5.

L’appartamento di Teresa Burrano occupava per intero il terzo piano di uno stabile di fine Ottocento che affacciava su via Etnea; una casa dalle dimensioni spropositate, piena di salotti e salottini, tutti aperti e in perfetto ordine.

La signora accolse il vicequestore Guarrasi e l’ispettore Bonazzoli sprofondata in una poltrona di pelle capitonné chiara, analoga a un divano su cui le invitò ad accomodarsi. La poltrona di fianco alla sua era occupata da una donna, poco piú che sessantenne, che presentò loro come «la cara amica Clelia Santadriano».

La prima impressione che Teresa Burrano ispirò a Vanina fu di sincera antipatia. Un viso squadrato, dai tratti duri, su cui campeggiava il piú altero dei sorrisi di circostanza.

– Signora Burrano, lei è a conoscenza di quanto è avvenuto ieri sera nella sua villa di Sciara, vero?

– Mio nipote me lo raccontò stamattina.

– Sapeva dell’esistenza di quel montacarichi?

– No. Ma non mi stupisco di apprenderla. Mio suocero aveva tutte le fisime di questo mondo, tra cui quella di pranzare e cenare in privato. Sicuramente era un montavivande.

Si allungò sul tavolino a prendere un pacchetto di sigarette, che faticò ad aprire. Vanina notò che aveva le mani nodose, deformate dall’artrosi. La Santadriano accorse in aiuto e lo aprí per lei. Le porse la sigaretta e un accendino d’oro poggiato lí vicino.

– Tutte le aperture erano fermate con un paletto di ferro e occultate. Il che suggerisce una funzione un po’ diversa dal semplice trasporto di cibo, – puntualizzò il vicequestore.

– Può darsi che in seguito mio marito l’abbia trasformato in un nascondiglio. Aveva casseforti e nascondigli dappertutto: qui, nel suo ufficio…

– Come mai? – chiese Vanina.

– Era un uomo ricco, dottoressa, che amava tenere sotto controllo i suoi averi. Non si fidava di nessuno. E considerato come andò a finire non aveva tutti i torti –. Vanina pensò alla cassetta di sicurezza piena di soldi trovata accanto al cadavere.

– Mi risulta che suo marito, prima di morire, trascorresse molto tempo a Sciara. Lei non lo seguiva?

– No.

– Come mai, se posso essere indiscreta?

– Io amavo la vita di società, e preferivo restare in città. Poi, in tutta franchezza, non credo che la cosa gli interessasse granché. Lui concepiva la mondanità in un altro modo. Gli piaceva viaggiare, frequentare ogni sera gente diversa. E la compagnia non gli è mai mancata.

Lo sguardo sorpreso di Marta indusse la signora a chiarire meglio.

– Non mi fraintenda. Non vorrei mai infangare la memoria di mio marito. Ho sempre evitato persino di nominarlo, per non risvegliare ricordi dolorosi. Ma alla mia età non ha piú senso essere ipocriti, dottoressa. Mio marito è stato ucciso cinquantasette anni fa. A quei tempi essere vedova era una condizione pressoché irreversibile, a prescindere da qualunque fosse stato il comportamento del marito quand’era in vita. Ho indossato il lutto per piú di vent’anni. Lo sa quanti anni avevo? Trenta. Ero piú giovane di lei.

Vanina tacque un momento.

– Intorno a suo marito, perciò, donne ne giravano parecchie, – riprese.

Teresa Burrano sventagliò le mani all’indietro accompagnando il gesto con uno sbuffo. – Uff! Un’infinità.

– Senta, signora: chi poteva essere a conoscenza che suo marito aveva creato un nascondiglio nel vecchio montacarichi? Anche se è ancora un’ipotesi –. E chissà se avrebbe mai trovato prove che la suffragassero.

– A parte il suo amministratore, nessuno.

– Vuole dire Masino Di Stefano?

La signora arricciò le labbra in un mezzo sorriso.

– Lei è veramente una che non perde tempo. Sí, mi riferisco proprio a lui. Il solo di cui mio marito si fidava… proprio l’unico che non lo meritava.

Vanina rifletté su quello che stava per chiederle.

– Secondo lei, suo marito sarebbe stato capace di uccidere qualcuno?

Il sorriso storto della signora si aprí in una breve risata.

– Ma chi, Gaetano? Quello si scantava perfino a tirare uno schiaffo! I fucili da caccia li teneva sotto chiave, per paura che potesse succedere qualche incidente. La pistola, quella che non fu mai trovata, lui non la maneggiava mai. Non perdeva la testa neppure di fronte a cose gravi. Era un uomo di carattere, in fin dei conti.

Vanina spostò per un momento lo sguardo su Clelia Santadriano. La donna ascoltava senza mostrare il minimo stupore, segno che conosceva la storia. Del resto, la Burrano non si stava ponendo nessun problema a parlare in sua presenza.

– Ha mai conosciuto di persona qualcuna delle amanti di suo marito? – osò.

– Qualcuna. Ma le anticipo che quelle poche sono ancora vive e vegete.

– Non ricorda di aver sentito di qualche sparizione nell’entourage di suo marito nel periodo della sua morte, o anche dopo?

– Non mi pare. E poi le ripeto, dottoressa, io conoscevo una minima parte di quello che lei chiama l’entourage di Gaetano. Ed era molto meglio cosí, mi creda. Mio marito era. Sempre da me sarebbe tornato. Era una certezza. Non m’interessava sapere altro.

Raccontava i propri fatti personali con un’imperturbabilità strabiliante. Era una donna glaciale, chissà se lo era stata anche da giovane o se la vita l’aveva indurita.

– Negli anni successivi alla morte di suo marito, la villa fu abitata da qualcuno?

– No. Diedi ordine personalmente di chiuderla non appena si conclusero le indagini.

– Perciò neppure la servitú vi mise piú piede?

– No.

– Qualcuno tra i domestici che lavoravano alla villa è ancora in vita?

– Non che io sappia. Ma non erano molti. A Sciara mio marito non voleva troppa gente tra i piedi. Lei capisce bene il perché. È sempre stato discreto nelle sue… scappatelle.

– Ricorda i nomi?

La signora chiuse gli occhi, sforzandosi di ricordare. Scosse il capo. – Difficile…

Vanina le consegnò il suo biglietto da visita e le indicò Marta come referente nel caso in cui le fosse tornato in mente qualcosa.

La ragazza rumena, Mioara, si materializzò per accompagnarle all’uscita, ma le seguí anche la Santadriano, che si fermò a metà strada.

– Spero che facciate luce su questa brutta storia, – disse, stringendo la mano al vicequestore.

Inconfondibile accento partenopeo, notò Vanina.

– Anche se non lo dà a vedere, Teresa è rimasta parecchio scossa, – proseguí la donna preoccupata. – Lei capisce bene: un delitto, nel passato di questa famiglia, già ci stava, ed era un argomento di cui lei non parlava mai con nessuno, nemmeno col nipote. Ora per colpa di questa novità sarà costretta a ricordare situazioni dolorose assai. Povera Teresa.

In fondo non le si poteva dare torto.

Con quella faccia di marmo e quell’atteggiamento borioso la signora Burrano non ispirava nessuna tenerezza. Però era una donna anziana, sola e senza figli, vedova dall’età di trent’anni e il cui marito era morto ammazzato con un colpo alla testa. Una discreta dose di sciagure se l’era sciroppata.

Il vicequestore assicurò alla donna che avrebbe fatto di tutto per risolvere la «brutta storia» al piú presto. Ma non sarebbe stato per niente facile.

Per uscire dall’edificio si doveva passare per un cortile interno. Il vento aveva cambiato di nuovo direzione, e la cenere aveva ricominciato a piovere sulla città. Il basolato di pietra lavica del patio e l’acciottolato grigio erano completamente ricoperti di cenere, come le due aiuole di piante grasse che stavano al centro.

Vanina si accese una sigaretta.

– Che dici, ci facciamo un’arancina da Savia? – propose, guardando l’orologio.

Marta rifletté sulla risposta. – Non è un posto per me. Però ti faccio compagnia volentieri.

Il vicequestore si diede un colpetto sulla fronte. Cascava sempre sullo stesso errore. Non poteva farci niente: il concetto che non tutti i posti andassero bene per pranzare con Marta senza incontrare difficoltà non riusciva a entrarle in testa.

– Le arancine esistono anche agli spinaci, alle melanzane… – cominciò a enumerare.

– Dubito che non ci sia dentro burro o formaggio. Ma non crearti problemi, te lo ripeto: ti accompagno volentieri. Bevo un tè.

Vanina si fermò a guardarla incredula.

– Un tè? Come fai a sostituire un pasto con un tè?

– Ma non preoccuparti, qualcosa troverò. E poi non sono affamata!

Si sedettero fuori, al riparo sotto un ombrellone. Faceva talmente caldo che dovettero togliere la giacca e rimanere in maglietta.

– Dunque al caro estinto piaceva correre la cavallina, – sintetizzò Marta, sistemandosi sulla sedia.

– A quanto pare sí.

– Hai visto con quale tranquillità la signora Burrano ne parlava? Come se fosse una cosa normale. Ti rendi conto? Il marito se ne andava in villa con le sue amichette, e lei rimaneva a casa a fare «vita di società».

– Non mi stupisce per niente. A quell’epoca il matrimonio era poco piú che un contratto, stipulato tra due famiglie e basato su motivazioni meramente economiche. E piú la classe sociale era elevata, piú l’interesse prevaleva. Aggiungi che i Burrano non avevano neppure figli. In questa situazione era normale che ognuno si facesse la propria vita, in modo pacifico e senza troppi problemi, ma mantenendo sempre intatta la facciata. Non fare quell’espressione disgustata, era cosí pure a Brescia, stanne certa.

Marta si strinse nelle spalle. – Può darsi.

– Certo che, se nella villa di Sciara girava per davvero la quantità di donne a cui accennava la signora, sarà difficile capire di chi si tratta, – considerò Vanina.

– Ma esisterà una denuncia di scomparsa di questa tipa, no?

– È la prima cosa che dobbiamo controllare, iniziando dall’anno in cui hanno ammazzato Burrano. Se poi Adriano riuscisse a determinare che età aveva la vittima, almeno restringeremmo il campo.

Ordinò un’arancina al ragú e una Coca. Zero, tanto per prendersi in giro.

– Questo bar non solo fa le arancine piú buone, ma le chiama pure col nome corretto: arancine. Non arancini, come dicono qua.

La denominazione al femminile o al maschile di quel best seller della rosticceria siciliana era una delle centinaia di diatribe in atto da secoli tra palermitani e catanesi.

Dopo aver rifiutato anche la proposta di ordinare una pizzetta ed eliminarne del tutto il formaggio, Marta ordinò il suo tè.

– Sono a posto cosí, – assicurò.

Il vicequestore non insistette oltre sull’opportunità, per lei imprescindibile, di accompagnare la bevanda con qualcosa di solido. Quel garbato «a posto cosí» per l’ispettore significava che il discorso era chiuso.

– Sai cosa non mi convince per niente? – attaccò, concentrata su un pensiero che la inseguiva dalla telefonata con Manenti.

Marta si mise in ascolto.

– Tutti quei soldi lasciati lí insieme al cadavere. L’assassino apre il montavivande, presumibilmente adibito a nascondiglio, per metterci il corpo della donna. Vede la cassetta di sicurezza, che piccola non è ed è abbastanza riconoscibile. Se non sa cosa contiene, nel novantanove per cento dei casi se la porta via, anche solo per aprirla e vedere di che si tratta. Se invece ne è a conoscenza, l’ipotesi piú probabile è che abbia previsto di tornare lí in un secondo momento, ma che poi per qualche motivo sia stato impossibilitato a farlo.

Addentò l’arancina.

– E questo restringe il campo a due sole persone, le uniche che sapevano del nascondiglio.

– Gaetano Burrano e Masino Di Stefano, – indovinò l’ispettore.

– Tutti e due impossibilitati a recuperare il denaro, uno perché nel frattempo era morto, e l’altro perché era finito in galera per averlo ucciso.

Marta rifletté, in silenzio.

Vanina si pulí le mani su un tovagliolo di carta e bevve un sorso di Coca.

– Questa è l’ipotesi piú semplice. Ma non mi convince per niente, – disse, adagiandosi all’indietro sullo schienale.

Girò lo sguardo su quell’angolo di via Etnea, affollato a tutte le ore. Un tratto di marciapiede che ospitava due dei bar piú frequentati della città, con i loro banconi gremiti di consumatori veloci e i tavolini sempre occupati. L’ingresso principale di Villa Bellini si apriva proprio di fronte.

Si accese una sigaretta.

– Potremmo convocare Di Stefano, – propose Marta.

– In questo momento? E per dirgli cosa? Non abbiamo idea di chi sia quella donna, né di quando sia stata uccisa. Ammesso che, per ipotesi, Di Stefano sia coinvolto, secondo te direbbe mai qualche cosa? Quello si è fatto trentasei anni di carcere: non credo che abbia un buon rapporto con i poliziotti e con le questure.

– E allora? Che facciamo?

Vanina aspirò una boccata di fumo, il braccio sinistro piegato sotto il destro, con cui reggeva la sigaretta accarezzandosi il mento con il pollice. – Cerchiamo di capire.

– Capo, alla signora Spanò manco ci parse vero che Carmelo sta pranzando a casa sua, – annunciò Fragapane, divertito.

Vanina gli fece cenno di seguirla. Il vicesovrintendente raccolse i documenti trovati nella cartella che aveva recuperato quella mattina, e si diresse verso l’ufficio del capo. Si accomodò sulla sedia davanti alla scrivania.

– Notizie dell’amministratore omicida, ne abbiamo? – chiese Vanina, sprofondando nella poltrona e allungando le gambe in avanti, alla ricerca del poggiapiedi.

– Pare di sí. Trovai macari il fascicolo A2, quello suo personale.

– E che c’è scritto?

Fragapane aprí una cartella rosa.

– Tommaso Di Stefano, nato a Catania il 6 agosto del 1928. Condannato all’ergastolo per l’omicidio di Gaetano Burrano. Uscito dal carcere nel 1995, per buona condotta.

Vanina girò la poltrona da un lato e dall’altro puntandosi sul poggiapiedi, i gomiti sui braccioli e le mani intrecciate davanti al mento, in meditazione. Fece cenno al vicesovrintendente di proseguire.

– Il processo durò poco. Di Stefano si proclamò sempre innocente, ma gli indizi portavano a lui. Non aveva un alibi. La sera del delitto piú di un testimone l’aveva visto entrare e uscire da villa Burrano e sui suoi vestiti furono rinvenute tracce di sangue. In casa sua furono trovati documenti relativi a un terreno, su cui mancava solo la firma di Burrano. L’altra era di Calogero Zinna. Non so se mi spiego. Era un progetto…

– Per la costruzione dell’acquedotto, – l’interruppe Vanina.

– Esatto. Di Stefano da quell’affare ci avrebbe guadagnato assai. Ma sia la signora Burrano che Vincenzo Burrano, il fratello della vittima, il padre di Alfio Burrano cioè, dichiararono che il cavaliere si era sempre rifiutato di cedere quel terreno. Poi ci fu la testimonianza di un uomo, un mezzadro, che disse di avere visto Burrano litigare con l’amministratore. In casa di Di Stefano c’era macari un doppione delle chiavi di una macchina, una Lancia Flaminia di cui la moglie di Burrano aveva fatto denuncia di smarrimento. Lui dichiarò di non saperne niente, ma proprio in quei giorni sul suo conto in banca comparve una grossa somma, proporzionata alla vendita di una macchina del genere.

– Perciò avrebbe rubato la macchina dell’uomo che aveva ammazzato per poi rivendersela. E avrebbe messo pure i soldi in banca? Uno sprovveduto, questo Di Stefano, – considerò il vicequestore.

– Economicamente non se la passava troppo bene, e aveva il vizio del gioco. Due anni prima era stato pizzicato in una bisca.

– E gli Zinna?

– Fu indagato Gaspare Zinna, che stava gestendo l’affare dell’acquedotto per conto del padre, Calogero.

– Da qualche parte, nel fascicolo, compare un personaggio femminile estraneo? Che so: una testimone, una complice…

– Niente. A parte la vedova, in queste carte femmine non ce ne sono, capo.

Vanina meditò.

– Fragapane, e i reperti della Scientifica? – chiese all’improvviso, ricordandosi che l’aveva spedito a prenderli piú di due ore prima.

Il vicesovrintendente scattò in piedi.

– Mi scusi, dottoressa, sulla scrivania di Nunnari me li scordai! Mi accompagnò lui alla Scientifica e… ma vado subito a prenderli.

– Lasci stare, – lo fermò il vicequestore. Fece un numero interno e precettò Nunnari.

Il sovrintendente comparve due minuti dopo, sporgendo la testa attraverso la porta semiaperta.

– Posso, capo?

– Vieni, Nunnari.

L’uomo avanzò caracollando insieme a Marta, con uno scatolone in mano.

Una quantità di buste di plastica piene di oggetti dall’aspetto vissuto invasero la scrivania del vicequestore Guarrasi: guanti, pettini, specchietti, scatole di cipria, rossetti; e un mucchietto di gioielli, all’apparenza di medio valore. Un pacchetto di sigarette Mentola, un bocchino, la boccetta di colonia senza tappo. Infine, a parte, un’agenda telefonica minuscola.

– Che diavolo di sigarette sono, queste? – chiese Nunnari, incuriosito.

– Alla menta. Quando ero picciriddo io, le fumavano le femmine, – spiegò Fragapane. Poi afferrò una scatoletta verde, con scritto «Brillantina Linetti». Sul talloncino di vendita, quasi incomprensibile, si riusciva persino a indovinarne il prezzo: lire 250. – Vi’, talè! La brillantina di mio papà!

– Della serie scovate l’intruso, – commentò Vanina. – Fragapane, lei quando è nato? – chiese.

– Nel 1958, dottoressa. Ho due anni piú di Spanò. Perché?

– La Linetti non era solo cosa da uomini?

– Di solito sí. L’odore stesso che faceva era… da barbiere, diciamo.

– Però questa è la borsa di una donna.

Il vicequestore aprí la scatola: il tubetto era intonso.

– Ma non è che era vietato, dottoressa. Magari alla signora, qua, l’odore della brillantina piaceva.

– Oppure non era sua, – suggerí la Bonazzoli.

– Ecco, questa ce l’annotiamo, – disse Vanina.

L’agendina telefonica era piena di nomi propri. Nessun cognome. I numeri, ovviamente, erano tutti a quattro cifre.

– Ah, capo: il dottore Manenti mi diede anche la cassetta di sicurezza, – aggiunse Fragapane, tirando fuori dalla scatola una mazzetta di banconote di un formato che Vanina non aveva mai visto se non in mano a Rossano Brazzi o ad Amedeo Nazzari.

Marta allungò la mano per afferrare una banconota.

– Guarda qui che roba! – esclamò, rigirandosi tra le mani quel fazzoletto di cartamoneta.

Vanina ne prese un’altra e la dispiegò. L’immagine raffigurava due donne, sedute in posizione speculare, ciascuna con il gomito appoggiato a uno scudo. Riportava due date: 24 gennaio 1959 e 7 maggio 1948.

– Nunnari, per cortesia, vada alla Banca d’Italia e si faccia specificare con esattezza la tiratura e il periodo in cui sono state in vigore queste banconote.

Il sovrintendente annuí.

Fragapane continuava a prendere in mano i sacchettini degli oggetti sparsi sulla scrivania e a fissarli.

– Carusi, vi debbo confessare che taliare tutte ’ste cose mi sta facendo un poco impressione. Mi pare di essere tornato picciriddo e di arriminare nella borsetta di mia mamma.

Il telefono del vicequestore squillò vibrando in cima al mucchio di fogli accatastati di lato alla scrivania. Un numero sconosciuto.

– Guarrasi, – rispose.

– Buonasera, dottoressa. Sono Alfio Burrano.

– Dottor Burrano, buonasera.

– Volevo solo avvertirla che io e Chadi siamo già a Sciara, ma che naturalmente non ci avviciniamo alla torre.

Vanina controllò l’orologio, stranita. E questo disturbava un vicequestore della Polizia di Stato solo per comunicargli che era arrivato in anticipo?

Gli confermò l’orario.

– La aspetto, dottoressa.

Dal tono pareva che la stesse invitando lui. Forse i ruoli non gli erano chiari. Senza pensarci troppo, salvò il numero in rubrica: cognome e nome. Premette il tasto di blocco dell’iPhone e lo riposizionò sulla pila di carte alla sua destra: camurríe inutili che prima o poi avrebbe dovuto quantomeno sfogliare.

– Fragapane, dobbiamo cercare tutte le denunce di scomparsa, riguardanti sole donne, sporte a Catania e provincia tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta.

Il vicesovrintendente balzò in piedi tirando fuori un taccuino dalla tasca.

– Tipo dal ’57 a… che so, al ’62?

– Con particolare attenzione al ’59. Si faccia aiutare da Lo Faro, che almeno cosí si rende utile. Anzi, me lo chiami, che stamattina stranamente non si è presentato.

Mentre la squadra usciva dalla sua stanza, compose il numero del cellulare di Adriano Calí. Nell’attesa, prese in mano un sacchetto trasparente che conteneva un frammento di foglio ingiallito con un numero scritto: quattro cifre che non significavano nulla. Si concentrò su un simbolo marrone impresso sulla carta, una sorta di tondo con una testa nel mezzo. Lo avvicinò per vederlo meglio, ma non capí cosa fosse.

– Mi ero tenuto il telefono vicino apposta. Lo sapevo che non avresti saputo aspettare, – le rispose il medico.

– A che punto sei? – gli chiese.

– Dipende da quello che t’interessa sapere. Ancora non ho finito.

– Per ora una cosa sola: hai modo di determinare l’età del cadavere?

– Con precisione no. Forse andando a vedere i nuclei di ossificazione potrei capirci di piú, ma non è cosa da poter fare nei tempi che sicuramente vorrai tu.

– Ma piú o meno?

– I capelli sembrano tutti pigmentati, scuri direi. Perciò doveva essere abbastanza giovane. Che dici, ci possiamo sentire piú tardi, che a tenere il telefono con la spalla mi si sta anchilosando il collo?

– Certo. Non ti divertire troppo con la ragazza. A giudicare dalla guêpière doveva sapere il fatto suo.

– Guarrasi, il tuo umorismo rasenta la blasfemia.

– Perché è morta o perché è femmina?

Adriano coprí una risata schiarendosi la voce.

– Se mi richiami tra meno di due ore giuro che ti chiudo il telefono in faccia.

Vanina concluse la telefonata ridendo.

Fragapane e Lo Faro entrarono in quell’istante.

– Oh, eccolo il nostro Lo Faro! Come mai stamattina non eri presente alla riunione?

Il ragazzo si guardò intorno con aria smarrita. La domanda traspariva dagli occhi: che riunione?

– Dottoressa… non lo so… forse… nessuno mi ha avvertito che…

– Avvertito di che? Nel tuo ufficio eravamo.

Finse di voler sorvolare sulla cosa, pur riconoscendo che sicuramente era andata cosí. L’agente Lo Faro stava sullo stomaco un po’ a tutti. Giovane, inesperto, ma ambizioso e presuntuoso all’inverosimile, era approdato alla Mobile dopo aver brigato per due anni mettendo in mezzo tutte le conoscenze politiche di cui disponeva. Era riuscito infine a raggiungere la sezione Reati contro la persona, nelle cui acque profonde si era tuffato prima ancora di imparare a nuotare bene, e giusto giusto quando a dirigerla era arrivata lei: il peggiore dei capi che potesse capitare a un soggetto del genere. Lui, che non si poteva dire una cima, non solo non l’aveva capito, ma si ostinava a cercare di ingraziarsela con gesti che sfioravano il corteggiamento, e che raggiungevano il solo scopo di irritarla ulteriormente. Era l’unico della squadra che Vanina non aveva mai autorizzato a chiamarla «capo», come facevano tutti i suoi collaboratori piú stretti.

– Vabbe’. Stai dietro al vicesovrintendente e fai tutto quello che ti chiede –. Si rivolse a Fragapane. – Il dottore Calí mi ha confermato che doveva trattarsi di una donna giovane. Questo restringe un minimo il campo della ricerca.

Il vicesovrintendente annuí, pronto a mettersi all’opera.

Vanina si ricordò di un particolare che poteva essere importante e richiamò Lo Faro.

– Ti affido anche un altro compito: la vedi quest’agendina? Informati con la Telecom se è possibile risalire agli intestatari di numeri telefonici di oltre cinquant’anni fa. Se si può fare, glieli passi tutti uno per uno. Occhio, mi raccomando, che questi foglietti basta poco e niente per polverizzarli.

Il ragazzo non dissimulò la sua soddisfazione: finalmente era coinvolto sul serio.

Dopo essersi fatta lasciare il fascicolo relativo all’omicidio Burrano, Vanina congedò i due uomini.

Uscí dal suo ufficio e bussò alla porta di fronte. Entrò, incrociando il collega della divisione Criminalità organizzata che ne stava uscendo accompagnato da un paio dei suoi ispettori.

Tito Macchia, il primo dirigente della Mobile, altrimenti detto Grande Capo, se ne stava in piedi dietro la scrivania sovrastandola con la sua mole imponente. Un incrocio tra Bud Spencer e Kabir Bedi, l’aveva catalogato Vanina la prima volta che l’aveva visto.

– Ohè, Vanina. Che mi dici? – la accolse, con il suo accento napoletano per nulla scalfito da cinque anni di residenza catanese.

L’aveva chiamato la sera prima, da villa Burrano, per comunicargli del ritrovamento. Gli riferí le novità e la direzione in cui si stava muovendo. Macchia ascoltò con attenzione, lisciandosi la barba brizzolata e masticando con le labbra un sigaro spento. Un interesse mosso piú dalla curiosità che da un vero e proprio coinvolgimento, in quello che anche a lui pareva un caso di difficile risoluzione, non fosse altro che per la lontananza temporale con il presunto delitto. Un caso dalle radici cosí antiche non gli era mai capitato.

– Vedi quello che riesci a scoprire, ma a me non sembra cosa da perderci il sonno. Anche perché, difficoltà oggettive a parte, chiunque sia l’assassino o è morto o sta rinchiuso in qualche casa di riposo mezzo rincoglionito.

– Che ne sai? L’erba tinta non muore mai. Capace che invece è ancora vivo e lucido, e oramai è perfino convinto di averla fatta franca.

Al vicequestore Guarrasi andare a ficcanasare nel passato della gente piaceva assai, e questo Tito Macchia lo sapeva molto bene.

– Vabbuo’. Tanto lo so che se decidi di sbatterci la testa fino a quando non ci hai visto chiaro, lo farai.

La fama di quella brava a risolvere casi rimasti in sospeso per anni se l’era fatta a Milano, quando aveva scovato il colpevole di una serie di omicidi irrisolti e apparentemente slegati tra di loro. Per incastrarlo, aveva indagato nella vita familiare di sette vittime, la prima delle quali risaliva a vent’anni prima.

Nulla, in confronto al mezzo secolo che si accingeva a ripercorrere.