30

Il riquadro color argento a sinistra della porta blu aveva sei pulsanti neri disposti in verticale. Il nome in alto era KUBLINSKI, tutto sbiadito, scritto con una stilografica e una grafia molto ordinata. Quello in basso CUSTODE, scritto con un pennarello nero. I quattro in mezzo erano senza nome.

«Affitti bassi», osservò Pauling. «Per periodi brevi. Per persone di passaggio. Tranne per il signor o la signora Kublinski. A giudicare dalla calligrafia sono qui da sempre.»

«Probabilmente si sono trasferiti in Florida cinquant’anni fa», osservò Reacher. «Oppure sono morti e nessuno ha cambiato la targhetta.»

«Proviamo con il custode?»

«Usi un biglietto da visita. Copra ex con il dito. Finga d’essere ancora nel Bureau.»

«Secondo lei è necessario?»

«Ci serve ogni aiuto possibile. È un palazzo alternativo. Abbiamo Che Guevara che ci guarda dall’alto e il macramè.»

Pauling avvicinò il dito con l’unghia ben curata al pulsante CUSTODE e lo premette. Dopo un buon minuto si udì un suono deformato. Poteva essere un , un chi, un che cosa, oppure solo una scarica statica.

«Agenti federali», disse Pauling. Il che era più o meno vero. Una volta sia lei sia Reacher lavoravano per lo Zio Sam. Estrasse un biglietto dal portafoglio. Dal citofono provenne un altro suono.

«Arriva», affermò Reacher. Aveva visto parecchi edifici del genere ai tempi, quando dava la caccia ai soldati assenti ingiustificati. Preferivano pagare gli alloggi in contanti e fermarsi poco. Per sua esperienza i custodi di solito collaboravano. Apprezzavano abbastanza il fatto di avere un appartamento gratuito da non rischiare di perderlo. Meglio che qualcun altro finisse in carcere. Loro amavano restare dov’erano.

A meno che ovviamente il custode non fosse il colpevole.

Quello tuttavia non sembrava avere niente da nascondere. La porta blu si aprì verso l’interno e comparve un uomo alto e magro con una canottiera macchiata. Aveva un berretto nero in testa e un volto largo da slavo.

«Sì?» disse con un forte accento russo. Era quasi un Da.

Pauling gli sventolò davanti il biglietto da visita quel tanto da permettergli di leggere alcune parole.

«Ci dica dell’ultimo inquilino che ha avuto», disse.

«L’ultimo?» ripeté l’uomo senza alcuna ostilità. Sembrava una persona piuttosto sveglia, alle prese con le sfumature di una lingua straniera, nient’altro.

«È venuto qualcuno nelle ultime due settimane?» chiese Reacher.

«Il numero cinque», disse l’uomo. «Una settimana fa. Ha risposto a un annuncio sul giornale che il proprietario mi aveva chiesto di mettere.»

«Dobbiamo vedere il suo appartamento», disse Pauling.

«Non so se posso farvi entrare», rispose. «In America ci sono delle regole.»

«Sicurezza interna», fece Reacher. «Patriot Act. In America non ci sono più regole.»

L’uomo alzò le spalle e si girò nell’angusto spazio, avviandosi verso le scale. Reacher e Pauling lo seguirono. Reacher sentì un profumo di caffè arrivare dal locale al di là del muro. Non c’era un appartamento numero uno né un numero due. Il numero quattro era la prima porta a cui arrivarono in cima alle scale, sul retro. Il numero tre era sullo stesso piano, in fondo al corridoio, verso la facciata. Il che significava che il numero cinque era esattamente sopra di esso, al secondo piano, rivolto a est sulla strada. Pauling lanciò un’occhiata a Reacher e lui annuì.

«Quello senza niente alla finestra», le disse.

Al secondo piano superarono il numero sei sul retro dell’edificio e s’incamminarono verso il cinque. Il profumo di caffè era svanito, sostituito dall’odore di verdure bollite tipico di tutti i corridoi del mondo.

«È in casa?» chiese Reacher.

Il custode scosse la testa. «L’ho visto solo due volte. Adesso è sicuramente fuori. Ho girato tutto il palazzo per riparare dei tubi.» Prese un passe-partout appeso a un anello che portava alla cintura e aprì la porta. La spalancò e si scostò.

L’appartamento era, nel gergo degli intermediari immobiliari, un monolocale. Un ambiente unico a forma di L storta, in cui in teoria ci sarebbe potuto stare un letto, purché piccolo, con un angolo cottura e un minuscolo bagno con la porta aperta. Ma quello che si notava innanzitutto erano le assi di legno e la polvere.

Perché l’appartamento era completamente vuoto.

Fatta eccezione per una sedia con lo schienale dritto. Non era vecchia ma era molto usata, simile a quelle che si compravano sui marciapiedi della Bowery, dove i liquidatori mettevano in vendita i beni dei ristoranti falliti. Era collocata davanti alla finestra, lievemente a nord-est. Era circa sei metri più in alto e un metro e mezzo più indietro rispetto al punto che Reacher aveva scelto per bersi il caffè due sere di fila.

Reacher si avvicinò e vi si sedette con i piedi ben piantati per terra, rilassato ma in allerta. In quella posizione assunta naturalmente dal suo corpo aveva l’idrante di Sixth Avenue proprio di fronte. Un angolo stretto rivolto verso il basso, sufficiente a evitare l’inconveniente di un furgone parcheggiato davanti. E anche di un autoarticolato. Una distanza di poco inferiore a trenta metri. Non sarebbe stato un problema per nessuno, tranne per un cieco. Si rialzò e fece un giro completo su se stesso. Vide una porta dotata di chiave. Tre pareti solide. Una finestra senza tende. Un soldato sa che un punto d’osservazione appropriato gli garantisce una visuale libera di fronte e una sicurezza adeguata ai fianchi e alle spalle. Che offre protezione dagli elementi e lo nasconde agli osservatori. E che potrà ragionevolmente restarvi indisturbato per l’intera durata dell’operazione.

«Sembra l’appartamento di Patti Joseph», osservò Pauling.

«Ci è stata?»

«Brewer me l’ha descritto.»

«Ci sono otto milioni di storie nella città nuda», osservò Reacher.

Poi si rivolse al custode e disse: «Ci racconti di quest’uomo».

«Non parla», rispose l’altro.

«Cosa intende?»

«Non può parlare.»

«Cioè, è muto?»

«Non dalla nascita. In seguito a un trauma.»

«Una sorta di shock?»

«Non è stato un fatto psicologico», spiegò il custode. «Ma fisico. Comunicava con me scrivendo su un blocco di carta gialla. Frasi complete, con molta pazienza. Mi ha scritto che si era fatto male sotto le armi. Che aveva subito una specie di ferita di guerra. Però ho notato che non aveva cicatrici visibili. E che teneva sempre la bocca ben chiusa. Come se temesse che vedessi qualcosa. E mi ha ricordato molto una cosa che ho visto in passato, più di vent’anni fa.»

«Cioè?»

«Sono russo. Mi è toccato combattere con l’Armata Rossa in Afghanistan. Una volta gli afghani ci hanno restituito un prigioniero come avvertimento. Gli avevano tagliato la lingua.»

Un passo di troppo
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