18.
Vanina non si svegliava mai alle cinque e mezzo. Se arrivava sveglia a quell’ora, era piú probabile che a dormire non ci fosse andata per niente. Quando capitava, era il sintomo che la sua testa non aveva mai smesso di lavorare neppure nella fase piú profonda del sonno, che in questo caso, dato il suo fuso perennemente sfasato, non poteva essere durata piú di un paio d’ore. Questo succedeva solo in una condizione: quando percepiva la soluzione piú vicina di quanto non le sembrasse, ma sapeva di non essere ancora in grado di agguantarla. E allora si sentiva impotente.
Restarsene a letto nella speranza di riaddormentarsi era una fatica inutile. Tanto valeva alzarsi e rendersi produttivi.
Guardò il display del telefono, sgombro come poteva essere solo a quell’ora. Il mare dell’Addaura occhieggiava dietro le icone delle applicazioni.
Era un automatismo che aveva acquisito negli ultimi giorni e che si sarebbe scrollata di dosso molto volentieri. Doveva impegnarsi per farlo, e la serie di messaggi serali che l’incontro palermitano aveva innescato in questo non aiutava.
L’umidità in casa cominciava a sentirsi. Infreddolita, s’infilò una camicia sul pigiama e si diresse verso la Nespresso. Uní due Ristretto in una sola tazza, una dose di caffeina da far drizzare i capelli in testa per tutta la giornata. Si accese una sigaretta e se la fumò sul terrazzino della cucina, vista agrumi.
Alle sei e mezzo si chiuse la porta di casa alle spalle.
Bettina era già operativa e si aggirava tra le sue piante armata di tubo, con al seguito due gatti minuscoli che Vanina non aveva mai visto.
– Vannina! E chiffú? Ammazzarono a qualcuno? – fece, preoccupata. I mici si andarono a nascondere dietro una felce.
Vanina sorrise. – No, tranquilla, Bettina. Per ora gli ammazzati sempre quelli sono.
– Ha fatto colazione?
– La faccio al bar. Ho preso il caffè.
Bettina scosse la testa.
– Non le fa bene fare colazione sempre al bar. Un bel bicchiere di latte con un dolce genuino a casa è molto meglio.
I gatti zampettarono fuori dall’aiuola.
– Ma questi due da dove spuntano? – fece Vanina, abbassandosi lentamente fino ad accarezzarli.
– Piffavuri, non ne parliamo. Quattro ce n’erano, abbandonati vicino casa di Luisa in una scatola. E meno male che qualcuna di noi quattro l’orecchio fino ce l’ha ancora, perché se no ’sa che fine facevano ’sti poveretti.
Infilò la rampa esterna, lasciando la vicina nel suo mondo sereno, e uscí dal portoncino. La Mini la aspettava lí, ancora bagnata dall’umidità della notte.
Per la prima volta da almeno tre mesi, l’abitacolo era freddo.
Il bello di muoversi a quell’ora era che le vie d’ingresso a Catania erano ancora sgombre dalla fiumana di auto che di lí a poco le avrebbe invase senza requie per un paio d’ore. E la coda mattutina sarebbe stata inevitabile, da qualunque parte ci si girasse, perché non c’era una sola via d’accesso in città che non incrociasse una o due scuole. Ciò significava auto in doppia fila, frotte di ragazzini schiamazzanti e genitori esagitati, con relativo intervento di ausiliari del traffico che avrebbero dato il colpo di grazia finale paralizzando l’intero asse viario.
Vanina scelse la strada che le piaceva di piú. Dalla circonvallazione andò giú fino a Ognina e imboccò il lungomare appena in tempo per vedere il sole spuntare all’orizzonte.
Si fermò nel primo bar aperto che incontrò e consumò la sua colazione godendosi quell’alba bagnata dal mare, che per una nata e cresciuta sulla costa occidentale era un’esperienza inedita.
Il bar era pieno di avventori mattinieri, che consumavano il loro caffè in piedi. Le venne in mente Federico Calderaro: in qualunque posto si trovasse, alle cinque e mezzo del mattino usciva, anche nel gelo, alla ricerca di un posto qualunque che gli preparasse un caffè.
Per la proprietà transitiva pensò a sua madre. In preda a un colpo di nostalgia, che non era da lei ma in quei giorni di revival sentimentali ci stava, le mandò un rapido messaggio di buongiorno.
Risalendo in macchina vide passarle davanti Marta Bonazzoli, in tenuta da running, con auricolari e cardiofrequenzimetro. Come la invidiava. A lei non sarebbe passato manco per l’anticamera del cervello di alzarsi all’alba per farsi chilometri di corsa.
A Tito Macchia poi men che meno, pensò, sorridendo.
Salvatore Cunsolo, il figlio del vecchio domestico di villa Burrano, si presentò negli uffici della Mobile a metà mattinata, chiedendo del vicequestore Guarrasi.
Aveva la faccia preoccupata.
– Dottoressa, lei l’altro giorno mi chiese se ricordavo qualcosa di mio padre che fosse riconducibile al suo passato, – iniziò, pulendosi la giacca dalla cenere dell’Etna.
Istintivamente Vanina controllò il davanzale del balcone, accertandosi che la pioggia non fosse ricominciata.
– Lí per lí, non mi venne in mente nulla. Poi mi ricordai un episodio. Potevo avere sí e no tredici anni, ed ero a casa sua, in montagna. Capitava raramente, ma a me piaceva assai. Un pomeriggio m’ero fissato che dovevo aprire il forno a pietra, che lui teneva sempre chiuso e non lo usava mai. Tanto feci che ci riuscii. Dentro c’era un sacco grande, di quelli di iuta. Lo aprii e tirai fuori una valigetta. Mi ricordo che mi colpí perché c’era attaccata una specie di manetta. In quel momento arrivò mio padre. Me la scippò dalle mani e mi disse che dovevo trattarla bene, perché quella era la nostra assicurazione sulla vita. Io non capii che voleva dire, ma lui mi disse che non era necessario. Anzi, che me la dovevo proprio scordare, che ci pensava lui a farla fruttare. E io obbedii. Poi il tempo passò, e non ci pensai piú per davvero. Stamattina presto, me ne salii a casa di mio padre, che non ci andavo da piú di una settimana e volevo controllare se era tutto a posto. Trovai la porta chiusa male, come se fosse stata forzata, e tutta la casa sottosopra. Tutto aperto, armadi, stipetti, tutto. Pure il forno. Non mancava niente, dottoressa, tranne…
– La valigetta, – l’anticipò il vicequestore.
L’uomo annuí.
– Siccome ho letto sul giornale che nel delitto su cui state indagando c’entrava qualcosa una valigetta, e siccome mi avevate fatto tutte quelle domande sul passato di mio padre, ho fatto due piú due…
Vanina estrasse dal fascicolo la foto della valigetta trovata accanto alla vecchia, e gliela mise davanti. – È questa?
L’uomo trasalí.
– Questa è, dottoressa, ne sono sicuro.
– Dottor Cunsolo, la guardi bene, perché quello che sta affermando potrebbe influenzare le indagini per due omicidi.
Quello s’avvicinò e la riguardò.
– Lei è.
Vanina richiuse il fascicolo e allungò la mano verso il telefono.
– Spanò, venga da me.
Cunsolo la guardò, in apprensione. – Mi scusi, dottoressa, non so se è consentito chiederlo ma… potrei sapere che cosa conteneva?
– La Beretta M35 con cui fu ucciso il cavaliere Gaetano Burrano.
Quando Spanò entrò, Salvatore Cunsolo non s’era ancora ripreso.
L’ispettore si allisciava i baffi.
– Quindi potrebbe essere stato Demetrio Cunsolo a uccidere Burrano.
Vanina sputò il fumo fuori dalla finestra.
– No, ispettore.
– Perché?
Il commissario Patanè, che nel frattempo era accorso al richiamo del vicequestore mollando per la seconda volta Angelina in pieno pranzo, aprí bocca per dire qualcosa, ma Vanina lo anticipò.
– Ci pensi, Spanò. Se Cunsolo fosse stato l’assassino, non si sarebbe conservato gelosamente le due prove piú importanti, e soprattutto non le avrebbe considerate un’assicurazione sulla vita. No, ispettore. Quella valigetta a Cunsolo serviva per ricattare qualcuno. E questo qualcuno poteva essere solo l’assassino di Burrano.
Spanò rimase in silenzio.
– E lei pensa che sia la stessa persona che ha ucciso la vecchia?
Patanè storse il naso. Lui non era d’accordo con quest’ipotesi.
– L’unica cosa che sappiamo, – precisò il commissario, – è che l’assassino della Regalbuto cinquant’anni fa s’era bevuto un caffè con Gaetano Burrano. Che dopo l’avesse ucciso è una deduzione. Però questo ci dice che stiamo parlando di uno che minimo minimo ha l’età mia. E che Cunsolo conosceva bene.
Il telefono del vicequestore squillò.
– Sí, dottor Cunsolo, mi dica… Perfetto.
Vanina scattò in piedi.
– Forza, Spanò. Chiamiamo la Bonazzoli e andiamo.
Patanè si alzò appresso a lei e li seguí, lo sguardo languido. Un bambino che guarda da dietro una vetrina un giocattolo che sa di non poter avere.
Vanina valutò la situazione. In fin dei conti il commissario era pure lui un testimone. Stava sull’altra sponda, quella di chi cercava, ed era stato esautorato anzitempo, ma sempre testimone era. E l’indagine ripartiva da zero, perciò…
– Commissario Patanè, lei viene in auto con me e Bonazzoli.
Patanè stentò a capire. Poi prese aria e alla fine fece l’ennesimo regalo all’artista che aveva confezionato la sua presunta protesi dentaria.
S’infilarono nella jeep di servizio e presero a seguire l’auto di Salvatore Cunsolo. Superarono Trecastagni, poi Pedara, poi Nicolosi. Il paesaggio si era fatto lunare, e i cumuli di cenere lungo la strada non si contavano. Il termometro sul cruscotto segnava 12 gradi.
Vanina cominciò a farsi qualche scrupolo per quella decisione avventata di portarsi dietro Patanè. E se con lo sbalzo termico si sentiva male, o se gli veniva una polmonite? Ad Angelina chi glielo andava a contare?
– Ma dove abita ’sto qui? Non è che diventa pericoloso salire piú in alto, con l’Etna in eruzione? – disse Marta.
– Sta eruttando dall’altro lato, perciò problemi su questo versante non ce ne sono. Se cosí non fosse a quest’ora qua manco ci saremmo potuti arrivare. Comunque dovremmo quasi esserci, – rispose Patanè.
Vanina si voltò indietro a guardarlo, con un punto di domanda stampato in faccia. Anzi due.
– Mi lessi il verbale dell’altra volta che avevate interrogato il figlio di Cunsolo, e mi feci un’idea di dove abitava il padre, – giustificò il commissario.
– Tra un po’ arriviamo ai crateri silvestri, – constatò Bonazzoli.
– I crateri silvestri! Ma tutti tu li conosci, i posti solitari, – la sfotté Vanina.
– Guarda che sono vicino al rifugio Sapienza, che non è un posto solitario, – puntualizzò Marta.
– Allora mi correggo: i posti romantici. Va meglio?
Marta la guardò storto.
Vanina le sorrise. – Guarda che non è un insulto. Anzi, casomai è tutta invidia.
L’auto di Cunsolo girò in una stradina laterale che s’inoltrava fra querce e larici.
– Ma dove minchia stiamo andando? – sbottò il vicequestore, scorgendo un rudere nascosto fino al tetto da roccia nera.
Si fermarono in uno spiazzo davanti a un edificio di pietra lavica col tetto spiovente.
– Questa casa è stata circondata dalla lava due volte, ma per fortuna è costruita su una piccola altura e perciò non è mai stata danneggiata, – disse Cunsolo, mentre apriva la porta che palesemente era stata forzata.
Entrarono in una sorta di soggiorno, arredato con mobili rustici antichi, dove regnava il caos. Credenze, stipetti, armadi, tutto era aperto e il contenuto era sparso per terra.
Vanina mandò Spanò e Marta nelle altre stanze a controllare se avessero subito lo stesso trattamento.
– Il forno è di qua, – indicò Cunsolo, facendo strada.
Una cucina in muratura, con qualche pezzo piú moderno qua e là. Elettrodomestici vecchiotti ma di prima qualità. Un forno di pietra occupava un angolo.
– Ecco: vede, dottoressa? La valigetta era conservata qua dentro.
– Nascosta, – precisò Vanina, a bassa voce, chinandosi per guardare meglio dentro l’apertura del forno.
Accese la torcia dell’iPhone. Fuliggine, qualche residuo di brace vecchia di cent’anni e cenere ai lati. Al centro, un’impronta rettangolare.
– Immagino che suo padre non lo accendesse mai, – constatò.
– Io non l’ho mai visto acceso. Ma poi, che avrebbe dovuto farci? Mio padre non era cosa di cucinare niente. Quando si comprò ’sto casa il forno c’era e se l’è tenuto.
Vanina si guardò intorno. Anche lí era tutto a soqquadro. La sua attenzione cadde su un sacco di iuta, annerito in piú punti, buttato per terra. Si chinò sulle ginocchia, senza toccarlo.
– Dottor Cunsolo, lei mi disse che la valigetta era dentro un sacco. Era questo?
Cunsolo si abbassò.
– Mi pare proprio di sí.
Il vicequestore rimase accovacciata, un gomito sul ginocchio ispezionando il pavimento. Alzò il sacco con due dita e lo rivoltò. Vide una macchia scura sul bordo accanto all’apertura. Sangue, e neppure tanto vecchio.
– Spanò, – chiamò.
L’ispettore comparve dalla stanza vicino.
– Chiami quelli della Scientifica e li faccia venire a repertare questo sacco.
Bonazzoli comparve con in mano un raccoglitore di cartone, simile a quelli degli archivi.
– Capo, guarda cos’ho rinvenuto?
Vanina si tirò su e Marta si avvicinò porgendole il faldone.
All’interno c’erano carte di ogni tipo, accumulate negli anni da Demetrio Cunsolo. Contratti di lavoro, lettere di pagamento, contratti per l’acquisto di quella casa, di automobili. Si poteva andare indietro fino agli anni Sessanta. E provavano tutte una sola cosa: i soldi all’ex domestico di villa Burrano non erano mai mancati.
– Guarda qua, – indicò Marta, tirando fuori un documento scritto in inglese. Un permesso di soggiorno rilasciato a Demetrio Cunsolo dal governo degli Stati Uniti nel luglio del 1959.
– Ha vissuto negli Stati Uniti.
– Giusto giusto dal 1959, – aggiunse Patanè.
– Portiamolo in ufficio e studiamocelo per bene. Capace che viene fuori qualche notizia interessante, – disse Vanina.
Tornò verso il forno e infilò dentro la testa, puntando la luce. Nell’angolo piú recondito, una busta di carta era buttata vicino alla parete. Allungò il braccio al massimo, ma per riuscire ad afferrarla dovette sporgersi con tutto il mezzo busto, sotto l’occhio perplesso del commissario Patanè.
– Non si facissi male, dottoressa!
La busta aveva la stessa intestazione di quelle dei documenti che avevano trovato nella macchina di Burrano, solo era ingrigita e usurata. In un angolo un’impronta di sangue.
Vanina fece attenzione a non inquinare l’impronta. Aprí la busta e tirò fuori il contenuto, poi la posò sul ripiano del forno.
Spiegò il primo foglio.
– Minchia! – esclamò Patanè, che si era piazzato subito occhiali sul naso dietro le sue spalle per leggere insieme a lei.
Si scambiarono uno sguardo.
– Ha capito, commissario?
Esaminarono gli altri due documenti, ma ormai si aspettavano quello che avrebbero trovato.
Il Grande Capo s’era installato nell’ufficio di Vanina e si dondolava sulla sua poltrona masticando il sigaro. Il vicequestore era seduto dall’altro lato della scrivania, insieme a Marta col faldone sulle ginocchia. Il commissario Patanè, invitato da Macchia a restare, se ne stava in disparte con le spalle alla parete.
– Dunque ora abbiamo tutti i documenti che mancavano all’appello per scagionare definitivamente Di Stefano. Piú vari indizi che ci indicano un assassino. La domanda è come facesse a trovarseli in mano Cunsolo, – disse Tito.
Vanina lo guardò senza rispondere.
– Guarrasi, non fare finta di niente. Secondo me tu un’idea te la sei già fatta.
– Diciamo che ho cercato di immaginare come potrebbe essere andata. Immaginare, Tito, intendiamoci, perché sono solo ipotesi al momento indimostrabili. Favolette.
– Mi sono sempre piaciute le favolette.
Vanina prese aria. – Va bene. Le cose potrebbero essere andate cosí: Demetrio Cunsolo lavora a Sciara, ma è alle dipendenze di Teresa Burrano, che lo considera un domestico fidato, tant’è vero che il marito lo allontana dalla villa ogni volta che è lí con la Cutò. La sera di Sant’Agata, la signora gli fa una proposta economica che lui non può rifiutare e compra cosí la sua complicità. Il domestico arriva alla villa in anticipo. Il suo compito è quello di aspettare che il delitto sia compiuto e poi, dietro lauto compenso, aiutare l’assassino a farne sparire le prove. Quando sentirà arrivare Di Stefano entrerà nello studio di Burrano e comincerà la sceneggiata. Oltre alla valigetta e alla pistola, però, l’assassino consegna nelle mani del domestico, per eliminarli, tre documenti. Cunsolo non è uno stupido, capisce che quello che ha per le mani può cambiare il corso della sua vita, e può fargli tenere per le palle gente che fino a quel momento l’ha trattato sempre come un servo. Fedele, fidato, ma comunque un servo. Invece di far sparire le prove se le conserva con cura e le trasforma in una fonte inesauribile di denaro. Un’assicurazione sulla vita.
Tito e Marta erano rimasti ad ascoltarla col fiato sospeso, mentre Patanè annuiva continuamente.
– Difficilmente dimostrabile, – confermò il Grande Capo, – ma secondo me l’ipotesi ha una sua logica che potrebbe avvicinarsi parecchio a come andarono davvero le cose. Gli indizi sull’assassino, invece, a questo punto mi sembrano concreti. Riferiamo a Vassalli e agiamo. Poi occupiamoci del caso della Regalbuto.
Vanina non commentò.
Aveva già sbagliato una volta, a sottostare alla flemma vile del pm. Il risultato era stato l’assassinio di Teresa Regalbuto. Perché se avessero iniziato a controllarla e intercettarla, come aveva intenzione di fare, forse adesso la vecchia sarebbe stata ancora viva e sul punto di essere incriminata insieme al suo degno compare omicida.
Il caso Regalbuto era legato al caso Burrano a doppio filo. Era impossibile parlare dell’uno senza tirare in ballo l’altro, adesso piú di prima. E forse sbagliare i tempi nella conclusione del primo avrebbe rischiato di inficiare il secondo.
Perché un fatto era certo: la valigetta di Cunsolo era stata sottratta appena prima del finto suicidio, apposta per metterlo in scena. Da qualcuno che sapeva. E a rigor di logica poteva essere una persona sola. Di nuovo lui. Ma stavolta che movente poteva aver avuto?
Eliana Recupero l’aveva chiamata dopo appena tre ore.
– Se mi manda qualcuno a prenderla, ho un po’ di zavorra per lei.
Vanina aveva mandato Marta e ora la zavorra era sul suo tavolo, sotto forma di due cartelline in cui era stato concentrato il sunto di quello che lei aveva chiesto.
L’acquedotto che passava dal terreno di Gaetano Burrano era stato costruito da due società, la Idros Srl, alla sua prima impresa, e la Tus Srl, una ditta di costruzioni in odore di mafia già dagli anni Cinquanta. Inizio dei lavori: 23 aprile 1959. Un affare miliardario i cui proventi erano finiti in tasca alla proprietaria del terreno, Teresa Regalbuto, e all’amministratore unico di Idros. La Tus poi era sparita dalla gestione, ma solo nominalmente, e su questo le fonti della Recupero fornivano piú di una certezza.
Se Teresa Regalbuto non avesse ereditato il terreno, come del resto nel caso in cui Gaetano Burrano fosse arrivato a spartirsi quella torta miliardaria con Di Stefano, all’ombra degli Zinna, la Idros Srl non sarebbe mai neppure esistita.
E Demetrio Cunsolo aveva in mano tre documenti capaci di cambiare l’intero corso delle cose. Il contratto firmato da Burrano e Gaspare Zinna per la costruzione dell’acquedotto; una delega di Burrano a Tommaso Di Stefano ad agire in nome e per conto suo in caso di sua assenza; e infine l’asso nella manica, quello che avrebbe inchiodato alla sbarra il colpevole ad vitam, se lui non avesse deciso di trarne dei benefici personali. Il testamento olografo redatto da Gaetano Burrano.
La giornata di Vanina si concluse nell’ufficio del pm Vassalli, che le aveva spostato di mezz’ora in mezz’ora il colloquio per via di un altro caso di cui era titolare e che stavano seguendo i carabinieri.
– Lei mi scuserà, dottoressa, ma si tratta di una faccenda quasi risolta a cui manca solo un piccolo anello di congiunzione, – disse il pm, lasciandosi andare sulla poltrona e offrendole un bicchiere della limonata in lattina che si stava versando.
Vanina rifiutò garbatamente la bevanda e si concentrò sul discorso che stava per fargli. Cercò di essere breve e concisa, di non lasciare vuoto nessun «anello di congiunzione» mentre spiegava al magistrato il motivo per cui ad ammazzare Gaetano Burrano, il 5 febbraio del 1959, era stato il notaio Arturo Renna, in complicità con Teresa Regalbuto Burrano, che però aveva dato il suo contributo eliminando fisicamente Maria Cutò. Quella che immaginavano potesse essere l’ultimo ostacolo alla realizzazione di tutti i progetti.
Ma non avevano fatto i conti con Demetrio Cunsolo e con la sua ambizione sfrenata.
Quello di cui aveva bisogno Vanina, ora, era di poter agire con ogni mezzo a disposizione per inchiodare definitivamente un assassino, che di delitti poteva averne compiuti due. Uno dei quali recentissimo.
Vassalli sudò fino all’ultima goccia della limonata che aveva appena bevuto. Spostò due fogli, si aggiustò la giacca tre volte, appoggiò e staccò i gomiti dal tavolo altrettante. Poi si adagiò sulla spalliera. Sconfitto.
Avrebbe proceduto all’iscrizione della notizia di reato, e Arturo Renna avrebbe ricevuto l’informazione di garanzia, che le avrebbe permesso di ricercare qualunque indizio di colpevolezza attraverso impronte, confronti e quant’altro. E, ovviamente, Dna.
Lo slargo davanti a casa era interamente occupato da un bestione bianco tirato a lucido manco fosse stato noleggiato per un matrimonio. Vanina l’aveva riconosciuto prima ancora di aver svoltato l’angolo e di averci quasi sbattuto col muso della Mini.
Alfio Burrano era balzato a terra appena l’aveva vista uscire dalla macchina e aveva guadagnato la posizione davanti al portoncino di ferro. Se ne stava lí impalato sul primo gradino come una guardia svizzera.
– Riposo, Burrano, riposo, – disse Vanina, estraendo le chiavi dalla tasca interna della borsa.
– Ciao Vanina, – la salutò.
– Ciao Alfio.
– Ho cercato di chiamarti oggi ma non mi hai risposto. Poi il telefono ha cominciato a risultare staccato e allora…
Non aveva neanche guardato quante chiamate aveva ricevuto. La gente che aveva questioni serie da comunicarle conosceva il numero dell’ufficio, anche i familiari. Bettina compresa.
– Oggi non ho avuto il tempo di rispondere neppure a mia madre. Poi il telefono si è scaricato.
– Ah, meno male. Allora non era con me che non volevi parlare.
– Meno male per chi?
Alfio non rispose.
– Dovevi dirmi qualcosa? – lo incoraggiò.
– Sí. È che da quando si è risolta la mia… situazione, non abbiamo piú parlato. E io volevo spiegarti delle cose.
– Senti, Alfio, è stata una giornata dura, sono sfinita e ho solo voglia di andarmene a casa, mangiare qualcosa e dormire. Possibilmente fino a domani mattina. Perciò se hai intenzione di gravarmi con conversazioni che richiedano un impegno anche minimo, t’avverto che non è cosa.
– Vorrei soltanto darti la mia versione di qualcosa che…non so in che termini ti sia stata raccontata.
Vanina sospirò con rassegnazione.
– Entra, dài.
Alfio sorrise, confortato. Le tolse dalle mani il sacchetto di Sebastiano.
Il giardino di Bettina era già corredato di lettiera, casetta per gatti e palline sparse manco fosse un campo da golf. Bettina salutò da dietro i vetri, seguendoli con lo sguardo fino alla porta d’ingresso della dépendance. La temperatura serale ormai non le permetteva piú di farsi trovare fuori, e vedendola in compagnia sicuramente non le era parso il caso di uscire apposta.
Però le aveva lasciato qualcosa in casa. Vanina sbirciò l’involto, poggiando il sacchetto sul ripiano della cucina. Un ciambellone. Il dolce genuino per la colazione dell’indomani.
Ma com’era che Bettina non dimenticava mai nulla?
Alfio era rimasto al centro della stanza, impacciato, e ora stava guardando la fotografia incorniciata sulla mensola.
– È tuo padre? – le chiese, quando gli si avvicinò.
– Sí, è mio padre.
Non le chiese altro, segno che sapeva benissimo chi fosse e cosa facesse l’ispettore Giovanni Guarrasi.
– Tu gli somigli.
– Grazie.
Alfio si girò verso il divano grigio, incerto se sedersi o no. Vanina lo tolse dall’imbarazzo e si sedette per prima.
– Senti, devo spiegarti perché non ho voluto dirti che avevo un alibi per domenica mattina.
– Non è necessario.
– Sí, invece, – insistette lui.
– Va bene, Alfio, ma t’avverto: che Elena Nicolosi fosse la figlia del tuo amico Gigi l’ho capito un secondo dopo che ha iniziato a parlare. L’unica informazione essenziale per me era che fosse maggiorenne, anche ai fini di quello che stava per fare. Il resto non mi riguarda. Sono fatti tuoi. E di Elena, che tutto mi è parsa tranne che una ragazzina sedotta e disperata.
Che altro poteva dire Alfio? Solo che si era vergognato, e che aveva avuto paura, una paura stupida. Perché quella era maggiorenne da due settimane, ma il tira e molla del mi vuoi o non mi vuoi glielo stava infliggendo da mesi. Aveva cercato di resistere alla tentazione finché proprio domenica aveva ceduto. Ed era stata la prima e unica volta.
– Ora le opzioni sono due: o ti siedi alla mia tavola non apparecchiata e dividi con me mozzarella di bufala e prosciutto crudo, oppure alzi il fondoschiena dal mio divano, te ne vai e mi lasci cenare in pace.
Alfio optò per la prima. Che poi la tavola si poteva apparecchiare in due minuti, le mozzarelle di bufala erano due, ed erano superlative, e il prosciutto di Sebastiano non aveva eguali in tutta la provincia di Catania. Peccato solo che non aveva portato un vino dei suoi.
Se ne andò sollevato, senza accennare il minimo approccio che non fosse puramente amichevole.