51

Pauling e Reacher passarono di nuovo dalla cioccolateria e si ritrovarono in strada prima delle otto e trenta del mattino. E prima delle nove erano di nuovo nell’ufficio di lei in West Fourth Street.

«Adesso abbiamo bisogno di Brewer», disse Reacher. «E di Patti Joseph.»

«Brewer dorme ancora», rispose Pauling. «Lavora fino a tardi.»

«Oggi inizierà presto. Dovrà muovere il culo, perché ci serve un’identificazione certa del corpo ritrovato nell’Hudson.»

«Di Taylor?»

«Dobbiamo avere la certezza che sia lui. Sono sicuro che Patti abbia una sua foto. Scommetto che ha fotografato chiunque sia entrato o uscito dal Dakota. Se gli desse una foto chiara, nitida, Brewer potrebbe andare all’obitorio e identificarlo per noi.»

«In questo caso Patti non è la nostra migliore alleata. Vuol far fuori Lane, non aiutarlo.»

«Non lo stiamo aiutando, lo sai.»

«Non credo che Patti colga la differenza.»

«Tutto quello che vogliamo è una misera foto. Fin lì può arrivare.»

Così Pauling chiamò Patti Joseph e lei confermò di avere un dossier di fotografie di tutti gli uomini di Lane, risalente a quattro anni prima, quando si era trasferita nell’appartamento del Majestic. All’inizio fu riluttante a fornire il materiale ma, quando capì che l’identificazione del corpo di Taylor avrebbe messo sotto pressione Lane, direttamente o indirettamente, acconsentì a mettere da parte per Brewer la migliore inquadratura frontale dell’uomo. Poi Pauling chiamò Brewer e lo buttò giù dal letto. Lui reagì male, ma acconsentì a passare a prendere la fotografia. Era motivato anche da interesse personale: l’identificazione di uno sconosciuto morto per cause ignote gli avrebbe fatto guadagnare un po’ di punti al dipartimento.

«E adesso?» chiese Pauling.

«Adesso facciamo colazione», rispose Reacher.

«Ne abbiamo il tempo? Lane aspetta un nome oggi.»

«Oggi dura fino a mezzanotte.»

«E dopo colazione?»

«Forse vorrai farti una doccia.»

«Sono a posto. Quello scantinato non era così terribile.»

«Non pensavo allo scantinato. Pensavo che potremmo prendere caffè e croissant e portarli da te. L’ultima volta che siamo stati là abbiamo finito per farci una doccia.»

«Capisco», esclamò Pauling.

«Solo se vuoi.»

«Conosco un posto dove hanno dei croissant fantastici.»

Due ore dopo Reacher si stava asciugando i capelli con un asciugamano preso in prestito, chiedendosi se fidarsi di una sensazione. In genere, non amava molto le sensazioni. Troppo spesso erano ipotesi approssimative che facevano solo perdere tempo e non portavano da nessuna parte. Pauling uscì dalla camera: era splendida. Scarpe, calze, gonna stretta, camicetta di seta, tutto nero. Si era pettinata e messa un po’ di trucco. Aveva due occhi fantastici, schietti, sinceri, intelligenti.

«Che ora è?» chiese.

«Le undici e tredici», rispose Reacher. «Prendere o lasciare.»

«Prima o poi mi dovrai spiegare come fai.»

«Se mai lo capirò, sarai la prima a saperlo.»

«È stata una lunga colazione», osservò Pauling, «ma divertente.»

«Anche per me.»

«Adesso che facciamo?»

«Potremmo pensare al pranzo.»

«Non ho ancora fame.»

«Potremmo saltare la parte riguardante il cibo.»

Pauling sorrise.

«Dico sul serio», affermò. «Abbiamo cose da fare.»

«Possiamo tornare nel tuo ufficio? Voglio controllare una cosa.»

Barrow Street era tranquilla, mentre West Fourth Street era già invasa dalla prima ondata di persone in pausa pranzo. I marciapiedi erano gremiti. Reacher e Pauling dovettero seguire il flusso, a un passo più lento del dovuto, ma non avevano alternative. Nel traffico pedonale si creavano ingorghi come in quello automobilistico. Anziché cinque minuti ne impiegarono dieci. Il portone del palazzo in cui si trovava l’ufficio di Pauling era già aperto. Gli altri uffici avevano già iniziato l’attività da ore. Reacher seguì Pauling su per le scale, le aprì la porta ed entrarono nella sala d’attesa. Reacher andò dritto nella stanza posteriore in cui si trovavano scaffali e computer.

«Che cosa vuoi controllare?» domandò Reacher.

«Prima l’elenco telefonico», rispose Pauling. «La T per Taylor.»

Lei prese le Pagine bianche dalla mensola e le aprì sulla scrivania. C’erano parecchi Taylor. Era un cognome piuttosto comune.

«Le iniziali?» chiese.

«Non ne ho idea», ammise Reacher. «Parti dagli indirizzi. Cerca gli uomini residenti nel West Village.»

Pauling circoscrisse l’area con una visione da agente immobiliare ottimista e fece alcuni segni a matita sul margine dell’elenco. Trovò sette possibilità. West Eighth Street, Bank, Perry, Sullivan, West 12th, Hudson e Waverly Place.

«Inizia da Hudson Street. Usa lo stradario e scopri in quale isolato abita.»

Pauling aprì lo stradario sopra l’elenco telefonico, collocandone il margine superiore sotto il nome del residente di Hudson Street. Lo sfogliò e rintracciò numero e isolato.

Alzò lo sguardo.

«È proprio a metà tra Clarkson e Leroy», affermò.

Reacher non replicò.

«Che significa?»

«Secondo te?»

«L’uomo senza lingua conosceva Taylor? Viveva con lui? Lavorava con lui? Lo ha ucciso?»

Reacher continuò a tacere.

«Aspetta», continuò Pauling. «Taylor era il contatto all’interno, vero? È stato lui a rubare le chiavi di riserva. Ha fermato l’auto davanti a Bloomingdale proprio dove voleva l’altro. Il sequestro ti aveva sempre lasciato perplesso. È l’unico modo in cui possa aver funzionato.»

Reacher tacque.

«È davvero Taylor quello nel fiume?» chiese ancora Pauling.

«Lo sapremo non appena Brewer chiamerà.»

«Il porticciolo è molto a nord rispetto al centro. E il centro è la zona in cui sembra svolgersi tutta l’azione.»

«L’Hudson è soggetto alle maree fino al Tappan Zee. Tecnicamente è un estuario, non un fiume. Un corpo potrebbe essere spinto verso nord quanto verso sud.»

«Che significa tutto questo?»

«Che lavoriamo attentamente sui dettagli e analizziamo gli indizi, questo significa. Seguiamo la via più dura, un passo alla volta. Il prossimo sarà fare un salto a casa di Taylor.»

«Adesso?»

«Adesso è un buon momento.»

«Riusciremo a entrare?»

«Perché non dovremmo?»

Pauling prese un foglio, copiò G. Taylor e l’indirizzo dell’elenco telefonico. «Mi chiedo per cosa stia G.»

«Era britannico, non dimenticartelo», osservò Reacher. «Potrebbe essere Geoffrey. O Gerald. O Gareth o Glynn. Oppure Gervaise, Godfrey, Galahad.»

Andarono a piedi. La calura di mezzogiorno esaltava il fetore del latte andato a male dei caffè gettati nei rifiuti e nei canali di scolo. Le strade erano intasate di furgoni e di taxi. I guidatori strombazzavano, presupponendo già di arrivare a destinazione con un lieve ritardo. Dai condizionatori dei primi piani cadevano grosse gocce di condensa. Gli ambulanti vendevano orologi finti, ombrelli e accessori per cellulari. La città, in pieno tumulto. Reacher amava New York più di altri posti. Ne amava l’indifferenza noncurante, la frenesia scatenata, l’anonimato totale.

Hudson Street tra Clarkson e Leroy aveva edifici sul lato ovest e James J. Walker Park sul lato est. Il numero civico di Taylor corrispondeva a un palazzo cubico di mattoni di quindici piani con un ingresso disadorno e un atrio decoroso. Reacher vide solo un uomo dietro un lungo tavolo. Non c’era un portiere sul marciapiede, il che semplificava le cose. Sempre meglio un uomo che due. Così non c’erano testimoni.

«Approccio?» chiese Pauling.

«La via più semplice», rispose Reacher. «L’approccio diretto.»

Aprirono la porta ed entrarono. L’atrio aveva rivestimenti di legno scuro, finiture di metallo satinato e un pavimento di granito. Era curato fin nei minimi dettagli e risaliva a parecchio tempo prima. Reacher andò dritto al banco, l’uomo seduto dietro alzò lo sguardo e lui gli indicò Pauling.

«Ecco il patto», disse. «Questa signora le darà quattrocento dollari se ci farà entrare nell’appartamento del signor G. Taylor.»

La via più semplice. L’approccio diretto. I custodi erano esseri umani e la cifra scelta con attenzione. Quattrocento era un numero un po’ insolito. Non era scontato né comune. Non entrava da un orecchio e usciva dall’altro. Richiedeva attenzione. Era abbastanza alto da dare l’impressione d’essere una bella somma e secondo l’esperienza di Reacher induceva irresistibilmente a trattare per arrivare a cinquecento. E sempre secondo la sua esperienza, quando ciò accadeva la battaglia era vinta. Era un po’ come la prostituzione: stabilito il principio, era solo questione di prezzo.

L’uomo al banco guardò a destra e a sinistra. Non vide nessuno. Non c’erano testimoni. Era tutto più semplice.

«Da soli?» chiese.

«Non importa», rispose Reacher. «Può venire con noi. O mandare il manutentore.»

Ma terrai i soldi per te, pensò.

«Cinquecento», replicò l’uomo.

«Affare fatto», rispose Reacher.

Pauling aprì la borsa, prese il portafoglio, si leccò il pollice ed estrasse cinque pezzi da cento. Li piegò attorno all’indice e glieli porse sul tavolo.

«Undicesimo piano», disse il portiere. «Girate a sinistra e andate alla porta in fondo, a destra. Il manutentore vi aspetterà là.» Indicò gli ascensori e prese un walkie-talkie per chiamare l’uomo. Reacher e Pauling si avvicinarono, premettero il pulsante di salita e la porta di un ascensore si aprì, quasi li stesse aspettando.

«Mi devi moltissimi soldi», osservò Pauling.

«Sono bravo», replicò Reacher. «Stasera sarò ricco.»

«Spero che il personale del mio palazzo sia migliore.»

«Continua pure a sognare. Ai miei tempi sono entrato in parecchi edifici.»

«Avevate un budget pro-corruzione?»

«Enorme. Prima che ci godessimo i frutti della pace. A quel punto a molti budget è stata messa una pietra sopra.»

L’ascensore si fermò all’undicesimo piano e la porta si aprì. Il corridoio era in parte di mattoni nudi, in parte dipinto di bianco e l’unica luce arrivava dagli schermi televisivi collocati a mezza altezza dietro i vetri. Erano tutti di un color porpora scuro.

«Bello», esclamò Pauling.

«Preferisco casa tua», commentò Reacher.

Girarono a sinistra e trovarono la porta in fondo a destra. Aveva un riquadro incassato ad altezza d’occhi con lo spioncino, il numero dell’appartamento e il posto per la targhetta, con un’etichetta nera su cui si leggeva TAYLOR. Era l’angolo nordorientale dell’edificio. Il corridoio era tranquillo e silenzioso, odorava leggermente di deodorante per ambienti o di detersivo per moquette.

«Cosa pagherà per un posto del genere?» domandò Reacher.

«In affitto?» fece Pauling. Osservò la distanza tra le porte per valutare la dimensione degli appartamenti e disse: «Bilocali piccoli, forse quattromila al mese. Forse cinquemila in un palazzo simile».

«È tanto.»

«Non quando ne guadagni venticinquemila.»

Alla loro destra suonò il campanello di un ascensore e un istante dopo comparve un uomo con una divisa verde e una cintura degli attrezzi marrone chiaro.

Si avvicinò e prese un portachiavi dalla tasca. Non fece domande, si limitò ad aprire la porta e si scostò.

Reacher entrò per primo. L’appartamento sembrava vuoto. L’aria era calda e immobile. C’era un ingresso grande quanto una cabina telefonica, una cucina di acciaio inossidabile a sinistra e un vano guardaroba a destra. Il soggiorno si trovava proprio davanti e le due stanze da letto, fianco a fianco, si aprivano a sinistra. Una era più grande dell’altra. Cucina e soggiorno erano perfettamente puliti e maniacalmente ordinati. L’arredo era della metà del Novecento, sobrio, raffinato, maschile. Pavimenti di legno scuro, muri chiari, tappeti spessi di lana. C’erano una scrivania d’acero, una poltrona Eames e un’ottomana di fronte a un divano Florence Knoll. Una sedia di Le Corbusier e un tavolino di Noguchi. Mobili eleganti, di valore. Dei veri classici. Reacher li riconobbe grazie alle immagini delle riviste che aveva letto. A una parete era appeso un quadro originale, un paesaggio urbano luminoso, vivo, ricco di movimento. Un acrilico su tela. C’erano molti libri, collocati in ordine alfabetico sugli scaffali. E anche molti CD, insieme a un impianto stereo di ottima qualità concepito solo per l’ascolto in cuffia. Non c’erano casse. Era un uomo attento. Un buon vicino.

«Molto raffinato», commentò Pauling.

«Un inglese a New York», osservò Reacher. «Probabilmente beveva tè.»

La camera da letto più grande era spartana, quasi monastica. Pareti bianche, un letto king-size, lenzuola grigie, una lampada italiana sul comodino, altri libri, un altro quadro dello stesso artista. L’armadio aveva un’asta e delle scaffalature. All’asta era appesa una sfilza di completi, giacche, camicie e pantaloni, divisi con precisione in base alla stagione e al colore. Erano tutti puliti e stirati. Ogni appendiabito era a un paio di centimetri dall’altro. Sui ripiani c’erano pile di magliette, di biancheria e di calze, tutte della stessa altezza. La mensola inferiore era occupata dalle scarpe. Erano robuste, di marca inglese come quelle di Reacher, nere e marrone, lucide come specchi. E avevano tutte una forma di cedro all’interno.

«Incredibile», esclamò Pauling. «Un uomo da sposare.»

Reacher in silenzio si spostò nella seconda camera. Lì i soldi, la volontà o l’entusiasmo si erano esauriti. Era un locale piccolo, semplice e disadorno. Sembrava inutilizzato. Era buio, caldo e umido. La lampada al soffitto era senza lampadina. La stanza conteneva solo due strette brande di ferro accostate. Avevano lenzuola e cuscini usati. La finestra era coperta da un pezzo di stoffa scura, attaccato con nastro adesivo al muro in alto, in basso e ai lati. Da una parte il nastro era stato staccato e il panno scostato per lasciar intravedere una fetta del panorama, o entrare un po’ d’aria.

«Questo è il posto», annunciò Reacher. «Qui aveva nascosto Kate e Jade.»

«Chi? L’uomo che non può parlare?»

«Sì», rispose. «L’uomo che non può parlare le aveva nascoste qui.»

Un passo di troppo
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