10.

L’ispettore capo Spanò raggiunse il vicequestore Guarrasi al solito tavolo d’angolo.

– Dov’è il commissario? – chiese.

– A casa, a onorare il pranzo della moglie. Sfinito.

Si accomodò accanto a lei. Notò che era già al dolce.

– I colleghi della Scientifica trovarono la carta d’identità di Maria Cutò e la patente di Gaetano Burrano. Erano conservate in un portadocumenti, nel cruscotto dell’auto.

Manenti e i suoi uomini erano arrivati da poco. L’operazione sarebbe andata per le lunghe. L’automobile andava rimossa dal garage, il che richiedeva l’abbattimento del muro di blocchetti edificato da Fiscella. Tra baule e sedile posteriore della Flaminia, erano stipati a occhio e croce tutti i bagagli che Burrano e la Cutò avrebbero portato a Napoli. Per repertare il materiale ci sarebbero volute ore, e nel garage, dopo tutto quell’andirivieni di gente, non si respirava piú.

Era inutile stare lí ad alitare sul collo alla Scientifica. Tanto valeva mangiare un boccone.

Il commissario Patanè era uscito quasi subito insieme al vicequestore Guarrasi, esagitato.

«Lo sapevo io, lo sapevo! – ripeteva. – Lo capisce che significa, dottoressa? Che se solo avessi continuato a indagarci io… Ma che era normale che tutte le prove, dico tutte, portassero alla stessa persona? Me lo dica lei: è normale? Secondo me no. Anche perché, parliamoci chiaro: Burrano non era uno stinco di santo. Intrallazzi, a Catania e provincia, ne aveva fatti assai. E l’amministratore l’aveva sempre aiutato. Di Stefano sprovveduto non era di sicuro, ma soprattutto non lo erano gli Zinna. Gli Zinna, dottoressa! Ha presente di che stiamo parlando?»

Aveva presente, Vanina, eccome se aveva presente. E non le faceva per niente piacere ritrovarsi nomi del genere tra i piedi.

«Dovevo fare come volevo io. Me ne dovevo fottere dei miei superiori, e macari delle loro evidenze. Sí, evidenze di ’sta minchia!» aveva battuto la mano sul tetto della sua Panda bianca. Si era scusato per essersi lasciato andare, imbarazzato ma neanche poi troppo.

Le aveva chiesto di fargli rileggere il fascicolo dell’omicidio Burrano, stavolta per intero.

Vanina aveva rilanciato, e l’aveva invitato addirittura ad assistere all’interrogatorio di Masino Di Stefano. Forse era stata un’impressione sua, ma l’aveva sentito partire sgasando.

Era d’accordo con lui, su tutta la linea, e non voleva privarlo del piacere di partecipare a un’indagine in cui il suo contributo si stava rivelando fondamentale. Un’indagine che poteva portare alla riapertura di un caso assai piú spinoso, nel quale l’appoggio del vecchio commissario sarebbe stato indispensabile.

Davanti alla casa della Cutò si andavano formando piccoli capannelli di gente, attirata dal viavai di poliziotti. Che fu? Stavano arrestando qualcuno? Oppure c’era stato un furto, o un morto ammazzato? Si tenevano a debita distanza, fingendo indifferenza, timorosi di essere coinvolti in qualche modo – perché quando c’è la polizia di mezzo non si sa mai – ma divorati dalla curiosità. Vanina non osava immaginare cosa sarebbe successo quando avrebbero buttato giú il muro e portato fuori la macchina di Burrano. Aveva già avvistato un paio di volti noti della stampa locale, e un fotografo che se ne stava appollaiato come un avvoltoio su uno scooter, pronto a scattare. Sapeva di essere già stata immortalata, e la cosa bastava da sola a farle girare gli immaginari attributi maschili dei quali l’opinione di molti la riteneva dotata.

Rifugiarsi da Nino, che era proprio lí dietro e tuttavia abbastanza distante da garantire un minimo di tranquillità, le era parsa l’unica via di scampo.

Ora il cadavere aveva un nome e un cognome, e un legame col defunto Burrano che andava oltre qualunque supposizione elaborata in quei giorni.

Spanò si mise in pari, spazzolandosi in cinque minuti una porzione di pasta coi masculini che sarebbe bastata per tre persone. Vanina lo aspettò per bere in fretta il caffè e raggiungere di nuovo il resto della squadra.

Davanti alla casa della Cutò la confusione era aumentata. Manenti, in maniche di camicia, sbraitava a destra e a manca convinto di darsi importanza di fronte alla gente che si fermava a curiosare. Una volante di supporto era stata piazzata all’inizio della strada, dietro ordine diretto del vicequestore, per evitare il passaggio delle auto. Un paio di agenti scafandrati, muniti di piccone, si stavano accingendo ad abbattere la barriera di blocchetti.

– Vicequestore Guarrasi! Mi pareva strano che non fossi qui a supervisionare il lavoro fetente che ci procurasti. In quel cazzo di garage non si respira. Una cosa da rimanerci secchi.

– Ma come, ancora cosí siamo combinati, Manenti? Dammi un piccone per favore, che te lo smonto io quel muro, almeno la finisci di soffrire.

– Che vorresti dire, non ho capito? I miei uomini stanno lavorando da un’ora, instancabilmente.

– Certo. Loro il lavoro fetente lo stanno facendo per davvero. Loro.

Uno dei due scafandrati assestò il primo colpo sulla parete, che iniziò a sgretolarsi pezzo per pezzo sotto l’azione congiunta dei due picconi. Manenti si avvicinò quel tanto che bastava a impolverarsi i pantaloni a vita ascellare anni Ottanta, le Timberland marroni e la camicia a quadri dal collo di tre centimetri piú largo.

La gente iniziò ad assembrarsi sul marciapiede dirimpetto al garage, dove Vanina si era piazzata per avere una visuale piú completa.

– Signori, siete pregati di spostarvi da qui, – disse, allontanando con garbo un nugolo di passanti muniti di smartphone. Ottenne poco. – Per cortesia, non è uno spettacolo divertente, e neppure interessante. Vi invito ad allontanarvi.

Quelli annuivano, ma intanto non si spostavano.

Vanina iniziò a perdere le staffe.

– Va bene. Fragapane, Bonazzoli: prendete le generalità di tutte queste persone. Non si sa mai, magari fra loro c’è qualcuno che conosce i proprietari della casa, – bluffò, con il tono alterato. La folla si diradò di colpo.

L’ispettore Bonazzoli la raggiunse.

– Devo prendere davvero le generalità? – chiese, perplessa.

– No. Tutto a posto con i Fiscella?

– Sí, sí. Mi hanno ripetuto quello che hanno raccontato a te. Che storia!

La testimonianza di Alfonsina Fresta aveva colpito il suo animo romantico.

– Doveva essere un grande amore, quello di Burrano per Luna, se stava addirittura per lasciare la città insieme a lei, – considerò.

– Di qualunque natura fosse il legame tra i due, l’unica cosa certa è che era imprescindibile, tanto da accomunarli persino nella morte, – replicò Vanina.

Un affarista con pochi scrupoli e un’ex tenutaria: forse era un suo limite, ma lei in quella relazione non riusciva a cogliere un solo briciolo di romanticismo.

– E che difficilmente può averla ammazzata lui, – concluse, abbassando la voce.

Rimase in un silenzio pensoso, che né Marta né Spanò, che nel frattempo si era avvicinato, si azzardarono a disturbare. Era uno di quei momenti cruciali in cui la Guarrasi non comunicava granché. E non era questione di fiducia, o di scarsa considerazione nei loro confronti. Spesso, soprattutto in quella fase, una strategia vera e propria il vicequestore non ce l’aveva. Andava a braccio, anzi, a naso.

Dal portone dell’ex Valentino comparve Fragapane, congestionato, seguito da un agente.

– Fragapane, prenda aria. Non mi dica che è stato tutto questo tempo dentro quel garage?

– Dottoressa, – ansimò il vicesovrintendente, – può venire un momento su? C’è il mio amico della Scientifica, il sovrintendente capo Pappalardo, che vorrebbe farle vedere una cosa.

Vanina lo seguí per le scale.

– Capo, non se lo può immaginare che c’era dentro quella macchina! Bagagli per un reggimento di persone, e poi giocattoli e cose per picciriddi che ci si potrebbe costruire un parco giochi.

Il sovrintendente capo Pappalardo era parecchio piú giovane di Fragapane, e sensibilmente piú basso del normale. Anche lui congestionato per colpa dell’aria viziata del garage, la aspettava in piedi sotto la Venere, con una valigetta di cuoio aperta in mano.

– Salvatore mi disse che forse i documenti che abbiamo trovato dentro questa borsa potrebbero giovarle per un interrogatorio.

Il vicequestore prese dalla valigetta una cartella da ufficio con dentro quattro fogli dattiloscritti tenuti insieme da una molletta fermacarte, e una busta aperta indirizzata al notaio Arturo Renna. Mittente Gaetano Burrano. Stava per estrarre la lettera che conteneva, quando lo sguardo le scivolò sul primo dei documenti che aveva tirato fuori. Sbigottita, accantonò un momento la busta e prese in mano il foglio in questione. Lo lesse fino in fondo, due volte, con le labbra piegate in un mezzo sorriso. Lo fotografò. Diede uno sguardo agli altri fogli, che non aggiungevano nulla alla notizia bomba contenuta nel primo. La lettera, infine, mise il carico da undici.

Il sorriso del vicequestore Guarrasi si aprí del tutto.

– Vi servono, oppure posso portarli con me in ufficio?

– Li ho già repertati, perciò se il dottore Manenti non ha niente in contrario…

Doveva provarci, ad avere qualcosa in contrario, il dottor Manenti.

Ringraziò Pappalardo e raggiunse Spanò e Bonazzoli in strada.

– Io me ne torno in ufficio, ad aspettare Masino Di Stefano. Marta, tu resta qui a presidiare il garage insieme a Fragapane. Occhio, mi raccomando. E fai in modo di fargli prendere aria, e mangiare qualcosa o bere un caffè, prima che mi svenga qua. Spanò, lei invece venga con me, che le novità sono assai.

L’ispettore capo obbedí.

Malgrado l’ufficio fosse vicino, ore prima era arrivato lí con un’auto di servizio, su cui Vanina salí concludendo una telefonata.

– A dopo, commissario, – disse.

Spanò capí che si trattava di Patanè e, dato l’orario, se ne stupí.

– Il commissario Patanè sta per raggiungerci, – gli comunicò.

L’ispettore la interrogò con gli occhi, buttando uno sguardo sulla carpetta verde scolorita che teneva stretta tra le mani.

– Sa cosa c’è qui dentro, ispettore? Un contratto firmato da Burrano e da Gaspare Zinna per la costruzione di un acquedotto.

Spanò inchiodò suscitando un coro di clacson impazziti.

– Minchia!

– E non è tutto: c’è anche una lettera mai spedita a un notaio, tale Arturo Renna. Contiene un testamento olografo, datato 1º febbraio 1959.

– Aveva fatto testamento prima di morire ammazzato?

– Non credo che morire ammazzato fosse tra i suoi programmi, Spanò! Evidentemente pensava di spedirlo una volta arrivato a Napoli.

– Se olografo, capace che è valido lo stesso. E che dice?

– Divide il suo patrimonio in due parti uguali, una per la moglie e l’altra per Maria Cutò. Col vincolo per entrambe, apra bene le orecchie ispettore, di tramandare alla loro morte tutto a Rita Cutò. Il che naturalmente non avvenne, perché il testamento rimase chiuso nella Flaminia, che non si ritrovò piú.

– Perciò Di Stefano poteva non trasirci veramente niente con l’omicidio?

– La cosa non mi stupirebbe affatto.

Entrarono nel parcheggio e ne uscirono a piedi, attraversando la strada per varcare il portone sempre sprangato dell’edificio che accoglieva gli uffici della Mobile.

– Lei sospettava che fosse innocente già da prima?

– Ragioni, Spanò: Burrano si tiene come amministratore per anni un parente degli Zinna, poi un bel giorno si sveglia e decide che non li vuole piú in mezzo ai suoi affari. È pensabile?

– Perché dice che non li vuole piú? Aveva fatto affari con gli Zinna, in precedenza?

– Magari non ufficialmente. Magari Di Stefano era la faccia pulita della famiglia Zinna, non so se mi spiego. Burrano intrallazzava, comprava bordelli… in che mani poteva essere secondo lei la prostituzione di Stato a Catania, ispettore?

– Scusi, dottoressa, ma che vuole fare? Riaprire il caso Burrano? – domandò cautamente Spanò.

Il silenzio ambiguo del vicequestore bastò a fornirgli una risposta.

– Minchia… non sarà facile, capo. Se lo immagina il casino che succederà? Alla televisione finiamo.

Vanina sorrise a metà. Aveva una voglia di armarlo, quel casino…

Il telefono iniziò a vibrare alla terza pagina del famoso fascicolo, in cui il vicequestore aveva sentito l’impulso di infilarsi appena si era abbandonata sulla sua poltrona non piú basculante.

– Federico! – rispose. L’aveva completamente rimosso.

– Vanina, tesoro mio, scusa se non t’ho chiamata prima! Mi sono appena liberato. Come stai?

Sorrise pensando che se l’avesse chiamata prima probabilmente neanche l’avrebbe sentito.

Federico aveva terminato i suoi impegni congressuali e non vedeva l’ora di abbracciarla. Bel casino, si disse il vicequestore. Il sazio di rinfacciarle che era sempre la solita e che aveva trattato male il patrigno, a sua madre, non aveva nessuna intenzione di darglielo. D’altra parte, in tutta sincerità, le sarebbe dispiaciuto dare a Federico l’impressione di volerlo evitare.

Mancava ancora un’ora all’arrivo di Di Stefano con Nunnari. Dopo sarebbe stato peggio: non sapeva per che ora si sarebbe sbrigata, e neppure se si sarebbe sbrigata.

Calcolò che dal centro fieristico Le Ciminiere, dove si teneva il congresso, a lí c’erano dieci minuti scarsi di taxi. Gli disse di raggiungerla in ufficio.

Prese il vecchio fascicolo del caso Burrano e cominciò a sfogliare le carte con l’attenzione che fino ad allora non aveva sentito l’urgenza di dedicare loro. Era arrivato il momento di calarsi nell’indagine del 1959 e rivederla, argomento per argomento.

Le dichiarazioni di Di Stefano, giudicate mendaci, nei documenti che erano appena saltati fuori avrebbero trovato qualche sostegno. La collaborazione di Patanè, a quel punto, era imprescindibile.

Il commissario arrivò pochi minuti prima di Federico, il passo piú veloce del solito e gli occhi luccicanti per l’emozione. Vanina gli affidò la cartellina verde riemersa dal bagagliaio della Flaminia, che lui maneggiò con l’accortezza che si riserva a una reliquia, e il fascicolo Burrano. Poi consegnò tutto l’insieme, commissario compreso, nelle mani di Spanò.

Federico la aspettava davanti al portone. Giacca blu e pantaloni grigi, il soprabito ripiegato sul braccio. I capelli quasi tutti bianchi, ma ancora folti. Sembrava non invecchiare mai.

Non lo vedeva da mesi.

– Ehi! Eccola, la mia poliziotta preferita!

L’abbracciò forte, con il solito trasporto che le sarebbe piaciuto riuscire a ricambiare.

Si sedettero nel bar piú vicino, in via Vittorio Emanuele.

– Mi dispiace non esserci stato l’altro giorno, ma settembre, lo sai, è un periodo di congressi continui. Stavo rientrando da Berlino, – esordí Federico, con rammarico.

– Non preoccuparti, sapevo che eri fuori, – si sforzò di far assomigliare a un sorriso il piegamento di labbra che le uscí.

Lui la guardò con la solita comprensione, la stessa con cui per ventitre anni aveva incassato la sua indifferenza, in cambio delle mille attenzioni che le dedicava ogni giorno. Ci aveva provato in tutti i modi, Federico Calderaro, a farle da padre. Ora, da adulta, Vanina riusciva a capirlo. A quindici anni no, non avrebbe mai potuto. Povero Federico, era una battaglia persa in partenza, la sua. Una lotta ad armi impari contro la rabbia dolorosa di una ragazzina che suo padre, il suo vero padre, l’aveva amato visceralmente e se l’era visto morire davanti, massacrato.

Senza sapere come, le tornò in mente un accenno di sua madre a qualcosa di cui Federico doveva parlarle. Per rompere il ghiaccio decise di intraprendere quella strada, incrociando le dita che non implicasse qualche incombenza da svolgere in prima persona.

– Tua madre ha il vizio di parlare assai, – disse Federico, buttandola sullo scherzo. Trasferí la conversazione su un argomento neutro. Parlò di Costanza, la sorella che le seconde nozze di sua madre le avevano regalato, di sedici anni piú piccola e lontana da lei come il giorno dalla notte, che stava per sposarsi con l’allievo numero uno del padre. Dimenticò che cosí facendo l’avrebbe solo stimolata ad approfondire l’argomento.

Sotto il fuoco amico delle sue domande, Federico iniziò a cedere e alla fine si lasciò andare del tutto. Le rivelò la crisi professionale che l’aveva investito a sessantotto anni, dopo quarant’anni di carriera felice, per colpa di un paio di denunce immeritate, con richieste di risarcimento assurde, ricevute da due pazienti. Con l’amaro in bocca le raccontò di avvocati piazzati come faine all’uscita degli ospedali, di gente ormai insensatamente convinta che la medicina sia una scienza esatta, della quantità di denunce ingiuste intentate ogni giorno contro i medici spesso a scopo speculativo. E della reazione che questo poteva provocare.

La sua era stata terribile: aveva tirato i remi in barca. Il grande professor Calderaro, la cui abilità richiamava pazienti da tutto il Meridione, chirurgo per vocazione prima che per professione, non aveva piú voglia di rischiare.

A Vanina, per la prima volta, dispiacque doverlo lasciare. Gli promise che quella sera l’avrebbe portato a casa sua.

Tommaso Di Stefano sedeva composto davanti alla scrivania del vicequestore. Gli occhi neri, vicini, divisi dalla radice di un naso sproporzionato, le labbra piegate in un ghigno storto. Gli ottantasette anni, di cui trentasei passati in pensione completa a Piazza Lanza, si riconoscevano tutti, ruga per ruga. Ebenezer Scrooge prima della redenzione, pensò Vanina.

Il commissario Patanè si era accomodato sulla sedia che Spanò aveva piazzato accanto a lei. Non aveva proferito parola, fino a quel momento.

Di Stefano lo fissava con un’ostilità rassegnata, che pareva voler dire: «Vediamo ora questo che vuole da me».

Il vicequestore prese posto dietro la scrivania. Aveva insistito che l’interrogatorio non si svolgesse nella sala apposita ma nel suo ufficio, come un qualunque colloquio. Di Stefano era lí in qualità di persona informata sui fatti, questo doveva essere chiaro.

– Buonasera, signor Di Stefano. Sono il vicequestore Guarrasi.

L’uomo spostò gli occhi su di lei, guardingo.

– Buonasera, vicequestore, – rispose, accentuando il ghigno con una smorfia. – Posso sapere finalmente perché sono stato convocato?

– Non gliel’hanno detto? – finse di meravigliarsi Vanina.

Di Stefano negò col capo lentamente, rivolto verso Nunnari.

L’espressione del sovrintendente si fece perplessa. Non era stata lei a ordinargli di mantenersi sul vago?

– Avrà saputo sicuramente quello che è accaduto a villa Burrano due sere fa, – iniziò Vanina.

– M’ha scusare, signora vicequestore, ma di quella villa meno ne so e meglio sto. Perché, che successe due sere fa?

Pareva sorpreso sul serio.

– Lei non legge i giornali, signor Di Stefano?

– No. E campo piú tranquillo. Tanto, per quello che vale…

– Perciò non sa che l’altra sera, a villa Burrano per l’appunto, è saltato fuori un cadavere risalente a circa cinquant’anni fa?

Di Stefano rimase in silenzio, sbigottito.

– Un cadavere… E di chi?

– Una donna, quasi certamente identificata come Maria Cutò.

L’uomo chiuse gli occhi un istante, quasi in segno di assenso. Poi li riaprí rattristati.

Scosse la testa lentamente. – Malafine fece, mischinazza, a bedda Luna… – Alzò lo sguardo di scatto. – Un momento: non è che state pensando di accusarmi macari di questo omicidio? – Si voltò da una parte e dall’altra: da Spanò a Nunnari, passando per il commissario Patanè.

Vanina sollevò la mano rassicurandolo. – Non è per questo che l’abbiamo convocata oggi.

L’espressione interrogativa dell’ex amministratore precedette di poco quella dei poliziotti.

– Questa mattina è stata ritrovata una Lancia Flaminia blu targata CT12383, di proprietà di Gaetano Burrano, – comunicò il vicequestore.

Di Stefano la fissò, dapprima impassibile. Poi il suo ghigno sprezzante si fece piú accentuato fino a esplodere in una risata fragorosa, finta: quasi isterica.

– Cinquant’anni p’attruvari ’na machina arrobbata! – cantilenò.

Spanò scattò subito, infastidito dallo scherno.

– Oh, Di Stefano! Moderiamo i toni.

Vanina gli fece cenno di sorvolare.

– Non le interessa sapere dove? – chiese, calma.

– Cambia qualche cosa? Tanto oramai la galera tutta me la feci.

– A suo tempo lei dichiarò di non sapere dove fosse quella macchina, anche quando i miei colleghi ipotizzarono che l’avesse venduta per far fronte ai suoi debiti di gioco.

L’uomo spostò gli occhi su Patanè.

– Ma secondo lei, dottoressa Guarrasi, accussí deficiente ero da arrobbàrimi giusto giusto la macchina di Burrano?

Il commissario Patanè rimase impassibile. La provocazione era rivolta a lui.

– Ne deduco che il cavaliere Burrano non le avesse comunicato dove l’aveva lasciata, – continuò Vanina.

– Mi pare ovvio, altrimenti l’avrei detto. Almeno un’accusa me la risparmiavo, per quello che valeva.

– A meno che questo non aggravasse ancora di piú la sua posizione.

Il commissario la fissava senza perplessità, come se sapesse perfettamente dove voleva andare a parare con quell’improvvisazione. Gli altri, invece, parevano piú confusi che persuasi.

– In che senso? – chiese Di Stefano, diffidente.

– Vede, signor Di Stefano, c’è un fatto strano: la Flaminia del cavaliere Burrano è stata conservata per cinquantasette anni in un garage, che una persona premurosa ha pensato bene di murare per evitare che qualcuno se la rubasse veramente. Sa qual era il garage? Quello di Maria Cutò. Sotto l’ex casa di tolleranza Valentino. Ha presente?

Lo stupore di Di Stefano trasparí chiaramente.

– Indicando ai colleghi che l’auto era lí lei avrebbe rischiato di portarli sulle tracce di un altro omicidio, di cui ancora una volta lei solo sarebbe stato il sospettato.

Il vecchio sbarrò gli occhi. – Un altro omicidio? – chiese.

– Quello di Maria Cutò.

– Ma che sta dicendo? Ma se manco lo sapevo che quella mischina era morta? – Si agitò sulla sedia. – Avevo ragione a dire che mi stavate accusando di nuovo. Questa però è soverchieria, dottoressa. Voglio il mio avvocato.

– Non la sto accusando di niente, signor Di Stefano. Sto solo ragionando. E non l’ho convocata come sospettato.

– Io non ne avevo idea che la macchina di Tanino fosse a casa di Luna. Che motivo avrebbe avuto di dirmelo? Le uniche questioni di mia competenza erano quelle economiche. Che Maria era sparita, quando lo ammazzarono, lo capii subito. Ma che dovevo fare? Tirare dentro a lei per cercare di difendermi? Tanto non poteva essere stata lei ad ammazzarlo.

– Come fa a esserne cosí sicuro?

– Primo perché era il padre di sua figlia, e un giorno o l’altro aveva macari intenzione di riconoscerla, e secondo perché per lei era una miniera d’oro. No, il vero assassino era ammucciato chissà dove, dottoressa, e parlare di Maria con gli sbir… con la polizia, avrebbe solo fatto scandalo e sollevato polvere inutile. Polvere nera, che fa l’aria fumosa. Come quella dell’Etna.

– Accanto al corpo di Maria Cutò c’era una cassetta di sicurezza, con dentro un milione di lire. Erano soldi di Burrano?

Il vecchio si perse dietro i suoi pensieri. – Difficile mi pare.

Vanina dissimulò la sorpresa tirando fuori una sigaretta.

Patanè aprí il fascicolo dell’omicidio Burrano e lo sfogliò fino a ritrovare un punto che si era segnato. Glielo mise sotto gli occhi, indicandole un dettaglio. Il vicequestore lo sbirciò prima di rialzare lo sguardo su Di Stefano.

– Cos’è che le pare difficile? – gli chiese, neutra.

– Tanino cassette di sicurezza non ne usava. I soldi li teneva sempre in una ventiquattrore, di quelle con la combinazione e macari con le manette di sicurezza. In quel viaggio, milioni se ne stava portando appresso tre, non uno. E questo lo so per certo, perché alla banca a ritirarglieli ci andai io stesso. Glielo dissi, al commissario Torrisi, che la valigetta con i soldi era scomparsa, ma quello la prese come un’altra prova contro di me –. Sorrise, sardonico. – Mi stavo autoaccusando, perciò, secondo lui. Accussí fissa dovevo essere!

Nel foglio che indicava Patanè, i tre milioni comparivano tra le prove a carico di Di Stefano.

– Posso domandare dove l’avete trovata, a Maria Cutò? – chiese il vecchio, all’improvviso.

– In un montacarichi.

Quello si straní. – Il montacarichi della torre?

– Perché, ce ne sono altri?

– Non penso. Soltanto che non lo usava nessuno. Funzionava male, si bloccava sempre, e poi era difficile da azionare. Tanino ogni tanto lo usava come nascondiglio, ma non per cose di valore perché era troppo facile aprirlo.

– Tutte le aperture erano nascoste da qualcosa. In cucina c’era una credenza. Al piano di sopra una statua. Spanò, mostri le fotografie, – ordinò Vanina.

L’ispettore tirò fuori le foto della statua, nella prima e nella seconda collocazione.

Il vecchio inforcò un paio di occhiali che dovevano essersi fatti trent’anni di carcere assieme a lui. La sua reazione fu immediata. – Bella questa! E chi la spostò? Ma poi… m’ha scusare, può ripetere il fatto della credenza?

Vanina si fece passare i rilievi fotografici del ritrovamento e glieli mise davanti.

– Perciò il montacarichi in cucina era? – chiese l’uomo.

– Perché? Non doveva essere lí?

Di Stefano scosse il capo. – No, no, no. C’è qualcosa che non quadra.

– Signor Di Stefano, c’è un cadavere dentro. È questo che non quadra. Non crede?

– No, vicequestore, non quadra niente. Ma del resto, non quadrava niente manco cinquantasette anni fa, quando fu di Tanino… Oh, mi scusi, dimenticavo: là il colpevole si trovò subito, – riprese il ghigno sprezzante. – Che dice, commissario Patanè? A lei le quadravano le cose, nel ’59?

Patanè non aveva fiatato per tutto il tempo. Non sapeva come comportarsi. La Guarrasi stava conducendo il gioco in modo abile, non c’era che dire. Piano piano stava arrivando dove voleva lei. Ma era agghiacciante vedere quanto fosse evidente l’innocenza di Di Stefano. Quelle frecciate e quegli sguardi sdegnosi servivano a ricordargli di averlo abbandonato alla mercé dei suoi superiori. Perché Di Stefano lo sapeva bene che lui della sua colpevolezza non ne era mai stato convinto, che avrebbe allargato il raggio d’azione. Il commissario Patanè, allora ispettore, non se l’era mai raccontata fino in fondo, ma il sospetto che fosse stato proprio quello il motivo della sua estromissione dall’indagine l’aveva sfiorato piú di una volta.

– Cosa non le quadra, signor Di Stefano? – ribadí Vanina.

– Tanto per cominciare: il montacarichi, me lo ricordo preciso, era fermo al primo piano e la porta non era coperta da niente. La statua del padre nello studio era, anche il giorno che Tanino morí. In cucina idem: la credenza era messa da tutt’altra parte.

– Chi sapeva attivare il montacarichi?

Il vecchio alzò le spalle. – Boh. Tanino, immagino. Erano cose di tanti anni prima, dei tempi di suo padre. Manco i domestici lo sapevano usare. C’era un macchinario strano, una specie di motore –. Respirò a fondo, in debito d’ossigeno.

Vanina si appoggiò allo schienale e allontanò la poltrona dalla scrivania.

– Per oggi non ci serve altro.

Di Stefano si alzò dalla sedia come da un cuscino di spine su cui era stato costretto a sedere.

Il vicequestore gli si avvicinò.

– Un’ultima domanda, signor Di Stefano, – fece, a bruciapelo. – L’acquedotto che doveva essere costruito sul suo terreno, era il primo affare che Gaetano Burrano avrebbe intrapreso con la famiglia Zinna?

Il vecchio alzò gli occhi, drizzando la schiena piú che poteva per arrivare ai suoi.

– Vicequestore Guarrasi, lei è libera di non credermi, come non mi credettero prima di lei i suoi colleghi di allora, – indirizzò a Patanè un cenno col mento. – Tanino Burrano non lo ammazzai io, e manco gli Zinna.

– Di Stefano, io le ho fatto una domanda precisa.

– No: quell’affare non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo.

Erano rimasti soli, faccia a faccia, Vanina e Patanè.

– Dottoressa, mi dica che la pensiamo allo stesso modo, – fece il commissario, scartando il terzo cioccolatino in un’ora.

Il vicequestore si alzò e andò verso il balcone. Aprí un’imposta e si accese una sigaretta. – Non so quello che pensa lei, ma posso dirle su cosa stavo riflettendo poco fa: che per ogni giorno che Di Stefano si è fatto a Piazza Lanza, un delinquente vero è stato amnistiato per svuotare le carceri, – disse, fissando le finestre di fronte. Erano armate di sbarre. Un tempo, prima di diventare una caserma e di ospitare i locali della Polizia di Stato, quell’edificio borbonico era stato il Carcere Vecchio di Catania.

Patanè accennò un sorriso amaro. – E secondo lei basta per chiedere la revisione del processo?

– Intanto basta a indirizzare l’indagine. Sono convinta che Maria Cutò fu ammazzata dalla stessa persona che ammazzò Burrano. E siccome mi pare abbastanza chiaro che Di Stefano sia colpevole quanto mia nonna…

– E come lo proviamo? – Ormai Patanè parlava direttamente al plurale.

– Ragioniamo sugli elementi nuovi, commissario: la macchina, il contratto per l’acquedotto, il testamento. L’acquedotto c’è, questo è certo, perciò qualcuno lo costruí. L’acqua dei Burrano di sicuro avrà destato interesse, e mi giocherei qualunque cosa che gli Zinna avessero qualche avversario, presumibilmente della loro stessa pasta. Mi spiego?

– Si spiega benissimo, dottoressa Guarrasi. Avversari degli Zinna, tali da poter competere con loro, ce n’erano pochi. I Cannistro e i Tummarella sicuramente erano i piú titolati. Suggerirei di non perdere tempo sui primi, però.

– Direi, – concordò Vanina. I Cannistro erano stati decimati, per non dire estinti, a suon di kalashnikov verso la metà degli anni Ottanta. Era storia.

Richiamò Spanò.

– Cerchiamo di scoprire il piú possibile sull’acquedotto che passa per le terre dei Burrano: progettisti, costruttori. Notizie ufficiali e non. Soprattutto non. Lo faccia da solo, senza troppo chiasso, che in questo momento non ci gioverebbe.

– Lassassi fare a mmia, capo, – assicurò l’ispettore, annuendo e partendo verso l’uscita.

– Quel ragazzo è prezioso, – disse Patanè, con l’orgoglio di un padre.

Vanina sorrise. Prezioso era prezioso, ma ragazzo

La telefonata con Vassalli andò avanti per piú di mezz’ora; Vanina riuscí a mettere giú che erano le sette e mezzo di sera.

Patanè se n’era tornato a casa da un bel po’ e l’avviso di un messaggio di Federico illuminava lo schermo del suo iPhone. A eccezione di Spanò, già in azione da quando si era concluso il colloquio con Di Stefano, il resto della squadra aveva rotto le righe. L’ultima a congedarsi era stata Marta, dopo averle consegnato un post-it con tutte le notizie e i numeri telefonici che le aveva chiesto.

Subito dopo, scortato dal solito codazzo d’accompagnamento, Vanina aveva visto passare davanti alla porta aperta anche Tito Macchia. Abbandonata sullo schienale, la voce di Vassalli che litaniava ancora implacabile nell’orecchio, aveva risposto con un cenno rassegnato al saluto, traboccante di esilarata compassione, che il Grande Capo le aveva rivolto dalla soglia dell’ufficio.

Il fascicolo dell’omicidio Burrano ora piú che mai la attirava come una calamita.

Lo infilò nella sua borsa di stoffa: se doveva passarci la notte sopra, tanto valeva farlo spalmata sul divano, in conclusione della serata che stava per trascorrere col patrigno.

C’era solo un’ultima cosa che doveva fare, prima di levare le tende anche lei. Staccò dal monitor del computer il post-it minuziosamente redatto da Marta, e compose il numero telefonico sottolineato. Viva la longevità, sogghignò leggendo gli appunti dell’ispettore.

– Il notaio Nicola Renna?… Vicequestore Giovanna Guarrasi, squadra Mobile. La disturbo perché avrei bisogno di parlare con suo padre…

Era un’idea vaga. Una sensazione. E andava verificata di persona.

Federico Calderaro era entusiasta della dépendance vicino all’agrumeto. Per non parlare poi dell’amaca: quante volte aveva pensato di comprarsene una e piazzarla nella casa di Scopello? Bello doveva essere, rientrare la sera dopo una giornata di lavoro, buttarsi là e non pensare piú a niente. Ma poi, sai com’è, tra una cosa e l’altra, il tempo sempre risicato, uno rimanda ogni volta. E gli anni passano, eh sí gioia mia, passano uno appresso all’altro manco fossero giorni, o minuti… e uno si ritrova anziano senza rendersene conto. Ma da ora in poi non ce n’era piú per nessuno: il professor Calderaro tornava padrone del proprio tempo.

Parlava. Beveva birra, fumava la Gauloises che gli aveva offerto Vanina – basta che non mi fai sgamare da tua mamma, eh! – e parlava. Parlava tanto che la metafora della puntina di grammofono sarebbe stata riduttiva.

Vanina non lo riconosceva. Non sapeva se attribuire la cosa all’alcol – quando mezz’ora prima l’aveva prelevato all’hotel Excelsior, il prof aveva già al proprio attivo un Negroni post congresso – o allo stress psicologico cui le aveva confessato di essere sottoposto in quel periodo. Era un’allegria forzata, di sicuro non una condizione normale, per lui.

Bettina era stata come al solito provvidenziale.

Certo, co’ sto fatto che il vicequestore doveva fare la dieta – perché deve farla poi solo lei lo sa. Che dice, professore? – le aveva preparato solo verdure: melanzane in agrodolce, zucchine ripiene e peperoni al forno. Valore calorico incalcolabile. A sapere che il vicequestore aspettava ospiti l’avrebbe aiutata con qualche cosa di piú sostanzioso. Non l’avrebbe ammesso neppure sotto tortura, ma non riponeva troppa fiducia nell’abilità culinaria della sua inquilina. E aveva ragione. La dottoressa Guarrasi apprezzava la buona tavola, ma coi fornelli non ci sapeva fare. Invece Vanina aveva risolto con gli involtini alla messinese che aveva comprato da Sebastiano la sera prima.

Di dieta ovviamente non se ne parlava nemmeno, ma venne fuori una cena piú che dignitosa, che Federico parve gradire. Soprattutto, poi, in confronto alla serata di gala che era riuscito a schivare con quella scusa. Era inutile: gli eventi sociali, se non c’era Marianna, l’abbuttavano troppo.

Sua madre sarebbe stata contenta. In tanti anni, era la prima volta che Vanina concedeva a Federico l’attenzione che meritava. Forse proprio la sua assenza in questo era stata una circostanza favorevole. Certo era che se solo sua madre non avesse tanto cercato di spingerla verso di lui, presentandoglielo come un perfetto nuovo padre, forse il professore sarebbe potuto diventare per lei un buon amico. Chissà, magari era ancora possibile recuperare.

Vanina stava togliendo di mezzo gli avanzi, prima di riaccompagnare il patrigno in albergo, quando un primo piano a 42 pollici di Paolo Malfitano occupò lo schermo del televisore appena acceso.

Federico la guardò di sottecchi.

La quieta, attenta impassibilità che Vanina riuscí a ostentare le costò piú fatica di un chilometro in salita con uno zaino di venti chili sulle spalle. Federico riferiva a Marianna qualunque cosa; una reazione come quella della sera prima avrebbe aperto il varco a una cascata di recriminazioni a base di «te l’avevo detto», di cui sua madre era maestra. Andava evitata a ogni costo.

Con la naturalezza di un gesto programmato, aprí un mobile basso e tirò fuori due bicchierini. Esplorò l’interno alla ricerca di un qualunque superalcolico, magari dimenticato lí per caso da qualcuno. Trovò solo una bottiglia di mosto muto: un vino liquoroso artigianale che produceva un conoscente di Bettina. Non le era mai piaciuto, ma era dotato di un grado alcolico appropriato alla circostanza. Lo rifilò a Federico come una specialità locale che assolutamente doveva assaggiare, e con la scusa ne tracannò un bicchierino colmo.

Si misero in macchina appena conclusa l’intervista, che durò cinque minuti scarsi. Piú di tanto Paolo non avrebbe mai concesso, in una circostanza simile, a nessun giornalista. Anzi, già era assai che gli avesse accordato quelle quattro domande, considerò Vanina.

Fu il suo unico commento, che non soddisfece del tutto Federico.

Lui invece qualcosa gliela doveva dire, questo era evidente. Com’era pure evidente che non sapeva da dove cominciare.

– Vedi tu che cosa, povero Paolo, – esordí, quand’erano già al semaforo di piazza Verga, fissando il Palazzo di Giustizia come se gli avesse ispirato quella riflessione.

L’hotel Excelsior era davanti a loro, dall’altro lato della piazza, dove un gruppo di uomini in abito grigio e donne in tailleur stava scendendo da un pullman granturismo. I reduci della cena di gala.

Quattro parole vaghe, preparatorie. Esplorative. Posso continuare o non gradisci?

Vanina non commentò.

– Ce ne vuole coraggio, ad andare avanti per la propria strada nonostante tutto, – proseguí Federico.

Ci voleva coraggio, sí. Anche un po’ d’incoscienza. O di senso di giustizia, che poi spesso è la stessa cosa, pensò Vanina.

– In questo momento, giusto giusto, solo le intimidazioni ci mancavano. Povero figlio, – buttò lí il professore, addentrandosi a poco a poco nell’argomento.

– Perché? Per ricevere una minaccia di morte che ci sono momenti migliori e momenti peggiori? – ironizzò. Vediamo che mi deve dire.

– No, certo. Però quando uno accanto ha una famiglia, le situazioni le affronta meglio.

La stava pigliando alla lontana, ma Vanina iniziò a capire. E la cosa non le piacque.

– Mi dispiace contraddirti Federico, ma oltre un certo livello d’angoscia la famiglia non può fare granché.

– Ma se oltre alla preoccupazione per la propria incolumità, ci metti pure il dispiacere di una famiglia che manco il tempo di nascere già si sta disgregando…

– Federico, facciamo prima se mi dici direttamente quello che mi vuoi fare sapere. O che mia madre mi manda a dire.

Il professore esitò, a disagio per il gelo improvviso che era calato.

– Lasciala stare a tua madre, che non c’entra niente, – protestò. Guai a toccargli Marianna. – Ci ho pensato io prima, solamente perché l’ho visto in televisione. Lo sapevi tu che la moglie di Paolo se n’è andata di casa, dopo manco tre anni di matrimonio e con una figlia piccola?

No, non lo sapeva. Chi gliel’avrebbe dovuto raccontare? Nessuno dei suoi pochi amici rimasti a Palermo s’azzardava mai a toccare l’argomento. Non lo sapeva e manco lo voleva sapere. Ma ormai Federico aveva preso la calata.

– Dice che lui la tradiva. Ma ti pare una cosa possibile? Con la vita incasinata che ha, il pericolo sempre dietro l’angolo, votato al lavoro com’è… si mette a tradire sua moglie? Io ho i miei dubbi. Ce lo raccontò Costanza, qualche settimana fa. Lo sai che lei e Nicoletta Malfitano sono amiche, no?

Se lo ricordava, eccome, che erano amiche. Era stata il suo punto di forza, quell’amicizia. Sapere che c’era una bella ragazza innamorata persa di Paolo, in agguato e pronta a consolarlo al momento opportuno, le aveva reso tutto piú facile. Era bastato violentarsi, ferirlo con il suo abbandono improvviso, mentire a tutti, perfino a sé stessa, e scappare. Lontano. Cosí tutto sarebbe andato nel modo piú giusto.

Ma ci sono realtà, nella vita di ognuno, di cui solo a posteriori è dato valutare l’importanza. Spesso le cose non sono come sembrano, mai dimenticare questa regola basilare.

E certe scelte possono rivelarsi delle solenni minchiate, anche se sul momento ti erano sembrate inevitabili, se non addirittura salvifiche.

Anche questa era una regola basilare, ma a suo tempo, forse, doveva esserle sfuggita.