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Gabrielle reggeva in una mano sudaticcia la cassetta del pronto soccorso e procedeva decisa lungo il passaggio verso la cella di Randall Tucker. Roddy e Brinkman le stavano ai lati ma due passi più indietro. Con il pensiero alle possibili conseguenze se fosse accaduto qualcosa mentre lei era da Tucker, Hansen alla fine aveva incaricato i due di scortarla. Ma era l'ora d'uscita e i due agenti erano parecchio seccati.
Poteva far conto su di loro? Non lo sapeva. Guardava dritto davanti a sé, a testa alta, però aveva il cuore che le batteva all'impazzata.
Randall Tucker ha assassinato sua moglie. Le parole di Hansen parevano riecheggiare tra quelle grigie pareti e, con loro, la sua assicurazione: Se ti aggredisce non aspettarti che io o altri arriviamo di corsa... arriviamo di corsa... arriviamo di corsa.
Chiusi in cella per via del tafferuglio e con un'ora da far passare prima della cena, i detenuti erano perlopiù apatici e annoiati. Se ne stavano presso le sbarre, braccia tatuate a ciondolare di fuori, e a urli si scambiavano qualche commento o semplicemente guardavano nel vuoto, arcigni, persi in loro stessi.
Purtroppo il passaggio di Gabrielle risultò l'ideale per alleviare il tedio.
«Ehi, bella pupa, vieni che ce la spassiamo un po'!» gridò qualcuno mentre comparivano degli specchietti di plastica per poter continuare a vederla anche quando era passata oltre.
«Ma che ti credi, questa cerca un vero uomo, uno come me!» ribatté una voce, due celle più avanti. «Dai, cocca, che ti servo la rotolata fra le lenzuola più bella della tua vita!»
«Ma guarda che tette! Cosa non darei per cinque minuti...»
In altre occasioni, Roddy, Brinkman e gli altri avevano troncato fischi e apprezzamenti ricorrendo a varie minacce. Ora non aprivano bocca, non muovevano un dito, e Gabrielle ebbe la conferma che erano arrabbiati con lei. Non gradivano la sua intromissione e glielo facevano capire a chiare lettere. Ma ormai lei aveva preso posizione e doveva andare fino in fondo, altrimenti Randall Tucker non avrebbe ricevuto delle cure adeguate e lei avrebbe guastato inutilmente i rapporti con il sergente Hansen.
Si sarebbe sbrigata in cinque minuti e poi sarebbe tornata a casa da Allie.
«Torna qui e dammi il tuo amore, a me che posso darti solo amore» canticchiò un altro.
Schiocchi di baci l'accompagnarono per il resto del tragitto. Quando giunse alla cella di Tucker lo trovò a torso nudo, chino sul piccolo lavabo d'acciaio, intento a eliminare dai capelli il sangue raggrumato. La parte superiore della tuta gli ricadeva attorno ai fianchi.
Assorto in quel compito, Tucker parve non notare la sua presenza. O forse se ne accorse ma non gliene importava niente. Continuò a sciacquarsi mentre dei rivoletti d'acqua gli scorrevano giù per il petto e il dorso, entrambi privi di tatuaggi. Poi si diede una rapida asciugata e si raddrizzò voltandosi.
«A quanto pare ho visite» osservò.
Gabrielle ebbe l'impressione che la guardasse con il medesimo disprezzo che le riservavano Roddy e Brinkman. Poteva capire l'odio, l'ostilità: ne aveva visto una buona dose in quei pochi giorni. Agenti e detenuti non potevano essere amici. Ma, disprezzo? Il disprezzo implicava un senso di superiorità. Chi si credeva, Tucker? Pareva un medico o un avvocato più che un assassino.
Ma poteva ugualmente essere pericoloso.
Buon Dio, che questa giornata si concluda senza incidenti, pregò, dicendosi che se fosse successo qualcosa i due colleghi l'avrebbero spalleggiata. Avrebbero indugiato quanto bastava perché lei capisse l'antifona, ma poi si sarebbero mossi.
Il guaio era che in sessanta secondi potevano accadere molte cose. E un ritardo nell'intervento poteva essere giustificato in mille modi...
D'un tratto quelle sette settimane di addestramento le parvero miseramente inadeguate.
Ti sbrighi alla svelta. Cinque minuti e vieni via. Tirò un respiro a fondo, tolse il fermo e fece un cenno a Eckland, al posto di guardia, che premette il pulsante d'apertura.
La porta della cella scivolò verso destra con un suono metallico. «Ho portato l'occorrente per la medicazione, signor Tucker» disse Gabrielle.
«Signor Tucker?» Lanciò un'occhiata agli altri due che tenevano il manganello pronto, come smaniosi di entrare in azione.
«Non è il suo nome?»
«Credo che lei sia la prima a usarlo da quando sono arrivato qui dentro.» Fece due passi avanti e Gabrielle si impedì a stento di scappare via. Evidentemente lui le lesse in faccia la paura perché si fermò e la sua voce assunse un tono ironico. «Le sarà un po' difficile medicarmi, da lì. O conta di lasciare qui questa roba» e indicò la cassetta del pronto soccorso, «perché mi arrangi da solo?»
I detenuti riuscivano a fabbricarsi armi con i materiali più innocui. Gabrielle non faticava a immaginare Tucker che ricavava una specie di lama aguzza dal coperchio di plastica.
«Non sono una sciocca» replicò, accennando alla branda. «Si sieda, per favore.»
«Per favore?» ripeté lui con un sorrisetto. «Molto cortese.»
«Vuole sedersi o no?»
Lui si mosse, reggendosi la mano ferita, e mentre raggiungeva la cuccetta inferiore le sfiorò la spalla. Un gesto deliberato, probabilmente. Per metterla alla prova. Lei non si mosse. Se intendeva svolgere quel lavoro non poteva avere l'aria di una che desiderava solo fuggire nella direzione opposta, strillando, ogni volta che veniva a contatto con un prigioniero. Inoltre aveva notato i segni di stanchezza e di dolore sul volto del detenuto e cominciava ad aver meno paura. Quell'uomo stava molto peggio di quanto lasciasse trasparire.
«Direi che è stata una fatica inutile radunare il coraggio per venire fin qui» commentò lui. «A meno che non abbia un apparecchio radiografico e del gesso, temo che non possa fare niente per me.»
«No, niente gesso» rispose lei posando la cassetta sulla branda. «Disinfettante e cerotti.»
«Mi accontenterei di un paio di Tylenol.»
«Non sono autorizzata a dare farmaci. Può chiedere dell'aspirina allo spaccio.»
«L'aspirina non mi fa nessun effetto.»
«Be', il regolamento mi vieta di fornirle dei medicinali.»
Dall'espressione di lui era chiaro ciò che pensava della sua risposta. «Il regolamento vieterebbe anche la sua presenza qui, adesso, ma è Hansen a decidere. Cosa saranno mai due o tre analgesici, agente...» guardò il nome applicato sulla camicia. «... Hadley. Due capsule di Tylenol e può considerare compiuta la sua benefica missione qui e non dovrà sporcarsi le mani toccando un mostro come me.»
Un mostro come lui? Se era tale, di certo l'aspetto non lo indicava. Nonostante fosse un po' malconcio era uno degli uomini più attraenti che Gabrielle avesse mai incontrato. Tutto in lui era intensamente mascolino, dalla vigorosa scioltezza del corpo ai lineamenti raffinati: naso aquilino, labbro superiore non molto accentuato, mascella decisa... e quegli occhi eccezionali.
«Cosa le fa pensare che per me sia un inconveniente?» ribatté lei aprendo la cassetta e cominciando a frugarci dentro.
«A parte il disgusto che ha dipinto in faccia? Non ci vuole la sfera di cristallo per sapere che preferirebbe toccare un lebbroso.»
Gabrielle si concentrò su quanto stava facendo e non rispose. Lui aveva ragione. Aveva ammazzato la moglie e a lei ripugnava stargli vicino. Però aveva assolutamente bisogno del suo intervento. Il sangue sul labbro spaccato si era ormai coagulato ma la mano era molto gonfia. Il taglio sulla fronte aveva ripreso a sanguinare, se mai aveva smesso, e Tucker doveva passarsi continuamente l'asciugamano sul viso per impedire che il sangue gli colasse negli occhi.
«Be', comprensibile. I suoi precedenti non suscitano grandi entusiasmi» disse poi, infilandosi i guanti di lattice.
«Non creda a tutto quel che legge.»
Lei ripiegò una garza e la bagnò con l'antisettico. «Già. Immagino che sia innocente, come tutti gli altri.»
Tucker aspirò bruscamente quando Gabrielle cominciò a ripulirgli lo squarcio sopra l'occhio. «A lei non frega niente se sono innocente o no. Come a tutti gli altri.»
Lei tolse dall'involucro un cerotto, studiando il modo migliore per applicarlo. Lì ci sarebbero voluti dei punti: la ferita era profonda e bisognava accostarne i margini e fissarli con cura, ma i guanti le toglievano sensibilità e quel maledetto cerotto continuava a staccarsi.
Esaminò il taglio ancora per un momento, poi si sfilò i guanti per poter lavorare meglio e far aderire il cerotto.
Tucker osservò quel gesto. «Non è rischioso?»
«Un po' tardi per pensarci. Già prima l'ho toccata con le mani nude, ricorda?»
«E adesso pensa che morirà di AIDS.»
«Ho ragione?»
Lui alzò le spalle. «Dipende dal suo compagno di letto. Io di sicuro non la contagio.»
Gabrielle, intenta a preparare un altro cerotto, non raccolse quell'accenno alla sua vita amorosa. Ora basta che lo metta nella giusta posizione e lo fissi bene. Ma la domanda successiva la lasciò interdetta.
«Perché l'ha fatto?»
I loro sguardi si incontrarono, per un breve momento. Quegli occhi erano così limpidi che quasi scordò di essere di fronte a un omicida.
«Fatto cosa?» Era finalmente riuscita ad applicare il cerotto in modo da tenere accostati i lembi dello squarcio.
«Intervenire nella rissa. Se non ha impulsi suicidi, lei è incredibilmente stupida o incredibilmente coraggiosa. Non so stabilire quale delle due.»
«Non c'è niente da stabilire. Stavo solo facendo il mio dovere.»
«Se quello era il suo dovere, cosa stava facendo Roddy?» Indicò l'agente in questione con un cenno del capo.
«Te lo spiego io, se non tieni chiuso quel becco» lo avvertì l'agente battendosi il manganello contro il palmo dell'altra mano.
Gabrielle si spostò mettendosi tra i due. «Probabilmente rimarrà una cicatrice» osservò per distrarre il detenuto da quel palpabile malanimo... e distrarre se stessa dalla strana sensazione di intimità che provava stando tra le ginocchia divaricate di Tucker, a una spanna dal suo torace nudo.
Gli fece rialzare la faccia per poter ripulire il labbro spaccato e restò vagamente sorpresa accorgendosi di non provare traccia della ripugnanza prevista. Era un ergastolano, sì, ma era anche un uomo in carne e ossa, e molto attraente, come doveva ammettere il suo lato più onesto. La guancia ruvida su cui poggiava la mano e il morbido labbro inferiore che comprimeva con il pollice per poter disinfettare a fondo il taglio innescavano una strana reazione in una parte segreta di lei... una parte che non era compresa nel suo ruolo quanto avrebbe dovuto.
Cercò di terminare in fretta, prima che lui avvertisse l'effetto che le faceva, così come prima aveva intuito il suo timore, la sua riluttanza. «Come vanno le costole?»
Lui non rispose ma trasalì quando Gabrielle gli tastò il torace cercando segni evidenti di possibili gravi lesioni. Non seppe stabilire se c'erano fratture e comunque, finché Tucker respirava, era improbabile che Hansen si lasciasse convincere a far intervenire un medico.
«Forse c'è solo qualche incrinatura» disse infine. La pelle di lui era liscia e tiepida, piacevole al tatto. Sua moglie, accarezzandolo, doveva aver provato qualcosa di simile... un tempo.
Con quel pensiero finalmente sopravvenne un rincuorante disgusto. Gabrielle si allontanò cominciando a mettere via le garze e tutto il resto. «Perlomeno adesso i tagli sono medicati. Speriamo che col tempo il resto si sistemi.»
Lui non disse nulla. Adesso che lei aveva terminato, pareva ancor più stremato dal dolore e questo spinse Gabrielle a fare una cosa che non si era affatto riproposta.
«Mi faccia vedere la mano, prima che me ne vada.»
Tucker esitò, come restio, ma in quel momento giunse la voce di Roddy. «Dai, non puoi far niente per la mano.»
«Basta, adesso, giocare all'infermiera con questo delinquente» aggiunse Brinkman.
Quell'intervento bastò a convincerlo. Con chiara aria di sfida sollevò la mano offesa.
Gabrielle si spostò di nuovo in modo che i due agenti non vedessero quel che stava facendo, frugò nella cassetta del pronto soccorso, ne prese due compresse di Tylenol e le posò sul palmo di Tucker.
Tanti saluti al regolamento. L'avevano infranto tutti, quel giorno.
«Adesso veda di riposare» mormorò prima di uscire.
«È andato tutto bene?» chiese Gabrielle entrando nella sua comoda casa mobile e lasciando che la porta si richiudesse da sola.
«Magnificamente» rispose Felicia. La babysitter diciottenne era seduta sul divano, occupata a passarsi lo smalto blu sulle unghie dei piedi e la figlia di Gabrielle, Allie, tredici mesi, si aggirava per la stanza aggrappandosi ai mobili: quando vide la mamma fece un largo sorriso che rivelò due dentini nuovi.
«Ciao, piccola» disse Gabrielle prendendola in braccio. «Mi sei mancata moltissimo.»
«Tutto bene?» domandò a sua volta Felicia richiudendo la bottiglietta dello smalto.
«Sì, grazie.»
«Hai l'aria un po'... non saprei, agitata.»
«Perché sono stata trattenuta e volevo rientrare in fretta nel caso che tu avessi degli impegni.»
«No, nessun impegno. Non è poi tanto tardi, solo le quattro e qualcosa. E Allie si trova bene con me, lo sai.» Sorrise alla bambina e Gabrielle notò che anche lei aveva le unghie smaltate di blu.
«Sì, ti adora. E tu sei proprio bravissima con lei, non hai idea di quanto ti sia grata.»
La ragazza alzò le spalle. «È che andiamo d'accordo, siamo amiche.»
Gabrielle si sottrasse alle ditina grassocce di Allie che si allungavano verso gli orecchini messi appena uscita dal penitenziario: a volte aveva bisogno di rammentarsi che era ancora una donna e che viveva nel mondo che aveva sempre conosciuto. «Vorrei essere in grado di pagarti di più...»
«Mi dai abbastanza. E, se va avanti così, tra qualche settimana probabilmente sarò disposta a stare con lei anche gratis. Una bimba così brava, vero, Allie?»
La piccola gorgogliò e Felicia si rimise in piedi. «Scusami tanto se non trovi la cena pronta, ma giocavamo. Ti do una mano a cucinare?»
Gabrielle lasciò la borsa su un tavolino. «Non preoccuparti, far da mangiare non è nei tuoi compiti. Fammi compagnia e raccontami cos'avete fatto oggi.» Passò in cucina reggendo Allie contro il fianco.
Felicia la seguì e cominciò a lavare un poppatoio vuoto rimasto sul ripiano mentre Gabrielle guardava negli armadietti. «Questa mattina siamo andate a fare una passeggiata, prima che facesse troppo caldo. E dopo Allie ha sguazzato un po' nella piscinetta... si diverte da matti quando la spruzzo d'acqua, dovresti sentire come ride.»
Gabrielle meditò sulla confezione di tagliolini in brodo pensando che avrebbe preferito un'insalata mista. Ma non aveva abbastanza verdure fresche in casa e quindi bisognava accontentarsi. «Stare a mollo le è sempre piaciuto molto... sarebbe dovuta nascere pesce» commentò. «Ha fatto il sonnellino?»
«Un'ora stamattina e un'ora e mezzo nel pomeriggio.»
«Ma che brava!» Gabrielle baciò la figlia sulla testolina mentre cominciava a esaminare il contenuto del freezer.
«Contavo di portarla ancora a spasso, ma faceva troppo caldo» aggiunse Felicia.
Gabrielle notò il ronzio del condizionatore: probabilmente era rimasto acceso tutto il giorno. Rabbrividì al pensiero della prossima bolletta. «In agosto, e nel deserto dell'Arizona, non c'è molta speranza di avere un po' di fresco.»
«Già. I miei non ne possono più. Stanno pensando di trasferirsi nell'Idaho» disse Felicia mettendo a sgocciolare il poppatoio.
Gabrielle provò una fitta d'ansia e interruppe per un momento le ricerche. «Però l'inverno compensa ampiamente la calura estiva. Abbiamo mesi filati di tempo splendido.»
«Lo so. Dopo aver passato qui quasi tutta la vita non sono entusiasti all'idea di avere a che fare con la neve, ma hanno una gran voglia di andare a stare dove c'è il verde, tanto per cambiare.»
Sebbene fino ai sette anni avesse abitato nelle vicinanze di Phoenix, Gabrielle si era poi trasferita sulla costa dell'Oregon con la famiglia adottiva e conosceva benissimo il verde. Aveva incontrato il padre di Allie quando faceva la cameriera a Portland, ma dopo qualche anno di matrimonio aveva chiesto a David di riportarla nella regione arida e calda della sua infanzia, rinunciando alle morbide colline brumose, le foreste e le valli pittoresche dell'Oregon per l'aspra, dura bellezza del deserto.
David conosceva già la zona perché i suoi trascorrevano sempre l'inverno a Phoenix, e così aveva acconsentito volentieri. Era una città in crescita, con una buona economia, ed era un posto adatto per aprire un'agenzia di crediti ipotecari. Infatti era andata molto bene, fin dall'inizio. Cinque anni prima anche l'unico fratello di David si era trasferito in Arizona, così per la maggior parte dell'anno l'intera famiglia abitava nella valle.
Gabrielle non aveva parenti. I genitori adottivi e le loro due figlie erano rimasti nell'Oregon, ma lei non li rimpiangeva. Mantenevano dei blandi contatti ma in realtà l'avevano sempre trattata come un'ospite più che come un membro della famiglia. Non c'era un particolare legame affettivo.
«Tu andresti via con loro?» chiese a Felicia.
Stava finalmente costruendosi un'indipendenza. Si era trasferita abbastanza lontano da David da non potersi appoggiare troppo a lui. Aveva trovato un lavoro stabile, la persona adatta ad accudire Allie, e stava appena cominciando a trovare se stessa, a decidere chi e cosa voleva essere. Perdere Felicia adesso sarebbe stata una vera disdetta.
La ragazza appoggiò un fianco al piano di lavoro, intrecciando le braccia mentre Gabrielle pescava un sacchetto di piselli surgelati.
«No, rimarrei. Qui ho tutti i miei amici» rispose. «Andrei a stare dai miei cugini. Però non credo che i miei si trasferiranno davvero. Parlano dell'Idaho ogni volta che arriva una tempesta.»
Gabrielle tirò un respiro di sollievo. Depositò la confezione di piselli sul banco e prese due tegami da un armadietto. Tutti gli anni, in agosto, le tempeste di sabbia colpivano l'Arizona: si creavano all'improvviso, spesso accompagnate da tuoni e scrosci di pioggia. Una volta c'era stato un tornado che aveva spezzato alcuni grossi rami del vecchio olivo che Gabrielle e David avevano nel giardino dietro casa, a Phoenix, e li aveva scaricati nella piscina insieme a un cumulo di terriccio e foglie. Ma quelle perturbazioni erano così drammatiche e venivano a interrompere così repentinamente la costante calura che a lei addirittura piacevano. «L'ultima è stata piuttosto violenta» riconobbe.
«Per questo hanno riattaccato con la storia dell'Idaho.»
«Be', mi auguro che si limitino a parlarne. In ogni caso mi fa piacere sapere che rimarresti qui.» Gabrielle accennò alla cucina perfettamente in ordine. «A proposito, grazie di aver fatto le pulizie.»
Felicia si guardò attorno e sorrise, soddisfatta della propria opera. «Già. Ho lasciato aperto l'ultimo cassetto, quello dove tieni i contenitori di plastica per il frigo e i vari misurini, e Allie si è divertita a tirarli fuori mentre facevo ordine. Ha giocato per una mezz'ora buona senza nemmeno fiatare.» Diede un'occhiata all'orologio. «Be', meglio che vada, adesso. Ho un appuntamento, più tardi. Ci vediamo di nuovo alle quattro e mezzo, domattina?»
«Sì, grazie. Devo essere al lavoro alle cinque.» Tra meno di dodici ore. Il pensiero di tornare al penitenziario così presto la dava una certa angoscia.
Si disse che domani era un altro giorno e passò con Felicia nel soggiorno, dove la ragazza si infilò i sandali e raccolse la borsa.
«Arrivederci.» Felicia le diede un rapido bacio sulla guancia e uscì in fretta.
«Divertiti» le augurò Gabrielle mentre la porta si richiudeva. Adesso lei e Allie erano da sole, con tutta la sera a disposizione e niente di particolare da fare.
«Hai fame, piccola?»
Allie tentò di nuovo di agguantarle un orecchino e Gabrielle le fermò la mano giusto in tempo.
«Io dico che è un sì.» Ma prima che potesse tornare ai preparativi della cena, il telefono squillò.
«Gabby? Sono io, David.»
Il suo ex-marito. Gabrielle sorrise. Loro due non funzionavano come coniugi, lei non lo amava nel modo giusto, ma erano ottimi amici. «Pare che tu sappia sempre quando ho bisogno di te. Come va?»
«Bene. Sono molto preso. È successo qualcosa? Giornata difficile?»
Gabrielle esitò. A David non era mai piaciuta l'idea che lei lasciasse Phoenix per andare a stare a Florence, a più di un'ora e mezzo d'auto, in direzione sud-est. E ancor meno l'idea che facesse l'agente di custodia. Pochi uomini l'avrebbero considerata una scelta felice per la madre dei loro figli. Ma in realtà lui non capiva cosa lei volesse, perché sentisse la necessità di essere autonoma e indipendente, e come mai quella regione desolata l'attirasse tanto.
«Avanti» riprese lui. «Non farò commenti. Hai già sentito tutto quello che avevo da dire riguardo alla tua attività.»
Gabrielle diede un giocattolo ad Allie, la depose in mezzo alla stanza e si sedette sul divano. Di solito raccontava tutto a David: tacere adesso significava solo rimandare l'inevitabile. Ma quando ebbe terminato di riferire gli avvenimenti di quel giorno, lui non reagì come si aspettava. All'altro capo della linea ci fu un totale silenzio.
«David? Hai detto che non avresti fatto commenti, ma non credevo che lo intendessi così alla lettera.»
«Sto riflettendo» rispose lui. «E cerco di respingere il mio primo impulso, ossia supplicarti di levare le tende da lì alla svelta e tornare a Phoenix.»
«Non posso, lo sai. Sono venuta qui per un motivo preciso.»
«E hai fatto qualcosa in proposito? Hai almeno parlato con tua madre?»
Lei chiuse gli occhi. Erano argomenti che non voleva toccare. «No, non ancora.»
«Gabby, l'investigatore l'ha rintracciata da settimane. Quanto ci metterai a raccogliere il coraggio di dirle che sei lì?»
«Non lo so. Prima o poi lo farò. Non è una cosa facile, David. Mi ha abbandonata quando avevo tre anni.»
«Lo so che è stato traumatico, ma dopotutto nel giro di pochi mesi sei stata adottata da bravissime persone.»
Gabrielle non aveva motivi concreti per lamentarsi dei Patterson. Phil e Penny, i genitori adottivi, avevano un bar molto frequentato nella zona del porto, a Newport, Oregon, e avevano provveduto alle sue necessità, non l'avevano mai picchiata né trascurata. Solo che non l'avevano mai considerata veramente come una figlia. Adoravano le loro due gemelline che avevano solo diciotto mesi più di Gabrielle, e la naturale affinità tra Tiffany e Cher l'aveva sempre fatta sentire un'aggiunta indesiderata. Era come se l'intera famiglia tollerasse la sua presenza, ma niente di più. Soprattutto quando era arrivata all'adolescenza e alla fase della ribellione. Allora aveva sentito che la capacità di sopportazione dei Patterson aveva ben precisi limiti. L'avevano adottata per compiere una buona azione ed era inconcepibile che lei procurasse loro dei grattacapi.
Ma questo non era certo nelle intenzioni di Gabrielle. Lei cercava solo uno spazio dove sentirsi integrata.
«Non era la stessa cosa» mormorò, sapendo per esperienza quanto era difficile descrivere la sottile differenza nell'atteggiamento dei Patterson verso di lei e quello che avevano con le vere figlie. David li aveva incontrati alcune volte e non aveva trovato nulla da ridire. Erano andati al loro matrimonio e si erano mostrati cortesi, lieti che lei si sistemasse, ma non avevano contribuito alle spese e David non aveva avuto occasione di conoscerli bene. In seguito Gabrielle aveva partecipato alle nozze di Tiffany, ma in quel periodo David era stato molto preso dal lavoro e lei si era presentata da sola tornando il giorno dopo.
«È acqua passata, Gabby» fece notare lui. «Devi darci un taglio.»
«Sì, quando ne sarò in grado.»
«Allora vai a presentarti alla tua madre naturale, se è questo che ci vuole.»
«Lo farò. Ancora non me la sento, chiaro? Non ho mai conosciuto mio padre... non c'era quando ero piccola, e quindi c'è solo lei... che ovviamente non desiderava che le complicassi la vita, venticinque anni fa. E probabilmente non desidera che gliela complichi adesso.»
«Non voglio sembrarti duro, ma se non le interessa conoscerti... peggio per lei. Affronta la cosa e falla finita. Così dopo potrai mollare Florence e quel dannato penitenziario, e tornare a Phoenix dove...»
«David, io non intendo tornare» l'interruppe. «Lo sai. Voglio restare qui, almeno per ora. Desidero costruirmi una vita mia e vedere dove mi porta. Inoltre qui a Florence potrei avere delle sorelle, zii, zie... Non sai quel può significare per una persona che non ha mai sentito di avere dei legami familiari.»
«Scusami» sospirò lui. «Non desidero mettermi a discutere. Io sono cresciuto con i miei e quindi non posso sapere cosa si prova a essere adottati, come te. So solo che non mi piace avervi così lontane. Non mi piace che tu faccia un lavoro così pericoloso. E...»
«Siamo a meno di due ore di macchina, non è poi tanto lontano. Il mio è un lavoro normalissimo, ci sono migliaia di persone a svolgerlo. Qualcuno deve pur farlo. Inoltre mi pareva che tu non volessi discutere.»
«Infatti.»
«Allora lascia perdere, okay?»
Un silenzio. Poi: «Cosa conti di fare? Circa la faccenda del carcere, intendo».
Gabrielle sciolse la coda di cavallo e si passò una mano tra i capelli. «Sto pensando di riferire al direttore.»
«Quel che temevo. Perché non denunci la cosa al superiore diretto di Hansen?»
«Risalire la scala gerarchica potrebbe richiedere mesi e Tucker ha bisogno di un intervento immediato. Crumb, il direttore, segue una linea molto aperta e secondo me va informato di quel che succede. Non si tratta solo di Tucker. Un giorno o l'altro Crumb potrebbe vedersi presentare gravi accuse di corruzione a carico degli agenti di custodia e io vorrei cercare di risolvere la cosa prima di essere coinvolta in una brutta storia del genere.»
«Senti, io sto pensando a te e non mi va che ti presenti dal direttore, anche se lui è disposto a riceverti. E se quell'Hansen nega tutto? Non credi che tutti gli altri lo spalleggerebbero, dato che sono colpevoli anche loro? Saresti tu contro tutti. Neanche Randall Tucker potrebbe confermare la tua versione. Un assassino condannato all'ergastolo non gode di molta credibilità.»
«Ma non posso lasciare che le cose vadano avanti così. Non è giusto. Tucker è stato gravemente ferito. Poteva lasciarci la vita.»
«Non credo che Hansen avrebbe permesso che si arrivasse a tanto.»
«E quindi va bene così? Tucker lo ha accusato di congegnare le aggressioni. Ci manca solo l'allibratore.»
«Sì, capisco. Ma tu sei appena arrivata, là dentro. Non sai ancora come funzionano le cose. Perché non te ne stai quieta per un po' a vedere quel che succede? Magari si trattava di una questione personale tra Hansen e Tucker. E adesso che quest'ultimo ha avuto una lezione la faccenda è chiusa. Per quel che ne sai, il tipo poteva meritarsela.»
«Non abbiamo il diritto di giudicare.»
«D'accordo, non farlo. Ti dico solo di aspettare una settimana o due, e vedere come stanno le cose» insistette David. «Fallo per Allie se non per me.»
«Tu e Allie siete le uniche ragioni per cui non mi sono presentata dal direttore oggi stesso.»
«Grazie al cielo» borbottò lui. «Non vorrai metterti contro tutti quanti fin dai primi giorni, no? Hai ricevuto il mio assegno per la bambina?»
«Sì, ma è più di quanto stabilito.»
«Non voglio che mangi tutti i giorni roba in scatola.»
«Non sei responsabile di me.»
«Me l'avresti rimandato se avessi ritenuto che quei quattrini mi servivano.»
Questo era vero. «Adesso ho uno stipendio. Perché pensi che abbia bisogno di soldi?»
«Perché ti ho dato una mano a sistemarti in quel catorcio che chiami casa mobile.»
David non aveva tutti i torti: era un arnese che aveva compiuto i diciannove anni, con una ruvida moquette marrone, pannelli in finto legno e arredamento raccogliticcio, scompagnato. Una modesta tenda riparava la Honda Accord bianca mentre diversi cactus punteggiavano il terreno desertico su cui si stendeva il campo di case mobili. Un'abitazione che non aveva molti punti a favore ma costava poco, era pulita e Gabrielle poteva considerarla sua.
«Sì, lo so. Ma ci servirà solo finché potrò permettermi qualcosa di meglio.»
«Mi spiace averti trascurata un po'.»
«Niente di male. Non puoi certo stabilire tu le date dei decessi in famiglia. Mi spiace per tua nonna, so che le eri molto affezionato.»
«Una donna straordinaria, sì. Però non avrei mai immaginato che ci sarebbe voluto tanto per risolvere le questioni pratiche. Mi pare di essere rimasto via mesi invece che settimane.»
«Come va l'agenzia, adesso che sei tornato dal Michigan?»
«Un po' a rilento, ma ho una nuova assistente che si occupa dei rifinanziamenti.»
«Mi auguro che i tassi di interesse restino contenuti.»
«Per parte mia, tutte le sere prego le divinità dei tassi di interesse. Come va Allie?»
«Allegra, grassoccia. Certe volte la guardo e mi dico che non potrei mai amare qualcun altro quanto lei.»
David non disse nulla e Gabrielle temette di averlo ferito. «Non intendevo...»
«No, certo. Abbiamo già scavato nella faccenda. Mi vuoi molto bene ma non mi ami, come se io potessi afferrare la differenza.»
«David, tu sei il mio migliore amico. Non ho mai voluto farti soffrire.»
«Lo so.» Si schiarì la voce. «Allie ha imparato a camminare?»
«Quasi. Se ne va attorno afferrandosi a quel che capita. Quando verrai a trovarci?» Per legge, David aveva diritto di far visita alla figlia nei fine settimana e in occasione delle festività, ma Allie era ancora così piccola che di rado lui la portava a casa sua. Anche quando loro due erano semplicemente separati e Gabrielle stava in un appartamentino a Mesa, David abitualmente passava i weekend da lei, dove potevano stare tutti e tre insieme.
«Ho parecchio da fare qui in ufficio e in questo weekend avrei intenzione di recuperare il tempo perduto. Potrei venire lunedì. Ti va bene?»
Cinque giorni parevano un'eternità. A Gabrielle venne la tentazione di dire no. Era tutto più facile quando lui era presente, ma non poteva sfruttarlo. David aveva bisogno di staccarsi da lei e trovare un'altra compagna, una donna che sapesse essere la moglie e l'amante che lui meritava.
«Lunedì va benissimo, solo che io sono al lavoro.»
«Ma finisci il turno alle tre, no? Posso arrivare domenica sul tardi, dormire lì e occuparmi di Allie mentre tu sei via, il lunedì. Poi vi porto fuori a cena..»
La marmocchia cominciò a dare chiari segni di voler essere presa in braccio. «Magnifico» rispose Gabrielle.
«Ora stattene tranquilla, lascia che Hansen e gli altri facciano come vogliono e non correre altri rischi inutili. Intesi?»
Gabrielle sottrasse ad Allie il filo del telefono ma la piccola lo riagguantò cacciandoselo in bocca. «Vedremo.»
«Non mi sembri molto convinta.»
Lei ripensò alla mano fratturata di Randall Tucker. Non poteva promettere nulla: erano indispensabili una radiografia e un'ingessatura. E dei punti di sutura a quello squarcio sulla fronte. E l'unico modo per ottenerli era scavalcare Hansen.
Ma... Crumb le avrebbe dato retta? O ne sarebbe venuto fuori un putiferio?
«Ci rifletterò per un paio di giorni» disse. «Magari Hansen si darà una ridimensionata.»
«Sì, può darsi.» Ma neanche David aveva un tono molto convinto. «Ti chiamo domani.»
Gabrielle salutò e depose il ricevitore ma i suoi pensieri non restarono con David: rivedeva Randall Tucker. Intelligente, evidentemente dotato di una certa cultura, padrone di sé. Così diverso da un normale detenuto.
La gelosia poteva spingere al delitto un individuo del genere?