15.
Adriano Calí non si presentava mai a mani vuote. Nel vero senso della parola, perché di pensieri – cadeau, come li chiamava lui – ne portava sempre due: uno per l’amica sbirra e l’altro per la donnina adorabile che si prendeva cura di lei con la premura di una nonna orgogliosa. E che a sua volta lo adorava. Una sintonia coltivata da ambo i lati, a colpi di orchidee, piantine di peperoncini e vassoi di viscuttina freschi freschi, che al dottore piacevano assai.
Quello che Bettina beatamente ignorava era che, tra la sua beniamina e il dottore, storie che andassero oltre l’amicizia non ne sarebbero potute sbocciare manco con l’intercessione di Padre Pio, che nella sua gerarchia celeste veniva prima di qualunque divinità e che le aveva esaudito piú di un desiderio.
E a Vanina era sempre parso brutto disilluderla.
Adriano entrò in casa brandendo un dvd con la mano sinistra. In precario equilibrio, sulla destra, reggeva una zuppiera di caponatina che la vicina aveva cucinato apposta per lui. Ci avrebbero accompagnato le polpette di carne di cavallo che il vicequestore, su suggerimento della donna, si era fatta cucinare da un ristorante all’ingresso del paese. «Sicuramente meglio di una pizza accattata», aveva sentenziato Bettina.
– Eccolo qua: Giallo napoletano! – comunicò il medico tutto soddisfatto.
Vanina si rigirò il dvd tra le mani, mentre l’amico depositava la zuppiera in cucina e si lavava le mani nel lavello usando il sapone dei piatti, che secondo lui disinfettava meglio.
1979. Una foto centrale di Marcello Mastroianni con mandolino, baffetto nero e sigaretta in bocca, contornata da primi piani di Ornella Muti, Peppino De Filippo, Michel Piccoli e Renato Pozzetto. No che non l’aveva mai visto. Anzi, s’era pure scordata di cercarlo sul web.
– Grazie!
Si spazzolarono tre polpette di cavallo a testa, concordando che cosí buone in giro non ce n’erano, e un piatto pieno di caponata ancora calda. Finirono con l’uva bianca dolcissima che vendeva un vecchietto alla fine della strada.
Altro che pizza.
Mentre inseriva il dvd e selezionava il canale, un messaggio WhatsApp le vibrò in tasca. Sbirciò il display. «Un’ora insieme a te cambia il senso di una giornata. P.» Numero sconosciuto alla sua rubrica, ovvio, ma non alla sua memoria.
– Scusa un momento, Adri, – disse, allontanandosi veloce verso la camera da letto.
Lo specchio appeso sopra il cassettone le svelò impietoso gli occhi arrossati come non avrebbero dovuto essere. Fissò per due minuti la nuvoletta bianca da cui occhieggiava quella P puntata, il dito pronto a cancellare tutto.
Ma non ci riuscí.
– Il bel castellano di Sciara? – chiese Adriano, con un sorrisetto ammiccante, vedendola tornare in soggiorno con l’iPhone in mano.
– Ca certo! Con la sciabola sguainata.
Alfio Burrano era l’ultima persona che in quel momento le sarebbe venuta in mente.
– Ava’, non mi dire che ieri sera non ci fu cosa, perché non ti crederò mai.
– Infatti, tanto vale che non ti dica niente.
Adriano incassò senza replicare, ma continuò a saettarla con occhiate indagatorie, finché il tormentone della musica maledetta – motivo centrale di tutto il film – non assorbí la sua attenzione. Tirò fuori dalla tasca un paio di occhiali e si mise in modalità cineforum.
– Ecco! Qua! Che ti dicevo? – gridò a un certo punto, buttando via un cuscino che stava angariando da un’ora. – Non è la stessa atmosfera che c’era l’altra sera nella villa dell’amico tuo?
Vanina stava per replicare alla storia dell’amico suo, ma poi guardò lo schermo ed ebbe un sussulto. Un lampo di genio. Un’illuminazione.
– Certo! – disse, a bassa voce. Afferrò il telecomando e riportò la scena indietro. Una villa disabitata. Un uomo ebreo murato vivo ai tempi della guerra. Ascoltò il dialogo.
– Ma certo! – ripeté, a voce piú alta.
Adriano la guardò preoccupato.
– Che hai?
– Adri, dimmi una cosa: secondo te, la donna del montacarichi potrebbe essere morta di stenti? Cioè, potrebbe essere stata chiusa lí dentro da viva e poi lasciata lí dentro a morire?
– Morte per confinamento, vuoi dire? Sí, è possibile. Perché no. Non ho modo di dimostrartelo però…
– Non importa, Adri, – gli sorrise, – non importa.
Il film andò avanti fino alla fine, ma Vanina non lo seguí piú.
Adriano forní le informazioni che poteva.
– Nel montacarichi c’era un ricambio d’aria, anche minimo, altrimenti il corpo non si sarebbe mummificato. Questo significa che, se è vero quello che pensi tu, quella poveraccia ha fatto una fine tremenda. Ed è durata giorni, prima di morire. Di sete.
La bottiglietta senza tappo trovata accanto al cadavere emerse dal dimenticatoio e le si piazzò davanti agli occhi. Brutale. Ovvio: se stai morendo di sete e l’acqua di colonia è l’unico liquido a disposizione, bevi anche quello.
Ecco perché la cassetta con i soldi era rimasta intonsa là dentro: perché l’assassino non sapeva neppure che ci fosse. Questo dirimeva l’ultimo dubbio che lei e Patanè si erano posti. E tutto tornava.
Peccato solo che il commissario a quell’ora fosse perso già da un pezzo tra le braccia di Morfeo. O di Angelina, che era pure peggio.
– Secondo me potrebbe essere andata cosí. La sera di Sant’Agata Burrano non si aspetta certo di veder comparire a Sciara sua moglie. Ovviamente non può farsi trovare con la sua amante, perciò fa nascondere la Cutò nel posto che reputa piú sicuro: il montacarichi, che è fermo al piano di sopra. La chiude dentro, tanto sarà questione di poco. Non sa che invece sua moglie è là per farli fuori. Tutti e due. Mentre l’attenzione del domestico e di Di Stefano, che è arrivato in quel momento, si concentra su Burrano, la moglie se ne va in cerca della Cutò, la quale nel frattempo ha sentito lo sparo e ha cominciato a urlare. Teresa intuisce che non ha neppure bisogno di ucciderla, tanto da lí non può uscire. Ma tra poco la casa sarà piena di gente e qualcuno potrebbe sentirla strepitare. E allora si ricorda che il fondo del montacarichi è al piano di sotto. Chiude a chiave l’accesso al primo piano, va in cucina dalle scale di servizio e abbassa la levetta. Poi chiude l’apertura trascinando la credenza. Il giorno dopo, per maggior sicurezza, sposta anche la statua del suocero per occultare l’altra apertura. Da quel momento, vieta a chiunque di mettere piede nella villa.
Macchia la guardava impressionato.
Era capitato, piú di una volta, che la Guarrasi lo stupisse con intuizioni fuori della norma, ma a questi livelli non c’era mai arrivata. Non in quegli undici mesi, quantomeno.
– Fila? – gli chiese il vicequestore.
Tito annuí, pensoso.
– Di filare fila, eccome. Mo’ lo dobbiamo provare, però.
Pareva un nastro rotto, ma era la verità.
Ora, in un mondo giusto, in cui tutto va secondo logica, magari con un pm come la Recupero, il vicequestore Giovanna Guarrasi a quel punto avrebbe già avuto carta bianca da un pezzo. Vada, dottoressa, usi tutte le armi di cui dispone per incastrare quella che lei crede la colpevole di un duplice omicidio. Che va bene che è successo cinquantasette anni fa, ma sempre omicidio è. E infatti non va in prescrizione. Mai.
Vanina comunicò a Vassalli di aver richiesto un ulteriore sopralluogo della Scientifica a villa Burrano e quello ne prese atto.
Il sovrintendente capo Pappalardo, accompagnato da un agente, asportò il meccanismo elettrico con la levetta in oggetto, per portarselo in laboratorio e sottoporlo agli esami per rilevare le impronte.
Fragapane, che aveva assistito al sopralluogo, gli aveva chiesto esplicitamente da parte del vicequestore, qualora la ricerca avesse prodotto frutti, di confrontare il risultato con quello dell’accendino.
Poteva essere una svolta, ma come sempre richiedeva dei tempi tecnici.
Nunnari aveva trovato Demetrio Cunsolo, il domestico di Burrano. Vivo, sí, ma ricoverato in una struttura per malati terminali. Una struttura a pagamento, di quelle che si possono permettere in pochi. Era pure andato a verificare di persona se per caso fosse ancora lucido e in grado di rispondere a un paio di domande, ma la risposta che aveva ottenuto dai sanitari era stata lapidaria. Cunsolo non parlava da piú di sei mesi.
Aveva un figlio, sí, di cui gli avevano dato nome e contatti. Salvatore Cunsolo, di anni quarantacinque, di professione commercialista.
E ora il dottor Salvatore Cunsolo si trovava alla sezione Reati contro la persona della squadra Mobile, davanti al vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi che continuava a fargli domande cui lui non sapeva rispondere.
Perché della vita passata di suo padre lui conosceva poco e niente. O meglio: l’aveva visto poco e niente. I suoi genitori non erano neppure sposati, spiegò. Lui aveva sempre vissuto con la madre. Però era suo padre quello che non gli faceva mai mancare nulla, che gli permetteva un certo benessere. Anche se continuava a vivere per conto suo, sull’Etna. Il figlio sapeva solo che aveva lavorato per un’azienda privata e che per un periodo aveva fatto l’autista. Del Demetrio domestico in casa Burrano non sapeva nulla.
Masino Di Stefano confermò che Cunsolo non lavorava sempre a Sciara. C’erano dei periodi in cui Burrano preferiva restare solo, alla villa, ed erano quelli in cui ci portava la Cutò. Allora il domestico rientrava a Catania e lavorava in casa della moglie, e sicuramente doveva avere altri lavoretti, qua e là.
L’atteggiamento del vecchio nei confronti del vicequestore era cambiato. Doveva aver capito che quella poliziotta agguerrita era la sua unica occasione di riscatto e ora faceva di tutto per ingraziarsela.
Vanina cercava di estorcergli piú notizie possibile su Teresa Burrano, senza però fargli domande esplicite. Che del resto non sarebbero state necessarie: Di Stefano diceva quello che sapeva senza che lei glielo chiedesse.
Il conto in banca separato che la donna si era aperta dopo qualche anno di matrimonio e nel quale versava tutti i soldi che non spendeva, ed erano tanti. Le scenate di gelosia che faceva al marito ogni volta che lui passava il segno, ovvero faceva parlare troppo di sé e delle sue avventure extraconiugali, anche se pure lei i comodi suoi se li faceva. Che negli ultimi tempi Burrano era diventato sempre piú insofferente nei suoi confronti, tanto da diventare incauto. E nel dire «incauto» Di Stefano sottintendeva il pericolo.
Parole, che Vassalli non mostrava di prendere in considerazione.
Era sabato, e stavolta faceva un caldo da piena estate.
Data la lentezza con cui stavano procedendo le cose, non era pensabile che si smuovesse nulla fino al lunedí, perciò forse era davvero il momento buono per staccare la spina e andarsene a Noto con Adriano e Luca.
La sera prima era arrivato un messaggio WhatsApp da un contatto che però stavolta aveva in rubrica. Un quarto d’ora dopo, Alfio Burrano aveva suonato al suo citofono. Avevano girato per il paese in cerca di un bar aperto, ma a quell’ora, a fine settembre, a Santo Stefano era un’impresa impossibile. Perciò erano scesi verso il mare. Avevano comprato due birre – piú di quello non era il caso, dati i precedenti – ed erano finiti seduti sulla banchina del porticciolo di Pozzillo, incastonato tra due scogliere di pietra lavica. Quasi deserto.
Alfio era imbarazzato per come era andata a finire la sera della festa. Si scusava, non sapeva cosa dire. Lei gli piaceva, ma c’era troppo alcol in mezzo, e lui aveva creduto che la cosa fosse reciproca. Capiva di aver sbagliato.
Vanina aveva intuito che stava godendo di un trattamento speciale, assicuratole dalla sua autorevolezza sbirresca. Altrimenti col cavolo che quel dongiovanni etneo si sarebbe scomodato a tirare fuori tutta quella filippica solo perché l’aveva mandato in bianco.
Avevano parlato. Un po’ a mezza bocca, un po’ saltando gli argomenti troppo personali, ma tenendosi a debita distanza dall’indagine, per cui Alfio non nascondeva un disinteresse quasi assoluto. Non aveva piú dormito a Sciara e le aveva confessato che da un paio di giorni non rispondeva neanche piú a sua zia. S’era reso irreperibile.
Sembrava un uomo in piena crisi. Una crisi di mezza età, probabilmente, considerata la data di nascita scritta nel verbale della famigerata sera. Uno che vedeva avvicinarsi il suo mezzo secolo e correva a spararsi le ultime cartucce a disposizione. E che dipendeva pure da una vecchia zia che piú stronza non poteva essere e che lo teneva per le palle senza dargli respiro.
Per non chiudere del tutto la porta a eventuali serate future, in cui magari le avrebbe fatto piacere portare a termine degnamente quel giro che aveva pensato di concedersi, l’aveva lasciato con un accenno di bacio.
Poi era rientrata in casa; anche se si sentiva piú sveglia di quando era uscita, si era infilata nel letto, al buio, e aveva aperto WhatsApp. Per la ventesima volta.
«Un’ora insieme a te cambia il senso di una giornata. P.»
Aveva recuperato il numero per memorizzarlo. Ma non l’aveva fatto.
E ora era alla guida della sua Mini, lanciata a centocinquanta chilometri orari sull’autostrada piú recente costruita in Sicilia. Gallerie mezze spente, asfalto irregolare, restringimenti di corsia immotivati. E poi eccola là, la madre di tutte le genialate mai progettate nel perimetro dell’isola: il casello fantasma edificato in piena carreggiata, e fortunatamente ancora mai attivato. Nessuno slargo, due corsie predisposte entrambe sia al Telepass che al biglietto. Un inferno annunciato, in poche parole.
Noto le piaceva. Era uno dei pochi posti in cui riusciva a sentirsi in vacanza senza dover prendere un aereo. Un po’ come Taormina. Entrambe scoperte sul serio solo da quando viveva a Catania.
Adriano e Luca erano stati dei pionieri. L’appartamentino che avevano ristrutturato l’avevano comprato per pochi soldi in tempi antecedenti al vero boom turistico. In pieno centro, ma nella parte alta, vicino a un ostello della gioventú dove Vanina entrava ogni volta, di sera, soltanto per affacciarsi a un balconcino che regalava una vista mozzafiato sulla città.
Lo fece anche quella sera. Dopo aver onorato tutte le tappe obbligate – cena nel solito ristorante con le volte in pietra e la cuoca inimitabile, e gelato sul corso nel caffè piú conosciuto di Sicilia – raggiunse il balconcino e si regalò dieci minuti di pace assoluta.
Faceva caldo, abbastanza da garantire l’indomani una giornata di mare con tutti i crismi.
La mattina, assodato che il vento tirava da levante, Luca decretò che era tempo da Carratois, la prima spiaggia che si incontrava dopo aver doppiato l’Isola delle Correnti, già sulla costa meridionale. Selvaggia, nascosta dietro dune e macchia mediterranea. Lí anni prima una settentrionale visionaria aveva deciso di impiantare uno stabilimento vista tramonto, con ombrelloni di paglia e ristorante su tavole di legno. Fuori stagione, con la spiaggia semivuota e quella levantata in corso che appiattiva il mare, era un posto unico. Puerto Escondido col paesaggio della Sicilia meridionale attorno.
S’erano seduti a pranzo da poco, e Adriano stava argomentando da mezz’ora su un articolo in cui si parlava di un suo collega definendolo «anatomopatologo».
– Non è che ce l’abbia con gli anatomopatologi, intendiamoci. Ma il collega di mestiere fa il medico legale, come me, e come tutti gli altri addetti a sventrare i cadaveri che voi graziosamente ci procurate. È il termine che è sbagliato. Bisognerebbe che qualcuno lo facesse presente, – aveva appena finito di spiegare, per l’ennesima volta, quando all’improvviso strinse gli occhi guardando in direzione degli ultimi ombrelloni, quelli piú isolati. Si protese a destra, in allungamento telescopico.
– Vanina, – fece.
– Che c’è?
– Quello là in fondo non è Macchia?
Vanina si girò.
Stazza considerevole, barba scura un po’ brizzolata, Persol stile Mastroianni, sigaro in bocca ma stavolta acceso.
– Non ci si può sbagliare, – annuí. Fece per alzarsi e andare a salutarlo, con il medico legale subito pronto alle calcagna. Dopo due passi si bloccarono, strabiliati.
– ’Azz, ma… – iniziò Adriano, – ma quella è chi dico io?
Capello biondo, abbronzatura dorata, fisico asciutto. Marta Bonazzoli in bikini pareva uscita da un cartellone pubblicitario di Calzedonia.
– Dài retta a me: meglio che non li salutiamo, – disse Vanina, affrettandosi dietro la parete di canne del ristorante. Da cui si vedeva senza essere visti, ovvio, perché uno scoop del genere non era cosa da ignorare.
Sembravano in appostamento.
– Ma lei quanti anni ha? – chiese il medico a voce bassa, manco potessero sentirlo.
– Trenta.
– E lui?
– Quarantotto.
– ’Azz, – ribadí Adriano.
Ecco svelato l’arcano di Marta. Certo, a vederla cosí non sembrava neppure lei, la ragazza timida e schiva, che arrossiva e incespicava alla presenza del Grande Capo. E a giudicare dalla naturalezza con cui stavano insieme, non doveva essere cosa recente. Si abbracciavano, si sbaciucchiavano, condividevano il lettino, che con Tito non doveva essere cosa semplice.
– Comunque a me lui piace, – continuò Adriano. – È nettamente sovrappeso, è vero, però è sexy.
– Sexy Tito? – fece Vanina, dubbiosa. – Ma sei sicuro?
– Sicuro, – si mise gli occhiali da sole graduati e lo guardò meglio. – Macho da morire, – concluse.
– La volete finire di spiare la privacy altrui? – intervenne Luca.
– Ma senti qua! Un giornalista che mi parla di privacy, – rispose Adriano facendogli segno di levarsi di torno.
Riguadagnarono il tavolo e recuperarono le bruschette che avevano abbandonato nei piatti. Dal fondo della borsa, il telefono del vicequestore iniziò a reclamare attenzione.
– No! Non me lo dire… – iniziò Adriano, scuotendo la testa.
Vanina rispose in fretta, in allerta.
– Mi dica, Spanò.
– Capo, mi scusi se la disturbo. È successo un fatto grave.
– Cosa?
– Teresa Burrano è morta. Si è sparata un colpo di pistola alla tempia –. Fece una pausa. – Con una Beretta calibro 7,65.
Vanina chiuse gli occhi.
– L’arma con cui è stato ucciso Burrano?
– Al novantanove virgola nove per cento, dottoressa. Il cadavere l’ha trovato l’amica mezz’ora fa, quando è rientrata. Sul luogo ci siamo io e Fragapane, che era di turno e ha raccolto la chiamata dalla questura centrale. Ma sarebbe meglio se lei…
– Arrivo, – l’anticipò. – Il tempo della strada. Sono a Portopalo, mi ci vorrà un’ora e mezza.
– Va bene, dottoressa. Nel frattempo chiamo il sostituto e la Scientifica. E avverto Bonazzoli. Al Grande Capo ci pensa lei? Lo sa com’è, vuole essere informato di tutto.
Ci pensava lei. Certo, sarebbero bastati quattro passi tra le dune e avrebbe preso i proverbiali due piccioni con una fava, ma perché invadere la privacy altrui?
Adriano tirò fuori l’iPhone dalla tasca dei calzoncini e si mise rassegnato in attesa della chiamata, mentre Luca partiva verso la spiaggia per raccattare la roba che avevano lasciato.
Vanina buttò un occhio all’ombrellone sulla destra e capí che Spanò non aveva perso un secondo. Marta parlava al telefono condividendo l’auricolare con Macchia, che si allisciava la barba meditativo.
Fece partire la telefonata e, tra gli echi del medesimo sottofondo, gli sconzò del tutto la giornata.
Aveva ceduto a Luca la guida della Mini e ora stava cercando di ragionare. Per un attimo aveva sperato che il sostituto di turno non fosse Vassalli, ma la telefonata di convocazione arrivata a Adriano cinque minuti dopo che avevano lasciato la spiaggia aveva stroncato ogni illusione.
All’altezza di Cassibile una Bmw Gs monumentale, con una chioma bionda che spuntava da sotto il casco del passeggero, li superò sfrecciando per poi scomparire all’orizzonte.
Neanche cinquanta minuti piú tardi, l’auto del vicequestore Guarrasi fendeva a passo d’uomo la fiumana di civitoti che popolavano via Etnea, su cui incombeva di nuovo una nube fuligginosa.
Vanina dovette tirare fuori la chiocciola e piazzarla sul tettuccio per evitare di incorrere nelle bestemmie del passeggiatore domenicale medio, affezionato fruitore dell’isola pedonale.
Davanti al civico di casa Burrano si era formato un assembramento di persone che sbirciavano il furgone della Scientifica, piazzato nel cortile interno, con la stessa ammirazione di una candelora di Sant’Agata. La piccola folla si divise in due, consentendo il passaggio alla Mini con a bordo il vicequestore e il medico legale. Poi, ombrelli antisabbia alla mano, si ricompattò piú gremita di prima.
Pareva la maledizione dei Burrano: ogni volta che un evento funesto li colpiva, il vulcano li omaggiava della sua partecipazione piú sentita.
Il salotto era occupato da una sorta di gineceo. Clelia Santadriano abbandonata sul divano, in lacrime, accanto a Mioara che fissava inebetita la parete. Una donna alta e robusta che versava dell’acqua e gliela porgeva. Infine l’ispettore Bonazzoli, che se ne stava seduta davanti a loro dispensando Kleenex e cercando di ricostruire i fatti.
Nell’aria un odore di bruciato che pareva avessero acceso un barbecue dentro casa.
Spanò presidiava la stanza accanto con la concentrazione di un regista davanti alla scena cruciale di un film.
Uno studiolo con una scrivania monumentale al centro, un paio di poltroncine e una libreria ingombra di statuette di Lalique tra le quali s’intravedeva qualche libro antico. Per terra un tappeto persiano autentico che a contare i nodi sarebbe potuto appartenere allo scià.
Per il gaudio del vicequestore, Manenti aveva mandato sul luogo solo il sovrintendente capo Pappalardo e due videofotosegnalatori, che si muovevano con cautela attorno al cadavere in attesa che il dottor Calí arrivasse a liberare il campo. Avevano già recuperato bossolo e proiettile.
Teresa Regalbuto vedova Burrano era lí, accasciata sulla scrivania. La tempia destra perforata, la testa inclinata a sinistra su una pozza di sangue, il braccio destro abbandonato lungo il fianco. Una vecchia Beretta M35 era buttata sul tappeto accanto alla poltroncina.
Una valigetta ventiquattrore con gli interni in seta, sporca e impolverata, che pareva uscita da una mostra di antiquariato, era appoggiata sul sottomano di cuoio. Il particolare surreale, che però la diceva lunga, erano le manette di sicurezza, arrugginite ma intatte.
All’interno, in bella mostra, una vecchia scatola di munizioni calibro 7,65.
Sulla scrivania, una cartelletta di cartone vuota semiaperta e schizzata di sangue, e un’altra chiusa rimasta indenne. Un insieme di fogli impilati alla rinfusa. Un posacenere piccolo con tre mozziconi di Philip Morris, di cui una consumatasi da sola lí dentro.
Vanina lasciò Adriano a godersi il cadavere e raggiunse Spanò.
– Chi l’ha trovata?
– La Santadriano, quand’è rientrata per pranzo.
Il vicequestore si mosse verso il salotto.
– Dottoressa, – disse Spanò, – ha visto la valigetta?
– Sí, l’ho vista.
– Potrebbe essere…
– Quella di Gaetano Burrano.
La Santadriano s’era calmata e ora se ne stava seduta composta, le mani in grembo. Ogni tanto la scuoteva un singhiozzo.
Vanina prese il posto di Marta davanti a lei.
– Se la sente di rispondere a qualche domanda?
La donna annuí, tirando su col naso.
– A che ora è uscita stamattina?
– Alle nove e mezzo. In una villa, a Mascalucia, c’era un’esposizione di piante. Doveva venire anche Teresa, ma poi all’ultimo minuto ha preferito restare a casa.
– E le è sembrato un comportamento anomalo?
– Mah… no. Direi di no. Teresa è… era imprevedibile. Aveva sempre mille telefonate da fare, e altrettante ne riceveva. Telefonate, visite. In tre mesi che sono qua, ho conosciuto mezza città.
– Lei è molto piú giovane della signora. Vi frequentavate da molto tempo?
– No. Solo da un paio d’anni.
– Ed eravate molto amiche?
– Sí, – rispose Clelia, in un soffio.
– Per curiosità, com’era nata la vostra amicizia?
– Cosí… per caso…
– E ora lei vive qua?
– No, sono stata sua ospite per tutta l’estate e mi sono trattenuta ancora un po’. Sono sola, anch’io… Ma perché mi fa tutte queste domande?
– Be’, signora Santadriano, la sua amica si è appena tolta la vita sparandosi un colpo di pistola alla testa. Concorderà con me che non è esattamente una morte naturale.
La donna prese a scuotere piano la testa, gli occhi chiusi di nuovo umidi.
– Io non riesco a capacitarmi! – disse, singhiozzando.
Vanina capí di essere stata troppo diretta. Aspettò che si calmasse di nuovo, con l’assistenza di Marta, che nel soccorso delle anime disperate era molto piú brava di lei.
– Non si era accorta di qualcosa di anomalo? Un comportamento strano, qualche segno di depressione?
La donna esitò un attimo. Poi disse: – Da quando era saltato fuori il cadavere di… quella donna, era nervosa. Temeva sempre che voi veniste a darle qualche altra brutta notizia proveniente da quella casa. Teresa odiava quella villa… Ma è comprensibile, no?
– La signora le aveva raccontato il perché? – chiese Vanina.
– No, dottoressa. Io provavo a chiedere, ma lei mi rispondeva che era una storia troppo lunga. Che non avrei capito. Io penso che non avesse mai dimenticato la morte del marito. Aveva un carattere difficile, Teresa. Molti non la comprendevano, primo tra tutti suo nipote. In questi giorni litigavano spesso… – cedette di nuovo alle lacrime. – Mi scusi, dottoressa, ma è stato cosí terribile! Non rispondeva al citofono, e quando mi sono fatta aprire dalla portinaia… l’ho trovata cosí!
Vanina la lasciò in pace.
La portinaia – Agata si chiamava, manco a dirlo – aggiunse qualche dettaglio sulla mattinata della signora. Alle dieci, prima di andare a messa, le aveva portato il giornale. Le era parsa tranquilla. Sí, per quanto potesse essere tranquilla la signora Teresa Burrano. Ovvio. Aveva aspettato una mezz’ora. Quando era ridiscesa, l’aveva lasciata al telefono, col giornale già aperto davanti. Combattiva, come sempre.
Mioara pareva dissociata. Piangeva, poi rideva, poi si portava le mani alla testa, sconsolata.
– Stamattina mia signora stava bene! Incazzata come solito, perciò bene!
E come darle torto.
– Quando io sono tornata a casa, già c’era polizia. Signora Clelia svenuta! E pranzo in cucina tutto bruciato! – Quell’ultimo concetto lo ripeté tre volte, a voce sempre piú bassa, manco fosse quella la notizia piú importante.
Il pm Vassalli arrivò, rimase lo stretto necessario e se ne andò.
Adriano aveva spostato il cadavere e aspettava quelli della Mortuaria.
– Foro d’entrata, – disse indicando la tempia destra della donna, – foro d’uscita, – mostrò, sul lato sinistro. – Sull’entrata non c’è la camera di mina e manca l’orletto stellato, il che vuol dire che il colpo non è stato sparato a contatto. Ed è ancora calda, le ipostasi sono appena accennate, perciò dev’essere successo poco prima che la sua amica rientrasse.
Il sovrintendente capo Pappalardo e i due videofotosegnalatori stavano lavorando sulla scrivania.
– Pappalardo, – lo richiamò Vanina. Quello si drizzò di scatto. – Pappalardo! Attenzione, che quello è il metodo numero uno per farsi venire il colpo della strega, lo sa? E non mi pare il momento piú opportuno.
– Ragione ha, dottoressa!
– Senta, Pappalardo, a questa valigetta e a questa pistola dobbiamo fare il pelo e il contropelo, mi sono spiegata? Sono piú vecchie dell’arca di Noè, ma sono fondamentali per la nostra indagine.
Il sovrintendente capo annuí.
– Impronte, tracce. E bisogna recuperare qualunque residuo di materiale, con particolare attenzione a eventuali frammenti di carta di banconote.
Si voltò verso Adriano, chino sul cadavere.
– E ho bisogno del Dna della signora.
Il medico la guardò senza capire, assorto nei suoi pensieri.
– Adri?
– Eh? Sí, sí, ho capito. Il Dna…
– E dobbiamo confrontarlo con quello trovato sulla tazzina a villa Burrano, – indovinò il sovrintendente capo.
– Bravo, Pappalardo. Vede? Con lei ci s’intende al volo.
– Per carità, dottoressa, non lo dica forte che se il dottore Manenti lo sa…!
Vanina e Fragapane, accanto a lui, sogghignarono.
Il vicequestore girò lo sguardo un’ultima volta sulla scena.
– Che pensa, dottoressa? – chiese Spanò, con la risposta già in tasca.
– Quello che pensa pure lei, Spanò. Che quella valigetta e quella pistola parlano piú di una confessione scritta –. Che però sarebbe stata molto piú semplice.
– Un’ammissione di colpa, perciò. Chi lo sa. Magari il nostro pressing l’ha fatta uscire fuori di testa. Ha temuto che arrivassimo alla verità e non avrebbe sopportato di concludere la sua vita con una condanna per omicidio. Meglio un suicidio a quel punto. E questo colpo di scena… Ora basta solo incastrare gli altri tasselli.
– Be’, io me ne vado a Santo Stefano. Voi aspettate qui che tutti abbiano levato le tende, e poi andate a godervi l’ultimo brandello di questa domenica.
Si diresse nel salotto attiguo e Marta le venne incontro subito.
– Che cosa incredibile! È vero che le persone che sembrano piú forti poi alla fine si rivelano le piú fragili. Chi se lo sarebbe mai aspettato dalla signora Burrano?
– Eh. Cosí è, cara Marta. Le persone non finiscono mai di stupirci, – le sorrise, – nel bene e nel male –. Si avvicinò all’ispettore con lo sguardo puntato sui suoi capelli, legati in una coda. Le tolse un’alghetta che pareva un filo d’erba marrone. – Occhio, che hai le caviglie piene di sabbia.
Marta la guardò senza capire.
– Be’. Vado a togliermi il sale di dosso, – disse Vanina, con un ultimo sorriso velatamente sardonico. S’avvicinò alla Santadriano. – Non è il caso che dormiate qui stanotte, lei e la ragazza. Avete dove andare?
– Ho altre amiche, qui a Catania, – assicurò Clelia. – Amiche di Teresa, – aggiunse, con un filo di voce.
La portinaia si fece avanti. – Mioara dorme da me.
– Bene.
Vanina si accese una sigaretta, pronta per uscire. Un pensiero improvviso la bloccò sulla soglia.
– Spanò!
– Capo, mi dica.
– Ma… Alfio Burrano l’abbiamo avvertito?
– Cento volte ci provai, dottoressa. È irreperibile.
Il vicequestore si tolse la sigaretta dalle labbra sospirando e tirò fuori il telefono. Cercò tra i contatti il numero di Alfio e lo chiamò. Una, due volte.
– Ma dove minchia è finito! – borbottò.
Spanò finse di non carpire il tono confidenziale.
– Non si preoccupi, capo, continuo a provarci io.
Da una stanza vicina si udí un tafferuglio, che attrasse l’attenzione di Vanina. Mioara e la portinaia non erano piú nel salotto. Seguí le voci e arrivò in una cucina arredata con pezzi che non andavano oltre gli anni Sessanta, ed era già una previsione ottimistica. Altro che braccino corto, le mani della defunta dovevano essere attaccate direttamente sotto la spalla.
– Che succede? – disse, perentoria. Pareva un pollaio, per come starnazzavano quelle due. E la puzza di bruciato era pesantissima.
– Si fissò che deve mettere a posto la cucina prima di scendersene a casa mia, – protestò la portinaia.
– Signora non vuole cucina sporca, mai. Signora la domenica prepara buone cose, poi appena io torno dice: Mioara pulisci cucina subito. Io penso che lei ora vede cucina sporca, e cose buone tutte bruciate.
Vanina intercettò la richiesta d’aiuto della portiera e si mise d’autorità.
– Mioara, ora che c’è tutta questa gente in casa non puoi pulire nulla. Butta la roba bruciata e vattene giú dalla signora a riposarti, che sei sconvolta. Capito?
La ragazza incassò. – Capito, dottoressa, – disse, e mentre tornavano indietro: – Mia signora diceva: dottoressa Guarrasi ha attributi. Io non so cosa sono attributi, però penso che signora aveva ragione.
– Ma vedi tu! E a chi lo diceva, Mioara? A te?
– No! Signora diceva a signor Alfio, e una volta al telefono ma non so con chi parlava.
Nel cortile Vanina incrociò la Mortuaria.
Chiamò Adriano. – Vuoi un passaggio?
– No, mi faccio portare in ospedale. Prima comincio prima finisco.
– Vabbe’, allora buon lavoro.
– Se ho da dirti qualcosa ti chiamo.
Recuperò la Mini nel cortile e finalmente lasciò la casa dei Burrano, attraversando tre volte piú gente di quanta ce ne fosse prima. Inutile illudersi che i giornalisti non fossero già in prima fila.
Spanò aveva detto che avrebbe riprovato a chiamare Alfio, ma Vanina aveva un pensiero. L’unico parente della defunta andava avvertito. Va bene che non le era troppo affezionato, ma sempre la sua unica parente era. E, anche visti i recenti rapporti amichevoli, magari una notizia del genere avrebbe preferito riceverla da lei piuttosto che dall’ispettore capo.
Oppure no. In fondo, anche Spanò non era uno sconosciuto per lui.
Di nuovo rispetto a prima c’era che, invece di squillare a vuoto, partí la segreteria telefonica. Gli lasciò un messaggio, chiedendogli di richiamarla anche tardi. Probabilmente Spanò aveva fatto lo stesso. Avrebbe scelto lui chi dei due contattare.
Arrivò a Santo Stefano che era quasi buio. Salendo le scale esterne rifletté su cosa prepararsi per cena. Da quel pranzo, interrotto prima dagli scoop da spiaggia e poi troncato in fretta e furia dal richiamo in servizio, Vanina non aveva messo sotto i denti piú nulla di solido. Uno spaghetto aglio e olio ci stava tutto.
Bettina la salvò come al solito.
– Si andasse a fare una bella doccia e poi viene qua e mi fa compagnia, che a cenare da sola stasera mi scunce il cuore.
Sempre cosí, Bettina. Rigirava la cosa come se fosse il vicequestore a farle un piacere omaggiandola della sua compagnia, quando invece la gentilezza era tutta sua. Per non farsi dire grazie, per non farla sentire in debito. E Vanina le era grata due volte.
Resse il gioco delle parti e fece come le aveva suggerito lei, che nel frattempo aveva già staccato l’aglio per gli spaghetti da una treccia cosí lunga che come l’avrebbe consumata solo lei lo sapeva. – Ci metto pure il capuliato, e un’anticchia di caciocavallo grattugiato che è la morte sua.
Mezz’ora piú tardi il vicequestore era seduta al tavolo della vicina, a godersi il capuliato, un trito di pomodori secchi condito con olio e aromi vari, e la compagnia. Sí, perché un fatto era certo, la cucina di Bettina la rallegrava. Anzi, di piú: la rasserenava. E la faceva sentire a casa, come non le capitava da tanto tempo.
– Oggi c’era la fotografia sua sul giornale, – comunicò la vicina.
Vanina cadde dalle nuvole.
– Come?
– Sulla «Gazzetta Siciliana». Un articolo che non finiva mai. Luisa c’impiegò mezz’ora per leggercelo. Perciò ora si sa chi è la donna ammazzata cinquant’anni fa?
– Cosí c’è scritto? – chiese il vicequestore.
– Sí. E poi tutta una storia, che era una… una che faceva la vita, insomma. E che l’assassino probabilmente era lo stesso del cavaliere Burrano, e che forse macari quello che aveva ammazzato il cavaliere Burrano non era quello che era stato in galera…
– Un momento! Ferma ferma ferma… tutte ’ste cose c’erano scritte?
Bettina s’alzò e andò a prendere il quotidiano.
La foto del vicequestore Guarrasi tra i suoi uomini, villa Burrano, il garage del Valentino. Accenni al delitto di Sant’Agata, con particolari, pistole mai ritrovate, allusioni a un assassino lasciato in libertà per quasi sessant’anni, parole solidali per l’uomo che poteva aver pagato a caro prezzo una colpa non sua. Un collage perfetto. E non era neppure difficile immaginare chi avesse fornito tutto quel materiale alla redazione. La faccia di Tunisi le tornò davanti.
Ecco cosa poteva aver scatenato il gesto di Teresa. Un articolo cosí sul giornale di Catania significava che qualcuno iniziava a fregarsene dei suoi diktat. Che c’era qualcuno piú potente di lei. Che prima o poi la sbirra con gli attributi sarebbe arrivata a lei.
Eppure, Vanina avrebbe giurato che una come Teresa Regalbuto fosse capace di combattere fino all’ultimo minuto. Ammazzarsi poteva essere un modo per mantenere il controllo di tutto fino alla fine, ma con la pistola incriminata suonava piú come una resa incondizionata. E questo non le sembrava da lei.
La vicina la vide accigliata e cercò di rimediare.
– Perciò con la scusa mi mangiai un bel piatto di pasta pure io! – fece, mettendosi comoda sulla sedia. – Perché lo sa, mangiare bene è importante, macari quando si è soli. Io cucino sempre. Mi conzo la tavola con tutti i crismi, e se posso condividere con qualcuno meglio, se no pazienza. Significa volersi bene.
Vanina le sorrise, ponderando quella filosofia finché non sentí che c’era una nota stonata, qualcosa che non andava. Riavvolse il nastro tornando indietro fino ai ragionamenti sull’articolo. E la sentí. Alta come un acuto di Freddie Mercury sparato nell’orecchio.
– Cazzo! – gridò.
Bettina la guardò perplessa, e contrariata. A lei quel linguaggio scurrile non piaceva.
E aveva pure ragione. Ma in quel momento no. In quel momento prevaleva l’adrenalina, che dell’eleganza se ne infischiava alla grande.
– Bettina, lei è un genio.
– Ma perché, che dissi? – Vanina non la sentiva già piú.
Forza, Adriano, rispondi!
– Lo sapevo che eri tu! – attaccò il medico.
– C’è una cosa importante che devo chiederti. E mi devi rispondere subito. Hai modo di capire se Teresa Burrano…
– Se si è sparata da sola? – l’anticipò Adriano.
– Sto venendo da te.
La cantilena di Mioara continuava a risuonarle in mente. Pranzo bruciato, pranzo bruciato.
Bettina aveva ragione, cucinare per sé stessi significa volersi bene. Una che sta per suicidarsi non cucina un arrosto e lo mette in forno, prima di sedersi alla scrivania, prendere una pistola e spararsi un colpo in testa.
Adriano la accolse nella sua «clinica», come la chiamava lui.
– Il dubbio me l’hanno fatto venire le mani. Lo vedi come sono deformate? La signora soffriva di una grave forma di artrosi. In casi come questo è difficile persino stringere in mano lo spazzolino da denti, figuriamoci poi premere un grilletto.
Afferrò una mano livida adagiata lungo il corpo e la sollevò fin sotto il naso di Vanina.
Di tutti i posti fetenti in cui l’aveva condotta il suo lavoro, la sala settoria era sempre il piú odioso. Non era solo un fatto di odori, che piú nauseabondi era difficile trovarne. Era la morte, che impregnava pareti, lettini e strumenti. Che ammorbava l’aria. I camici imbrattati di sangue, sempre scuro, sempre trapassato. La morte violenta. Quella che giustificava il suo mestiere, quella che le dava da vivere.
– E poi, – continuò Adriano, – il foro d’ingresso. Non c’è neppure l’ustione causata dalla fiamma e non c’è affumicatura. Ma c’è il tatuaggio, causato dai residui incombusti che nel caso di una pistola cosí antica sono parecchi. E questo lo sai che significa?
– No, ma sono sicura che lo saprò a breve.
– Che il colpo è stato sparato a piú di venti di centimetri di distanza. Ora, giudica tu in base a questi elementi se ti sembra possibile che la signora si sia sparata da sola.
Vanina rifletté in silenzio.
Per Teresa Burrano sarebbe stato difficile premere un grilletto già con la canna appoggiata, figuriamoci centrare la tempia a venti-trenta centimetri di distanza, con una pistola che le scalciava in mano per il rinculo. Era praticamente impossibile. E anche quando, per assurdo, fosse riuscita in un’impresa simile, l’arma non sarebbe rimasta cosí vicina a lei.
– La causa della morte mi sembra evidente, – concluse il medico. – Ora però tu schiodi, che io devo completare qui e un paio d’ore vorrei pure dormire. Domani mattina ti do il resto.
Per il vicequestore invece la notte era appena iniziata.
Vassalli rispose al decimo squillo.
– Dottoressa Guarrasi, – fece, basito.
Ascoltò senza parlare, il respiro sempre piú rumoroso.
– Porca miseria, – fu il suo unico commento.
– Dobbiamo cercare un assassino, dottor Vassalli. E gli abbiamo già lasciato un bel po’ di vantaggio.
Per una volta furono d’accordo.