7.

Il commissario in pensione Biagio Patanè aggrottò la fronte e avvicinò il giornale. Forse aveva letto male. A ottantatre anni, cataratte a parte, qualche scherzo gli occhi lo possono fare.

Ricontrollò il titolo che apriva la cronaca di Catania. Diceva proprio cosí: Morti dal passato nella villa dei Burrano. Incredulo, passò all’articolo.

È senza identità il cadavere mummificato rinvenuto per caso, domenica sera, nella villa dei noti imprenditori vinicoli. Pare che si tratti di una donna, e che il decesso risalga a parecchi anni fa, decenni probabilmente. Sul corpo, che giaceva all’interno di un montacarichi di cui i proprietari stessi della villa ignoravano l’esistenza, non sono stati rinvenuti documenti di riconoscimento. Su segnalazione dello stesso Burrano, autore del ritrovamento, sono accorsi sul luogo gli agenti della squadra Mobile di Catania, diretti dal vicequestore Giovanna Guarrasi, e il sostituto procuratore Vassalli. La polizia Scientifica e il medico legale sono all’opera per fornire qualche dettaglio in piú che potrebbe essere utile all’identificazione. Villa Burrano, disabitata da lungo tempo, era salita agli onori della cronaca piú di cinquant’anni fa per l’efferato delitto che si compí tra le sue mura, in cui fu ucciso il cavaliere Gaetano Burrano…

Alzò lo sguardo, pensieroso. Posò il giornale aperto sul tavolino davanti alla finestra, infilò gli occhiali nella tasca interna della giacca e l’indossò. Davanti allo specchio da terra dell’ingresso si aggiustò la cravatta. Allungò il collo verso la cucina.

– Angilina, staiu niscennu, – comunicò.

Infilò la porta prima che sua moglie lo inseguisse con il soprabito, che poi gli sarebbe toccato portarsi a braccio tutto il tempo.

– Gino, ma unni vai accussí presto? Te lo portasti il telefono cellulare, ’nsamai hai bisogno di qualche cosa?

Angelina era una santa donna, e per quante gliene aveva fatte vedere poteva dirlo forte, ma aveva sempre avuto la fissazione di valutare l’abbigliamento in base al calendario, senza aver messo fuori neppure un braccio. Il fatto che fosse parecchio piú giovane di lui, dettaglio che quando se l’era sposata l’aveva esaltato, da qualche anno a questa parte gli si stava ritorcendo contro, producendo in lei la convinzione di doverlo sorvegliare, per motivi e con metodi assai diversi da quelli che in giovinezza aveva messo in atto per sgamare le sue infedeltà.

Con il passo piú svelto che le sue anche gli consentivano, raggiunse la Panda bianca scassata che abbandonava ogni giorno nei posti piú svariati. Attraversò mezza città fino a raggiungere via di Sangiuliano. Parcheggiò in zona Teatro Bellini e raggiunse a piedi il portone chiuso dietro il quale si muoveva il mondo in cui aveva vissuto per quarant’anni.

Se l’idea che si era fatto su di lei corrispondeva alla realtà, il vicequestore Giovanna Guarrasi era la persona piú giusta cui potesse capitare in mano quel caso. E lui, forse, poteva aiutarla.

– Capo, c’è un signore che chiede di parlare con lei.

Vanina alzò gli occhi dalla «Gazzetta Siciliana» che Spanò le aveva portato un attimo prima, e li posò interrogativi sul sovrintendente Nunnari.

– Un signore chi, Nunnari?

– Patanè Biagio.

– E che vuole da me, questo Patanè Biagio?

– Non lo so, dottoressa. Con me e con Bonazzoli si rifiutò di parlare. Manco mi volle dire di che si trattava. Mi taliò come se dovessi ricordarmi il suo nome. Ottant’anni ce li ha sicuro. Ma lei lo conosce?

– Ma come lo devo conoscere, Nunnari, che a Catania ci vivo da undici mesi!

– Allora che faccio, lo faccio passare?

– E che vogliamo fare, lo lasciamo là fuori?

Ottant’anni era giusto l’età minima che poteva avere qualunque sopravvissuto capace di fornire elementi utili al caso di villa Burrano.

Nunnari fece per uscire dall’ufficio e andare a chiamare il vecchietto, quando lo vide avanzare tutto contento al braccio di Carmelo Spanò, che lo ossequiava rivolgendosi a lui come a una persona conosciuta.

– Non preoccuparti, Nunnari, ci penso io, – lo rassicurò l’ispettore, mentre accompagnava l’uomo nell’ufficio della Guarrasi. Bussò. – Capo?

Braccia conserte e sguardo grigio ferro, il vicequestore Giovanna Guarrasi se ne stava appoggiata allo schienale della sua poltrona, curiosa di scoprire chi fosse questo Patanè che, dopo aver rifiutato di parlare con i suoi collaboratori, stava varcando la sua porta con tutti gli onori dell’ispettore Spanò.

Figura longilinea, camicia immacolata, abito impeccabile, un’ottantina d’anni portati egregiamente: questa fu la prima impressione che Vanina ebbe dell’uomo che si stava introducendo nel suo ufficio. Lando Buzzanca in versione anziana.

– Vicequestore Giovanna Guarrasi, – si presentò, appoggiando un gomito sulla scrivania e porgendogli la mano.

– Commissario in pensione Biagio Patanè, squadra Mobile, – rispose quello, accennando un inchino.

Perplessa, lo fece accomodare.

Spanò gli indicò la sedia davanti, sorridendo amabilmente. – Il commissario ha diretto la squadra Omicidi per… quanto, dottore? Trent’anni?

– Ora non esageriamo. All’inizio non dirigevo niente. Il poliziotto facevo. Poi mi laureai, e diventai commissario. Ma prima di arrivare a dirigere qualche cosa, strada ne dovetti fare assai.

– Dottoressa, il commissario Patanè è stato il mio primo capo.

Vanina sorrise.

– Un vero piacere, commissario. Il sovrintendente Nunnari non mi aveva riferito il titolo.

– No, dottoressa, sono io che non gliel’ho detto. Quelli che entrano in un posto e subito si qualificano per avere un trattamento speciale non li ho mai potuti soffrire. Non è che stavo chiedendo l’America. Sono sicuro che lei mi avrebbe ricevuto macari senza Carmelo. Mi sbaglio?

– No, non si sbaglia. Mi dica tutto.

– Stamattina, quando mi trovai davanti la fotografia di villa Burrano sulla pagina di cronaca nera, arrimasi ammammaluccuto… Carmelo, picciotto mio, che fa’ me lo porteresti un bicchiere d’acqua?

Spanò scattò subito.

L’uomo tirò fuori dalla tasca due cioccolatini e ne offrí uno a Vanina, che rispose mostrandogli la riserva personale che teneva sulla scrivania.

– Santa cioccolata. All’età mia, basta picca e nenti per sentirsi deboli.

Spanò rientrò con una bottiglietta d’acqua presa al distributore del piano terra, e tre bicchieri di plastica. Patanè bevve d’un fiato.

– Lo sa, dottoressa Guarrasi, io ho sempre avuto l’abitudine di archiviare nella mia mente i casi conclusi suddividendoli in tre categorie: quelli definitivamente risolti in prima battuta; quelli in cui la pista giusta è venuta dopo qualche tentennamento, pigliando qualche cantonata; e infine quelli che si chiudono lasciando un dubbio, anche minimo. I primi e i secondi, a meno che non siano casi leggendari, vanno a finire nel dimenticatoio; gli ultimi invece, che per fortuna mia sono pochi, macari se passa tempo, gira vota e furria ti tornano sempre in testa e ti disturbano il sonno. Di questi ultimi il piú azziccuso, quello che se spunta non me lo levo piú dalla mente, è l’omicidio di Gaetano Burrano.

Bevve un altro bicchiere d’acqua, mentre Vanina e Spanò lo guardavano col fiato sospeso.

– La risoluzione, per il commissario Torrisi, fu facile. Le prove e gli indizi di colpevolezza a carico di Di Stefano erano sparsi ovunque: nella villa, a casa sua, nello scanno di Burrano. Macari i vestiti lordi di sangue aveva. Il cadavere l’aveva trovato lui. Lui ci aveva chiamato, lui era l’unica persona presente alla villa. Tutti a Catania erano, a taliàrisi la festa di Sant’Agata. Nessuno metteva in dubbio che fosse lui, l’assassino. Nessuno tranne me, che a quei tempi alla Mobile contavo quanto il due di coppe quando la briscola è a mazze. Ora lei si chiederà perché sto tirando fuori l’omicidio Burrano, visto e considerato che il vostro caso riguarda una fimmina, che per giunta manco si sa di preciso quando morí.

Vanina resse il gioco. Il vecchietto era uno che la sapeva lunga.

– Lei dice che dovrei chiedermelo?

Patanè sorrise.

– Dottoressa Guarrasi, lei secondo me è ancora piú sperta di quello che dicono.

– Grazie, dottor Patanè. Diceva, perciò?

– Quando lessi che nella villa di Burrano era stato trovato il cadavere di una donna, mi tornò alla mente all’improvviso un fatto a cui, devo essere sincero, all’epoca diedi poca importanza. Poco dopo la morte di Burrano venne da me una ragazza, una ex prostituta. Mi cuntò che una sua amica, un’altra ex prostituta assai piú famosa di lei, era sparita da qualche tempo senza dare notizie. La donna scomparsa era conosciuta come Madame Luna, ma il suo vero nome era Maria Cutò. Fino a quando lo Stato non l’aveva costretta a chiudere i battenti, aveva gestito una delle case di tolleranza piú rinomate di Catania, una di prima categoria, per intenderci. La casa… – chiuse gli occhi, concentrato. – Niente, appena mi viene il nome glielo dico, – si voltò verso Spanò, che aveva preso a rimestare tra le carte stampate da Fragapane in cerca di una Cutò. – Lassa stari, Carmelo, – consigliò, abbassando gli occhi come per dire «Tanto è inutile».

Spanò alzò uno sguardo interrogativo, che diventò quasi subito perplesso prima di giungere alla rassegnazione.

Vanina intuí, ma evitò di commentare. Per come la vedeva presa, se avesse cominciato a interrompere la narrazione avrebbero fatto notte.

– Denuncia non ce ne fu. La ragazza non volle sporgerla, e siccome della scomparsa di Maria Cutò, oramai che il bordello era chiuso, non gliene importava piú niente a nessuno… – si drizzò di colpo sulla sedia schioccando le dita. – Casa Valentino, ecco come si chiamava! La piú costosa di Catania era.

– Perché non volle denunciare la scomparsa?

– Questo è il punto, dottoressa, il tarlo che stamattina mi riapparve in mente dopo tanti anni. Luna, da quando era diventata la maîtresse, il mestiere non lo esercitava piú se non per pochi eletti, che la pagavano generosamente. Pare che uno di questi fosse proprio Gaetano Burrano, che poi aveva continuato a frequentarla macari dopo la chiusura della casa. La ragazza si scantava che, facendo regolare denuncia, Luna potesse venire accusata dell’omicidio, mentre secondo lei o le era capitata qualche cosa, oppure se n’era scappata per evitare di essere messa in mezzo.

– E come mai venne a cercare lei, se non voleva farlo sapere alla polizia?

– Ca come mai, dottoressa… – agitò la mano come a significare che erano cose ovvie. – Io ero io. Questioni ne avevo dipanate assai, tra le mura di quei lupanari. Azzuffatine, violenze, persino un paio di ragazze morte ammazzate. Certo, al Valentino cose del genere non ne succedevano, o se succedevano bisognava tenerle ammucciate meglio che in altri posti. Di me le ragazze si fidavano. Non mi poteva pace, però. Perché la sua amica poteva giurare e spergiurare quanto voleva che non era possibile, ma il pensiero che Luna c’entrasse con l’omicidio di Burrano non me lo levava dalla testa nessuno. Insistetti, indagai per conto mio. Poi contro Di Stefano furono trovate altre prove, e il caso fu chiuso. Ma che fine avesse fatto Maria Cutò me lo sono chiesto per molto tempo.

– Perciò lei pensa che il cadavere su cui stiamo indagando possa essere di questa Maria Cutò.

– Penso solo che sia un’ipotesi. Naturalmente tutta da verificare.

Vanina fece oscillare all’indietro la poltroncina, che da quando ci si era dondolato Macchia era diventata instabile e produceva movimenti esagerati. Afferrò il bordo della scrivania per recuperare l’equilibrio.

– Sí, da verificare come? ’Sta Cutò parenti prossimi non ne aveva, se ho capito bene. Lasciamo perdere eventuali prove del Dna, ma almeno qualcuno che possa risalire a lei dagli abiti, o da qualche particolare, è pressoché impossibile da trovare. Lei stesso ha detto che a nessuno importava che fine avesse fatto. Come si chiamava l’amica?

– Il nome d’arte me lo ricordo, era Jasmine, ma su quello vero… mi ci sto amminchiando da stamattina. Mi ricordo che abitava di fianco al Valentino. Si era affittata due stanze. Ma oramai…

– È morta?

– Non lo so. Ma, ammesso che sia viva, capace che non abita piú là.

Spanò se n’era stato tutto il tempo ad ascoltare e a prendere appunti.

– Capo.

Si voltarono entrambi.

Carmelo si rivolse al vicequestore Guarrasi. – Le case di San Berillo sono quasi tutte abbandonate. Alcune crollate, altre occupate abusivamente. È un quartiere degradato.

– E questa Casa Valentino era a San Berillo?

– Quello era, il quartiere, – spiegò Patanè. – Prima che lo sventrassero per costruirci sopra corso Sicilia era piú grande, popolato macari da famiglie e botteghe di artigiani. La Casa Valentino però non era in mezzo alle straduzze sgarrupate che ti stai immaginando tu, Carmelo, quelle dove i bassi oggi sono occupati da prostitute e travestiti. Era in via Carcaci. Se vuoi ti ci accompagno, – si offrí, speranzoso.

Vanina ebbe la netta sensazione che di quel vecchietto non si sarebbe liberata facilmente, tanto piú che Spanò pareva pendere dalle sue labbra. Ma la cosa non la infastidiva, anzi.

– E andiamo a farci ’sto giro in via Carcaci, – disse, alzandosi e raccogliendo dal tavolo il telefono e le sigarette.

Patanè si levò lentamente dalla sedia, incerto, e la seguí, precedendo Spanò fuori dall’ufficio. Non sapeva cosa ci fosse adesso al posto del Valentino, probabilmente un’abitazione privata, o magari una birreria, però l’idea di tornare nel postribolo della sua giovinezza in compagnia di una donna lo imbarazzava un poco. Era cosí e non ci poteva fare niente. Ma la voglia di infilarsi in quell’indagine, che sentiva sua, se lo stava mangiando vivo. Se c’era una sola speranza che la sua cooperazione fosse accettata, questa non poteva prescindere dalla volontà del vicequestore Guarrasi. E qualcosa gli diceva che esternare la sua perplessità non sarebbe stata una mossa azzeccata.

Lungo le scale incrociarono Fragapane, di ritorno dalla Banca d’Italia.

– Allora? – gli chiese Vanina.

– Le banconote sono della serie delle Repubbliche Marinare, emessa dal ’48 al ’63, che poi era quello che avevamo già visto con Lo Faro su internèt. L’emissione di quelle che trovammo noi è del gennaio 1959 –. Il vicesovrintendente si avvicinò abbassando la voce, mentre lanciava una breve occhiata diffidente al tipo anziano che lo ascoltava con un sorrisetto divertito. Si girò di scatto, stavolta a bocca aperta. – Commissario!

Si abbracciarono. Appurato di chi si trattava, Fragapane si sentí autorizzato a continuare il resoconto.

– L’impiegato fece una considerazione che mi colpí. Disse che all’epoca la banconota da diecimila era una specie di titolo al portatore. Persone che maneggiavano banconote di taglio cosí grosso ce n’erano poche. E assai difficilmente erano donne. Nella cassetta di sicurezza c’era un milione di lire in pezzi da diecimila. A quei tempi un milione di lire erano bei soldoni. Come avevano fatto a farceli entrare?

– Ragionando con le lire, ora sarebbero… circa venti milioni. In euro diecimila. Ma dove li trovasti ’sti soldi, Salvatore? – s’intromise Patanè.

Spanò e Vanina alzarono simultaneamente lo sguardo su di lui. Probabilmente l’informatore che aveva servito la storia ai giornalisti aveva dimenticato di riferire quel dettaglio.

L’ispettore evitò di rispondere per primo. Dubitava che la Guarrasi avrebbe gradito un’intromissione esterna nell’indagine.

Ma fu il vicequestore a spiegare. – Nel montacarichi, accanto al cadavere.

Il commissario rimase pensieroso.

– Ora, dottoressa, – seguitò Fragapane, – io mi domando e dico: chi è che ammazza una donna e poi la seppellisce assieme a un milione di lire?

C’era arrivato anche lui.

– È la prima domanda che mi sono posta. La cassetta di sicurezza che nessuno ha mai recuperato è l’unico indizio utile che abbiamo. Chiami l’amico suo alla Scientifica e gli chieda se per caso sulla superficie sono riusciti a trovare qualche residuo di impronta digitale, anche se dopo tutto ’sto tempo…

Il telefono del vicequestore squillò. Era Marta.

– Capo, ma dove sei?

– Sulle scale.

– Sta arrivando il figlio della donna scomparsa, la Vinciguerra.

– Me l’ero completamente dimenticato. Il figlio, dici. Ma quanti anni aveva questo quando la madre sparí?

– Non saprei, sette-otto anni piú o meno.

– E che si deve ricordare! Vabbe’, occupatene tu. Mostragli le fotografie, vedi se per caso riconosce qualcosa: un oggetto, un indumento… Io e Spanò torniamo tra poco.

Spedí Fragapane in sostegno dell’ispettore e salí sull’auto di servizio che nel frattempo Spanò aveva tirato fuori dal parcheggio.

Approfittando dell’assenza di Marta, appurato che Patanè non soffriva di nessuna malattia polmonare o cardiaca, Vanina si accese una sigaretta, che durò giusto il tempo del tragitto: il giro della piazza, poi un tratto di via di Sangiuliano. Il parcheggiatore abusivo di stanza in piazza Manganelli rimase indifferente al loro arrivo. Anzi, per comprovare la sua estraneità alla logistica dei parcheggi, si allontanò di qualche metro.

Risalirono a piedi fino a via Carcaci. Patanè si fermò davanti a una casa a due piani, vecchia ma non decrepita, di sicuro non abitata ma neppure abbandonata. Accanto a un portoncino scrostato, rinforzato da un catenaccio, si distingueva sul muro un’apertura piú larga, murata e mal camuffata da un intonaco che cadeva a pezzi mettendo a nudo i blocchetti. Dall’altro lato, un portoncino piú modesto, riverniciato in tempi relativamente recenti. Spanò andò a leggere la targhetta sul citofono, ma senza occhiali e con la plastica di copertura cotta dal sole concluse poco.

Vanina gli fece segno di mettersi di lato, sfottendolo.

– Non è cosa per lei, Spanò. Con un po’ di fantasia, e una vista acuta, potrebbe essere Frasca… Frasta… o Fresta, – lesse.

– Come dice? Fresta? – si risvegliò Patanè.

– Forse.

L’uomo si accarezzò il mento, con gli occhi socchiusi e la testa all’indietro. Spanò riconobbe nel gesto il vecchio commissario Patanè in azione, e senza volerlo ne sorrise.

– Le dice qualcosa il nome Fresta? – lo incalzò il vicequestore.

Per tutta risposta, il commissario tirò fuori dalla tasca un telefono antidiluviano, di quelli piccoli con lo sportellino. Pigiò i tasti con una lentezza estenuante, poi si mise in attesa.

– Rino? Senti… col telefonino ti staiu chiamannu, sí… tu che hai la memoria fina: per caso ti ricordi come si chiamava Jasmine, la butt… ehm, la prostituta che travagghiava al Valentino? Pensaci bonu, può essere Fresta?… Sicuro sei?… Me lo ricordo, me lo ricordo, pi’ chistu chiamai a ttia. Grazie, Rinuzzo, stammi bonu che domani ti vengo a trovare.

Chiuse il telefono con un sorriso che metteva in mostra o una dentatura incredibilmente perfetta o una dentiera fatta molto bene.

– Tombola!

Vanina iniziò a spazientirsi. – Se poi ci vuole illuminare.

– Alfonsina Fresta. Lei è.

– O era, – commentò il vicequestore alzando lo sguardo sul balconcino, che però, a giudicare dalla salute delle piante, pareva vissuto. – Siamo sicuri?

– Della memoria del maresciallo Iero? La mano sul fuoco ci metterei.

Certo, all’epoca di Patanè in polizia esistevano i marescialli.

Spanò annuí, sorridendo. Pigiò due volte sul pulsante. Nessuno rispose. Bussò forte alla porta, ma senza risultato.

– Ispettore, si segni quest’indirizzo e controlliamo chi ci abita.

Patanè guardava con insistenza il balconcino, deluso. Ora che aveva detto tutto e che le aveva dato una pista, capace che il vicequestore non avrebbe piú ritenuto opportuno il suo coinvolgimento, mentre se solo avessero trovato Jasmine…

Vanina si avvicinò all’altro portoncino, quello che un tempo doveva essere la porta d’accesso al lupanare. Non c’era scritto nulla, ovviamente, anzi mancava proprio il citofono. C’era solo un battente, tenuto da una specie di medaglione ossidato che non si capiva cosa rappresentasse. Una testa di animale, forse.

Provò a muoverlo, fino a sbatterlo sulla porta.

Doveva ragionare senza lasciarsi influenzare dal commissario, che in quell’indagine stava riponendo la speranza di risolvere un caso che sicuramente doveva averlo ossessionato per anni. Lo sapeva bene, lei, che significa dover chiudere un’indagine senza vederci chiaro. Sapeva quanto potesse destabilizzare. Solo che in questo lei, fino ad allora, era stata piú fortunata. Gli unici casi dubbi che le erano capitati risalivano all’epoca in cui era alla Criminalità organizzata. Ammesso che, magari per colpa di una soffiata equivoca o di una pista sbagliata, il risultato finale non l’avesse convinta del tutto, grossi pesi sulla coscienza non gliene sarebbero rimasti. In quei casi, piú ne sbatteva dentro e meglio era. Tanto qualcosa da scontare ce l’avevano tutti, in mezzo a quella melma. L’unico rammarico poteva essere quello di averne lasciato fuori uno in piú. Ma se l’incertezza le fosse capitata in seguito, per un omicidio comune in cui se avesse sbagliato sarebbe finito in galera un innocente, era sicura che il pensiero avrebbe perseguitato per sempre anche lei.

La pista della prostituta andava seguita senz’altro, anche perché era l’unica che lasciava intravedere qualche indizio, ma senza trascurare nessun’altra traccia.

– Penso che ce ne possiamo andare, dottoressa, – concluse Spanò.

Vanina annuí. Mentre si dirigevano verso l’auto, notò un uomo anziano che avanzava caracollante sul marciapiede sotto il peso di due sacchi di plastica color verde marcio, quelli tipici del mercato.

Lo vide fermarsi a osservarli. La cosa non doveva stupirla: in fin dei conti lei e Spanò erano due facce conosciute. Due sbirri, per la gente del quartiere, che pur essendo ormai molto frequentato, pieno di pizzerie e di locali, sempre una zona difficile restava.

Però quel vecchio pareva piú confuso che diffidente.

– Commissario Patanè?

Il commissario si voltò, le mani allacciate dietro la schiena. Fissò l’uomo, che aveva poggiato i sacchi per terra e stava attraversando la strada per raggiungerlo.

– Commissario… lei è?

– Io sono, sí. Ma, mi perdoni, ci conosciamo?

– Giosuè sono… si ricorda? M’ava parsu ca stava cercannu a mmia.

Il commissario strinse gli occhi, impegnandosi in uno sforzo di memoria che non lo condusse da nessuna parte.

– A me’ casa stava tuppuliando, quel signore, – chiarí meglio, indicando Spanò.

Vanina si avvicinò.

– Quel signore è l’ispettore capo Spanò, squadra Mobile. Sono il vicequestore Giovanna Guarrasi, con chi ho il piacere di parlare?

– Giosuè Fiscella. Ma… pirchí, chi fici? – rispose quello, d’un tratto spaventato.

– Niente, non si preoccupi. Conosce una certa Alfonsina Fresta, che tempo fa abitava in quella casa?

– Me’ mugghieri. Ma… pirchí?

Patanè, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, proruppe in un’esclamazione.

– Ma che sei, Giosuè «curri curri»?

– Visto ca s’arricordò!

– Un picciutteddu eri! Dottoressa Guarrasi, Giosuè era lo sbriga faccende della Casa Valentino. Ma perciò: ti maritasti a Jas… ad Alfonsina?

– Non si preoccupasse, commissario: macari che la chiama Jasmine nun m’affennu.

Vanina riprese la conduzione.

– Senta, signor Fiscella, noi dovremmo parlare con sua moglie. Avremmo bisogno di alcune informazioni.

– Certo, certo, signora.

– Dottoressa, – lo corresse, fulminandolo. Non c’era cosa che la mandasse in bestia piú del sentirsi chiamare «signora» in servizio. Una volta era capitato persino l’assurdo che uno dei suoi ispettori venisse qualificato come «commissario», e lei «signorina».

L’uomo li precedette sulla soglia del portoncino e aprí con le chiavi.

– Alfonsina, iu sugnu! – gridò.

La rampa di scale, scure e umide, partiva dalla soglia. Spanò, mosso a compassione, si caricò i pacchi, vigilando di sottecchi che il commissario Patanè non avesse difficoltà.

– È sulla sedia a rotelle, mischina. Però la testa ce l’ha perfetta, – spiegava Giosuè, ansimando lungo le scale.

Li mise ad aspettare in un ingresso angusto.

Vanina sbirciò attraverso l’unica porta un soggiorno luminoso, dal quale si sentiva l’uomo parlottare in modo sommesso. Poco dopo, accartocciata su una sedia a rotelle nella quale pareva perdersi, le gambe coperte da un plaid dall’aria consunta, comparve una donna dall’età indefinibile. Minuta, gli occhi vivi, quasi spiritati, si posarono ammiccanti sul commissario Patanè, che la fissava. Pareva stralunato ma, a guardarlo meglio, Vanina si accorse che era soltanto impressionato.

– Buongiorno, dottoressa Guarrasi, – la salutò la donna, allungando la mano.

– Buongiorno, signora Fresta.

Giosuè li condusse nel soggiorno. Modestissimo ma tenuto bene.

– Siamo qui per alcune informazioni riguardo a una sua amica, la signora Maria Cutò. A quanto ci risulta, cinquantasette anni fa scomparve improvvisamente, senza dare piú notizie di sé. È corretto?

– Sí, è corretto. Il commissario sa tutta la storia –. Al contrario del marito, Alfonsina Fresta si esprimeva in un italiano quasi corretto.

– Da allora lei non l’ha piú vista né sentita?

– No, mai piú.

– Ha mai considerato che potesse essere morta?

– Lo pensai. Cosí come pensai pure che potesse essere viva. Certezze non ne ho avute mai, dottoressa, né per un verso né per l’altro. E siccome la speranza è sempre l’ultima a morire… Ma come mai mi chiedete di lei, dopo tutto questo tempo? Oramai, pure se è viva, magari è combinata come a me –. Diresse lo sguardo verso Patanè, che se ne stava seduto in un angolo, in silenzio.

– Senta, signora, lei ricorda che tipo di rapporti c’erano tra Maria Cutò e Gaetano Burrano?

La donna ebbe un sobbalzo impercettibile, che però Vanina notò. Il marito invece pareva solo perplesso.

– Perché vuole sapere queste cose, dottoressa?

– L’altra sera, nascosto nella villa dove fu ammazzato Burrano, è stato ritrovato il cadavere di una donna. Un cadavere che molto probabilmente risale all’epoca dell’omicidio.

La vecchia impallidí di colpo. Gli occhietti neri sembrarono ancora piú spiritati di prima.

– No, no, no, no… – cominciò a ripetere, oscillando il capo. – Luna no…

Giosuè si era messo in punta di sedia, serio.

– Ma per davvero lei può essere? Per davvero Luna? – chiese.

– L’unica cosa certa è che si tratta di una donna, morta da molto tempo. Quanto all’identità, potrebbe essere chiunque. Ci serve l’aiuto della signora Fresta, per cercare di identificare qualcosa, anche un dettaglio che possa indicare oppure escludere che sia la vostra amica.

– Significa… che la dobbiamo vedere? – Giosuè deglutí, sempre piú pallido.

– No, non è necessario, anche perché non servirebbe a molto, – evitò di spiegargli il perché, – ma gli oggetti che sono stati trovati assieme a lei, gli abiti, quelli sarebbe utile che la signora Fresta li vedesse.

– No, no, no… Luna no.

Patanè si alzò e si avvicinò alla carrozzella.

– Senti, Jasm… Alfonsina: può essere che non si tratti di lei. Però l’unica che ce lo può dire sei tu.

– Ma dobbiamo venire alla polizia? Perché portare fuori a mia moglie è un’impresa, cu tutti ’ddi scaluna… – chiese Giosuè, preoccupato.

– Non si preoccupi, non è necessario. L’ispettore Spanò vi porterà alcune fotografie, e la signora ci dirà se riconosce qualcosa.

– No, no, no… – La cantilena continuava.

– ’A scusari, dottoressa. Alfonsina è un poco stramma. Ogni tanto s’incanta. Sempre accussí è stata.

Il vicequestore si alzò, fece per andarsene. Come prevedeva, il gesto risvegliò Alfonsina, che rimase in silenzio. Un silenzio pesante, pensoso.

Con la coda dell’occhio, Vanina vide Spanò avvicinarsi alla finestra e affacciarsi guardandosi intorno.

– Cos’è? Un cortiletto interno? – chiese l’ispettore a Fiscella, con indifferenza.

– Sí. Prima Alfonsina ci faceva l’orto. Oramai…

– E quelle finestre chiuse, mezze sdirrupate, a chi appartengono?

– Alla casa, – rispose l’uomo, come se fosse ovvio.

– A quale casa?

– La casa di Luna.

Il vicequestore si voltò di scatto. – La casa di Luna?

Alfonsina si avvicinò, spingendosi sulle ruote della carrozzella, lo sguardo di nuovo vigile.

– La casa, quella casa, se l’era accattata Luna.

Vanina percepí un’incertezza.

Era solo una sensazione, ma gli occhi della donna non la convincevano.

Quella storia presentava troppi tratti ambigui. Malgrado potesse benissimo non avere nulla a che fare col cadavere di villa Burrano, valeva la pena di approfondirla.

– E quando se l’era accattata? – s’intromise il commissario Patanè, risentito per essersi lasciato sfuggire quel particolare. Oppure era lui che non se lo ricordava? Il dubbio lo indispose ancora di piú.

– Appena chiusero il bordello.

– Signora Fresta, cerchiamo di fare chiarezza. La sua amica Maria Cutò è sparita cinquantasette anni fa, giusto? – chiese Vanina. Quel continuo chiamare Luna la donna scomparsa cominciava a innervosirla. C’erano un nome e un cognome: certi sentimentalismi inutili le davano fastidio.

Alfonsina annuí.

– Lei ne parlò col commissario Patanè, ma non volle mai denunciare la scomparsa, giusto?

Annuí di nuovo.

– Mi pare di capire che il commissario non avesse idea che l’ex casa di tolleranza fosse di proprietà della signora Cutò. Come mai non glielo disse?

– E che c’entrava?

– Minchia, Jasmine! Ma come sarebbe a dire «che c’entrava»? – proruppe il commissario.

La donna abbassò lo sguardo, ma solo per un attimo. Poi lo rialzò, piú spiritato di prima.

– E non s’incazzasse, commissario. Tutta ve la giraste, la casa, lei e il maresciallo Iero, quando Luna sparí. Non se lo ricorda? Il fatto che era sua che cambiava?

Vanina vide il colorito di Patanè sempre piú purpureo. Poco ci mancava che le vene del collo gli si gonfiassero sotto il colletto della camicia. Speriamo che non gli pigli un colpo, pensò. Certe collere per uno della sua età possono rivelarsi fatali.

– Lasciamo stare quello che successe allora: adesso che fine ha fatto ’sta casa? – chiese.

Alfonsina si strinse nelle spalle.

– E che fine deve avere fatto, dottoressa? Là è.

– Vuole dire che da allora non c’è mai entrato nessuno?

– Solo io e Giosuè, ogni tanto, per controllare. Ma senza toccare niente, – precisò, come se fosse quella la questione principale.

– E voi avete custodito per una vita una casa la cui proprietaria poteva essere morta?

– Almeno se Luna tornava la trovava come l’aveva lasciata. Se non tornava… pazienza. Ma perlomeno la casa non finiva in mano a chissà chi.

Il commissario Patanè scosse la testa lentamente.

Vanina iniziò a capire.

Il telefono di Spanò suonò, rompendo l’atmosfera strana che si era creata.

– Dimmi, Salvatore –. Ascoltò, spostando lo sguardo sul vicequestore. – Ho capito, – annuí. Le passò il telefono: – Fragapane è.

Vanina si allontanò.

– Fragapane, mi dica.

– Quelli della Scientifica sono riusciti a isolare del materiale analizzabile sulla spazzola che abbiamo consegnato ieri.

Deo gratias. Il figlio della Vinciguerra è arrivato?

– Sí. Ha parlato un poco con Bonazzoli, ha guardato le fotografie. Solo che si fissò che vuole aspettare a lei.

– A me? E perché? Marta non è stata esauriente?

– Macari assai. Però… lo sa lei com’è l’ispettore Bonazzoli. Quello, secondo me, è chiú confuso che persuaso. Parla, divaga, e lei lo blocca e gli fa la domanda precisa. Invece se lo facesse sfogare capace che qualche cosa in piú salterebbe fuori.

Quanto di piú, rispetto a Maria Cutò?, si chiese il vicequestore. Del resto, fino a quel momento neppure lei aveva appreso nulla di concreto, se non che la donna fosse proprietaria di un ex bordello.

– E fatelo aspettare, – concluse.

Restituí il telefono all’ispettore, che nel frattempo aveva intavolato una conversazione dal tono amichevole con Fiscella, e tornò su Alfonsina.

– Signora Fresta, lei non ha risposto ancora alla prima domanda che le ho fatto: che rapporti c’erano tra Maria Cutò e Gaetano Burrano?

– Un cliente speciale era il cavaliere, dottoressa. Altro non so.

Il marito la guardò strano, ma non proferí parola.

Vanina capí che la donna stava mentendo, ma per il momento le resse il gioco.

– Da molto tempo?

– Quando ancora Luna era una semplice prostituta, lui era il cliente piú affezionato. Poi diventò uno dei pochi.

– E dopo la chiusura?

– E che ne posso sapere. Dopo la chiusura ognuno faceva la sua vita.

Continuava a mentire, ma da come la guardava negli occhi doveva essere consapevole che il vicequestore non le stava credendo.

– A me dicesti che erano amanti macari dopo, – s’intromise Patanè.

– E allora vuol dire che era cosí. Cinquantasette anni passarono, e la memoria non è piú come una volta.

– Signor Fiscella, per cortesia, ci può accompagnare all’interno della casa? – chiese Vanina.

– Certo.

L’uomo tirò fuori un mazzo di chiavi da un cassetto.

Alfonsina non mosse un solo muscolo facciale. Alzò una mano con indifferenza.

– Vada, vada, dottoressa. Giosuè conosce la casa stanza per stanza.

Uscirono da una porta che si apriva a metà di una scala, illuminata solo dalla luce che filtrava da un’apertura con una grata a raggiera, sopra il portoncino in basso. Salirono gli ultimi gradini prima di raggiungere un’altra porta, piú grande. Giosuè aprí con la chiave e, per lo stupore dei tre ospiti, accese la luce. Mentre spalancava le finestre, ricordò i tempi del Valentino, quando per legge quelle persiane dovevano rimanere chiuse.

All’ingresso seguiva un corridoio e poi un saloncino arredato con divani, poltrone e una seduta centrale circolare costruita intorno a una statua: una Venere di pessima fattura. Una sorta di banco da reception di dimensioni ridotte, con un sediolino dietro, era addossato a un angolo. Alle pareti una stoffa di cui l’umidità dei muri non aveva avuto pietà, e delle applique di dubbio gusto. Il colore preponderante era il rosso, in tutte le sue gradazioni.

– Ma questo ancora il Valentino è… – mormorò Patanè, impressionato.

Salirono al piano superiore: un corridoio su cui si aprivano sei stanze da letto, tutte piú o meno simili, tutte arredate secondo lo stile del salotto, tutte provviste di lavabo e di bidet. Se si escludevano la polvere, l’umidità e le ragnatele, tutto sommato le stanze si erano mantenute abbastanza bene. L’ultima, la piú grande, aveva persino il letto a baldacchino, e una vasca da bagno cosí grande da occupare un terzo dello spazio.

Il commissario Patanè, che non riusciva a ignorare una stretta allo stomaco, ritrovò quegli ambienti tali e quali se li ricordava lui.

– La stanza di Luna era questa, – disse Giosuè.

– Immaginavo, – commentò il vicequestore.

Infilò le mani in tasca, abitudine acquisita negli anni per non rischiare di cedere all’istinto di rovistare a mani nude nella vita di chi finiva nella rete delle sue indagini, e fece un giro nella stanza.

Ma quella prima occhiata non registrò nulla. Nulla di particolare, nulla di personale, nulla che potesse somigliare vagamente al contenuto delle borse.

Spanò le andò vicino.

– Dottoressa, secondo me qua stiamo perdendo solo tempo.

– Sí, probabilmente è cosí.

Ma non ne era del tutto convinta.

Usando la manica come guanto, che non si sa mai, aprí i cassetti. Tutti pieni di corsetti e guêpière, che nulla avevano a che vedere con quella che indossava il cadavere; e poi boa di piume di struzzo, calze a rete, vestaglie di voile trasparenti. Ognuno indossa la propria divisa. Solo l’ultimo cassetto era semivuoto, con qualche oggetto disseminato qua e là, tra cui un pettine. Altri capelli disponibili, annotò, casomai dovesse servire. Posò gli occhi su un dettaglio. Tirò fuori il telefono e lo fotografò.

Al piano di sotto c’erano altre tre stanze da letto: stesso arredamento, stesso genere. Una cucina, e una stanzetta accanto, ingombra di scatole e casse di legno. A terra, rotolati via da un sacchetto di velluto che giaceva mezzo aperto, erano sparsi una decina di gettoni metallici. Vanina non resistette alla tentazione di chinarsi a raccoglierne uno. La penombra non le consentí di capire cos’era, ma le permise di metterselo in tasca senza farsi notare.

Quella che invece si distingueva piuttosto bene, appoggiata a una scatola e illuminata dalla poca luce che passava attraverso la porta, era un’insegna di legno che riportava il tariffario della casa e altre scritte, tra cui assicurazioni di massima igiene e riservatezza, e la raccomandazione per i clienti «a scanso di equivoci» di pagare subito le prestazioni alla cassa. Il tutto sovrastato da uno stemma incomprensibile – forse per la distanza – e dal nome del lupanare arricchito da ghirigori e disegni vari: «Casa Valentino» e, sotto, «da Madame Luna».

Tornando indietro, trovarono Alfonsina immobile a fissare la finestra, nella medesima posizione in cui l’avevano lasciata. Salutò il vicequestore con uno sguardo ambiguo, lasciando sottinteso che si sarebbero riviste presto.

Il figlio di Vera Vinciguerra si chiamava Andrea Di Bella. Sessantacinque anni, di professione docente universitario alla facoltà di Lettere. Si era presentato in compagnia della moglie, che assisteva in silenzio, composta e con le mani incrociate in grembo.

Aveva portato con sé una decina di fotografie della madre, che giacevano sulla scrivania di Vanina, insieme a un fascicoletto vetusto che Fragapane era riuscito a recuperare in archivio.

– Mi deve scusare se ho chiesto di parlare con lei, dottoressa Guarrasi. Non volevo essere scortese nei confronti dell’ispettrice, ma… questa è una situazione in cui da anni ormai non pensavo che mi sarei piú trovato. Dio lo sa, quante volte siamo stati convinti di aver rintracciato mia madre. Da ragazzo credevo che fosse meglio immaginarla morta, poi crescendo cambiai idea. Preferivo pensare che fosse viva, e che magari avesse perso la memoria. Non ho mai tollerato l’idea di un allontanamento volontario, come dicevano i suoi colleghi. Sa, dottoressa, è un po’ come quando uno è molto malato, vede tanti medici, ma poi vuole un confronto col primario. Ecco, in una circostanza come questa ho sentito il bisogno di chiedere di lei.

Vanina trattenne un ghigno sardonico. Di Bella era sicuramente un benpensante, uno che ci teneva a far vedere le cose nella luce che lui considerava piú decorosa. Una di quelle persone che le smuovevano i nervi già solo a sentirle parlare. Uno cosí necessitava di un interlocutore attento, capace di ascoltare tutti i dettagli inutili che lui riteneva di dover raccontare, per poi introdurre le domande piú dirette. E Marta non era cosa di fare quei giochi di astuzia. Senza contare che, per quelli come lui, una carica piú alta era garanzia di maggior diplomazia. Per un attimo fu tentata di comunicargli che, per essere precisi, il «primario» assoluto lí non era lei, e passare quella rottura di scatole dritta dritta nelle mani di Macchia. Ma poi preferí immolarsi in nome di qualche possibile indizio. Scambiò un’occhiata con Marta, che se ne stava appoggiata al muro dietro la scrivania, e si sedette sulla sua poltrona.

Mostrò ancora una volta le foto del cadavere.

– Dio Santo, – esclamò l’uomo, ritraendosi.

– Ricorda se sua madre possedeva una pelliccia?

– Mi pare di sí… Lo sa, da bambino mi piaceva nascondermici dentro. Mi sentivo al sicuro. Forse nel mio inconscio sentivo che qualcosa sarebbe successo…

– Saprebbe riconoscere l’etichetta?

– No, dottoressa. L’ho già detto all’ispettrice, non ho mai guardato l’etichetta.

– Senta, suo padre usava la brillantina Linetti?

Quello la guardò stranito. – E chi non la usava! Anch’io, da giovane.

– E sua madre?

– No. La brillantina non era un articolo da donna, – disse, con un sorriso indulgente da insegnante, che la irritò.

– Sua madre aveva un amante.

Quello sobbalzò. – Ma io… non credo…

– Non era una domanda. È scritto nel suo fascicolo. Del resto lei era un bambino, all’epoca, capisco che certe cose non poteva saperle. Suo padre non le raccontò mai niente in proposito?

L’uomo si raddrizzò sulla sedia.

– Ma ormai, a cosa può servire rivangare queste cose… Sí, forse una volta, un accenno… anche se non vorrei che venisse fuori un quadro di mia madre…

– Professor Di Bella, l’unico quadro che a noi interessa è l’identità di questo cadavere. Qualora dovesse venire fuori che si tratta di sua madre, fossi in lei l’unica cosa che mi premerebbe sapere è chi l’ha ammazzata e perché. Perciò cerchi di mettere da parte i perbenismi e mi dica quello che ricorda, se ricorda qualcosa.

L’uomo abbassò il capo, interpellò con gli occhi la moglie, che continuava a starsene con le mani in grembo, l’espressione un po’ meno distaccata di prima.

Il telefono del vicequestore iniziò a squillare. Vedendo sul display il numero di sua madre pigiò due volte sul tasto laterale, per rifiutare la chiamata. Come temeva, il telefono riprese a squillare dopo dieci secondi. Lo mise in modalità vibrazione e inviò un messaggio precompilato: «Non posso rispondere».

Di Bella si schiarí la voce, come per prepararsi a un lungo discorso. – Una volta, quando oramai era anziano, mi disse che mia madre, secondo lui, se l’era portata via il diavolo. Io gli chiesi che cosa volesse dire, e lui mi rispose che solo il diavolo poteva essere stato a mettere una donna come lei sulla cattiva strada. Poi capii che si riferiva a un amante… Ma, ripeto, era anziano, già non ragionava piú.

Vanina gli mise davanti la boccetta di colonia e i gioielli. Fissò per un istante il pezzo di carta con i numeri e il simbolo poco distinguibile, prima di mostrarlo a lui.

– In casa avevate carta da lettere, o biglietti con disegni simili a questo? – gli chiese.

L’uomo fece segno di no. – Forse solo l’acqua di colonia, può essere la stessa, – disse, dubbioso.

Vanina chiamò Lo Faro e si fece portare l’agendina telefonica. Gliela mostrò.

– I numeri le dicono qualcosa? O i nomi?

– No, no, dottoressa. Niente. Ma come si fa? Sono passati talmente tanti anni…

La verità era quella. Finché si trattava di riesumare ricordi e testimoni risalenti a quindici, anche vent’anni prima, la cosa era fattibile. Anche le indagini archiviate erano condotte con metodi simili. Ma nel 1959 le cose erano troppo diverse, i metodi erano meno rigorosi e i risultati dipendevano unicamente dalle capacità deduttive degli investigatori. E non tutti erano dei commissari Maigret.

– Va bene, professore, – disse, radunando le fotografie e porgendole a Marta. – Lei sarebbe disposto a sottoporsi al test del Dna?

Il professore s’illuminò. – Glielo devo confessare, poco fa avevo temuto che non me lo chiedesse! Stavo per permettermi di suggerirlo.

I danni della televisione. Vanina evitò di commentare.

– Marta, occupatene tu.

Spedí i due con la Bonazzoli, che avrebbe senz’altro espletato la pratica seguendo tutte le procedure piú corrette.

La mattinata con Patanè le aveva lasciato addosso non poche perplessità. Il commissario aveva confidato a Spanò di essere rimasto parecchio impressionato da quella perlustrazione in casa di Maria Cutò. Davanti a lei non l’avrebbe mai ammesso, questo Vanina l’aveva capito immediatamente, ma al Valentino lui ci aveva passato molto piú tempo come uomo di quanto non avesse dovuto fare come poliziotto. Ed era convinto che anche cosí, a sensazione, qualche dettaglio del cadavere avrebbe potuto suggerirgli se si trattava davvero della prostituta piú celebre del dopoguerra catanese.

Vanina mise di lato i reperti, soffermandosi ancora una volta sul pizzino con quella specie di stemma.

Tirò fuori dalla tasca il gettone che aveva trafugato nella dispensa della Cutò. Era pesante, di un materiale che somigliava all’ottone, e aveva un buco al centro intorno al quale si leggeva una scritta che iniziava e finiva in una testa femminile in rilievo: «Casa Valentino».

Aprí il computer e cercò: «case di tolleranza, anni Cinquanta». Si aprirono una serie di voci correlate, con tanto di immagini, molte delle quali risalenti al ventennio fascista. Scoprí com’erano gestiti i bordelli di Stato, le categorie in cui si suddividevano, le regole cui erano sottoposti. Apprese che le ragazze spesso ruotavano ogni due settimane, spostandosi da una casa all’altra della stessa categoria ma magari in città diverse, per la «quindicina». Passando di voce in voce finí in una pagina dedicata al vecchio quartiere di San Berillo, quello che un tempo ospitava quasi tutti i bordelli di Catania, vide le «straduzze» cui aveva accennato Patanè, e persino le immagini antiche di quando il cuore del quartiere era stato raso al suolo per costruirci sopra.

Bastava cercare tra le immagini di Google per trovare decine di targhe come quella che aveva visto in casa della Cutò, anche piú esplicite e meno eleganti. Alla fine, proprio mentre stava per chiudere, le comparve davanti un gettone simile a quello che aveva conservato in tasca. Una marchetta, ecco cos’era. I contrassegni con cui venivano pagate le prestazioni.

Spanò bussò due volte sulla porta socchiusa, ed entrò.

– Capo?

Vanina staccò gli occhi dallo schermo e lo invitò a raggiungerla.

L’ispettore fissò il monitor incuriosito. – Che cos’è?

– Anche lei è troppo giovane per saperlo, eh? Una marchetta, Spanò.

Si avvicinò al computer, non troppo, per non dover inforcare quegli occhialetti da presbite che proprio non riusciva ad accettare. Spostò lo sguardo sulla scrivania del vicequestore e vide un oggetto simile.

– E questa dove la pigliò?

– In casa della Cutò. Per terra nel ripostiglio ce n’erano un mucchio.

Spanò si sedette davanti a lei.

– Dottoressa, mi dica la verità: lei sospetta veramente che la morta possa essere la prostituta.

– Quello di cui sono quasi certa è che Alfonsina ci abbia contato la mezza messa. E sono sicura che pure Patanè non ci veda chiaro.

– E macari io ne sono sicuro, anche perché il commissario ce lo fece capire in tutti i modi. E perciò? Come ci comportiamo?

– Oggi pomeriggio stesso lei e Fragapane ve ne andate a casa dei Fiscella e vi portate tutte le fotografie della morta e dei reperti. Gliele mostrate una per una, iniziando dalle piú babbe fino ad arrivare alle piú raccapriccianti, e osservate la reazione. Soprattutto della donna. Poi verbalizzate tutto quello che vi dicono.

– Secondo lei vedendo il cadavere s’impressionano e parlano?

– Mi ci gioco qualunque cosa che non diranno niente.

– E perché?

– Perché loro Maria Cutò la vogliono tenere in vita il piú possibile.

Spanò si fermò a riflettere.

– Non mi dica che sospetta di loro.

– Che l’abbiano ammazzata loro? Ma manco per idea! Che Alfonsina non abbia mai sporto denuncia per timore che, qualora Maria fosse morta, la polizia potesse scoprirlo, questo sí.

– Ho capito, ma perché?

– Ragioni, Spanò: dove abitano i Fiscella?

– In un ammezzato attaccato alla casa della Cutò.

– Un ammezzato che ha una comunicazione diretta con la scala d’ingresso della casa. Ora, secondo lei, quelle tre stanze a chi appartengono?

– Alla Cutò.

– Ma se la Cutò fosse morta…

– Minchia! Certo. Se la Cutò è morta, senza parenti e senza eredi, la casa chissà in che mani finisce.

– E loro pure.

Si guardarono in faccia senza parlare, rielaborando ognuno per conto proprio la deduzione.

– Perciò probabilmente oggi non otterremo niente, – concluse l’ispettore.

– Invece qualcosa otterremo, si fidi.

Spanò non approfondí oltre. Quando il vicequestore parlava a mezze frasi, voleva dire che un’idea se l’era già fatta, ma non si voleva sbilanciare.

Vanina allontanò la poltrona, sempre piú basculante. – Devo ricordarmi di farla controllare. Non vorrei che un giorno di questi mi scaraventasse per terra, – considerò, alzandosi in piedi. – O peggio, che scaraventasse a terra il dottor Macchia, che ama tanto dondolarcisi sopra, – concluse.

Spanò rise. Si avvicinò, spinse sulla spalliera e valutò l’inclinazione. Concordò che era eccessiva.

– Mi raccomando, Spanò, prima di andare dai Fiscella cerchiamo di essere sicuri che la casa risulti effettivamente a nome della Cutò, e che le tre stanze ne facciano parte. Dica a Lo Faro di fare una ricerca. E controlli pure se Giosuè Fiscella e Alfonsina Fresta hanno qualche precedente, di qualunque genere. Anche se non credo.

– Agli ordini. E lei che fa adesso?

– Io? Me ne vado a mangiare, che sono le due passate.

Uscí dall’ufficio a piedi. Era stata seduta quasi tutto il tempo e aveva voglia di camminare. Girò per via Teatro Massimo e andò verso il Teatro Bellini, che si ergeva monumentale con la sua facciata bruna. L’architetto che l’aveva progettato, Carlo Sada, a detta di Burrano era lo stesso che il capostipite aveva spedito in Africa in cerca d’ispirazione per costruire la famosa torre.

Passò davanti alla cancellata e svoltò ancora verso via di Sangiuliano. Estrasse il telefono dalla tasca e si accorse che l’aveva lasciato silenzioso. C’erano quattro chiamate, tre delle quali di sua madre.

Fece il giro largo e passò di nuovo davanti alla casa di Maria Cutò, che distava poco dalla trattoria da Nino, dov’era diretta. Si chiese a quale parte dell’edificio corrispondesse l’apertura murata.

Se l’istinto non le avesse suggerito che fosse piú utile spedire lí Spanò, quel pomeriggio avrebbe fatto volentieri un altro sopralluogo al Valentino. Ma il vicequestore Guarrasi sapeva che certe volte starsene dietro le quinte a osservare serviva piú che riempire la scena.

Su quella riflessione, incentivata dalla voragine che si allargava sempre di piú nel suo stomaco, decise di allungare il passo. Attraversò due isolati ed entrò nella trattoria.

Nino le indicò il solito tavolo e le fece portare subito il pane e una ciotola di olive, mentre dava conto nel frattempo a un’altra trentina di avventori.

Era stato Spanò a farle scoprire quella trattoria casalinga, dove tutta la squadra sbarcava spesso e volentieri. Perfino l’ispettore Bonazzoli accettava di buon grado la sua cucina perché comprendeva anche piatti «inconsapevolmente» vegani, tipo il macco di fave. Con l’ispettore capo Nino si abbracciava, e si davano del tu. A Marta baciava la mano. Al vicequestore Guarrasi, invece, riservava un accenno d’inchino. Forse era per la posizione che ricopriva, o forse perché il suo atteggiamento schivo non incoraggiava confidenze. Un contegno intimidatorio, lo definiva sua madre.

Vanina approfittò per richiamarla.

– Vanina, gioia mia.

– Ciao mamma.

– L’altro giorno te ne sei andata di corsa e poi non ti sei piú fatta sentire. Ti pare normale?

– Ti ho mandato un messaggio quando sono arrivata.

– E quello che è, farsi sentire?

– Sono dovuta uscire subito.

Sentí un sospiro dall’altro capo del telefono. La immaginò seduta a metà sul tavolo da pranzo ancora mezzo apparecchiato, la sigaretta in mano e la tazzina del caffè appena bevuto poggiata accanto. Incarnato perfetto, capelli raccolti, perle al collo.

– Comunque, non ti avevo chiamata per questo. Volevo dirti che domani Federico verrà a Catania per un congresso. Gli farebbe molto piacere vederti. Potresti cercare di trovare dieci minuti?

Federico Calderaro, il secondo marito di sua madre. Insigne cardiochirurgo, nonché docente universitario. Colui che aveva elevato Marianna Partanna Guarrasi dallo status di vedova di un ispettore di polizia morto sul campo, con tanto di figlia a carico, a quello di signora elegante della Palermo bene.

Vanina alzò gli occhi al cielo. Solo questa ci mancava.

– Ah… e dove?

– Non lo so, ma ti chiamerà sicuramente. Cerca di essere carina. Ti vuole bene, lo sai.

Era vero, Federico le voleva bene. Era lei che non riusciva a digerirlo.

Alfio Burrano si materializzò all’improvviso davanti a lei, sorridendole a denti spiegati.

– Ora ti devo lasciare, mamma.

– Sí, ma promettimi che…

– Che vedrò Federico, va bene.

Burrano era rimasto impalato in attesa che lei concludesse la telefonata.

– Potresti anche invitarlo a casa tua. Gli è dispiaciuto tanto non esserci stato, l’altro giorno, per la commemorazione di papà. Ma lo sai com’è messo, è sempre in giro per congressi. E poi… credo che parlare un po’ con te potrebbe aiutarlo.

Non capí a cosa si riferisse, né ci fece troppo caso. Quelle scuse non richieste l’avevano disturbata.

– Certo. Se è disponibile a seguirmi in un paese alle pendici dell’Etna a sera inoltrata, perché prima di quell’ora a casa mia non riesco ad andarci manco io.

– Va bene, Vanina, ricevuto. Almeno trattalo bene.

– L’ho mai trattato male?

– Spesso non l’hai trattato per niente, se è per questo. Ma lasciamo stare, non andiamo a rivangare.

– Ecco, appunto. Anche perché devo proprio staccare.

– Stai attenta, – si raccomandò sua madre.

Una raccomandazione premurosa, in fondo, tipica di ogni madre. Era il retrogusto di quelle parole a renderle pesanti. Amaro. Impercettibilmente accusatorio. Potevi evitare di rischiare la pelle ogni giorno; potevi sceglierti un mestiere tranquillo; potevi vivere la vita da nababbo che ti ho procurato.

– Buongiorno, dottoressa Guarrasi, – la salutò Burrano, appena ebbe messo giú il telefono.

– Buongiorno, dottor Burrano.

– Stamattina volevo chiamarla, ma poi ho pensato che forse non era il caso…

– Voleva dirmi qualcosa?

– Mia zia mi buttò giú dal letto alle otto di mattina, santiando per quell’articolo comparso sulla «Gazzetta Siciliana». Quasi quasi ce l’aveva con me! Lei l’altra sera mi aveva assicurato…

– Io non le avevo assicurato niente, dottor Burrano. I giornalisti fanno il loro mestiere, e hanno un’infinità d’informatori. Non è in mio potere bloccarli tutti.

– Scusi, dottoressa. Sa, mia zia ha la sua età e per lei non è un bel momento. Quell’articolo ha scatenato una quantità di curiosi che lei manco se l’immagina. Pure un’intervista ci hanno chiesto.

– No no, me lo immagino eccome.

Invece ai fini dell’indagine quell’articolo era una mano santa. Capitava, certe volte.

– Ma lei… è sola, – constatò Burrano.

– Sí.

– Anch’io.

Ora ci mancava solo che le proponesse di pranzare insieme.

– Nino non ha un solo posto libero, oggi. Le darebbe fastidio se mi sedessi al suo tavolo? – azzardò, con la naturalezza di un frequentatore di bistrot parigini, quelli in cui ti siedi e dividi il tavolo con chi capita.

Vanina trattenne una risata. Un marpione, il Burrano. Detta cosí non sembrava neppure una proposta, e negargli l’unico posto disponibile diventava quasi una scortesia. Gli fece cenno di accomodarsi pure, con aria di condiscendenza.

Nino comparve subito a prendere le ordinazioni.

– Allora, dottoressa, come vanno le indagini? Siete riusciti a dare un’identità alla donna? Prima finisce tutta ’sta storia e prima recuperiamo la tranquillità! – attaccò Burrano, appena se ne fu andato.

– Stiamo lavorando, dottor Burrano. Non so quanto tempo ci vorrà, ma le garantisco che una celere risoluzione è sempre tra le mie priorità assolute, – gli rispose, piú secca di quanto avrebbe voluto, quasi ostile.

– Scusi, non volevo irritarla.

Vanina mitigò il tono. – Vede, dottor Burrano, ci sono dei problemi oggettivi. Il cadavere risale a un’epoca difficilmente valutabile, e non aveva documenti addosso.

– All’epoca di mio zio, sicuramente, – ragionò Burrano.

– Possibile.

– Considerato quante donne aveva, potrebbe essere chiunque.

Il vicequestore non commentò. Ma quanto ci tenevano i Burrano a far sapere a tutti che il cavaliere era un fimminaro. Un po’ troppo, forse. Alfio, però, per motivi anagrafici, non poteva saperne granché.

– Gliel’ha detto sua zia? – indovinò.

– Mio padre ogni tanto ne parlava. Buonanima. Mia zia mi accennò qualche cosa oggi, per la prima volta. Ha un brutto carattere, dottoressa. È la mia unica parente, ma le assicuro che non è semplice starle dietro. È una vecchia… una donna un po’ irascibile.

Una vecchia stronza, annotò mentalmente Vanina. Burrano si era frenato appena in tempo ma questo stava per dire. Corrispondeva all’idea che grosso modo s’era fatta lei.

Davanti alla caponata e al misto di polpette e involtini di Nino, che concordavano nel ritenere inimitabili, Burrano cambiò argomento. In dieci minuti sciorinò la storia della sua vita. La sua attività di produttore vinicolo; suo figlio che viveva a Milano insieme alla madre, con cui lui non era mai stato sposato; la villa che cadeva a pezzi ma che sua zia Teresa si rifiutava di aggiustare.

Il quadro che Vanina si fece fu impietoso: un gaudente sfaccendato. Ma piacevole.

– Un dolcino? – propose Nino, materializzandosi al loro tavolo dopo aver eseguito una gimcana in mezzo agli altri.

Vanina fece appena in tempo a finire una fetta di torta ricotta e pistacchio, prima che la faccia vibrante dell’ispettore Spanò illuminasse il suo telefono. Si alzò e si allontanò verso l’uscita per rispondere. Burrano si alzò appresso a lei. Lo vide con la coda dell’occhio passare alla cassa e pagare il conto, scambiando qualche battuta con Nino.

– Capo, mi scusi se la disturbo, sta pranzando?

– Ho appena finito. Perché?

– C’è una cosa strana che venne fuori controllando la proprietà dell’immobile dov’era la Casa Valentino.

– E cioè?

– È cointestata.

– A chi?

– A Cutò Maria e a Cutò Rita.

Vanina aggrottò la fronte. Uscí sulla strada.

– E ora chi è ’sta Rita? – biascicò, stringendo la sigaretta tra le labbra e tentando di accenderla con la mano libera. Burrano le venne in aiuto con l’accendino pronto.

– E questo è il fatto strano: non esiste.

– Come sarebbe non esiste, Spanò?

– O meglio: non si sa che fine abbia fatto.

– Pure lei? E che camurría è!

– Che fa, capo, torna in ufficio?

– E certo.

Burrano si era rispettosamente allontanato, e stava fumando un sigaro.

Vanina lo salutò, ringraziandolo per il pranzo. Avrebbe preferito pagarselo da sola, ma ovviamente non glielo disse.