cosa più grave non era questa, ma l’angoscia che la pervadeva con il trascorrere del tempo, speso a cercare un essere umano che lavorasse lì e fosse disposto ad aiutarla, senza trovarne uno. E neppure qualche cliente dotato di una vista migliore, era l’ora della siesta e fuori pioveva a catinelle. Andò alla cassa, si fermò tremante e agitò il barattolo di pomodori che aveva in mano. Ma la cassiera non interruppe ciò che stava facendo, neanche per rivolgerle un’occhiata, finché Irene scoppiò a piangere. Piangeva e singhiozzava. “Che le prende, signora?” chiese il responsabile, che si avvicinò alla cassa per capire cosa stesse succedendo. Lei non riusciva a rispondere. “Non riesce a leggere l’etichetta dei pomodori pelati,” disse la cassiera, che evidentemente aveva udito il suo primo reclamo per poi disinteressarsene. Allora Irene, di fronte alle facce di quei due che non capiva se la prendevano in giro o provavano pena, ma in ogni caso poco le importava ormai, lasciò lì la spesa e persino l’ombrello che aveva posato nel carrello, e uscì sotto la pioggia a piangere in solitudine. Non sarebbe più tornata in un supermercato. Per nessun motivo al mondo. E non avrebbe più dimenticato gli occhiali a casa. Adesso fa acquisti solo dove dall’altra parte del bancone c’è una persona, un essere vivente con cui poter parlare di quale sia il formaggio migliore, del prezzo dei cuori di palma o di quanto piove. Le importa ben poco che le sue amiche, le sue allieve – o dovrebbe dire le sue pazienti? O seguaci? O clienti? – o i suoi familiari tentino di convincerla che non le è successo nulla di grave e comunque farebbe bene a superare il trauma perché “presto i piccoli negozi scompariranno e dovrai fare un sacco di strada da una parte all’altra per comprare un chilo di patate e mezza dozzina di uova”. Quando saranno scomparsi ci penserà, nel frattempo, non se ne parla.
Entra in casa passando dal garage, che da quando abita lì non è più un garage ma la sala dove due insegnanti danno lezioni di yoga, eutonia e pilates. Si congratula con se stessa per aver deciso di usarlo in quel modo: una sala davanti per le lezioni e il suo consultorio dietro. Questa distribuzione degli spazi la fa sentire protetta. Lei lo sa. È un bene che vi siano altre attività in casa. Per evitare di avere addosso tutti gli sguardi. Come le succedeva quando era piccola, dopo l’episodio con la maestra. La sua insegnante, in quarta elementare, era rimasta attaccata a un cavo elettrico che percorreva la parete di fianco alla lavagna. La donna si contorceva sul pavimento attaccata a quel filo elettrico che si era staccato dal muro. Gli alunni riuscivano solo a strillare. Irene si era avvicinata e le aveva messo una mano sulla fronte. Chiunque abbia un minimo di conoscenze in materia direbbe che la bambina sarebbe dovuta rimanere attaccata alla maestra finendo entrambe uccise dalla corrente. E invece no. Toccandola, la donna aveva fatto un movimento brusco e, mistero, si era staccata dal cavo. Subito dopo erano entrate altre insegnanti e la direttrice, attirate dalle urla. I bambini dicevano tra le lacrime: “Irene ha salvato la signorina, Irene ha salvato la signorina”. Qualche tempo dopo, un pomeriggio all’ora del tè, la maestra si era presentata a casa della sua alunna. C’era andata per ringraziarla, ma anche per presentarle “un’amica d’infanzia che purifica le aure”. Le due donne avevano parlato con la madre di Irene per convincerla che la bambina possedeva un dono naturale che occorreva preservare. Si misero d’accordo che la purificatrice di aure venisse da loro ogni settimana per istruire Irene su quella tecnica. Il padre era in viaggio e una volta tornato le sue proteste erano servite a ben poco. Qualche settimana dopo ripartì e si dimenticò della questione. Almeno per il momento.
Pur essendo ancora una bambina, Irene sapeva purificare le aure, fare massaggi per curare l’imbarazzo di stomaco e altri malanni, ma soprattutto, riequilibrare l’energia. Dicono che fosse stato quello a salvare la maestra, praticamente le aveva riequilibrato l’energia con la sola imposizione della mano. L’infanzia di Irene fu alquanto turbata non solo dalle visite dell’insegnante e della sua amica, che dopo averla istruita su come purificare le aure erano passate ad altre tecniche di “sanazione”, ma anche da quanti si rivolgevano a lei per essere aiutati. Quella paterna era una tradizionale famiglia di San Isidro, suo padre lavorava in un ufficio notarile, e la concretezza dell’attività burocratica quotidiana era alquanto in contrasto con le pratiche quasi “magiche” di sua figlia, nelle quali non credeva minimamente. Allo scopo di salvare il matrimonio ed evitare che la famiglia si sfasciasse, decisero di dimenticare per sempre i supposti poteri di Irene e trasferirsi a Mar del Plata, cominciare una nuova vita là, dove nessuno sapeva del suo dono. In famiglia nessuno parlò più delle sue mani miracolose, di quella maestra, dell’energia, e nemmeno di elettricità e tantomeno di decessi per scariche elettriche. Se un fulmine cadeva in mare, guardavano da un’altra parte. Fu una buona decisione, Irene visse un’adolescenza quasi normale, poi si sposò, ebbe due figli, e nulla al mondo l’avrebbe convinta a riprendere a usare il proprio dono per ripristinare l’equilibrio energetico, se non fosse stato che suo marito l’aveva abbandonata quando i figli andavano ancora alle elementari. Tutto quello che lei aveva ereditato dai genitori, lui lo aveva investito in affari fallimentari, senza poi neanche discolparsi. Una sera fredda e ventosa si era preso l’auto lasciandola da sola in quella casa minata da debiti e ipoteche. Irene non aveva mai lavorato per guadagnarsi da vivere, si era dedicata a tirare su i figli, fare yoga, corsi di reiki, leggere Krishnamurti e Louise Hay. Come unica via di uscita, non le venne in mente altro che tornare a ciò che le veniva bene: riequilibrare l’energia della gente. E fu la miglior decisione che potesse prendere. Nel giro di poco tempo si sparse la voce, ogni persona ne portava un’altra, e usando le sue mani poteva mantenersi e non far mancare nulla ai figli. Finché un giorno, tanti anni dopo, quando loro erano ormai cresciuti e viveva da sola, sentì che due vicine si riferivano a lei chiamandola “la strega”. Irene, sorpresa e indignata, lo riferì a un’amica, che dopo vari giri di parole aveva confessato che, effettivamente, la chiamavano così non solo quelle due vicine ma praticamente l’intero quartiere Los Troncos: “La strega di Los Troncos”. La gente è molto ignorante, pensò. Quello che non riesce a capire, lo trasforma in una religione o lo disprezza. Non c’è via di mezzo. E a lei non piaceva essere disprezzata. Ancora una volta, come avevano già fatto i suoi genitori, decise che la cosa migliore fosse trasferirsi altrove. Perché restare in quella città ventosa dove si moriva dal freddo in inverno mentre d’estate se ne stava chiusa in casa trovando insopportabile l’invasione dei turisti? Scartò San Isidro, perché lì avrebbe potuto imbattersi nei vicini della sua infanzia, e scelse Adrogué, una città che, dopo una breve visita, le sembrò la più simile a quella dove era nata, però nella zona meridionale. In quel luogo avrebbe potuto essere una qualsiasi abitante dotata di una certa eleganza. Con la sua silhouette stilizzata che suscitava invidia essendo una donna di oltre sessant’anni, i modi aggraziati, indossava solitamente jeans scuri e attillati, impeccabili camicette bianche e scarpe basse. E poi il taglio di capelli a la garçon, che aveva adottato poco prima di trasferirsi lì, una pettinatura che le sarebbe valso il soprannome con cui ora tanti la conoscono, un bel passo avanti al confronto della “strega” di allora: “La Francese”. Molti pensano addirittura che lo sia; lei lo lascia credere e quando dice il proprio nome, a volte, a seconda di chi abbia davanti, lo pronuncia come suppone debba essere in quella lingua, accentuando la erre fino a ottenere: Igréne.
Comunque, non era disposta a smettere di fare ciò che le veniva così bene. Quando aveva salvato la maestra, e nonostante quello che sostenevano quanti le stavano intorno, Irene, ancora una bambina, era assolutamente convinta che fosse stato un malinteso, probabilmente quella donna aveva mollato il cavo elettrico in qualche modo, o il cavo si era staccato da lei per chissà quale legge dell’energia elettrica che ignorava e ignora tuttora. Ma aveva finto di credere nei propri poteri al pari di quanti le stavano vicino, per non doverli deludere: la maestra, la mamma, i compagni di scuola, la donna che le insegnava a purificare l’aura. Lei e suo padre erano gli unici a mantenere il segreto. Se tutti volevano credere che era stata Irene a salvarla, bene, contenti loro, non li avrebbe smentiti. Tuttavia, il tempo passò, suo padre morì, e dopo tanti anni e tanta gente a cui aveva prestato attenzione, anche lei aveva finito per convincersi che il dono stesse lì, nelle sue mani. Lo poteva constatare in quanti le facevano visita, nei cambiamenti che si manifestavano in loro, l’aveva visto troppe volte per non doverci credere. Comunque, lei non è una strega, è tutt’altro. Lei possiede un dono. Per evitare che qualcuno ricadesse in quell’equivoco, quando fece l’ultimo trasloco ad Adrogué, in quello chalet piccolo ma grazioso che l’aveva aiutata ad acquistare suo figlio, la prima cosa che verificò fu che la casa avesse lo spazio sufficiente per tenere lezioni su qualcosa che avesse a che fare con la salute fisica ed emozionale. Qualche terapia comunemente accettata – persino dai più scettici –, pratiche ancestrali che vanno di moda tra le persone moderne e cool: yoga, meditazione, eutonia, controllo mentale, esercizi di respirazione, tai chi. Tutto ciò che le consentisse di utilizzare le sue doti in un settore ristretto e, in qualche modo, rispettato.
Accende le luci di casa. La notte l’ha colta di sorpresa nel mezzo di tutte queste elucubrazioni. Mette le margherite bianche nei vasi di cristallo lavorato, regali di nozze che conserva ancora intatti malgrado gli anni e il trasloco – i vasi dei fiori durano molto di più di un matrimonio. Non accende un bastoncino di sandalo perché a lui non piace, oggi si limita a spruzzare un po’ di lavanda che ha comprato in farmacia – dopo una discussione riguardo il sandalo – un aroma che piace anche a lei, deve ammetterlo. Come al solito, non sa se lui si fermerà a cena. Va sempre così di fretta. Nel dubbio, ha qualcosa nel congelatore. Ciò che conta è riequilibrarlo, far circolare l’energia, sbloccarlo. E chiacchierare. L’ordine e l’intensità di ciascuna azione dipenderanno da come lo vedrà. Guarda l’orologio, non manca molto, lui non arriva mai finché c’è troppo viavai per le strade, comunque è abbastanza tardi, la gente del quartiere se ne sta in casa, a mangiare o già a dormire. Non usa la sua auto. Le ha raccontato che fa il cambio pochi chilometri prima, quando esce da Camino Negro. Sale su un’auto più piccola, blu, che non attira l’attenzione, seguito dalla sua guardia del corpo, che sale sulla propria auto per proteggerlo a distanza. Non è bene che qualcuno possa scorgere l’auto di Fernando Rovira parcheggiata davanti a una sede di corsi di yoga e roba del genere ad Adrogué, una volta alla settimana. O almeno è quello che secondo lui gli hanno raccomandato i suoi consiglieri. A lei non piacciono i suoi consiglieri, men che mai Arturo Sylvestre: una volta gli ha misurato l’energia e quello emanava una negatività tra le più intense che avesse mai sentito in vita sua. Ma Fernando dice che per certe mansioni l’energia negativa può tornare utile, purché non la usi contro di lui, e i fatti dimostrano quanto Arturo Sylvestre lo abbia aiutato a consolidare la sua carriera politica. “Le evidenze sono circolari,” aveva tentato di spiegargli, “ciò che oggi ti sembra un aiuto domani potrebbe risultare una condanna.” Non le ha dato retta, Fernando è cocciuto, lei lo sa bene, nonché presuntuoso, crede sempre di avere la verità in tasca anche quando il mondo intero e i pianeti dicono il contrario.
Fernando Rovira arriva finalmente alle dieci e venti. Le da un bacio, si allenta il nodo della cravatta e senza che nessuno dei due dica niente, si siede subito davanti a lei, al tavolo usato da Irene per le sedute. La guarda negli occhi e dice:
“Si è portato via il bambino”.
“Chi?”
“Román, è sparito da stamattina con Joaquín.”
Irene si porta la mano alla bocca e si massaggia le labbra e il mento da una parte all’altra, come fa di solito quando qualcosa la preoccupa e ha bisogno di pensare prima di parlare. Alla fine dice:
“Lascia che per prima cosa verifichi come sta Joaquín”.
Prende dal cassetto del tavolo una figurina di cartone che rappresenta il profilo di un bambino, solo il contorno, in nero, senza alcun dettaglio specifico. E una catenina d’argento con una pietra verde come pendaglio. Irene la sistema sulla figurina, sostiene le due estremità con la mano destra mentre la pietra oscilla come un pendolo. Avvicina la pietra all’immagine stilizzata del bambino, aspetta che la mano sia ferma; la catena regge un pendolo inerte. Nessun movimento, è perfettamente perpendicolare. I due aspettano in silenzio, come se il mondo si fosse fermato. Un peso morto, immobile. Con il trascorrere dei secondi Fernando Rovira sembra sempre più preoccupato. Anche Irene. Finché la pietra, finalmente, comincia a muoversi a piccoli cerchi, in senso orario. Lei tira un sospiro di sollievo. Rovira allenta ancora di più il nodo della cravatta.
“Sta sicuramente dormendo,” dice lei.
E subito sposta il braccio percorrendo i vari punti del corpo del bambino: il tronco, una gamba, l’altra, un braccio, l’altro, ancora il tronco, la testa. Mentre lo fa, la catenina continua a descrivere piccoli cerchi in senso orario. Quando finisce di percorrere il corpo dice:
“Sta bene, puoi stare tranquillo, per ora è la cosa più importante”.
Irene rimette la figurina nel cassetto e ne prende una simile che rappresenta un uomo adulto.
“Vediamo come sta Román.”
Il pendolo riprende a girare in senso orario. Ma a differenza di prima, adesso si muove subito e a una velocità maggiore.
“Lui sta bene. Anche se è agitato, ansioso.”
“Bloccalo,” dice Fernando Rovira con il tono prepotente di chi impartisce un ordine e si aspetta che venga eseguito.
“Lui no,” risponde Irene, sostenendo il suo sguardo.
“Perché?” domanda Rovira.
“Credo che non ci convenga,” risponde lei.
“Ti ho detto di bloccarlo, mamma.”
Lei ferma il pendolo, lo posa di lato, guarda il figlio, e l’espressione seria si addolcisce:
“Sai una cosa? Se vogliamo che quel ragazzo si prenda cura di Joaquín abbiamo bisogno che sia nel pieno dell’energia”.
“Devo fermarlo, la mia priorità è questa.”
“Fallo cercare dalla polizia, sguinzaglia quelli che lavorano per te o ingaggia chi sa come risolvere questi casi. Vargas deve sapere cosa fare, chiamalo e sistema la faccenda con lui, ma bloccare l’energia a Román può mettere in pericolo Joaquín e non voglio correre un rischio simile.”
Fernando non è d’accordo. I due si fissano senza abbassare mai lo sguardo. Come se fosse un duello. Non battono ciglio. Alla fine lei allunga la mano e la posa su quella del figlio.
“Fidati di me, non conviene. Non conviene a Joaquín e nemmeno a te.”
Rovira ne dubita, non sopporta di dover aspettare senza fare niente. Entrambi restano in silenzio. Poi mette la mano su quella della madre e annuisce. Lei sorride sollevata e aggiunge:
“Adesso lasciami vedere come stai tu”.
Stavolta non usa il pendolo. Ricorre al metodo che riserva a pochi: si avvicina al figlio, prende una sedia e si siede accanto a lui. Gli mette la mano sulla fronte, chiude gli occhi e cerca di riequilibrare la sua energia, di purificare l’aura. La stessa cosa che aveva fatto con la maestra. Qualche istante dopo ritira la mano, apre gli occhi e dice:
“Sei molto teso”.
“Per forza, mamma.”
“Lascia che mi prenda cura di te. Lascia che ti liberi da ogni maledizione.”
Fernando Rovira appoggia la testa sul grembo di sua madre, che lo accarezza.
“Te l’avevo detto che dovevi liberarti di Román subito e per sempre.”
“Io non sono un assassino, mamma.”
“No, non lo sei. Nessuno muore o uccide alla vigilia di qualcosa.”