19.
Arturo Renna il tempo di agire nei suoi confronti non lo diede a nessuno.
Si presentò spontaneamente al vicequestore Guarrasi e confessò. Confessò di aver raggiunto la sera del 5 febbraio 1959 il cavaliere Gaetano Burrano nella sua villa di Sciara, come in visita di cortesia. Di aver tentato di convincerlo a strappare il testamento che gli aveva mandato, e a non firmare i contratti che invece lui gli aveva sventolato davanti già firmati. Confessò di averlo ucciso con una Beretta M35 «pulita», in combutta con Teresa Regalbuto, sua complice nonché amante. E di aver sottratto alla vittima tre milioni di lire contenuti nella valigetta ventiquattrore. Alla domanda diretta se avesse coinvolto o meno Demetrio Cunsolo nell’omicidio, il notaio rispose che sí, aveva pagato il domestico perché facesse sparire tutto. E sí, quell’errore gli era costato una vita di ricatti economici e di posti assegnati a Cunsolo in tutte le sue attività. Confermò che era andata esattamente come Vanina aveva immaginato, caffè compreso.
Alla domanda «Cosa l’ha spinta a confessare?» Renna rispose che non aveva piú dubbi sul fatto che lei fosse prossima a scoprire ogni cosa. E allora era piú dignitoso confessare.
– Riguardo alla morte di Maria Cutò, lei ci conferma che è avvenuta per confinamento nel montacarichi dove si trovava nascosta e dove la signora Teresa Regalbuto l’ha seppellita viva?
Renna abbassò lo sguardo. – No, questo non posso confermarlo, – mormorò. – Lei è libera di non crederci, ma io non avevo idea che in casa di Tanino, quella sera, ci fosse Luna, né della fine che le aveva fatto fare Teresa. Se l’avessi saputo… non l’avrei permesso.
Confessò che a premere il grilletto contro Gaetano Burrano era stato lui, e lui solo. Lo fece a testa dritta e guardandola negli occhi.
Poi rimase in silenzio. Abbassò lo sguardo e riprese fiato. Ricominciò a parlare.
– Sono stato io a uccidere Teresa Regalbuto, – disse. – L’ho uccisa perché minacciava di denunciarmi per salvarsi da una condanna per omicidio, e perché la conoscevo abbastanza da sapere che l’avrebbe fatto. Era una donna cinica e avida, capace di diseredare suo nipote in favore di una sconosciuta. Ho inscenato il suicidio, usando la pistola e la valigetta che avevamo recuperato di comune accordo, pagando qualcuno perché scassinasse la casa di Demetrio Cunsolo, e che conservava lei.
– Cosa sperava di ottenere con quella messinscena?
– Che addossaste a Teresa la colpa dell’omicidio del marito, oltre che di quello di Luna, e cosí smetteste di cercare il vero colpevole. Io lo immaginavo che prima o poi lei ci sarebbe arrivata, vicequestore Guarrasi. Questione di tempo, era, – cantilenò, monocorde.
Vanina pensò alle parole di Clelia Santadriano. Il piú caro amico di Teresa.
Come può ingannare l’apparenza.
Nicola Renna arrivò trafelato quando Spanò e Fragapane si stavano già occupando di formalizzare la confessione del padre.
– Ma non andrà in carcere, vero? – chiese, preoccupato, al vicequestore.
– Alla sua età no. Probabilmente avrà gli arresti domiciliari. E una condanna per due omicidi volontari.
Renna junior scosse la testa, melodrammatico. – Mio padre! Capisce? – Tirò su col naso.
La giornata andò avanti tutta a rimettere a posto i tasselli, che in gran parte coincidevano con le idee che si erano fatti loro.
Vanina andò fino a casa del commissario Patanè, per comunicargli tutte le novità.
– Lo sa, dottoressa, da un lato sono contento che finalmente posso chiudere la partita con quel caso maledetto. Dall’altro però mi dispiacerà non poter venire piú in ufficio, e fare finta di essere ancora in servizio.
Lo rassicurò, che prima o dopo qualche altro morto antico sarebbe capitato. E allora lui sarebbe tornato operativo.
– Poi oramai siamo amici, no? E io che sono giovane, e schiava delle mavaríe, potrò sempre aver bisogno di una lezione di ragionamento, giusto?
– Lei non è schiava di niente. E sa ragionare meglio di me. Tant’è vero che io una cantonata la pigghiai. M’ero convinto che non potesse essere che Renna avesse ucciso la Regalbuto. Tutti li hanno sempre considerati amici inseparabili, vecchi amanti, e io mi feci l’opinione che era vero. E sbagliai. Visto?
Il Grande Capo era assalito dai giornalisti, che Vanina evitava come la peste.
Tornando da una conferenza stampa, all’indomani della confessione che Arturo Renna aveva rilasciato «messo alle strette dal ritmo incalzante con cui il vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi era sul punto di incastrarlo», bussò alla porta di Vanina, che se ne stava sulla sua poltrona di nuovo basculante e rileggeva tutti i verbali.
– Bella la vita, eh, a fare i preziosi coi giornalisti! – disse, con un mezzo sorrisetto sfottente. Tanto era noto a tutti che abdicare al suo ruolo di divulgatore ufficiale di notizie, con tanto di faccia in primo piano al telegiornale, non era un’eventualità che Macchia avrebbe mai preso in considerazione. – Vieni da me un momento che ti devo dare una cosa?
Vanina sperò che non tornasse alla carica con la storia della Sco. Era stata chiara, con lui e con Eliana Recupero che caldeggiava. Una follia l’avevano giudicato, il suo rifiuto a ricoprire un posto ambito come quello.
Lo seguí nella sua stanza.
– Ti ricordi quella ricerca che mi avevi chiesto di fare sull’amica erede della Burrano?
– Certo.
Tirò fuori una mail stampata.
– Ecco qua tutto quello che abbiamo saputo.
Vanina scorse la pagina velocemente, con gli occhi di Tito puntati addosso.
– Hai letto? – le chiese il capo.
Aveva letto. E voleva rileggere. Perché le pareva troppo incredibile.
– Clelia Santadriano è stata adottata all’età di quattro anni dal convitto di Santa Cecilia a Napoli, dov’era stata abbandonata, – recitò Tito.
Incensurata, nessun debito in pendenza, ma una situazione economica tutt’altro che florida.
Vanina rilesse l’informazione. Incredibile. Però tutto tornava. La signora che era arrivata nel suo negozio e l’aveva agganciata. E poi l’aveva nominata erede. Cos’era, un tardivo pentimento? O disistima assoluta nei confronti di Alfio, tale da spingerla addirittura a questo. Oppure era un caso. Clelia Santadriano era figlia di qualcun altro, e magari era stata abbandonata per davvero. Non era orfana. Di certo la donna non immaginava nulla. Prova ne era lo sbigottimento con cui aveva accolto la notizia dell’eredità ricevuta, quasi in difficoltà nei confronti di Alfio che aveva voluto sentire subito, perché la villa era giusto che fosse sua, non se ne parlava proprio…
Alfonsina guardava tranquilla fuori dalla finestra del suo soggiorno.
– Dottoressa Guarrasi.
– Come va, signora Fresta?
– Come deve andare? Ora vediamo che succederà, con la casa di Maria… Speriamo di poter restare qua, in qualche modo.
Si sedette davanti a lei.
– Il notaio Renna, vedi tu! – fece Alfonsina, scuotendo la testa. – Pareva una brava persona. Certo, un poco focoso era, ma non è che può essere una colpa. E poi per Luna aveva una preferenza speciale. Fu uno degli ultimi a cui lei disse di no. Resistette quasi fino alla chiusura della casa.
Quando ripensava alla confessione di Renna, Vanina aveva la sensazione che la conclusione di quel caso non fosse andata come aveva immaginato lei. Magari era solo un moto d’orgoglio, perché l’indagine alla fine l’aveva chiusa una confessione e non il suo intuito sbirresco, ma non era soddisfatta come avrebbe creduto. Eppure margini di dubbio non ce n’erano.
Gli esami sulla traccia di sangue avevano confermato un’alta compatibilità con Arturo Renna. La valigetta era piena di impronte digitali, sue e di Teresa Regalbuto.
– Senta, Alfonsina, devo chiederle un’informazione che le parrà strana.
– Dica, dottoressa.
– Lei se lo ricorda il nome del collegio in cui Maria aveva portato Rita, a Napoli?
La donna si perse nei pensieri.
– Alfonsina? – la risvegliò.
– Non me lo ricordo… però lo sapevo.
Rifletté a occhi chiusi, poi scosse la testa.
– No.
– Santa Cecilia può essere?
– Può essere, certo, ma non è che me lo ricordo…
Perché avrebbe dovuto ricordarlo? Rita era scomparsa, Luna era morta; ormai era andata cosí. Qualunque verità fosse saltata fuori, e Vanina era determinata ad adoperarsi perché accadesse, per quella donna sarebbe stata tutta guadagnata. Ma se cosí non fosse stato, nessuna nuova delusione avrebbe angustiato gli ultimi scampoli della sua vita.
Perché se non ti aspetti nulla non puoi rimanere deluso.
Vanina decise che non era il caso di rompere quell’equilibrio.
L’agente Lo Faro bussò alla porta ed entrò.
– Scusi, dottoressa.
– Che c’è, Lo Faro?
Le passò la falsa agenda telefonica della Regalbuto.
– Che dobbiamo fare con tutti quei nomi che abbiamo trovato, ormai che il caso è risolto?
– E niente, Lo Faro, che ne vuoi fare?
– La lascio a lei, allora, o la do all’ispettore Spanò?
– Lasciala qua.
Il ragazzo obbedí e se ne andò.
Vanina la prese in mano e iniziò a sfogliarla.
Certo che il metodo era geniale: sembravano davvero dei numeri telefonici.
Arrivò fino all’ultima pagina e la rivoltò. Si accorse che il foglio sembrava tagliato sul lato centrale. Afferrò il lembo e vide che si creava come una tasca. La aprí. Un nome e un numero di telefono, che non era un numero di telefono, la colpirono con la potenza di un cazzotto in mezzo agli occhi.
Chiamò subito Spanò.
– Lei, Nunnari, Marta e Fragapane, venite da me. Di corsa.
Si materializzarono tutti in trenta secondi.
– Capo ma… che fu?
– Fragapane, recuperi il testamento della signora Burrano e lo porti alla Scientifica e chieda a Pappalardo di confrontare le impronte digitali con quelle trovate sulla carpetta vuota che gli abbiamo dato. E poi mi faccia telefonare. Marta, tu fai una ricerca su una situazione patrimoniale. Conti correnti e via di seguito –. Passò un foglietto con un nome scritto all’ispettore, che la fissò stranita.
– Nunnari, lei se ne vada in procura e aspetti che Vassalli riceva quello che, se va come dico io, gli farò inviare dalla Scientifica. Spanò, lei invece venga con me.
– Vanina, ma che sta succedendo? – chiese Marta. Il vicequestore le si avvicinò, esaltata. – Vai dal tuo Tito e digli che tra un paio d’ore al massimo sbattiamo in galera l’assassino di Teresa Regalbuto. Quello vero, – le sussurrò.
– Come sarebbe, l’assassino vero di Teresa Regalbuto?
Ma Vanina era già sulle scale.
Una vecchia rete, di quelle a molle, appesa a una parete con un chiodo, può essere considerata un’opera d’arte. Cosí come un cassetto genere Ikea, anzi peggio, perché almeno quelli sono graziosi, poggiato su un cubo. Installazioni. Roba che se vai alla Tate Modern di Londra, o al MoMA di New York, ne trovi in quantità industriale. Poi arrivi davanti a un quadro di Picasso… e ti riconcili con l’arte moderna. Vanina la pensava cosí. Infatti al MoMA saltava a piè pari tutti i primi piani e saliva direttamente al quinto. Quello di Picasso, appunto, e dei suoi pari grado.
La galleria d’arte di Nicola Renna era al piano di sotto dello studio notarile. Installazioni di ogni tipo e dimensione, inframmezzate da qualche dipinto.
La segretaria li aveva spediti lí, quando Vanina le aveva mostrato il tesserino oltre che la serietà delle sue intenzioni.
Il notaio si spostava da un’opera all’altra con metro e taccuino, contando i passi.
– Dottoressa! A cosa devo la visita? Mio padre è su nel suo studio. Finché può uscire di casa, sa.
Vanina ignorò il riferimento al padre.
– Belle queste opere, vero, notaio?
– Eh, uniche direi! Sto organizzando una mostra per gli amici, un vernissage per festeggiare l’ultima arrivata, – si voltò a guardare una scultura essenziale stile pupazzo Lego, – anzi se volesse intervenire…
– Belle e costose, – continuò Vanina, senza sentirlo.
Il notaio non rispose subito.
– Be’, certo economiche non si possono dire, ma sa com’è? Quando c’è gusto…
Il vicequestore lo ignorò. – Specie poi se uno ha anche altri interessi, ugualmente costosi, come le auto storiche importanti. La Morgan, ad esempio.
Il notaio senior avanzava tra le installazioni, fissando il figlio. Che s’era ammutolito.
– Pensi di farcela, che tanto di soldi ne hai a palate, e cominci a collezionare opere d’arte, poi auto, e altre opere. Poi vedi che non riesci piú a farcela con le tue forze, ma c’è un’occasione insperata, – si voltò a guardare il Picasso appeso alla parete davanti col faretto puntato sopra, – e non puoi fartela scappare. I soldi servono subito, però la banca oltre un certo credito non va, neppure nei confronti di un professionista affermato. Allora rimane una sola opzione. Tanto è un’amica, ti dici, con me la vecchia stronza si comporterà bene. Il figlio del suo amante storico. Ma poi le occasioni diventano due, – si voltò dall’altro lato, verso Matisse, – e l’altra volta in fondo era stato cosí facile.
I due notai la fissavano lividi.
– Finché un giorno la vecchia stronza non decide che è arrivato il momento di battere cassa, con tutti gli interessi, che solo perché sei il figlio del suo amante storico si limitano ad aumentare di un terzo il capitale iniziale. È un trattamento di favore, ma tu non hai nessun modo per rientrare, perché quello che guadagni finisce tutto nella conservazione delle opere, delle auto. Si arriva all’esasperazione, non è cosí, notaio Renna? E allora, quando per caso senti tuo padre parlare con la vecchia stronza di una valigetta e di una pistola che potrebbero ricondurre proprio a tuo padre, incriminandolo, capisci che è un’occasione unica. Basta andare lí di domenica, quando sai che la signora è sola, far finta di chiederle ancora tempo, fare il pietoso. E poi fingere che tuo padre ti abbia incaricato di farti dare una certa valigetta che lei sa, e che non vuole piú tenere in casa. Troppi sbirri che vanno e vengono. E te ne vai, lasciando la porta socchiusa. Carichi la pistola che trovi puntualmente dentro. Rientri in casa che la vecchia è ancora lí a guardare le ricevute. E le spari. Poi pulisci le impronte, metti in scena il suicidio e quella sorta di confessione. Sai che in questo modo la partita sarà chiusa per sempre. Poi recuperi tutte le ricevute, convinto di cancellare ogni prova del tuo debito. Ma fai un errore, e lo fai senza accorgertene, perché non è colpa tua se non hai sentito l’odore dell’arrosto che invade l’appartamento. Il tuo senso dell’olfatto in quei giorni è momentaneamente azzerato, e non ti rendi conto che quello per noi sarà solo il primo campanello d’allarme.
Si voltò verso il notaio senior.
– E un padre che può fare, quando capisce troppo tardi che un figlio rischia di finire in galera da un momento all’altro? Che la donna con cui si è spartito per una vita gli intrallazzi e i crimini peggiori ha speculato a sua insaputa sull’unica persona che per lui contava qualcosa? Anche un bambino lo sa, al giorno d’oggi, che padre e figlio hanno quasi lo stesso Dna. La prova schiacciante, quella che tutti glorificano, ma di cui, per sua disgrazia, non tutti s’accontentano.
Il vecchio notaio barcollò. Il capo chino, gli occhi chiusi, si lasciò cadere su una sedia poggiata alla parete.
Nicola alzò lo sguardo per un momento. Allucinato. Sbarrò gli occhi. – Papà! L’opera numero 12! Ti sei seduto sull’opera numero 12!