16.

Alfio scese dalla macchina mentre Chadi richiudeva il cancello.

Lo congedò subito, rispedendolo nella dépendance, ed entrò in casa. Non dormiva a Sciara dalla sera del cadavere.

Si versò due dita di whisky, un torbato speciale che gli portava un suo amico, e si buttò su una poltrona. Stravolto.

Non ci poteva pensare, a quello che aveva fatto. Avrebbe dovuto tenersi alla larga, far sbollire la cosa, non accettare le provocazioni, ed evitare cosí di commettere la peggiore cazzata della sua vita. Perché quello che aveva fatto, prima o poi, l’avrebbe pagato. Perché quando cedi a una cosa simile, devi essere cosciente che ti stai legando mani e piedi, e che non sarà facile scrollarti di dosso la sensazione di aver tradito la tua coscienza. Perché lui di leggerezze nella vita ne aveva fatte tante, alcune anche imperdonabili, ma una coscienza ce l’aveva, e non l’aveva tradita mai. Fino a quella domenica maledetta.

L’avvilimento, l’improvvisa incertezza del futuro, le prospettive capovolte: tutto questo può sfiancare un uomo. Può sfinirlo. Lui non ce l’aveva fatta piú a resistere a quelle provocazioni continue, alla tentazione di arrendersi a quel desiderio e farla finita, una volta per tutte. E aveva ceduto.

Vide il suo telefono ancora sotto carica sul mobiletto, dove l’aveva dimenticato quella mattina quando era corso incontro alla sua maledizione.

Una caterva di messaggi sull’icona WhatsApp e due in segreteria telefonica. Decise di iniziare da quelli.

La voce di Vanina Guarrasi che gli diceva di richiamarla «anche tardi» peggiorò ancora di piú il suo stato mentale. Fino alla sera prima si sarebbe staccato un braccio per ricevere una sua telefonata. E chissà, magari se fosse successo a quest’ora non sarebbe stato lí a dannarsi. Ma adesso lei era l’ultima persona che avrebbe voluto sentire.

Infine il messaggio di Carmelo Spanò. A quello, però, non poteva esimersi dal rispondere.

Spanò era seduto nell’ufficio del vicequestore e la aspettava.

– Ispettore, me la dice una cosa? Ma com’è che lei è sempre disponibile nel giro di dieci minuti?

L’ispettore storse i baffi.

– Per forza le devo rispondere?

– Se la mette a disagio no.

Ci pensò su.

– E lei com’è che è sempre a disposizione? – chiese, in replica.

– Ho capito, – tagliò corto Vanina.

Spanò giocherellò con un portapenne.

– Perché non ho niente da fare, – iniziò. – E perché se mi fermo penso, e se penso poi mi viene la rabbia. E se mi viene la rabbia poi finisco sotto casa di una persona, e un giorno o l’altro gli spacco la faccia. E poi quello stronzo me ne fa pentire per il resto dei miei giorni. Perciò, per cortesia, mi dia da lavorare.

Vanina si abbandonò sulla sua poltrona e tirò fuori una sigaretta.

– Tanto siamo io e lei. Non si secca, vero, Spanò?

– Io? No di certo. Anzi, se posso… – allungò la mano verso il pacchetto di Gauloises.

– Dobbiamo cominciare da zero, – attaccò il vicequestore. – Cercare tracce, impronte, tutto… Dobbiamo convocare la Santadriano, la portinaia e Mioara. Sappiamo che la signora ha parlato al telefono con qualcuno. Una come la Burrano aveva di sicuro anche un telefono cellulare. Dobbiamo richiedere i tabulati e capire con chi. La pistola, la valigetta rendevano la simulazione perfetta, tant’è che infatti ci stavamo cascando con tutte le scarpe. L’assassino non ha pensato a eliminare le tracce del pranzo che la signora stava preparando, quello è stato il primo errore. E non sapeva, o non si ricordava, che la Burrano non era in grado di premere un grilletto perché aveva quella grave forma di artrosi. Infine, le ha sparato a piú di venti centimetri di distanza. E quello è stato l’ultimo errore, il piú importante.

Il telefono di Spanò prese a squillare. L’ispettore si contorse per tirarlo fuori dalla tasca dei jeans, che gli andavano troppo stretti.

– Oh, finalmente! Alfio è.

– Mi raccomando, Spanò, non divulghiamo.

– Ci mancherebbe altro!

Spanò si schiarí la voce e rispose. Vanina si appoggiò sui gomiti, e si mise in ascolto. Quando chiuse, l’ispettore era serio.

– Mischinazzo. Un colpo gli pigliò. Continuava a dire che non ci poteva credere.

– E neppure noi.

Vanina si alzò e prese la giacca appesa dietro la poltrona.

– Andiamo.

– Dove?

– Secondo lei l’ho fatta venire in ufficio alle dieci di sera solo per scambiarci due opinioni?

L’ispettore la seguí perplesso. Appena fuori andò dritto verso il parcheggio delle auto di servizio.

– Spanò! Ma dove va? – lo richiamò Vanina.

L’uomo si fermò davanti all’ingresso.

– Ancora non l’ho capito, veramente.

– Andiamo con la sua Vespa.

Spanò tornò indietro. – Ma dove dobbiamo andare, dottoressa?

– A sballarci da qualche parte per dimenticare il nostro porco lavoro.

L’ispettore la guardò stranito.

– Ma secondo lei dove dobbiamo andare, Spanò? A casa della Burrano, ovviamente. Io e lei da soli, senza rotture di scatole tra i piedi, e con quattro occhi aperti. Con la Vespa ci sbrighiamo prima.

Vespa 125 Primavera bianca anni Settanta. Ineguagliabile. Vanina gliela invidiava ogni volta.

Peccato solo per il bauletto inguardabile che l’ispettore aveva adattato dietro, e da cui ora stava estraendo un casco minimal effetto scodella, rosa e con un adesivo Naj-Oleari appiccicato sopra.

– È un vecchio casco di mia moglie, – si giustificò. – Ex moglie, – corresse poi.

Vanina non fece domande.

Spanò l’apprezzò. Che avrebbe dovuto rispondere, poi? Che era cosí cretino da aver montato quella schifezza di contenitore pur di tenersi sempre appresso quel cimelio nostalgico, nella speranza illusoria che un giorno per caso sua moglie accettasse un passaggio e, vinta dai ricordi, tornasse sui suoi passi?

Il portone era chiuso.

Vanina citofonò in portineria. Mioara le venne incontro con le chiavi in mano, preoccupata.

– Vuole che io vengo con voi in casa?

– No, Mioara, non serve.

La ragazza rimase a guardarli mentre salivano le scale, poi rientrò in portineria scuotendo la testa.

L’odore di bruciato aveva riempito la casa.

– Da dove cominciamo, dottoressa? – chiese Spanò.

– Dalla cucina, – dove tutto era rimasto com’era, compreso l’arrosto che giaceva lí intonso. Segno che Mioara si era attenuta agli ordini.

Sul tavolo c’era ancora la casseruola col vino in cui la signora doveva aver fatto marinare la carne. Accanto, un quaderno di ricette scritte con una grafia ordinata, antica.

Nella prima pagina c’era una firma. Agata Maria Burrano. La suocera, probabilmente.

– Questa stava preparando un pranzo con tutti i crismi, – disse Spanò, col naso dentro una pentola.

– Lo sa che cosa mi fa arraggiare, ispettore? Che mi sono fatta prendere per i fondelli per due ore sane da un fituso di killer.

L’ispettore annuí. Lo sapeva, lo sapeva eccome.

Vanina tornò verso lo studio. Accese la luce e rimase a guardare la stanza.

Spanò la raggiunse e s’avvicinò alla scrivania, infilandosi i guanti. – La signora era già seduta, quando l’assassino le sparò. Infatti s’è accasciata sul tavolo, – ragionò.

– Le possibilità sono due. La prima è che l’assassino sia entrato in casa per conto suo, ma senza compiere effrazione, l’abbia sorpresa alle spalle e abbia sparato. Poi abbia messo a posto la valigetta, i proiettili e la pistola in modo tale che non ci fossero dubbi sulla premeditazione del gesto suicida. Però… – Vanina prese un respiro, dubbiosa. – Però io ho la sensazione che non sia andata cosí. Secondo me la signora il suo assassino lo conosceva.

– Perciò la seconda ipotesi è che gli abbia aperto lei e l’abbia ricevuto nello studio, – Spanò guardò il posacenere, – e si sia accesa pure una sigaretta.

– Anche questo indica che lo conosceva bene, altrimenti l’avrebbe portato in salotto. Senza contare che il tizio, o la tizia, sapeva dove fossero sia la valigetta sia la pistola. Ed era sicuro che ritrovandoli lí noi avremmo avuto la conferma che era stata Teresa Burrano ad ammazzare il marito e la Cutò.

– Ci ha indirizzati, insomma, – concluse Spanò.

Vanina si chinò sulla cartella insanguinata e gli chiese di sollevarla. Era vuota.

– Apra un po’ quella di sotto, Spanò.

L’ispettore aprí la seconda carpetta. Era grande come un quaderno, ma deformata dal contenuto.

– Sembrano delle ricevute.

Ne prese qualcuna e fece per leggerla, ma non ci riuscí.

– Gli occhiali! – disse. Non li aveva.

Girò i fogli verso il vicequestore, che s’avvicinò.

– Sono delle ricevute. Di… – lesse. – Rate. Mensili, a quello che vedo.

– Rate? Cosí, generico?

Vanina annuí, pensosa. La fronte corrucciata.

– Ispettore, mi dia qualcosa per toccare ’sti fogli.

Spanò si sfilò un altro paio di guanti dalla tasca e glieli porse.

Vanina tirò fuori tutto il mucchio di ricevute e iniziò a leggerle una per una. Erano sempre cifre diverse, ma il nome del destinatario era lo stesso. Per le prime dieci. Poi il nome cambiava per diciotto ricevute, sempre di cifre diverse l’una dall’altra, e cambiava ancora per altre venti ricevute. Tutte cifre a tre zeri.

Aprí il cassetto centrale della scrivania. C’erano solo fogli bianchi e materiale vario di cancelleria. Si chinò sulla fila di cassetti a sinistra. Il primo, l’unico provvisto di serratura, aveva la chiave girata ed era leggermente aperto.

Dentro c’era un’agenda. L’aprí. Era fitta di nomi, cognomi, e numeri telefonici. Una popolazione.

– Spanò, dobbiamo far controllare dalla Scientifica questo cassettino, per capire se per caso la pistola fosse conservata qui. L’assassino potrebbe averla presa mentre la signora lo apriva. E vediamo se sulla carpetta vuota c’è qualche impronta oltre a quelle della Burrano.

– Non le pare strano che sia vuota? L’altra è piena piena che sta scoppiando, e questa è vuota.

– Ci dobbiamo riflettere. Cosí come dobbiamo capire che sono quelle ricevute. Perciò l’altra carpetta ce la portiamo noi. Ora, prima che domani mattina nel casino se la prendano loro. E portiamoci dietro anche l’agenda.

Tirò fuori dalla borsa la solita sacca di tela, che tutto portava tranne i libri per cui era stata creata, e gliela porse. – Siamo in Vespa, – gli ricordò.

– Dottoressa, – fece Spanò, infilando la carpetta nella sacca, – io un sospetto sulle ricevute ce l’avrei.

– Pure io ce l’ho, ispettore. Pure io…

Ed era un sospetto di quelli rognosi, di quelli che se si rivelano fondati incasinano tutto.

Per questo preferirono non dirselo.

L’aria, sulla via del ritorno, si era rinfrescata parecchio, e del resto era pure normale. Catania non era Milano, dove già per andare in giro in Vespa la sera avrebbe avuto bisogno come minimo di un piumino cento grammi, ma sempre autunno era. Il fatto che appena dodici ore prima lei fosse stata spaparanzata su una spiaggia non escludeva che da un momento all’altro la temperatura potesse crollare di colpo.

Fecero il giro passando da piazza Spirito Santo e si fermarono al chiosco all’angolo.

Il pub accanto era ancora in piena attività, come tutti i locali della zona. Solo la trattoria di Nino, proprio là dietro, la domenica sera storicamente era chiusa.

– Questo ha di bello, Catania, – attaccò Spanò. – Che è viva. Anche a mezzanotte. Anche in centro di settimana. Ma lei ’ste cose non le sa: se ne andò a stare a Santo Stefano!

– E che? Santo Stefano non è quasi Catania?

– Santo Stefano è Santo Stefano. E non dica mai ai suoi compaesani che sono catanesi, per carità! Se la pigliano come un’offesa.

Vanina ordinò un mandarino e limone e Spanò una spuma di caffè.

– ’Sta cosa di andare per chioschi la sera tardi, da qualunque esperienza uno sia reduce, è una catanesata vera. Noi abbiamo lavorato fino a un attimo fa, questi girano per locali da una serata, e tutti ci ritroviamo qui a bere seltz, e mandarino, e menta. Per non parlare poi di quel frappè da tremila calorie con la nutella e la brioscina Tomarchio frullata.

– E non è bello? A Catania i chioschi esistono dalla notte dei tempi. Da quando erano dei banchetti di legno che vendevano acqua e zammú.

– Ah, no! Acqua e zammú era nostro. L’anice viene dagli arabi, e gli arabi ce li abbiamo avuti noi, – puntualizzò Vanina. – Comunque ha ragione, Spanò. Catania non vuole dormire mai. Forse è ’sto vulcano, sempre in attività, che vi trasmette un’energia speciale…

– Perché, a lei non gliela trasmette?

– Non lo so. Forse. O magari su di me non attacca perché ho la scorza palermitana. Perché sempre palermitana mi sento, ispettore. E un palermitano a Catania è convinto di non poterci stare bene, anche se in realtà non è cosí.

Spanò le sorrise. – Lei secondo me a Catania ci starà benissimo. Questione di ammorbidire la scorza.

Fumarono una sigaretta, inseguendo ognuno i propri pensieri, che poi in quel momento andavano nella stessa direzione.

– Ci pensa, Spanò? Siamo a un passo dalla Casa Valentino. Qua intorno a quei tempi doveva essere tutto un bordello.

– Era San Berillo, dottoressa. Bordello era e bordello rimase anche per molti anni dopo. Anzi, pure peggio perché non c’era manco piú il controllo dello Stato. A poco a poco il centro storico la sera diventò infrequentabile. Negli anni Ottanta, poi, volavano proiettili che era un piacere. Dopo c’è stata la rivalutazione della zona, è iniziata la movida, i giovani, i locali…

– Pure a Palermo, alla Kalsa, cosí è stato, in fondo. Però noi andiamo piú lenti, impieghiamo piú tempo –. Buttò la sigaretta nel bicchiere, soffiando via l’ultima boccata. – Sarà perché non c’è il vulcano, che dice?

Spanò sorrise. – Siete fumosi, – sentenziò, montando sulla Vespa e passandole il casco da liceale. Era anni Ottanta, e si vedeva, ma c’era pure una data segnata con un pennarello, dopo una firma. Rosy. La moglie di Spanò doveva chiamarsi cosí.

– Questo è l’ultimo scampolo di quartiere a luci rosse che c’è rimasto: San Berillo vecchio, – indicò l’ispettore passando per via Di Prima, una strada lunga su cui si aprivano una serie di straduzze sdirrupate, popolate da un’umanità multietnica di trans, prostitute e giú di lí. Poi piano piano la situazione migliorava: un albergo di lusso nuovo nuovo, un vecchio cinema, qualche pizzeria. Superarono la Stazione Centrale e poi di nuovo indietro verso via di Sangiuliano. Ed ecco il retro delle straduzze sdirrupate, con via delle Finanze capofila. A sinistra la piazza, con la caserma davanti. E la Mobile.

– Se ne vada a letto, dottoressa, che da domani ci toccherà lavorare a tutta manetta per acchiappare il bastardo di turno, – si raccomandò l’ispettore, con fare paterno.

– Vale anche per lei, – disse Vanina, vedendolo andare verso il portone chiuso.

– Io poso queste cose in ufficio e poi me ne vado a casa.

– Buonanotte, Spanò.

Entrò in macchina, fece il giro della piazza e s’allontanò. Mise un po’ di musica, quella che le capitò sotto mano frugando nel cassettino. Jacob Gurevitsch: Lovers in Paris. Paolo.

Da dov’era uscito quel cd?

Il traffico era cosí intenso che pareva mezzogiorno. Catania, pensò. Ma sarà il vulcano per davvero?

Spense la musica e si accese una sigaretta.

L’indomani il vicequestore Guarrasi arrivò in ufficio alle otto. Spanò e Fragapane erano già attivi e confabulavano controllando le ricevute trovate nella cartelletta della vittima.

Il sovrintendente capo Pappalardo era stato avvertito e a momenti sarebbe tornato sulla scena insieme a una squadra, per approfondire con altri rilievi. Il vice dirigente Manenti sarebbe andato con loro.

Vanina preferiva essere presente.

Passò nell’ufficio di Bonazzoli e Nunnari. Li trovò in piedi che parlavano fitto.

Il sovrintendente si mise sull’attenti, Marta si avvicinò.

– Bonazzoli, sei rossa affarata. Ma quanto sole hai preso?

L’ispettore si toccò il viso, confusa.

– Ragazzi, cerchiamo di darci una mossa e di dividerci il lavoro. Abbiamo un nuovo omicidio, piú l’indagine su quello della Cutò, che potrebbe essere in dirittura d’arrivo, e Vassalli sta chiedendo l’autorizzazione al giudice per la revisione del caso Burrano.

I due annuirono insieme.

– Nunnari, procuriamoci i tabulati telefonici della signora e controlliamo tutte le telefonate ricevute e fatte ieri mattina. E convochiamo Di Stefano.

– Signorsí, capo.

– Ma lo fai apposta oppure ti viene spontaneo? – gli chiese.

L’uomo s’imbarazzò.

– Mi scusi, dottoressa. Credevo che divertisse anche lei…

– Vai, va’. Vai a lavorare, Full Metal Jacket.

Nunnari sorrise e partí verso l’ufficio accanto.

– Marta, tu vieni con me a casa della vecchia e interroghi di nuovo le tre donne. Sappiamo dov’è andata la Santadriano?

– Da un’amica, credo. Ma mi ha dato il suo cellulare. Le telefono subito.

– Vai. Ah, e mi raccomando: appena arriva Macchia chiamami, – fece per andarsene. – Occhio che ti si spella la fronte, – l’avvertí sorridendole.

La ragazza la seguí con gli occhi, incerta.

Passò da Spanò. – Novità, ispettore?

– Mah, dottoressa, io ho la sensazione che si tratti di quello che pensavamo noi.

– Usura?

– Credo di sí. Tornerebbero un sacco di cose, primo fra tutti il fatto che la signora fosse cosí temuta ma che tutti volessero tenersela cara. E anche l’aumento costante del suo patrimonio, troppo regolare per essere legato solo agli introiti degli affari di famiglia. Ci sarà una sorta di registro in cui la signora annotava cifre e nomi, ma evidentemente non era nel cassettino. Per i numeri telefonici dell’agenda ancora non ho fatto nulla.

– Lasci stare, quello è un lavoro che può sbrigare Lo Faro. Cosí lo impieghiamo e la finisce con quell’aria da vittima incompresa. Lei senta Alfio Burrano e si faccia dire tutto quello che sa sugli affari di sua zia, e sulle persone con cui era piú in confidenza. Per quanto, mi pare difficile che sappia molto piú di quello che riusciremmo a scoprire noi. Non credo che la zia lo tenesse in grande considerazione.

Fragapane entrò con un foglio in mano.

– Dottoressa, arrivò il risultato della Scientifica per quelle impronte digitali sul macchinario del montacarichi. Pare che si sono mantenute abbastanza bene perché c’era il tappo di plastica e prendevano poco ossigeno, altrimenti ciao. Corrispondono a quelle sull’accendino in quasi quindici punti, perciò…

– Perciò sono di Teresa Regalbuto.

Marta comparve sulla porta.

– Capo, il dottor Macchia è appena arrivato.

Vanina la fissò con un sorriso accennato.

– Non avrei potuto scegliere vedetta migliore.

La lasciò lí a chiedersi che volesse dire e attraversò il corridoio ad ampie falcate per raggiungere l’ufficio sovraffollato di Macchia. Incrociò Lo Faro che usciva in quel momento.

– Il dottore mi ha chiesto se gli andavo a prendere un caffè, – si giustificò subito.

– Tranquillo, Lo Faro. Per me puoi portare il caffè pure al questore, se ti fa piacere. Basta che ora te ne torni in ufficio e ti metti a lavorare, che abbiamo fretta. Vai da Spanò e fatti spiegare tutto. E tieniti pronto, tra un po’ usciamo.

L’agente s’illuminò. – Vado subito!

– Lo Faro, – lo richiamò.

Quello si voltò derapando sul pavimento del corridoio. Vanina lo fulminò. Ma quanto poteva essere deficiente?

– Prima di riferire qualcosa, qualunque cosa, all’amichetta tua, vieni da me e decidiamo insieme cosa dire e come dirlo. Vedi che è una possibilità che ti sto dando. Non te la giocare perché se no ti ritrovi in esilio permanente al centralino senza manco capire come ci sei arrivato.

Lo Faro annuí ripetutamente.

Tito era già piazzato dietro la scrivania, il sigaro spento in bocca e un bicchierino da caffè davanti, di sicuro non proveniente dal distributore automatico. Abbronzato come lei non sarebbe stata neppure dopo un mese alle Maldive. Per non parlare poi di Marta, che manco dopo un anno.

– Mare? – gli chiese, appena la folla si diradò.

– Una meraviglia di mare, – precisò lui. – Che mi dici? – cambiò discorso, ristabilendo i ruoli.

Gli riferí le novità e man mano che parlava lo vedeva accigliarsi sempre di piú.

– Un casino, insomma.

– Dipende. Ora sappiamo con certezza che Teresa Burrano ha ucciso Maria Cutò. E se il Dna sulla tazzina lo confermerà è plausibile che sia andata come penso io. Quanto al suo omicidio, se i sospetti miei e di Spanò sono confermati, la signora prestava soldi a strozzo a un bel po’ di gente. Sfido io a trovare tra questi uno solo che non la volesse morta. Se non ci fossero di mezzo la pistola e la valigetta, ti assicuro che il legame tra quest’omicidio e i due vecchi sarebbe molto piú labile. L’assassino sapeva. E sapeva pure dove trovare la valigetta e la pistola.

– Vediamo che cosa esce da questo nuovo sopralluogo della Scientifica. Io sono incasinato con un’indagine su un giro di estorsioni che sta per concludersi, ma voglio essere comunque informato.

– Certo, capo. Da me o da qualcuno dei miei… – concluse alzandosi in piedi. Gli sorrise.

Tito la fissò rigirandosi il sigaro in bocca e ricambiò.

Il commissario Patanè camminava zigzagando sul marciapiede di via Umberto come una scheggia impazzita. Un’occhiata alla prima pagina del giornale e il decaffeinato che gli aveva offerto il geometra Bellia gli era andato di traverso. Minchia, che cosa clamorosa! Teresa Regalbuto Burrano che si suicida. Ovviamente non s’era portato dietro né il cellulare, né il numero della Guarrasi, e manco le chiavi della macchina. E ora avrebbe voluto possedere le ali ai piedi, o anche semplicemente una trentina d’anni in meno, per farsela di corsa e arrivare a casa in due minuti.

– Gino! Che fu? – l’accolse Angelina, spostando il secchio pieno d’acqua. – Matri santa, tutto congestionato sei!

– Unn’i misi! – si dannava Gino, rivoltando tutti gli svuotatasche.

– Ma che cerchi?

– Le chiavi della macchina… Trovate! Cà c’è il telefonino… – aprí un cassetto. – Ma com’è che oggi tutte cose spariscono!

– Ma che stai cercando? – ripeté Angelina, seccata.

– Il biglietto da visita della Guarrasi.

La donna mise giú il mocio Vileda come se stesse piantando una bandiera.

– Pirchí? Che ci devi fare?

– Angelina, cerca di finirla e ’nesci ’sto bigliettino, se no finisce a sciarra –. Sperò che prospettarle un litigio bastasse a spegnerle i bollori. Ma vedi tu se uno a ottantatre anni si doveva sopportare pure le scenate di gelosia.

– Lo strappai. Se la devi chiamare, a ’sta bedda spiccia, ci puoi telefonare macari in ufficio.

Che avrebbe dovuto fare? Questa era, e questa ormai si doveva tenere.

Andò al telefono e fece il numero della questura.

Nunnari richiamò il vicequestore che aveva appena infilato le scale con Bonazzoli, Fragapane e, in coda, Lo Faro.

– Che fu, Nunnari?

– C’è il commissario Biagio Patanè al telefono.

Vanina alzò gli occhi, piú divertita che contrariata. Patanè aveva perso di nuovo il suo numero.

– Digli che lo richiamo io tra cinque minuti.

S’installò nell’auto di servizio, con Marta alla guida, e lo richiamò.

– Commissario, buongiorno. Immagino che abbia già letto il giornale.

– Cose turche! – fece Patanè, esternando la sua incredulità. – Dottoressa, – disse poi, – ma lei è sicura proprio sicura che la signora si sparò?

Inutile. La potevano fare a lei, a Spanò e pure a Macchia, ma al commissario Patanè non la faceva nessuno. E dire che non sapeva neppure che la pistola fosse la stessa, eccetera eccetera, perché questa chicca ai giornalisti non era arrivata.

Il commissario voleva sapere i particolari. Quello che poteva servire a lui, e alla sua coscienza martoriata, era apprendere che il caso Burrano stava per trovare la sua sepoltura definitiva. Ma Vanina capiva che a quel punto, per come l’aveva coinvolto, non poteva aspettarsi che questo gli bastasse.

Gli disse di raggiungerla nel pomeriggio in ufficio.

Le tre donne erano lí, schierate in portineria, ognuna con la sua faccia piú perplessa. Avevano visto di nuovo tutto l’ambaradan del furgone della Scientifica, col signore che era venuto la sera prima, e in piú un tipo nervoso che dava ordini a destra e a sinistra e che non le aveva calcolate manco di striscio. Non avevano capito cosa fosse successo di nuovo.

Entrando in casa della portinaia, Vanina si sentí un po’ Maigret. C’era sempre una portinaia, nei gialli di Simenon, con tanto di ragazzini e gatti che giravano per casa.

A Catania era piú difficile, in genere era mestiere di appannaggio maschile. I portieri. Non si trattava di una regola, ovvio, ma di fatto era cosí. Agata era lí perché dopo essere rimasta vedova aveva preso il posto del marito.

Il vicequestore precettò Mioara, se la portò dietro nell’appartamento della Burrano.

Già nell’ingresso c’era una zona interdetta al passaggio, dove un videofotosegnalatore stava lavorando, con Fragapane che lo osservava.

Vanina affibbiò la ragazza rumena ai suoi uomini, per indicare loro tutti i posti in cui «sua signora» avrebbe potuto conservare o nascondere un registro contabile come quello che sospettavano lei e Spanò. Quelli che lei conosceva, ovviamente, che secondo il vicequestore erano un’esigua minoranza.

– Oh, Guarrasi! – l’accolse Manenti. – Perdiamo colpi, eh, eh, eh!

Vanina gli avrebbe scaricato in faccia l’intera collezione di Lalique della signora Burrano, se questo non avesse inficiato tutto il lavoro che il sovrintendente capo Pappalardo stava rifacendo ex novo con pazienza certosina.

– Che avete trovato all’ingresso? – gli chiese, senza raccogliere la provocazione.

– Un’impronta. Ora, per come andarono le cose ieri sera, capace che alla fine scopriamo che è della scarpa di Spanò, però intanto per non sapere né leggere né scrivere facciamo i dovuti rilievi.

La collezione di Lalique piú il vaso di porcellana di Capodimonte, irto di punte. Idealmente perfetto.

– Notizie della pistola?

– Certo! Lo sai, i balistici la notte non dormono, ’nsamai il vicequestore raccatta qualche bossolo da raffrontare con uno di sessant’anni prima.

– Manenti, vedi che è meglio per tutti e due se la finisci con le stronzate e collaboriamo.

Quello sospirò. – Che notizie dovrei avere, scusa? Piú tardi ti faccio sapere. Però se ti può interessare, il sovrintendente capo Pappalardo stamattina ha provveduto per il tampon kit sulla mano della signora. Ovviamente non ci sono tracce né di antimonio né di bario né di piombo.

– Qualcuno lavora la notte, – commentò, sarcastica.

S’avvicinò agli uomini che trafficavano di nuovo attorno alla scrivania, mentre Manenti se ne andò all’ingresso.

Pappalardo si sollevò.

– Dottoressa, volevo dirle che stamattina, prima di venire qui, ho analizzato parzialmente la valigetta. L’esterno era impolverato, pieno di una sorta di fuliggine, con tracce di sabbia vulcanica. Può essere utile per capire dov’era nascosta. Quasi certamente la pistola era lí dentro.

– Bravo, Pappalardo. Cerchi di recuperare il piú possibile.

Gli uomini e Mioara erano nella stanza accanto, la camera da letto della Burrano.

Lo Faro era salito su una scaletta a pioli e seguiva pedissequamente le indicazioni di Mioara, mentre Fragapane frugava in un cassetto.

– Piú destra. No, piú sinistra. Ora centro, dritto per dritto cerca con mano e trova scatola.

L’agente sudato scese con una scatola da scarpe in mano. Fotografie, cartoline, tutte vecchissime. Terzo buco nell’acqua in mezz’ora.

Mioara già spostava la scaletta da un’altra parte.

– Ora tu sali qua, – ordinò.

Vanina restò a osservare il quadretto esilarata per dieci minuti, durante i quali vide l’agente Lo Faro salire e scendere da quella scaletta quattro volte, ogni volta portando giú cimeli di ogni genere. Fragapane se ne stava per i fatti suoi, tirava fuori la roba dai cassetti e la rimetteva dentro ordinatamente.

– Fragapane, – lo riprese, – lei in teoria dovrebbe dettare comandi, non lasciare Lo Faro agli ordini di Mioara!

– ’Sta picciotta fa confondere, dottoressa. Però una cosa la capii: che ’sta casa nascondigli ne ha uno ogni metro. Possiamo fare notte.

– Continuate a cercare. Nei posti piú strani, mi raccomando.

Vanina si portò Mioara in cucina. Partendo dal pranzo della signora, che poveretta aveva cucinato tante cose, la spinse a raccontarle nei dettagli quello che aveva fatto la mattina del giorno prima. Riunione con amiche rumene, pranzo con amiche rumene, passaggio in macchina da amica rumena. Poi era tornata. E lí scoppiò in lacrime. Vanina temette che raccontandole la verità l’avrebbe lasciata sotto shock per una settimana, ma era inevitabile.

La riaccompagnò giú dalla portinaia, dove nel frattempo Marta si stava facendo raccontare per filo e per segno la mattinata delle altre due donne presenti la sera prima. Dal colorito anemico delle loro facce era evidente che l’ispettore aveva già comunicato la notizia.

Agata era stata a messa con sua cugina, alla chiesa della Collegiata, poi aveva comprato un vassoio di cannoli ed era tornata a casa a preparare il pranzo per i figli. Poi la signora Clelia era rientrata, e il resto lo sapevano già. Affezionata alla vecchia certo non si poteva dire, Agata, ma rispettosa questo sí. E motivi per farla fuori non ne poteva avere.

Vanina s’informò su chi fossero e cosa facessero gli altri condomini.

Tutta gente che con la vittima non aveva niente a che fare. L’unico era un signore che abitava al primo piano, un professore di Storia all’università, che un tempo le aveva fatto il filo. Ma era acciaccato forte poveraccio, si diceva che stesse lí lí per andarsene.

Gli altri niente. Una famigliola con bambini piccoli, una coppia di mezz’età, una vedova che viveva col figlio trentenne.

Clelia Santadriano raccontò di aver preso il passaggio che un’amica di Teresa avrebbe dato a entrambe e di essere andata a quell’esposizione di piante in una villa nobiliare. Aveva fatto il giro della villa tre volte, comprato un ulivo bonsai e due collane di cartapesta decorata realizzate da una sua conterranea, un’attrice che s’era data all’arte e ora vendeva le sue creazioni. Dopo due ore, dal momento che l’amica se ne stava ancora beatamente seduta sotto un palmizio a chiacchierare con altre quattro signore, aveva deciso di chiamare un taxi e se n’era tornata a casa. Il resto si sapeva. Quella notte aveva dormito da una conoscente, ma ora aveva preso possesso di una stanza all’Hotel Royal. E finché la cosa non si fosse risolta avrebbe alloggiato lí. Poi, probabilmente, se ne sarebbe tornata a casa sua, a Napoli.

Le domandò notizie sulle persone che frequentavano la signora, dove lei le riceveva, come si comportava con loro.

Di gente in casa di Teresa ne passava tanta, uomini e donne. I primi li faceva accomodare nel salottino dove aveva ricevuto lei e l’ispettore l’ultima volta, le seconde di solito nel salotto grande. Nello studio ci entrava solo quando aveva qualcosa da fare alla scrivania, e sí, capitava che qualcuno entrasse appresso a lei. Teresa non era mai espansiva con nessuno, neppure con la gente piú vicina.

– Aveva qualche amico piú intimo? – chiese Vanina.

– A parte me e Arturo nessuno.

– Arturo Renna?

– Sí, il notaio. Con lui c’era un rapporto particolare… Sí, insomma, c’era stato. In questi giorni, da quando è venuta fuori quella storia del cadavere alla villa, non la abbandonava un attimo.

– E il notaio ha saputo della notizia? Voglio dire, prima che stamattina uscisse sui giornali?

– Sí, l’ho chiamato io, ieri sera. Era distrutto. Non si capacitava neanche lui, come me. E alla fine una spiegazione c’era… – Alzò la testa. – Dottoressa, lei ora indagherà per trovare l’assassino?

– Ovvio, signora Santadriano. E le assicuro che non lasceremo in pace nessuno.

Si rivolse anche alle altre due.

– Devo chiedervi di rimanere a disposizione. E sempre reperibili.

Agata e Mioara annuirono convinte.

La Santadriano la guardò in silenzio. Vanina notò che aveva degli occhi verdi straordinari. Era decisamente una bella donna.

Tornò su. Quelli della Scientifica erano ancora in attività, mentre Fragapane era piegato accanto al letto della vittima e frugava sotto il materasso. Lo Faro vagava per la casa col naso per aria e un telefonino in mano.

– Abbiamo trovato questo, dottoressa. Era in fondo al cassetto del comodino insieme al caricabatterie.

Un Nec cromato con lo sportellino. In confronto quello di Patanè era un ritrovato della tecnologia. Vanina lo prese per portarlo a Nunnari.

Lasciò i due uomini lí insieme alla Bonazzoli e uscendo raccomandò a Fragapane di stare addosso al suo amico Pappalardo, l’unico su cui potevano contare per velocizzare i tempi di risposta della Scientifica.

Dalle loro analisi dipendevano sia la chiusura del vecchio caso sia la risoluzione del nuovo. E se c’era una cosa che il vicequestore Guarrasi non sopportava era dipendere da qualcun altro, soprattutto poi se si trattava di Manenti.

Decise di tornare in ufficio a piedi, lasciando lí l’auto di servizio. Aveva bisogno di pensare. Qualcosa non le tornava, in tutto quello che era successo. Non sapeva bene cosa fosse, ma sapeva che c’era. In quella fase, teoricamente, qualche incertezza sarebbe stata pure normale, se a questa non si fosse aggiunta la sensazione che qualcuno stesse cercando di spingerla in una direzione. E quella sensazione l’aveva avuta anche la sera prima, quando aveva disposto che nessuno dormisse in casa della Burrano e che Mioara non toccasse niente in cucina. Di fatto, era come aver messo sotto sequestro l’appartamento, anche se formalmente non era cosí. Se il suicidio l’avesse convinta al cento per cento, anche nel suo subconscio, quella cautela le sarebbe sembrata inutile. Invece le era venuta spontanea.

Cosí come le era venuto spontaneo rimuginarci su.

Si fermò in un bar lungo via Etnea e ordinò il secondo cappuccino della mattinata.

Mentre lo sorseggiava, appoggiata al bancone, guardò due poster antichi appesi alla parete. I tipici cartelloni pubblicitari anni Cinquanta con le donne bamboleggianti e gli uomini brillantinati. L’epoca di Burrano e della Cutò.

Questo era, che non la lasciava in pace. Le prove del vecchio omicidio esposte ai suoi occhi come sotto un riflettore. Gliel’avevano voluta servire su un vassoio d’argento. E se non avesse avuto in mano la concordanza tra l’impronta della signora e quella del montacarichi, avrebbe iniziato a mettere in dubbio tutte le ipotesi.

Alfio Burrano stava uscendo dal portone della Mobile. Sorrise nel vederla arrivare.

Vanina si ricordò che la sera prima le aveva mandato due messaggi, cui lei non aveva risposto.

– Carmelo mi ha raccontato, – disse Alfio. – Ho cercato di dare una mano con quello che sapevo, ma non è granché. Lo sai, mia zia era quella che era e non avevamo molto dialogo. Però una fine simile non la meritava. Chi può averla voluta?

– Nessuno merita mai quella fine, Alfio. Il mio lavoro è capire chi ha deciso di infliggergliela e perché. Ed è quello che ora vado a fare, scusami. Se dovessi ricordare qualcos’altro, anche un dettaglio stupido faccelo sapere.

– Ok, – annuí Alfio.

– Ah, e mi raccomando, evita di renderti irreperibile per ore, come hai fatto ieri.

– Avevo lasciato il telefono a Sciara e sono stato tutto il giorno senza… Non mi capita mai.

Lo salutò e salí in ufficio.

Spanò era da Nunnari e stavano guardando insieme i tabulati telefonici.

Vanina consegnò loro il Nec, di cui il sovrintendente conosceva già l’esistenza.

– La signora ha fatto una sola telefonata, alle 10.13, ad Alfio. Voleva che lui la raggiungesse subito a casa. Era infuriata per la questione dell’articolo che era uscito sulla «Gazzetta Siciliana», ma Alfio non c’è andato. Dice che si era rotto le scatole di essere sempre a disposizione sua.

Si alzò e fece sedere Vanina al suo posto.

– Le altre telefonate sono piú brevi, e sono chiamate ricevute, – disse Nunnari. Girò il monitor del computer verso il vicequestore.

– Una da un fisso, che corrisponde allo studio notarile Renna, ed è durata cinque minuti. Le altre due sono partite da un telefono cellulare. Una brevissima e l’altra un po’ piú lunga. Stiamo vedendo a chi corrisponde, ma è un numero che ricorre spesso anche nei giorni precedenti. Quello dello studio di Renna è un altro numero ricorrente.

– E ci sta, visto che la Santadriano mi ha confermato che tra Renna e la vittima c’era un’amicizia particolare.

– Come diceva la zia Maricchia, – intervenne Spanò.

– Che non sbaglia un colpo.

Nunnari li guardò senza capire.

– Hai convocato Di Stefano? – gli chiese Vanina, cambiando discorso.

– Sí, tra poco arriva.

Spanò tamburellò con le dita sulla guancia, pensieroso.

– Ma secondo lei c’entra qualche cosa? No, perché magari può aver agito per vendetta, – fece Nunnari.

– Noi controlliamo se ha un alibi, ma mi pare difficile che sia stato lui, Nunnari. Gli Zinna stavano attuando già la loro vendetta per suo conto. La testimonianza di Calascibetta è stato il primo passo. E poi c’è l’articolo sul giornale di ieri, chissà da chi era stato imbeccato. Sicuramente da qualcuno che aveva una carta in piú rispetto alla Burrano, il che non è da tutti. No, secondo me Di Stefano non avrebbe corso il rischio.

– Allora perché lo stiamo convocando?

– Perché ora sappiamo che Teresa Regalbuto ha ucciso la Cutò, e perché abbiamo riaperto il caso Burrano. Non ci scordiamo che dobbiamo lavorare su due fronti diversi. Non ci confondiamo, mi raccomando.

Spanò le riferí che stava facendo qualche ricerca sui nomi scritti sulle ricevute trovate nella carpetta.

– Uno è un nome grosso, dottoressa. E anche le cifre sono le piú grosse. Un commerciante, pure molto conosciuto, che a quanto pare con gli affari dei Burrano non c’entra proprio niente.

– Questo avvalora ancora di piú la nostra ipotesi. Speriamo di trovare un registro contabile. Spanò, faccia una cosa: convochi Arturo Renna.

– Lo chiamo subito.

Vanina si ritirò nel suo ufficio.

I rapporti del medico legale e quello della Scientifica sui reperti precedenti erano sulla sua scrivania. Li rilesse, tanto per rinfrescarsi la memoria, ma non dicevano niente di piú di quello che sapeva già.

Il telefono vibrò mostrando per la terza volta il numero di Giuli.

– Tanto lo so che non avrò pace finché non ti do conto, – le rispose.

– Scusa, sai, ma ti ho mandato un sacco di messaggi, ti ho chiamato mille volte. Perciò te ne vai a Noto con quei due senza dirmi niente?

Vanina alzò gli occhi.

– Ma non eri in una full immersion di eventi mondani?

– Sí, ma magari mi avrebbe fatto piacere venire con voi.

– Non sarebbe stata una grande idea, Giuli, fidati.

– Ma che vai a pensare! Io dicevo per farmi un weekend da quelle parti, che è sempre bello.

– Come no! Non sarebbe andata bene la compagnia, credimi. E tu sai bene perché. Senti, ora scusami ma io sono sott’acqua…

– Ho letto. Alfio che dice?

Vanina s’irrigidí. Non le piaceva quel tono, troppo da «tu che lo conosci bene».

– L’ispettore Spanò l’ha sentito questa mattina.

Ovviamente non le disse che nel frattempo il caso si era evoluto da suicidio a omicidio. Tanto l’avrebbe saputo anche troppo presto.

– Ah, sí, Spanò, – fece Giuli. – Quello tracagnotto baffuto con cui sbevazzavi ieri sera tardi in piazza Spirito Santo? Un figaccione, eh! S’è pure separato da poco.

Vanina rimase in silenzio un attimo, poi: – Ma a te l’idea di entrare in polizia non t’è mai venuta in mente? Potresti mettere le tue capacità al servizio della comunità. Pensaci, sei ancora in tempo, – ironizzò.

– Dài, scherzavo! Sono passata di là in macchina e t’ho visto. Pensavo che fossi con Alfio Burrano e invece eri col baffone.

– Ero ancora in servizio ieri sera tardi, se t’interessa. E non vedo perché avrei dovuto essere con Alfio. Ma poi che ne sai tu dei fatti di Spanò?

– Sua moglie sta con un mio collega. Un pezzo grosso, un civilista.

Tutto sapeva, quel gazzettino.

– Io dovrei lavorare, Giuli. Volevi dirmi qualche cosa?

– Solo questo: la prossima volta che vai a Noto io vengo con te –. Fu costretta a prometterglielo.

Spanò entrò nella sua stanza proprio mentre lei stava ripensando al casco rosa, che quindi per lui doveva avere un significato particolare.

– Scusi, capo.

– Venga, Spanò.

L’ispettore le si sedette di fronte. Vanina lo guardò con piú attenzione del solito. Camicia colorata, jeans a vita bassa nei quali si vedeva che non era a suo agio.

Ecco di chi era la faccia che voleva spaccare: del pezzo grosso civilista.

– Ho convocato Renna. Verrà nel primo pomeriggio. Non mi è piaciuto quello che mi ha detto.

– Cioè?

– Ha chiesto se avessimo interrogato il nipote della vittima.

– Alfio Burrano?

– E l’ha detto con un tono come per dire che… insomma, che poteva essere il colpevole.

– E non ha aggiunto altro?

– No. Ha solo detto che sarebbe venuto subito, appena finito di pranzare.

Vanina guardò l’orologio: erano le due meno un quarto e manco se n’era resa conto.

– Vediamo che deve dirci, il notaio.

– Sí, solo che riguardo ad Alfio… io mi sto arrovellando su un fatto.

– Che cosa, ispettore?

– Se lo ricorda che ieri era irreperibile? Disse che aveva dimenticato il telefono a Sciara. Fu la prima cosa che mi disse, senza che gliel’avessi chiesto.

Anche a lei l’aveva detto.

Excusatio non petita accusatio manifesta, lei dice?

Spanò la guardò perplesso.

– Vabbe’. Lei dice che Alfio… che Burrano ha messo le mani avanti? – tradusse.

– Non dico questo, però…

– Però lo sospetta.

Squillò il telefono dell’ufficio.

– Guarrasi, – rispose.

– Macchia. Ce l’hai il tempo per pranzare insieme? Dovrei parlarti.

Era una richiesta insolita. In undici mesi lei e Tito avevano parlato fuori dall’ufficio sí e no tre volte, ed era capitato per caso. Calcolò che Renna non sarebbe arrivato prima delle tre.

– Ho un’ora, – rispose.

– Perfetto. Esci.

Vanina mise giú il telefono e si alzò, infilando sigarette e iPhone nelle tasche della giacca.

– Devo andare a pranzo col Grande Capo. Se Renna dovesse arrivare prima, lo porti qui e mi aspetti.

Da Nino c’era meno confusione del solito. Il lunedí era sempre cosí. Macchia si diresse verso la seconda stanza, e scelse il posto piú appartato. Invase un tavolo per quattro appendendo la giacca, immensa, sulla spalliera di una sedia vuota, e poggiando telefono, chiavi e portasigari sulla tovaglia.

Ordinò l’acqua, frizzante seria per carità niente cose sgasate, e aspettò il pane e la ciotola delle olive.

– Ci sono due questioni di cui dovrei parlarti, diversissime tra loro ma serie in egual misura, – attaccò.

Vanina lo guardò per carpire eventuali segnali negativi. Non che se ne aspettasse, ma non si sa mai.

– Dimmi.

– Cominciamo dalla prima, che è la piú importante. In questo periodo quelli della sezione Criminalità organizzata stanno lavorando moltissimo sui legami tra le famiglie catanesi e quelle palermitane. Un lavoro importante che stiamo svolgendo affiancati alla Dia. Ogni tre per due vengono fuori indagini portate a termine da te, che a loro servono da collegamento per altre indagini.

L’intervento di Nino interruppe il discorso.

– Cosa vi porto?

Macchia non ci pensò su. – Carne.

Scelse in due minuti.

Vanina si limitò a un piatto di pasta. Anche perché quel discorso le stava già chiudendo lo stomaco.

– Quindi? – disse, appena furono di nuovo soli.

– Quindi, per farla breve, l’ideale sarebbe se a capo della Sco della Mobile di Catania ci fossi tu. Giustolisi è bravo, senza dubbio, e potrebbe affiancarti benissimo, ma tu… Vanina, a me tenerti a risolvere omicidi comuni pare uno sciupio. È come avere Maradona e tenerlo in difesa!

– Tito, io ti ringrazio per il paragone lusinghiero, detto da un napoletano poi ancora di piú, ma tu sai benissimo che il mio reinserimento alla Sco è un argomento fuori discussione. Ho scelto di uscirne anni fa e non me ne pento. Sto bene dove sto, a ricercare gli assassini comuni, che richiede la stessa bravura, te l’assicuro.

– Non sto sminuendo il tuo lavoro, né togliendo importanza alla tua squadra. Dico solo che di gente capace, che potrebbe stare dove stai tu adesso, in giro ce n’è, mentre quello che sai fare tu, quello che hai imparato tu, non lo imparano in molti. Poco fa ne parlavo con Eliana Recupero, è rimasta colpita da te e dev’essersi andata a studiare il tuo curriculum –. La buttò lí, come una carta in piú da giocare.

– Ti dico una cosa, Tito. Quello che so fare io è né piú né meno quello che possono fare tutti i miei colleghi. E quello che ho imparato io può impararlo chiunque abbia voglia di calarsi nella fogna e venirne sommerso giorno dopo giorno con l’obiettivo di toglierne di mezzo il piú possibile, pur sapendo che ci si può affogare dentro. Il problema non è quello che so, il problema è come lo so, perché lo so e quando l’ho imparato. Ed è quello che mi ha fatto scegliere di andarmene, e che ogni giorno mi ricorda di aver fatto la scelta migliore. Vigliacca, forse, ma migliore.

Tito rimase in silenzio.

– Io ho sempre pensato che non fosse vero quello che dicono di te, che hai vendicato tuo padre e poi ti sei ritirata in buon ordine senza rischiare piú. E continuo a non crederci.

– E fai male, – gli rispose.

– Va bene. Prendo atto del tuo rifiuto. Io dovevo provarci, Vanina. Ma se dovessi cambiare idea… sappi che potrei darti carta bianca.

Vanina chiuse il discorso annuendo, proprio mentre Nino e un ragazzo mettevano in tavola un quantitativo di salsicce che avrebbe sfamato tutta la squadra.

– Scateniamo la nostra natura carnivora, eh, – divagò il vicequestore, sogghignando.

Tito la guardò dritto negli occhi piegando le labbra in un sorriso ambiguo.

– E questa è la seconda questione di cui dobbiamo parlare.

La Bonazzoli era rientrata in ufficio dopo aver fatto firmare i verbali alle tre donne. Aveva lasciato Fragapane e Lo Faro ancora lí a ravanare tra cassetti della biancheria, scarpiere e dispense, con qualche puntata sopra gli armadi. Questione di poco e sarebbero tornati indietro, sconfitti e a mani vuote.

Passando davanti al suo ufficio e vedendola sulla soglia, tesa, Vanina le aveva sorriso. Con la coda dell’occhio l’aveva vista lanciare uno sguardo interrogativo a Tito. Che attorno all’argomento, prima, non ci aveva girato neppure mezzo minuto: so che c’eri perché ti ho visto, come tu hai visto me, incasso le battute ma ti prego di non mettermi in difficoltà, anzi se puoi dammi una mano. Con lei. Perché il problema, incredibile a dirsi, era lei.

I due notai Renna, Arturo e Nicola, arrivarono cinque minuti dopo il loro rientro. Uno impettito, a passo quasi marziale, e l’altro che tirava su col naso come un disperato.

Spanò li accompagnò nell’ufficio di Vanina, che li fece accomodare davanti a lei.

La mascella serrata del notaio senior mostrava tutta l’alterigia della volta precedente, piú il fastidio di essere lí.

Vanina partí diretta, senza preamboli.

– Notaio, in che rapporti era con la signora Teresa Regalbuto?

– Eravamo amici.

– E lo eravate sempre stati?

– Quasi sempre.

– Sempre solo amici?

Il notaio la fissò.

– Che importanza ha adesso?

– Lei risponda.

– No, – rispose, con un sospiro spazientito.

– Ai tempi dell’omicidio di suo marito, eravate piú che amici?

– Cosa… Ma che c’entra questo con la morte di Teresa? – si alterò. – Credevo di essere qui perché una mia amica è stata uccisa e io potrei aiutarvi a far luce sul suo omicidio, non per rivangare fatti del passato che…

– Notaio, l’omicidio della sua amica ha riaperto le indagini anche su quello del marito. Perciò, per piacere, le chiedo di rispondermi senza lasciarsi andare a commenti.

– Su, papà, – intervenne il figlio, – sii collaborativo. Teresa te ne sarebbe grata.

Il notaio parve rabbonirsi.

– Siamo stati piú che amici per molto tempo, – rispose.

– Lei ha mai sospettato che Teresa potesse essere autrice dell’omicidio di suo marito?

Renna ebbe un guizzo, ma si trattenne.

– Ovviamente no.

– Ma l’ha sostenuta nel dimostrare che il colpevole fosse Masino Di Stefano?

– Perché, il colpevole non è Masino Di Stefano?

– In questo momento, come cinquantasette anni fa, il colpevole è da ricercare. È stata disposta la revisione del caso.

Il notaio non reagí alla notizia.

Vanina tirò fuori il testamento olografo di Burrano.

– Ha mai ricevuto una copia di questo documento?

Arturo Renna indossò un occhialetto a mezzaluna e lo studiò.

– No.

– Ha mai visto questa valigetta? – chiese Vanina tirando fuori una foto scattata la sera prima.

Il notaio la fissò per un istante, poi distolse lo sguardo.

– È una vecchia ventiquattrore con manette di sicurezza. Chi maneggiava molti soldi era abituato a vederne spesso.

– L’ha mai vista in mano a Teresa Regalbuto?

– Non mi pare cosa adatta a una donna. Non era nello stile della povera Teresa.

Vanina si drizzò sulla poltrona, appoggiando i gomiti sul tavolo.

– Notaio, lei ha idea di chi potesse volere la morte di Teresa Regalbuto?

Arturo Renna prese vigore.

– Purtroppo sí, – rispose.

Spanò si chinò sul tavolo dal lato del vicequestore, che portò le mani in avanti, intrecciando le dita.

– E sarebbe?

– Alfio Burrano.

Vanina non mostrò lo stupore.

– Cosa glielo fa pensare?

Renna senior fece cenno al figlio e quello aprí una cartella di cuoio, estraendone una busta.

– Il fatto che appena l’altro ieri Teresa aveva depositato presso lo studio notarile di mio figlio un testamento, con cui lascia erede suo nipote solo dell’azienda vinicola e della piccola parte della villa di Sciara che lui possiede già. E lo esclude dal resto dell’eredità, cioè dalla porzione piú cospicua.

Il vicequestore e Spanò si scambiarono un’occhiata carica di interrogativi.

– E il dottor Burrano era a conoscenza delle ultime volontà di sua zia?

– Lei gliele aveva rese note qualche giorno fa, prima di redigere il testamento. Ovviamente lui non l’aveva presa bene. L’aveva aggredita con insulti di ogni genere, e l’aveva persino minacciata. Questo non aveva fatto che avvalorare la sua disistima nei confronti di quel buono a nulla. Non credo sia arrivata a comunicargli che il testamento era stato depositato. O chissà forse lo ha fatto e questo ha scatenato la furia omicida.

Vanina fece una smorfia.

– Mi pare difficile che si sia trattato di una furia omicida improvvisa, notaio. Perché, vede, l’assassino ha fatto in modo che noi trovassimo, come una sorta di ammissione di colpa, tutte le prove che cercavamo per incriminare la signora dell’omicidio di suo marito, oltre che di quello di Maria Cutò.

Il notaio ammutolí per un attimo. Il figlio prese a tirare su col naso furiosamente.

– Teresa incriminata per l’assassinio di Maria Cutò? Ma… non è possibile, – disse Arturo.

– Purtroppo è cosa certa, notaio. Abbiamo le prove.

– E come… l’avrebbe ammazzata? Anche lei con un colpo di pistola?

– No. Crediamo che l’abbia sepolta viva dentro il montacarichi dove probabilmente l’aveva nascosta Burrano.

Arturo Renna la guardò fisso. Pallido, la mascella sempre piú serrata.

Vanina sostenne lo sguardo.

– E mi dica, notaio, chi sarebbe il nuovo erede del patrimonio dei Burrano?

Nicola Renna s’irrigidí. – Ma io non so se…

Il padre lo zittí con un cenno.

– Vi rispondo io: Clelia Santadriano.

Vanina trasecolò, Spanò inghiottí un’esclamazione di sorpresa.

– E la signora Santadriano è al corrente di questa eredità? – chiese il vicequestore.

– Assolutamente no. Non finché non verrà aperto il testamento. Teresa non voleva che lo sapesse –. Era tutto quello che Arturo Renna aveva da dire, ma pareva provato.

Vanina comunicò al notaio junior che avrebbe chiesto al giudice di disporre il sequestro del testamento.

Spanò tornò indietro dopo averli accompagnati all’uscita e si sedette di fronte al vicequestore, che nel frattempo s’era accesa una sigaretta e s’era avvicinata alla finestra.

– Dottoressa, temo che dovremo convocare di nuovo Alfio.

– Prima di tutto cerchiamo di capire se ha un alibi.

– Giusto. Una cosa non quadra, comunque. Ad Alfio chi glielo doveva dire dov’erano la valigetta e la pistola?

– Già, – disse Vanina, guardando fuori dalla finestra. Invece era proprio quello il punto che la inquietava di piú.

Cosí come lei aveva pensato che Teresa Burrano volesse violare i sigilli per cercare qualcosa all’interno della villa, allo stesso modo poteva averlo immaginato anche Alfio. E se la valigetta fosse stata nascosta nella villa lui sarebbe stato pure l’unico in grado di cercarla.

Ma questo Spanò non lo sapeva.

Il commissario Patanè entrò nel portone della Mobile alle cinque e mezzo spaccate. Prima la Guarrasi non era disponibile. Salí le due rampe di scale ed entrò nel corridoio. Lo percorse tutto, salutando chi lo riconosceva, o quelli che aveva avuto modo di conoscere in quei giorni di assidua frequentazione che l’avevano ringiovanito di vent’anni. Fragapane lo intravide e si precipitò a salutarlo.

Aveva quasi guadagnato la meta quando, con suo grande disappunto, incappò nel primo dirigente Macchia che rientrava nella sua stanza.

– Commissario Patanè! Ma non è che dobbiamo reintegrarla in servizio?

– Magari! Purtroppo oramai… Ero venuto a fare visita al…

– Al vicequestore Guarrasi, – lo anticipò Macchia, divertito.

Patanè si sentí a disagio. Simpatico era simpatico, non c’era dubbio, ma pure se gli poteva venire figlio sempre un superiore era. E lo sfotteva apertamente. Una sfottuta garbata, ovvio, ma bastava a farlo sentire ridicolo. Che poi magari l’effetto che faceva era proprio quello: ridicolo. Sempre appresso alla Guarrasi. Qualcuno poteva pure pensare che si fosse preso una sbandata senile per quella poliziotta agguerrita, che gli ricordava tanto sé stesso.

– Commissario, – lo risvegliò Vanina aprendo la porta dell’ufficio, dietro cui aveva visto la sua sagoma, ferma.

– Eccomi.

– Che fa lí dietro?

– No, niente… Salutai il dottore Macchia.

Lo fece accomodare e gli offrí subito una Gauloises e i cioccolatini.

Rasserenato, Patanè se ne fece fuori due. Poi esternò tutta la sua curiosità, che aveva avuto una giornata sana per lievitare e farsi imperiosa.

Vanina tendeva a raccontargli quello che riguardava il caso vecchio, cercando di non coinvolgerlo in quello piú fresco, che in fin dei conti non lo riguardava. Ma per com’erano incastrate le due indagini, purtroppo l’una richiamava sempre l’altra.

– C’è una cosa che da stamattina non mi può pace. Forse se la sarà chiesta pure lei. Anzi, ne sono sicuro.

– E me la dica, commissario.

– Mi domandavo: ma non è che ’sta valigetta l’hanno messa lí, assieme alla pistola che hanno usato, per farci arrivare alla conclusione piú in fretta? E magari senza scavare ancora piú a fondo?

Era una lettura inedita del dubbio che aveva assalito anche lei. Anche se poi era uscito il risultato dell’impronta della Burrano.

Glielo ricordò.

– Sí, certo. Questo però prova solo che fu la signora ad abbassare il montacarichi con quella mischina dentro. Che sia stata lei a fare fuori il marito ancora non è scritto da nessuna parte. Comunque, se avesse funzionato la messinscena del suicidio, ora noi lo daremmo per scontato e buonanotte ai pupi. Non so se mi sono spiegato.

Si era spiegato benissimo, altroché.

– Commissario, ma com’è che lei mi lascia sempre indietro?

Patanè rise, compiaciuto.

– Ma quale! È che sono abituato a ragionare, ragionare, ragionare su tutto. È la cosa piú importante, il ragionamento. Uno può imparare a memoria tutti i codici penali del mondo, ma se non sa ragionare se li può fare fritti.

Sembrava pari pari il discorso che Gian Maria Volonté, nei panni di un professore in pensione, faceva a un giovanissimo Ricky Tognazzi poliziotto nel film tratto da Una storia semplice di Sciascia. Il ragionare.

– Voi giovani siete fissati con quelle mavaríe, e cosí vi legate mani e piedi a quelli della Scientifica –. Con questo l’aveva stesa definitivamente. E s’era guadagnato di saperne di piú sull’omicidio di Teresa Regalbuto. Cosí ora ragionava anche su quello, che la posizione di Alfio Burrano gli pareva traballante assai.

– Certo, tutto sta a capire dov’erano nascoste ’sta maledetta pistola e ’sta valigetta. Se pensiamo al fatto che la Burrano voleva entrare alla villa dopo tutto quel tempo…

Vanina non poteva fare finta di niente. Lui sapeva di quell’informazione raccolta in confidenza in una serata di bagordi con – non riusciva nemmeno a pensarci – il suo possibile prossimo indagato.

– Però è anche vera una cosa, – continuava Patanè, – doveva essere fesso ma proprio fesso Alfio Burrano a raccontarle il fatto dei sigilli attirando la sua attenzione su una cosa che poteva tornare utile a lui.

E anche a questo ci aveva già pensato pure lei. Vedi? In fondo, sapeva ragionare.

Alfio guardava Spanò disorientato.

– Ma perché vuoi sapere ’ste cose, Carmelo?

Vanina era appena entrata e s’era messa di lato. Lo scrutava. Vediamo se m’hai preso per i fondelli, Alfio Burrano.

– Alfio, tu devi solo rispondermi. Ricostruisci la tua mattinata, dalla telefonata di tua zia in poi.

– Ma… ero a Sciara. Poi sono uscito.

– E hai lasciato il telefono, – aggiunse Spanò.

– Sotto carica. Ho sbrigato cose… sono stato in giro…

– Solo? Non ti sei portato il tunisino?

– No, Chadi la domenica è libero.

– Dove sei andato?

– Non me lo ricordo… Ho comprato delle cose. A Sciara non avevo niente da mangiare.

– Hai gli scontrini?

Alfio lo guardò stranito.

– Gli scontrini? Ma no, quelli non sono posti dove ti danno lo scontrino. Ma perché vuoi lo scontrino, Carmelo? Questioni di Finanza?

Spanò lanciò un’occhiata al vicequestore, che se ne stava in silenzio. A me questo pare in alto mare, cercava di dirle.

Se è colpevole, è un attore consumato, pensò Vanina.

Ma che conoscenza aveva lei di Alfio Burrano? Magari era un attore per davvero. La parte del dongiovanni la faceva bene, e lei ne sapeva qualcosa. Ma non era indicativa. Il maschio siciliano medio, quella, ce l’ha nel codice genetico.

– Lascia perdere la Finanza e andiamo avanti, Alfio. Qualcuno può ricordarsi di averti visto, diciamo intorno a mezzogiorno e mezzo? – chiese Spanò, che pareva la calma personificata ma dentro di sé stava friggendo.

Alfio esitò. – Non lo so…

Spanò lo guardò in silenzio.

– Alle dodici e mezzo, – ripeté Alfio, piano, come se non volesse crederci. – Non è l’ora in cui hanno sparato a mia zia?

Dall’altro lato non si udí risposta.

– Ma… mi state accusando di aver ammazzato mia zia? – chiese. Ora il suo colorito assomigliava a quello della parete. – Non ci posso credere… Ma perché? – si voltò verso Vanina, che non smetteva di fissarlo. Studiarlo, era piú giusto.

– Non ti stiamo accusando, Alfio. Stiamo solo cercando di capire se hai prove per dimostrare che non puoi essere stato tu.

– Un alibi? Questo cercate?

– Un alibi, – confermò Spanò.

Alfio si perse con lo sguardo davanti a sé. Poi scosse la testa, chiuse gli occhi.

– Non ce l’ho.

Vanina e Spanò si guardarono sconfitti.

– Lo sai che vuol dire questo, Alfio? – intervenne Vanina.

L’uomo alzò gli occhi, in silenzio. Erano cerchiati di rosso.

– Che al novanta per cento, con quello che abbiamo in mano, saremo costretti ad aprire un procedimento. Riceverai un’informazione di garanzia, e se dovesse spuntare fuori qualcos’altro…

– Ho capito, – l’interruppe Alfio.

Rimase col mento basso per qualche minuto, nel silenzio rotto solo dal ticchettio dell’orologio a muro che segnava le otto di sera.

– Posso andarmene a casa? – chiese.

Vanina gli fece segno di sí.

Lui si voltò e camminò verso l’uscita, spalle curve e passo lento, accompagnato da Spanò.

Appena fuori dalla porta tornò indietro e si trovò di fronte a Vanina.

– Ma tu non credi che sia stato io, vero?

Lei non gli rispose.

– Vai a casa, Alfio. E cerca di ricordare il piú possibile.

Burrano si voltò di nuovo e oltrepassò la porta.

– E se vuoi un consiglio, – gli disse Vanina, raggiungendolo alle spalle, – non tornare a Sciara.

Alfio annuí e se ne andò.

Santo Stefano quella sera le pareva un’oasi di pace piú del solito. Aveva passato mezz’ora al telefono con Vassalli, che l’indomani avrebbe chiesto al gip l’autorizzazione al sequestro del testamento.

S’era acciambellata sul divano grigio, infreddolita. Quella casa era tanto carina, ma coibentazione zero. Caldo d’estate e freddo d’inverno. Una dipendenza assoluta dagli impianti di climatizzazione, che però per fortuna erano moderni.

Tempo per passare da Sebastiano non ne aveva avuto, e Bettina era uscita con le vedove e ancora non era tornata.

Si trascinò in cucina e mise su il pentolino col latte. Tirò fuori i biscotti che comprava in un panificio lungo la strada del ritorno e preparò la cena che avrebbe consumato sul divano, davanti a un film scelto a caso tra quelli della sua collezione. Li aveva visti tutti ma li rivedeva sempre volentieri.

Quella sera non le andava di rimuginare troppo sul lavoro. Ci aveva già «ragionato» troppo per piú di dodici ore, e ora voleva solo distrarsi.

Tirò fuori un cult girato a Catania. Il bell’Antonio. Fotografò il titolo e lo inviò a Adriano, che le rispose subito con un emoticon.

Antonio Magnano / Marcello Mastroianni aveva appena sposato Barbara Puglisi / Claudia Cardinale quando un messaggio comparve sul suo telefono. Lo prese in mano incerta, preoccupata che fosse Alfio. Era brutto dirlo, e anche pensarlo, però non era l’ideale che il suo numero comparisse tra i tabulati di un indiziato.

Ma non era Alfio. Era quel numero che non aveva in memoria, e che ogni volta le faceva l’effetto di una mazzata sulle gambe.

Stavolta niente frasi sentimentali da colpo al cuore. Solo «Che fai? P.»

Recuperò la foto che aveva appena mandato a Adriano e gliela inviò in risposta. Lo vide scrivere e fermarsi, poi scrivere, poi fermarsi. Alla fine «Sei sempre tu. E mi manchi. Buonanotte. P.» Il resto del film Vanina lo vide offuscato.