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Cosa diavolo stava succedendo?

Tucker si teneva ben eretto, serrando i denti per non tradire le fitte lancinanti che gli risalivano lungo il braccio. Eckland era entrato nella sua cella alle sei e mezzo, un'ora prima della sveglia abituale, e l'aveva perquisito. Poi gli aveva messo le manette, la catena alle caviglie e una attorno alla vita a cui aveva assicurato quella delle manette, e così tesa che il bracciale gli penetrava nel polso gonfio.

«Muoviti» ordinò l'agente spingendolo fuori. «Dobbiamo metterci in viaggio.»

«Dove andiamo?» chiese Tucker rompendo il suo rigido silenzio. Dovunque fossero diretti, sembrava che fosse lui solo a dover partire. Gli altri erano ancora stesi sulle cuccette ma alcuni sollevarono la testa sentendo lo sferragliare delle catene.

«Cambi casa» rispose Eckland. «Vieni trasferito. Saluta tutti gli amici.»

Tucker si fermò. «Trasferito dove?»

«Ad Alta Vista» rispose Eckland sogghignando. «Proprio il posto che fa per te.»

L'unico posto del pianeta peggiore di questo, pensò lui. La disperazione si fece ancor più greve. Aveva appena saputo dal suo avvocato che il suo ricorso era stato respinto... di nuovo. E adesso, questo.

Non sarebbe mai più uscito, non avrebbe mai ripreso la sua vita. A volte si sentiva così impotente da aver voglia di scagliarsi contro tutto e tutti, e picchiare, tirare calci... sino a che l'avessero ucciso. Così la lotta per la sopravvivenza sarebbe finalmente terminata. Per sempre.

Ma non poteva arrendersi, non poteva permettersi di essere così vigliacco... almeno fino a quando non avesse più avuto la minima speranza di rivedere suo figlio. Il pensiero di quanto doveva sentirsi solo e smarrito lo straziava, ed era l'unica cosa che gli desse la forza di continuare a lottare.

«Ci mancherai» commentò Eckland mentre riprendevano a camminare. «Era un piacere vederti fare a botte, Tucker. Vorrei essere in gamba quanto te, ma tutto considerato... perché prendere a pugni qualcuno quando posso sparargli? È questo il bello dell'essere un agente di custodia.»

Eckland perlopiù si serviva solo del manganello e quando faceva parte della squadra d'emergenza il suo fucile era caricato a pallini, ma si godeva l'autorità che gli dava il suo lavoro. Si divertiva a provocare i detenuti, ma di solito Tucker non gli badava. Nessun secondino era paragonabile ai suoi veri demoni, quelli che gli tormentavano la mente.

«Buongiorno.» L'agente Hadley uscì dal posto delle guardie proprio mentre lo raggiungevano.

Era l'ultima persona che Tucker desiderasse vedere. Rappresentava tutto ciò che aveva perduto: amore, matrimonio, rispettabilità. E lo sgomentava la persistenza di quella donna nei suoi pensieri.

«Ho tutti i documenti» comunicò lei a Eckland, poi mosse lo sguardo su Tucker e la sua espressione si rabbuiò di colpo. «Le catene?»

«È un elemento pericoloso» replicò seccamente l'altro. «Naturale che gliele ho messe. È la normale procedura.»

«E le manette... non si può. Ha la mano fratturata.» Toccò il gomito di Tucker, probabilmente per farlo voltare un poco e controllare, ma lui si scostò.

«Va bene così» borbottò. Era troppo vulnerabile per accettare gentilezze, soprattutto da lei. Il dolore gli dava forza, rinfocolava la sua rabbia. Non gli restava altro. «Non mi dica che viene con noi.»

Lei restò interdetta. «Cambia qualcosa che ci sia io o un altro?»

Tucker alzò le spalle, come se la cosa lo lasciasse indifferente. Ma non era vero. Non voleva la vicinanza dell'agente Hadley. Il suo calore umano gli faceva rimpiangere il passato e desiderare un futuro diverso...

Quando arrivarono fuori, dove c'era un'auto della polizia in attesa, il vivido sole quasi lo accecò. Si aspettava che la Hadley, dato che lui aveva le mani immobilizzate, accennasse ad aiutarlo a sistemarsi sul sedile posteriore, invece no: se ne rimase in disparte e poi prese posto accanto a Eckland, che si era seduto al volante.

In quel momento comparve Hansen. «Sentiremo la tua mancanza, Tucker. Buon divertimento all'inferno!» sghignazzò.

Tucker tenne lo sguardo fisso davanti a sé fino a che l'auto si mise in moto, poi si voltò a dare un'occhiata al grigio edificio in cui aveva trascorso gli ultimi sei mesi. Un posto infame. E si chiese cosa l'aspettava.

Arrivarono e si fermarono al posto di controllo, poi superarono lentamente due recinzioni di rete metallica sormontate da filo spinato fino ad arrivare all'uscita dove Eckland si fermò di nuovo a parlare con l'agente di guardia. Quindi imboccarono la strada: su un lato, alte palme; sull'altro si estendeva un campo di case mobili. Di fronte c'era Florence: una delle città più vecchie dello stato, o così Tucker aveva letto da qualche parte. Un tempo florido centro minerario, in seguito noto per le coltivazioni di cotone, adesso aveva un'economia imperniata sulle prigioni che ospitava, tra cui un riformatorio e un centro di raccolta degli uffici immigrazione e naturalizzazione, il che significava che a volte i detenuti erano il doppio degli abitanti.

Un posto insolito, rifletté Tucker. Non doveva essere cambiato molto rispetto a cent'anni prima. Ne ricordava le case polverose, sbiancate dal sole, viste il giorno in cui l'avevano condotto lì su un autobus carico di prigionieri. Gli era parsa una città fantasma.

E per lui lo era davvero: infestata dalle sue speranze e dai suoi sogni infranti.

«Chi si occupa della tua bambina, oggi?» chiese Eckland rompendo il silenzio.

«Suo padre.»

Dunque l'agente Hadley aveva una figlia. E anche un uomo, a quanto pareva. Naturale. Con quel sorriso... E allora perché mai faceva l'agente di custodia? Quale marito avrebbe accettato che svolgesse una simile attività quando oltretutto c'era un figlio?

Si sporse in avanti per vedere se portava la vera al dito ma la mano gonfia protestò a quel movimento, e comunque era difficile scorgere i particolari attraverso la rete metallica che separava il sedile anteriore da quello posteriore. Si riappoggiò allo schienale mentre Eckland lanciava un'occhiataccia alla Hadley.

«Soddisfatta, adesso?» chiese mentre imboccava la strada per Coolidge.

«Soddisfatta di che?»

«Della tua visita al direttore.»

«Te ne ha parlato Hansen?»

«Non è certo un segreto. È stata una vera e propria idiozia.»

«Ho agito come mi pareva mio dovere. Non devo giustificarmi con nessuno di voi.»

«Oh, certo. Sei qui da una settimana, quasi non sai neanche dove sono i gabinetti, e ti presenti dal direttore. Di sicuro non è servito a Tucker. Sei contento di dove stai andando?» chiese al prigioniero. «Ti fa piacere che l'agente Hadley si sia messa in mezzo?»

Tucker non rispose. Si era chiesto la ragione di quel trasferimento e adesso la sapeva. Doveva ringraziarne l'agente Hadley, tanto pivella e idealista da credere di poter cambiare qualcosa. Ma non poteva avercela con lei: aveva rischiato grosso più di una volta per aiutarlo. E c'era voluto un bel fegato per andare dal direttore.

«Certi pettegolezzi non vengono apprezzati, sai?» borbottò Eckland.

«Se vuoi tenermi la predica della sopravvivenza, risparmia il fiato» replicò lei. «Ho già sentito Hansen. Sono solo i deboli che devono preoccuparsi, i giovani, i vecchi e il gentil sesso» citò sarcasticamente. «Devo dire che li trovo concetti un po' datati.»

«Dovresti tenerli ben presente, invece. Potrebbe dipenderne parecchio.»

Tucker avvertì la velata minaccia nella voce dell'agente e si domandò se la Hadley l'aveva colta. A ogni modo lei non disse nulla. Guardava assorta oltre il finestrino mentre lui considerava la concreta possibilità che i colleghi gliela facessero pagare. Quel pensiero gli destò qualcosa, una vaga ansia protettiva che apparteneva alle emozioni di un tempo.

Gabrielle faticava a tenere aperti gli occhi. Da quasi tre ore viaggiavano attraverso il deserto e il moto dell'auto, il fruscio dei pneumatici le davano una certa sonnolenza. Allie si era svegliata due o tre volte quella notte e lei, agitata al pensiero del trasferimento, aveva dormito poco e male.

Tirò un lungo respiro. Doveva solo arrivare alla fine di quella giornata e poi... a casa. David era arrivato il pomeriggio precedente, come promesso, ora stava prendendosi cura di Allie, ed era molto bravo a seguire la piccola.

Respinse il sonno e studiò, nel finestrino, il riflesso di Randall Tucker. L'aveva fatto spesso da quando avevano lasciato il penitenziario. Giusto per controllare quel che faceva, si disse, ma in realtà era preoccupata per la sua mano. Quelle manette dovevano essere una tortura.

Lui però non ne dava segno. Da quando erano partiti non aveva aperto bocca.

«Come va la mano?» gli chiese infine, voltandosi a guardarlo attraverso il divisorio. Dato il suo atteggiamento scostante, si era ripromessa di non fargli domande del genere, ma non poteva resistere. «Tutto bene?»

Lui stava guardando oltre il finestrino. L'espressione era dura, impenetrabile. Ma dopo un momento quegli intensi occhi azzurri si spostarono su di lei. «Cambierebbe qualcosa se rispondessi di no?»

Eckland ridacchiò, ma Gabrielle non gli fece caso.

«Forse.»

«Vuole dire che mi toglierebbe questi ferri?»

«Potrei allentare le manette.»

Per qualche istante Tucker si limitò a fissarla. Era torvo, ostile, Gabrielle dubitava che avrebbe ammesso di aver bisogno di qualcosa, invece con sua sorpresa annuì brevemente.

«Accosta» disse a Eckland.

L'agente neppure rispose e passò nell'altra corsia per superare un furgone.

«Mi hai sentita?»

«Sì, ti ho sentita. Ma non significa che voglia darti retta.»

«Ha delle fratture, è immobilizzato da tre ore. Anche una mano sana sarebbe indolenzita.»

«Si è messo lui in questa situazione. Che si arrangi.»

Gabrielle si era aspettata una risposta del genere ma non intendeva accettarla. Era pura meschinità da parte di Eckland. «Cosa conti di dire a quelli di Alta Vista quando consegneremo un detenuto con una mano talmente gonfia da essere il doppio del normale?»

«Che è un dannato bastardo che non la pianta mai di attaccar briga, ecco cosa gli dico. La cosa non mi riguarda.»

«Però sei stato tu ad ammanettarlo, e non tornerà a tuo favore quando lo dirò, aggiungendo che stamattina quella mano era perfettamente integra.»

Eckland distolse lo sguardo dalla strada per lanciarle un'occhiata sbalordita. «Ma sai benissimo che era già rotta!»

«Ah, sì? Peccato che non ci sia un referto medico a confermarlo.»

Gli occhi di lui si ridussero a due fessure. «Mi stai minacciando, agente Hadley?»

«Io, minacciarti?» Gabrielle abbozzò un sorrisetto freddo, nonostante le battesse forte il cuore. Come si era cacciata in quel conflitto? Non aveva mai avuto intenzione di lasciarsi coinvolgere personalmente nelle questioni degli uomini che sorvegliava, né di dover affrontare un problema morale come quello di adesso. Come l'agente Bell, desiderava solo farsi le sue otto ore di lavoro e vedersele pagare. Aveva già i suoi problemi. Ma non poteva accettare passivamente che quell'uomo continuasse a patire le pene dell'inferno. «Non minaccio nessuno» dichiarò. «Sto solo suggerendo di fermarci un momento per allentare le manette del detenuto in modo che il personale di Alta Vista non si impensierisca troppo. Non sarebbe piacevole se avviassero un'indagine, no? Se dovessero scoprire quel che è accaduto la settimana scorsa, cadranno delle teste.»

«Una potrebbe essere la tua» ringhiò Eckland.

«Potrebbe essere la prima, ma garantito che non sarebbe l'ultima» ribatté lei dolcemente, e diceva sul serio. Se avesse perso il posto, niente le avrebbe impedito di raccontare ai giornali la storia di Hansen.

«Mi sei parsa in gamba, quando sei arrivata» disse Eckland, «ma non hai confermato quest'impressione. Ti muovi su un terreno minato, agente Hadley. Ti consiglio di badare a dove metti i piedi.»

Gabrielle gli lanciò un'occhiata dura. «E io ti consiglio di accostare e lasciarmi fare.»

«Benissimo!» Fuori dai gangheri, Eckland pigiò sul freno e sterzò bruscamente verso destra. L'improvvisa decelerazione spinse bruscamente in avanti Gabrielle, trattenuta dalla cintura di sicurezza. Stava per chiedergli cosa gli veniva in mente ma si accorse che stavano quasi andando addosso a un veicolo che sopravveniva. Eckland controsterzò, l'auto finì contro il guardrail opposto e fece un testa-coda.

Dall'altra direzione sopraggiungeva un furgoncino che frenò per evitarli, ma slittò e andò a sbattere contro di loro. Il cofano dell'auto si accartocciò a fisarmonica con gran stridore metallico. Gabrielle sentì l'urlo di Eckland e l'imprecazione di Tucker proiettato contro lo schienale del sedile anteriore mentre l'impatto spediva l'auto oltre il ciglio della strada.

Per un momento Gabrielle rimase frastornata, ansimante. Un incidente.

Per poco non ci avevano lasciato la pelle grazie a Eckland e alla sua prepotenza. Era viva, sì, ma non sapeva se era tutta intera. Si esaminò mentalmente cercando di individuare ferite o dolori. Non ne avvertiva e si chiese se non era un segno ancor peggiore. Era sotto shock o paralizzata?

Mosse le dita delle mani e dei piedi: pareva che funzionassero. Ma le ginocchia le avevano dato una botta allo stomaco ed era senza fiato.

Nel complesso però era a posto, concluse. Ma Eckland... e Tucker?

Eckland gemette, dicendo qualcosa a proposito di una gamba. Gabrielle cominciò ad armeggiare con la cintura di sicurezza per potergli dare una mano. Le giunse la voce di Tucker.

«Hadley, mi tolga queste dannate manette.»

La mano. La sua disgraziata mano. Tremava tanto che non riusciva a sganciare la cintura. «È ferito?» chiese girandosi a mezzo.

La portiera accanto a Tucker era quasi sfondata, e lui stava piegato in due. «Tucker, è ferito?»

«Basta che mi levi questi ferri...» mugolò lui a fatica.

«No, non farlo» disse a fatica Eckland. «Non muoverti. Chiedo aiuto via radio.» Si allungò verso l'apparecchio e lei si sentì annodare lo stomaco scorgendo, attraverso lo squarcio nei pantaloni, la gamba evidentemente fratturata. Occorreva un'ambulanza, comprese a quel punto. C'era qualcosa che potesse fare?

«Tucker?» ripeté con il fiato corto, mentre Eckland chiedeva aiuto.

Lui non rispose.

«Lascialo perdere! Ora arrivano» borbottò Eckland quando ebbe chiuso la comunicazione.

Gabrielle lo ignorò. Poteva trascorrere anche un'ora o più. Riuscì ad aprire la portiera e girò in fretta attorno all'auto. Eckland quanto meno poteva muoversi, anche se poco. Tucker no: aveva braccia e gambe bloccate.

Dovette ricorrere a tutte le sue forze per avere la meglio sullo sportello posteriore che alla fine si aprì con molti cigolii. Tucker non si mosse, ma Gabrielle intravide subito la mano: era bluastra e talmente gonfia da nascondere il bracciale di ferro. E gli occhi, quando girò il volto verso di lei, erano vitrei.

«Mi dispiace» mormorò lei, cercando la chiave per liberarlo.

«Hadley, non sognartelo neanche, maledizione!» gridò Eckland.

Tucker chiuse gli occhi come se non avesse neppure la forza di parlare. Sulla fronte gli stava comparendo un velo di sudore.

«Ma non posso lasciarlo così!» replicò lei aprendo le manette e rimproverandosi per non averlo fatto prima.

Tucker ebbe un ansito mentre il volto gli diventava ancor più terreo. Gabrielle temette che svenisse ma lui d'un tratto le afferrò duramente il braccio e l'immobilizzò tra sé e lo schienale anteriore.

«Ma che sta facendo? Non peggiori la sua situazione.» La paura dissolse ogni traccia dello stordimento dovuto allo scontro. «Ha sentito... Eckland ha chiesto aiuto. Arriveranno tra poco. Se ne stia buono e tranquillo.»

Eckland imprecò contro di lui ma Tucker non gli fece caso. Di colpo vigile e rapido come un gatto, apparentemente dimentico di ogni dolore, si servì della mano sana per cercare, tra quelle che lei portava appese alla cintura, la chiave che gli serviva. Si liberò delle catene in vita e alle caviglie poi, tenendola ferma con un ginocchio, recuperò le manette per assicurarle il polso destro al divisorio di metallo. Solo allora scese, scrutò l'orizzonte... e cominciò a correre.