17.

Vassalli stavolta aveva fatto in fretta.

Il testamento di Teresa Regalbuto era stato sequestrato e Alfio Burrano era entrato capofila nella lista dei sospettati. Se non avesse fornito un alibi serio la sua posizione si sarebbe aggravata, senza che né Vanina né Spanò potessero fare nulla per evitarlo.

Il commissario Patanè espresse chiaramente la sua opinione, che in gran parte coincideva con quella della Guarrasi.

– Dottoressa, non per essere negativo, ma a me sta parendo la stessa cosa precisa che successe con Di Stefano.

Vanina aveva la sensazione che Alfio non le avesse detto tutta la verità. Sembrava frenato, come se qualcosa di utile a fugare i sospetti ce l’avesse, ma per qualche motivo inafferrabile non volesse, o peggio non potesse, dichiararlo. Neppure il telefono poteva essere d’aiuto, perché era risultato effettivamente agganciato alla cella che corrispondeva a Sciara per tutto il tempo. Anche questo a Vanina non tornava. Perché se Alfio avesse voluto crearsi un alibi, sarebbe bastato dichiarare di essere rimasto a Sciara e il telefono gli avrebbe dato ragione. Invece lui aveva raccontato di essere uscito di casa, di essere andato in giro. L’idea non l’aveva neppure sfiorato.

Piú sprovveduto di cosí un assassino non poteva essere.

Intanto le indagini proseguivano nelle altre direzioni.

Lo Faro si presentò alla porta del vicequestore, chiedendo permesso, con l’agenda trovata nel cassetto della Burrano.

– L’ispettore Spanò mi ha chiesto di controllare questi numeri di telefono. Io ho iniziato ma… non sono numeri di telefono.

Vanina lo guardò stranita.

– Come sarebbe? E cosa sono?

– Non lo so. C’è il prefisso di Catania, lo 095, ma poi ogni numero è diverso dall’altro, alcuni a cinque e altri a sei cifre. Non possono essere numeri telefonici, dottoressa, al cento per cento. E poi c’è un altro fatto: ci sono nomi ripetuti due volte, a distanza di molti fogli, ma i numeri sono diversi.

Si bloccò con lo sguardo e gli strappò l’agenda dalle mani. La sfogliò e la risfogliò, sempre piú veloce.

– Bravo Lo Faro, – disse, con un’occhiata che mandò in orbita per dieci secondi l’agente.

Afferrò il telefono e compose l’interno di Spanò, che arrivò subito.

– Abbiamo trovato il registro dei clienti di Teresa Regalbuto, – gli annunciò.

Spanò prese in mano l’agenda e guardò Lo Faro. Non capiva.

– Astutamente camuffate da numeri telefonici ci sono le cifre che la signora prestava alle persone indicate accanto.

Spanò guardò la prima pagina, incredulo.

– ’Sta figlia di buona madre! – commentò.

– Bene, dato che il merito è di Lo Faro, a lui l’onore di studiarsi i nomi di tutti i clienti.

Il ritmo di masticazione del chewing gum di Lo Faro si fece frenetico. Era un lavoraccio, ma l’agente non si sognò di protestare.

Marta Bonazzoli aveva ricevuto dal vicequestore Guarrasi il compito ingrato di dare una sbirciata a quello che combinavano le tre donne di casa Burrano. Soprattutto, quella che andava sorvegliata era Clelia Santadriano, ancora ignara della fortuna colossale che avrebbe ereditato di lí a poco. L’unica che aveva un buco di qualche minuto nel suo alibi, per il resto invece confermato dall’amica con cui era andata all’esposizione.

La donna era sempre piú affranta.

– È stata Teresa a uccidere la… donna del montacarichi? – chiese a Vanina.

La risposta le provocò una crisi di pianto.

– Io non posso crederci… Teresa… Proprio Teresa… – sussurrò.

Le raccontò come si erano conosciute. Due anni prima, lei era ancora proprietaria di un piccolo negozio di abbigliamento al centro di Napoli. Via Chiaia, sa? Un negozio particolare, di quelli che vendono roba selezionata. Cara, indubbiamente, ma esclusiva. I primi che la crisi colpisce insomma. E già le cose andavano male da tempo. Un giorno una signora anziana di Catania era entrata e aveva comprato uno stock di sciarpe. Da regalare alle amiche, aveva detto. Si era trattenuta, un discorso tira l’altro, alla fine s’erano ritrovate a pranzo insieme. Cosí era nata la sua amicizia con Teresa Regalbuto. Ed erano cominciati i soggiorni a Catania. Sempre piú frequenti, dal momento che il negozio era fallito definitivamente e la signora insisteva tanto per ospitarla.

Era una bella storia, che però non collimava con il quadro che Vanina s’era fatta di Teresa Regalbuto. Non fosse altro che per lo stock di sciarpe comprato per regalarle alle amiche. Perché un dato di fatto era certo: non c’era stata persona fino a quel momento che non avesse indicato la signora Burrano come una donna avida e glaciale, opportunista come nessun’altra.

Quanto a lei, Clelia Santadriano, la sfiorava il dubbio che fosse un’avventuriera, che si era votata al sacrificio di condividere le sue giornate con una vecchia strega allo scopo di fregarsene il patrimonio.

E a Vanina non piaceva tenersi i dubbi.

Recuperò i dati della signora e afferrò il telefono, determinata a farsi passare la Questura di Napoli. Ma le venne un’idea migliore.

Appena sentí rientrare Macchia, si alzò e lo raggiunse.

Il vicequestore parcheggiò l’auto davanti all’entrata laterale di villa Burrano e si avvicinò al cancello. Si mise a osservare la facciata posteriore della villa, senza un motivo preciso. Per la verità, anche quella deviazione verso Sciara non aveva una ragione ufficiale.

Chadi comparve dal nulla dietro l’inferriata, mimetizzato nella penombra del fogliame incolto.

Vanina si fece aprire il cancello.

Il tunisino la guardava storto, come se fosse lei la colpevole delle disgrazie di dottori Alfio.

– Senti, Chadi, – gli disse. – Tu vuoi aiutare Alfio? Dimmi se sai qualcosa che lui potrebbe voler nascondere. Aveva attività strane, affari illegali? Siamo io e te, non ci sente nessuno.

– Dottori è una buona persona. Affari onesti fa, con tutti. Lui solo vizio di femmine, assai femmine. Ma per l’uomo è normale cosí, no?

E nella sua logica islamica non faceva una grinza.

Andò a controllare i sigilli e li trovò intonsi. Girò attorno alla casa, fino a tornare dal lato di Alfio. Notò che la casa era sorvegliata da tre telecamere.

– Chadi, quelle sono vere?

Un sacco di gente si riempiva la casa di telecamere finte, convinta di creare cosí un deterrente per i potenziali ladri.

– Certo, vere!

– E i filmati chi li vede?

– Nessuno. Dottori Alfio controlla su telefono e io su televisore, se di notte sento rumore.

– E si può tornare indietro ai filmati dei giorni precedenti?

Il ragazzo esitò. – Sí…

– Fammi vedere quello di domenica mattina.

– Ma dottori Alfio non sa…

– Chadi, sentimi bene. Dottori Alfio si sta infilando in un gran casino, perciò se gli vuoi bene cerca di dare una mano, se no torno qui con un mandato del giudice e poi quello che succede succede.

Sperò di averlo scosso abbastanza.

Quello la guardò, ancora incerto, poi la fece entrare nella sua casupola.

Pareva di essere entrati in una rivendita di kebab, uno dei pochi cibi che il vicequestore detestava. Un odore pesante di spezie poco identificabili, proveniente da una pentola che sobbolliva sul cucinino, impregnava l’aria nonostante la finestra aperta.

Chadi s’avvicinò a un tavolino occupato da un vecchio pc. Aprí la schermata delle telecamere.

Vanina gli chiese di tornare sul video di domenica mattina della telecamera centrale, quella da cui si vedeva l’ingresso dell’appartamento di Alfio. Seguí tutta la scena: lui che usciva, si fermava, poi camminava velocemente verso il cancello, poi tornava in casa, fermandosi un secondo a metà percorso, e infine entrava in macchina. Qualcosa la colpí, non capí bene cosa.

– Torna un po’ indietro, – disse.

Il ragazzo eseguí, timoroso.

Uscita, fermata… ecco, prima cosa strana, sembrava che Alfio avesse visto qualcuno al cancello. Camminata veloce. Ritorno indietro… altra anomalia, fermandosi s’era girato, aveva alzato un braccio, come a bloccare qualcuno…

– Ferma qua, – ordinò, – torna indietro un secondo.

E la vide, l’anomalia. Un braccio che invadeva il fotogramma.

Lo guardò attentamente. L’unico dettaglio che si riusciva ad afferrare era uno scintillio sul polso destro.

Doveva fare due chiacchiere con Alfio.

Il vicequestore rientrò in ufficio e chiamò Nunnari.

– Abbiamo i tabulati del telefono di Burrano? – gli chiese.

– Certo, capo.

– Hai controllato a chi corrispondono i numeri delle chiamate ricevute quella mattina?

– Come no! – Prese un foglio dalla scrivania. – Pure quelle della sera prima, se vuole. Comunque niente di utile, dottoressa. A parte quella di sua zia, Burrano ricevette solo due telefonate. Una corrisponde a Vozza Valentina, e l’altra a Nicolosi Luigi.

L’amico e la presunta fidanzata - non fidanzata, che in quei giorni era dispersa tra le cantine del Chianti.

– Alfio, te lo chiedo per l’ultima volta: hai qualcosa da dirmi?

Burrano pareva l’ombra, pallida e trasandata, di sé stesso. La fissò incerto, poi scosse il capo.

– Niente.

– Qualunque cosa è meglio di un’accusa per omicidio volontario, lo capisci questo, vero?

La guardò, ma non le rispose.

Vanina si spazientí. Tirò fuori il telefonino e gli piazzò davanti agli occhi l’immagine della sua telecamera.

– Con chi stavi parlando?

Alfio trasalí. Non se l’aspettava.

– Nessuno… Una persona che chiedeva un’informazione.

– In casa tua?

– Il cancello era aperto.

– E tu le vai incontro, poi torni indietro, ti giri, le fai cenno di fermarsi, poi di corsa t’infili in macchina ed esci dal fotogramma?

Silenzio.

– Ti rendi conto che sto cercando di aiutarti, Alfio?

Lui si puntò in avanti coi gomiti sul tavolo. – Vanina, tu mi devi credere, io non c’entro niente.

– Non serve a nulla che io ti creda, lo vuoi capire? Né che ti creda Spanò.

– Altro non ti posso dire, Vanina… Non posso –. Quelle parole furono una conferma.

Vanina stava per uscire dall’ufficio per andarsene a pranzo, quando il telefono squillò.

– Dottoressa, Pappalardo sono.

– Oh, Pappalardo.

– Volevo anticiparle quello che abbiamo trovato sugli oggetti sequestrati l’altra mattina. Il rapporto lo sta scrivendo il dottore Manenti e…

– Ho capito. Mi dica tutto.

– Cominciamo dalla balistica. Il bossolo rinvenuto accanto alla Regalbuto corrisponde perfettamente a quello dell’omicidio Burrano. Questo conferma che l’arma è la stessa. Sulla pistola c’erano solo due impronte digitali, ed erano della vittima. Erano stampate in due posti un poco improbabili. Sulla carpetta aperta c’era un miscuglio di impronte, ma anche in quel caso tutte della vittima. E ora la notizia principale: la valigetta –. Il sovrintendente capo tirò un respiro profondo e poi continuò. – Era piena di impronte digitali, di almeno tre persone diverse, tra cui la vittima. La pistola era conservata al suo interno, in un angolo c’erano delle tracce. Sulla stoffa, proprio accanto all’apertura, ho trovato una macchia di sangue. E mi sono accorto che tra la manetta e l’apertura c’è un punto tagliente. Se la indossi correttamente non crea nessun problema, ma se uno non lo sa e piglia la valigetta di corsa, o anche solo se la apre di corsa, al novanta per cento si fa male. Siamo riusciti ad analizzarla e abbiamo isolato un Dna.

Vanina rifletté in silenzio. Si accese una sigaretta.

– E non è di Teresa Regalbuto, ovviamente.

– No. Però c’è di piú, una cosa di cui mi sono accorto in modo pressoché fortuito.

– Pappalardo, che fa, mi centellina le notizie? – si spazientí il vicequestore.

– No, no! Cercavo di dargliele una per una…

– Cosa c’è di piú?

– Che il Dna corrisponde quasi al cento per cento a quello estrapolato dalla tazzina che lei trovò sul tavolo di Burrano. Qualche differenza c’è, però credo sia ascrivibile al fatto che quello vecchio era inquinato assai ed è stato difficile estrarlo.

E questa il vicequestore non se la sarebbe mai aspettata.

Il pm Vassalli ci mise cinque minuti buoni a ricollegare tutte le notizie che il vicequestore Guarrasi era venuta a somministrargli in un’unica dose.

– Quindi, a quanto ho capito, non abbiamo idea di chi possa aver ucciso Gaetano Burrano, ma sappiamo che potrebbe trattarsi della stessa persona che ha ammazzato sua moglie?

– Quello che sappiamo è che le due tracce sono attribuibili alla stessa persona.

Il magistrato meditò un momento.

– Sottoponiamo Di Stefano alla prova del Dna, – decretò.

Vanina avrebbe alzato gli occhi al cielo, se avesse potuto.

– Dottore, le ricordo che il Di Stefano ha un alibi. Domenica è stato tutta la mattinata a Zafferana Etnea, a una riunione di quartiere per l’organizzazione dell’Ottobrata.

– Già, è vero. Però potrebbe aver assoldato qualcuno.

– Qualcuno che Teresa Regalbuto conosceva cosí bene da farlo entrare in casa sua e accoglierlo nel suo studio? E che svariati anni fa aveva bevuto un caffè a villa Burrano?

Vassalli non seppe replicare.

– E Alfio Burrano? Lui potrebbe aver usato una tazzina e averla posata lí per caso.

– Dubito che Alfio Burrano abbia mai utilizzato le stoviglie della villa. Ma se lei ritiene necessario richiedere che si sottoponga al test, faccia pure.

– Ecco, sí, mi pare una buona idea. Mi tenga informato, dottoressa. E mi raccomando sottoponga al test chiunque reputi opportuno.

Ora che c’era da rendere giustizia a Teresa Regalbuto Burrano, con la stampa addosso e una pletora di commentatori già scatenati in televisione, gli stava venendo fuori la fretta spasmodica. E perciò Dna a tutta forza.

Vanina uscí dall’ufficio del magistrato immersa nei suoi pensieri.

– Dottoressa Guarrasi!

Si voltò di scatto. Eliana Recupero era in mezzo al corridoio, con un uomo carico di faldoni al seguito.

Le andò incontro. – Buongiorno, dottoressa Recupero.

– Da dove viene?

– Dall’ufficio del dottor Vassalli. E lei?

La pm fece cenno all’uomo di depositare i faldoni nella sua stanza.

– Dal carcere di Bicocca. Bel posto, eh?

Vanina sorrise – Un’oasi!

– Come procedono i suoi casi? Se ne parla dappertutto.

Vanina fece una smorfia. – Lo so.

– Sa, un paio di giorni fa ragionavo con il suo dirigente…

– Sí, mi ha detto, – l’interruppe Vanina.

La Recupero la guardò in silenzio.

– Che dice, ci prendiamo un caffè, prima che mi seppellisca viva tra le mie sudate carte?

Il vicequestore accettò.

Si sedettero al bar all’angolo, dove inaspettatamente la pm ordinò una mega colazione. – Ogni tanto bisogna pur trattarsi bene.

Vanina combatté una istantanea lotta con la sua coscienza, prima di concludere che pareva brutto non farle compagnia.

– Basta compensare con un po’ di movimento in piú, che per chi vive seduto dalla mattina alla sera è l’unica salvezza, – sentenziò la Recupero. Era una brava, lei, una che usava l’ora di pranzo per andare in palestra. E il fisico minuto ne era il risultato.

Vanina preferí non ricordare che, fatta eccezione per un paio di boicottaggi alla settimana, giusto perché nella zona di via Etnea era impossibile poi ricollocarla, la sua unica fonte di movimento era la macchina. Ufficio, auto di servizio, interrogatori domiciliari, auto di servizio, trattoria, ufficio, automobile, casa. Ogni tanto aperitivo, che non faceva che peggiorare la situazione.

La Recupero era curiosa di conoscere gli sviluppi del caso Burrano-Cutò-Regalbuto, e Vanina l’accontentò. Le raccontò anche l’ultimo colloquio con Vassalli. Il commento della pm le diede la conferma che doveva continuare, senza indugio, a procedere sulla strada che riteneva piú giusta.

Dell’argomento che aveva affrontato con Macchia, la Recupero non fece piú parola. E Vanina gliene fu grata.

Spanò aveva scoperchiato un giro d’usura che andava avanti da secoli.

Aveva sentito una decina di persone, scelte secondo il criterio della quantità. Piú soldi si erano fatte prestare, piú chance c’erano che l’ispettore le convocasse.

Lo Faro aveva stilato una lista di nomi e li andava catalogando secondo il metodo di Spanò. In ordine cronologico – a intervalli piú o meno regolari c’era anche l’anno segnato in un angolo della pagina in alto – e pecuniario crescente.

C’era una concordanza perfetta tra i numeri occultati dal prefisso telefonico e le cifre iniziali prestate. L’ultimo numero indicava il numero di rate.

Mancavano un bel po’ di ricevute.

– Mi ci gioco qualunque cosa che fossero conservate nella carpetta che abbiamo trovato vuota, – ipotizzò Vanina. – Questo ci fa dedurre una sola cosa, Spanò: che l’assassino abbia dovuto farle sparire per evitare che noi trovassimo il suo nome tra quelli dei debitori.

Ora bastava ricercare il colpevole tra appena 156 persone che nell’arco di quegli ultimi dieci anni avevano usufruito dei prestiti della signora. Un ago in un pagliaio.

Vanina dava ormai per scontato che Alfio fosse fuori dai giochi, anche se Vassalli avrebbe sciolto la sua riserva solo dopo aver avuto in mano il risultato del Dna. Nel frattempo la notizia della sua possibile colpevolezza regnava sovrana tra i curtigghi di tutta Catania.

Quello che però continuava a incuriosire Vanina era la stoica rassegnazione con cui l’uomo si ostinava a non raccontare ciò che, lei ne era sicura al novantanove virgola nove per cento, avrebbe potuto scagionarlo sin dall’inizio.

Vanina aveva appena chiuso la telefonata con Maria Giulia De Rosa e stava raccogliendo sigarette e telefono, già pronta a raggiungerla.

Quella sera aveva voglia di staccare la spina e distrarsi un po’. Soprattutto, non le andava di chiudersi in casa da sola col rischio di perdersi in uno di quei messaggi criptici, provenienti da un numero che continuava a non memorizzare, e che stavano diventando sempre piú frequenti.

Marta Bonazzoli bussò alla porta.

– Capo, c’è una ragazza che insiste per parlare con te.

– Una ragazza? E che vuole?

– Non lo so, si rifiuta di dirmelo.

– Siamo sicuri che non è qualche giornalista d’assalto?

– Non credo, altrimenti l’avrebbe già dichiarato. E poi i giornalisti lo sanno che da te non possono aspettarsi granché, infatti tormentano sempre Ti… il Grande Capo.

– E falla entrare, – autorizzò il vicequestore, lasciandosi cadere sulla poltrona.

Bionda, occhi azzurri, un metro e ottanta di ragazza inguainata in un vestitino sportivo di cotone a costine. Diciotto anni sí e no.

– Elena Nicolosi, – si presentò.

– Vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi.

La fece accomodare.

– Sono qui perché ho qualcosa da dire riguardo ad Alfio Burrano, – attaccò subito la ragazza, senza preamboli.

L’occhio di Vanina si spostò immediatamente sul polso destro, occupato da un groviglio di braccialetti lucidissimi.

– Mi dica.

– Io so con certezza che non è stato lui ad ammazzare sua zia.

– Ah. E come fa a saperlo?

– Lo so perché quando è successo… – esitò un momento, poi alzò gli occhi, determinata. – Alfio era con me.

Il vicequestore la fissò.

– Quanti anni hai, Elena? – le chiese, passando al tu.

La ragazza abbassò lo sguardo per un istante, ma lo rialzò subito, fiero.

– Diciotto.

– E che ci facevi insieme ad Alfio Burrano?

– Sesso.

Vanina faticò a nascondere l’incredulità. Non tanto per il fatto in sé, che aveva sgamato dopo due secondi di conversazione, quanto per la disinvoltura sfrontata con cui era stato dichiarato.

– Stupita, dottoressa? Alfio è un uomo attraente anche per una della mia età. E in questo campo, ha una lunga… diciamo cosí… esperienza. Ma queste cose probabilmente lei le sapeva già.

Il vicequestore ignorò la provocazione, mentre il suo sguardo raggiunse lo zero termico. Sapere di essere annoverata, senza motivo reale poi, tra le amanti di Alfio Burrano non era la piú gradevole delle scoperte.

In quel momento sopraggiunse Fragapane, che si bloccò sulla porta con un foglio tra le mani.

– Oh, scusi, capo. Non sapevo che ci fosse qualcuno…

Il vicequestore gli fece cenno di entrare. Fragapane le consegnò un rapporto appena arrivato dalla Scientifica e batté subito in ritirata, non senza prima aver lanciato una breve occhiata alla ragazza.

Vanina lesse velocemente il rapporto e allontanò il foglio.

– Elena, tu lo sai che quello che dici qui dentro poi viene verbalizzato?

– Che significa?

– Che viene messo per iscritto, e che poi tu dovrai firmare questa dichiarazione.

– Per me va bene.

– Il dottor Burrano sa che sei qui?

– No, lui mi aveva vietato di farmi avanti. Ha paura. Di mio padre, che è il suo migliore amico. E… di lei. Ma non mi sembra giusto che per non ammettere di essere venuto a letto con me debba rischiare di finire in galera per un omicidio che non ha commesso.

Elena era la figlia di Gigi Nicolosi. Ora era tutto piú chiaro.

– Paura di me? – disse Vanina. – E perché? Ora ha un alibi. Può dormire tra due guanciali. Quanto al resto, non rientra nelle mie competenze.

Elena stirò le labbra in un sorriso storto.

– Dove devo firmare? – chiese, con aria sbrigativa.

Vanina richiamò Marta, che comparve subito.

– L’ispettore Bonazzoli raccoglierà la tua testimonianza dettagliata, e la metterà a verbale, – disse, alzandosi dalla poltrona e sfilando la giacca dalla spalliera.

Aspettò che l’ispettore si sedesse al suo posto per metterle sotto il naso il rapporto della Scientifica. A lei la scelta del buon uso che se ne poteva fare.

Salutò e finalmente uscí.