6
GIUGNO 1914
All"inizio di giugno Grigorij Peskov aveva finalmente messo insieme il denaro sufficiente per il viaggio a New York. La famiglia Vyalov di San Pietroburgo gli vendette il biglietto e i documenti necessari per immigrare negli Stati Uniti, compresa la lettera di Mr Josef Vyalov di Buffalo che gli prometteva un lavoro.
Grigorij baciò il biglietto. Non vedeva l"ora. Era come un sogno e temeva di svegliarsi prima che la nave salpasse. Ora che la partenza era vicina, pregustava ancora di più il momento in cui dal ponte di coperta avrebbe guardato la Russia scomparire all"orizzonte, uscendo per sempre dalla sua vita.
La sera prima della partenza i suoi amici organizzarono una festa da Miska, un bar vicino alle officine Putilov. Vi partecipò una decina di compagni di lavoro, per la maggior parte membri del gruppo di discussione bolscevico sul socialismo e l"ateismo, e le ragazze della casa in cui vivevano Grigorij e Lev. Erano tutti in sciopero – come metà delle fabbriche di San Pietroburgo -, così non disponevano di molto denaro, ma fecero una colletta per comprare un fusto di birra e un po" di aringhe. Nella tiepida serata estiva, si misero a sedere sulle panche in uno spiazzo di terra battuta accanto al bar.
Grigorij non impazziva per le feste e avrebbe preferito trascorrere la serata giocando a scacchi. L"alcol obnubilava la mente, e fare lo stupido con le mogli e le ragazze degli altri gli pareva una cosa insensata. L"amico Konstantin dalla chioma selvaggia, coordinatore del gruppo di discussione, ebbe uno scambio di idee sullo sciopero con l"aggressivo Isaac, il calciatore, e volarono parole grosse. Varja, la corpulenta madre di Konstantin, dopo aver bevuto quasi una bottiglia intera di vodka allungò un pugno al marito prima di perdere i sensi. Lev arrivò con una marea di amici – ragazzi che Grigorij non conosceva e fanciulle che non gli interessava conoscere -, che bevvero tutta la birra senza tirare fuori un soldo.
Grigorij passò la serata a guardare afflitto Katerina. Lei era molto allegra perché adorava le feste. Si muoveva di qua e di là facendo volteggiare la lunga gonna; con i ridenti occhi verdazzurri e la grande bocca sempre dischiusa in un generoso sorriso, stuzzicava gli uomini e affascinava le donne. I suoi vestiti erano vecchi e rattoppati, ma con il seno florido e i fianchi larghi aveva quel genere di corpo che faceva impazzire gli uomini russi. Grigorij si era innamorato di lei il giorno in cui l"aveva conosciuta e lo era ancora quattro mesi dopo. Ma Katerina preferiva suo fratello.
Perché? Non era una questione di aspetto fisico: i due fratelli si somigliavano al punto che la gente a volte non li distingueva. Stessa altezza, stesso peso, potevano scambiarsi i vestiti. Ma Lev aveva fascino da vendere. Irresponsabile ed egoista, viveva al limite della legalità, eppure le donne lo adoravano. Grigorij era onesto, affidabile, un gran lavoratore e una persona assennata; ed era solo.
Negli Stati Uniti sarebbe stato diverso, come tutto il resto. I proprietari terrieri non erano autorizzati a impiccare i loro contadini e la polizia non poteva punire la gente senza un regolare processo. Addirittura, il governo di solito non incarcerava i socialisti. La nobiltà non c"era: tutti venivano considerati uguali, persino gli ebrei.
Ma esisteva davvero l"America? A volte gli sembrava quasi una favola, come quelle che si raccontavano sulle isole dei mari del Sud, dove bellissime fanciulle offrivano il loro corpo a chiunque lo desiderasse. Invece no, doveva essere tutto vero, perché così scrivevano a casa migliaia di emigrati. In fabbrica, un gruppo di socialisti rivoluzionari aveva organizzato una serie di conferenze sulla democrazia americana, che era stata interrotta per ordine della polizia.
Grigorij si sentiva in colpa a lasciare il fratello, ma era la soluzione migliore.
«Bada a te stesso» gli disse verso la fine della serata. «Non ci sarò più io a tirarti fuori dai guai.»
«Me la caverò benissimo» replicò Lev con noncuranza. «Sei tu che devi badare a te stesso.»
«Ti manderò i soldi per il biglietto. Non ci vorrà molto, visti i salari americani.»
«Aspetterò.»
«Non cambiare casa, se no rischiamo di perdere i contatti.»
«Non andrò da nessuna parte, fratellone.»
Non avevano discusso se Katerina sarebbe andata anche lei in America. Grigorij aveva atteso invano che il fratello sollevasse l"argomento. Non sapeva se sperare o temere che se la portasse dietro.
Lev prese Katerina per un braccio e disse: «Noi adesso dobbiamo andare».
Grigorij si sorprese. «Dove andate a quest"ora?»
«Devo vedere Trofim.»
Trofim era un membro marginale della famiglia Vyalov. «Come mai proprio stanotte?»
Lev gli strizzò l"occhio. «Non ti preoccupare, torneremo prima di domattina e avremo tutto il tempo per accompagnarti all"isola di Gutujevskij.» Era là che attraccavano i transatlantici.
«Va bene» disse Grigorij. «Ma non metterti nei pasticci» aggiunse, pur sapendo che era una raccomandazione inutile.
Lev lo salutò allegro con la mano e scomparve.
Verso mezzanotte Grigorij cominciò a congedarsi dagli amici. Molti piansero, ma lui non sapeva se per il dispiacere o a causa dell"alcol. Tornò a casa con alcune ragazze, che lo baciarono in corridoio, quindi entrò nella sua stanza.
Aveva preparato sul tavolo la valigia di cartone di seconda mano, mezza vuota malgrado fosse piccola; conteneva unicamente le camicie, la biancheria e la scacchiera. Grigorij possedeva solo un paio di scarponi. Non aveva accumulato granché nei nove anni trascorsi da quando la madre era morta.
Prima di andare a letto guardò nell"armadio dove Lev teneva la pistola, una Nagant M1895 di fabbricazione belga. Con un tuffo al cuore vide che non era al solito posto.
Tolse il gancio alla finestra in modo da non doversi alzare per aprirgli, al suo rientro.
Si sdraiò sul letto ad ascoltare lo sferragliare familiare dei treni di passaggio e pensò a come sarebbe stato a più di seimila chilometri di distanza. Viveva con Lev da sempre e gli aveva fatto da madre e da padre. Dal giorno successivo non avrebbe più saputo se lui stava fuori tutta la notte o se si portava dietro la pistola. Sarebbe stato un sollievo o una preoccupazione ancora maggiore?
Si svegliò come sempre alle cinque. La nave salpava alle otto e il molo era a un"ora di distanza a piedi. Aveva un sacco di tempo.
Lev non era tornato.
Si lavò le mani e la faccia, poi, guardandosi in una scheggia di specchio, spuntò baffi e barba con un paio di forbici da cucina. Quindi indossò il vestito buono. L"altro lo avrebbe lasciato al fratello.
Mentre scaldava la pentola con la farinata d"avena, udì bussare forte al portone di casa.
Immaginò subito che fossero brutte notizie. Gli amici chiamavano dalla strada; solo i poliziotti bussavano per farsi aprire. S"infilò il berretto, uscì in corridoio e guardò in fondo alle scale. La padrona di casa stava facendo entrare due uomini con l"uniforme nera e verde della polizia. Osservando con maggiore attenzione, Grigorij riconobbe la faccia da luna piena di Michail Pinskij e la piccola testa da ratto del suo sottoposto, Ilja Kozlov.
Ovviamente qualcuno che abitava lì era sospettato di aver commesso un reato, rifletté in fretta. Il colpevole più probabile era Lev. Che fosse lui o chiunque altro, tutti sarebbero stati interrogati. I due agenti si sarebbero ricordati dell"incidente di febbraio, quando Grigorij aveva salvato Katerina dalle loro grinfie, e avrebbero approfittato dell"occasione per arrestarlo.
E lui avrebbe perso la nave.
Quel pensiero spaventoso lo paralizzò. Perdere la nave! Dopo tutti quei risparmi, le speranze, l"attesa di quel giorno. “No” si disse. “Non succederà.” Si ritrasse di scatto mentre i due poliziotti cominciavano a salire le scale. Non sarebbe servito a niente supplicarli; anzi, semmai il contrario: se Pinskij scopriva che lui stava per emigrare, avrebbe provato ancora più gusto nel metterlo in prigione. Non c"era neppure la possibilità di restituire il biglietto e riavere indietro i soldi. Anni di risparmi sprecati.
Doveva fuggire.
Si guardò attorno freneticamente; la piccola stanza aveva una porta e una finestra.
Doveva uscire da dove Lev rientrava la notte. Guardò fuori: il cortile sul retro era libero. I poliziotti di San Pietroburgo erano brutali, ma non brillavano certo per intelligenza, e infatti a Pinskij e Kozlov non era venuto in mente di sorvegliare il retro della casa. Forse sapevano che nel cortile non c"erano uscite, a meno di attraversare la ferrovia… Ma un binario non era certo Una barriera insormontabile per un uomo disperato.
Dalla stanza delle ragazze provenivano urla e strepiti. La polizia era passata prima da loro.
Si tastò la giacca sul petto: biglietto, documenti e denaro erano nella tasca interna; tutto il resto dei suoi averi si trovava già dentro la valigia di cartone.
Si sporse il più possibile dalla finestra, sollevò sulla testa la valigia e la lanciò lontano. Atterrò di piatto; non sembrava danneggiata.
La porta della camera si spalancò all"improvviso.
Grigorij mise le gambe fuori dalla finestra, rimase seduto sul davanzale per una frazione di secondo, poi saltò sul tetto del lavatoio. I suoi piedi slittarono sulle tegole e lui cadde pesantemente sul sedere. Si lasciò scivolare lungo il tetto spiovente fino alla grondaia. Udì gridare alle sue spalle, ma non guardò indietro. Fece un salto e atterrò illeso.
Raccolse la valigia e si mise a correre.
Sentì uno sparo e, per lo spavento, cominciò a correre ancora più veloce. Di norma i poliziotti non riuscivano a colpire il Palazzo d"Inverno a tre metri di distanza, ma poteva capitare di avere miglior sorte. Si arrampicò su per la massicciata della ferrovia, consapevole che più saliva all"altezza della finestra, più diventava un bersaglio facile. Udì il caratteristico sferragliare ansimante della locomotiva e guardò alla sua destra: un treno merci si stava avvicinando a tutta velocità. Un altro sparo.
Sentì un tonfo sordo da qualche parte vicino a lui, ma non provò dolore e pensò che la pallottola avesse centrato la valigia. Raggiunse la cima della massicciata; in quel momento – lo sapeva bene – il suo corpo si stagliava nitido contro il cielo del mattino. Il treno era a qualche metro di distanza; fischiò forte e a lungo. Partì un terzo sparo. Grigorij si buttò dall"altra parte del binario appena prima che passasse la locomotiva, che lo superò ululando in un fragore di ruote d"acciaio su rotaie d"acciaio; il vapore rimase sospeso nell"aria mentre il fischio si dileguava.
Grigorij balzò in piedi; ora il treno carico di carbone lo riparava dai colpi di pistola. Attraversò altri binari e discese la massicciata al passaggio degli ultimi vagoni. Superato il cortile di una piccola fabbrica, si ritrovò in strada.
Guardò la valigia: su uno spigolo c"era il buco di un proiettile. L"aveva scampata bella.
Mentre camminava spedito, con il fiato corto, si chiese quale sarebbe stata la sua mossa successiva. Ora che era salvo, almeno per il momento, cominciò a preoccuparsi per il fratello. Doveva sapere se era nei guai e, se sì, di che genere.
Decise di cominciare dall"ultimo posto in cui l"aveva visto, e cioè da Miška.
Si diresse verso il bar con il timore di essere individuato. Sarebbe stata una vera sfortuna, ma non era impossibile. Magari in quel momento Pinskij stava girando per le strade. Si calcò il berretto sulla fronte, pur non illudendosi di poter nascondere in quel modo la sua fisionomia. Si imbatté in alcuni operai diretti ai moli e si unì a loro, ma con la valigia era chiaro che non apparteneva al gruppo.
Ciò nonostante arrivò da Miška senza intoppi. Il bar, arredato con panche e tavoli di legno fatti in casa, puzzava della birra e del fumo della sera precedente. Al mattino Miška serviva pane e tè alla gente che a casa non aveva modo di prepararsi la colazione, ma gli affari erano scarsi a causa dello sciopero e il locale era quasi vuoto.
Grigorij stava per chiedere a Miška se sapeva dove fosse andato Lev la sera prima quando vide Katerina. Dall"aspetto, sembrava che avesse passato la notte in piedi. Gli occhi chiari erano arrossati, i capelli spettinati, la gonna stropicciata e macchiata. Era visibilmente angosciata, con le mani tremanti e le guance sudicie rigate di lacrime.
Eppure a Grigorij sembrò ancora più bella ed ebbe l"impulso di stringerla fra le braccia per consolarla. Ma non poteva, perciò si limitò a chiederle: «Cos"è successo?
Cos"hai?».
«Grazie a Dio sei qui» disse lei. «La polizia sta cercando Lev.»
Grigorij emise un gemito. Quindi era davvero suo fratello a essere nei pasticci, e proprio quel giorno, fra tutti. «Cos"ha combinato?» Non gli venne neppure in mente che il fratello potesse essere innocente.
«La notte scorsa è successo un pasticcio. Dovevamo scaricare delle sigarette da una chiatta.» “Sigarette rubate” dedusse Grigorij. «Lev le aveva pagate, ma poi quello della chiatta ha detto che i soldi non bastavano e hanno iniziato a litigare. Qualcuno si è messo a sparare. Lev ha risposto al fuoco, poi siamo scappati.»
«Grazie al cielo nessuno di voi due si è fatto male!»
«Adesso non abbiamo le sigarette e neppure i soldi.»
«Che guaio.» Grigorij guardò l"orologio sopra il bancone: le sei e un quarto. Aveva ancora un sacco di tempo. «Sediamoci. Vuoi un tè?» Chiamò Miska con un cenno e ordinò due bicchieri di tè.
«Grazie» rispose Katerina. «Lev pensa che uno dei feriti abbia raccontato tutto alla polizia. E ora lo stanno cercando.»
«E tu?»
«Io sono al sicuro… nessuno sa come mi chiamo.»
Grigorij annuì. «Allora bisogna tenere Lev lontano dalle grinfie della polizia. Non deve farsi vedere per almeno una settimana e poi se ne andrà di nascosto da San Pietroburgo.»
«Non ha un soldo.»
«Ovviamente.» Lev non aveva mai denaro per le cose essenziali, però riusciva sempre a comprare da bere, fare scommesse e intrattenere le ragazze. «Posso dargli io qualcosa.» Grigorij avrebbe dovuto intaccare il denaro risparmiato per il viaggio.
«Dov"è?»
«Ha detto che ti avrebbe incontrato alla nave.»
Miška portò il tè. Grigorij si accorse di avere fame – aveva lasciato la farinata d"avena sul fornello – e ordinò una zuppa.
«Quanto puoi dare a Lev?» si informò Katerina.
Lo fissava seria: con quell"espressione avrebbe potuto chiedergli qualsiasi cosa.
Grigorij distolse lo sguardo. «Tutto quello che gli serve» rispose.
«Come sei buono.»
Si strinse nelle spalle. «È mio fratello.»
«Grazie.»
La sua gratitudine gli faceva molto piacere, ma nello stesso tempo lo imbarazzava.
Arrivò la zuppa e cominciò a mangiare,
contento del diversivo. Con qualcosa di caldo in corpo, si sentì più ottimista. Lev si ficcava sempre nei guai e ogni volta se la cavava: avrebbe superato indenne anche quella difficoltà. Non era necessario che lui rinunciasse al suo viaggio.
Katerina lo osservava sorseggiando il tè. Non aveva più lo sguardo angosciato.
“Lev ti mette in situazioni pericolose” pensò Grigorij. “Io vengo a salvarti, eppure tu preferisci lui.”
Lev a quel punto doveva già essere al molo ad aspettarlo nascosto dietro una gru e probabilmente si stava guardando attorno con il terrore di scorgere i poliziotti.
Bisognava che Grigorij si avviasse. Ma non avrebbe più rivisto Katerina e non sopportava l"idea di dirle addio per sempre.
Finì la zuppa e guardò l"ora. Erano quasi le sette. Rischiava di arrivare in ritardo.
«Devo andare» annunciò, riluttante.
Katerina lo accompagnò alla porta. «Non essere troppo duro con Lev.»
«Lo sono mai stato?»
Lei gli posò le mani sulle spalle, si alzò in punta di piedi e gli sfiorò le labbra con un bacio. «Buona fortuna.»
Grigorij si allontanò.
Percorse a passo spedito le strade della periferia sudovest di San Pietroburgo, una zona industriale di depositi, fabbriche, cantieri di stoccaggio, rioni sovraffollati e fatiscenti. La disonorevole voglia di piangere gli passò dopo qualche minuto. Si teneva sul lato in ombra, con il berretto calcato e la testa bassa, ed evitava gli spazi aperti. Se Pinskij aveva fatto circolare la descrizione di Lev, era possibile che un poliziotto all"erta arrestasse lui.
Invece, riuscì a raggiungere il molo senza essere individuato. La sua nave, l"Angelo Gabriele, era una piccola imbarcazione arrugginita per il trasporto di merci e passeggeri. In quel momento venivano caricate a bordo robuste casse di legno contrassegnate dal nome del più grande commerciante di pelli della città. Mentre lui stava a guardare, l"ultima cassa finì nella stiva e i marinai chiusero il portellone.
Una famiglia di ebrei stava mostrando i biglietti in cima alla passerella. Secondo l"esperienza di Grigorij, tutti gli ebrei volevano andare in America. Avevano persino più ragioni di lui. In Russia, la legge impediva loro di possedere terra, entrare nella pubblica amministrazione o fare camera nell"esercito e poneva un"infinità di altri divieti. Non potevano abitare dove volevano e avevano accesso limitato all"università. Era un miracolo che qualcuno fosse in grado di guadagnarsi da vivere. Se, contro ogni aspettativa, riuscivano a prosperare, la folla – di solito istigata da poliziotti come Pinskij – non impiegava molto ad attaccarli e picchiarli: le famiglie venivano terrorizzate, le vedove malmenate, le proprietà date alle fiamme. C"era da sorprendersi che qualcuno fosse rimasto.
La sirena della nave diede il segnale del “tutti a bordo!”.
Grigorij non riusciva a vedere il fratello. Qualcosa era andato storto? Lev aveva cambiato un"altra volta i suoi piani o era già stato arrestato?
Un bambino lo tirò per la manica. «Un uomo vuole parlare con te.»
«Quale uomo?»
«Uno che ti somiglia.»
“Grazie a Dio” pensò Grigorij. «Dov"è?»
«Dietro le assi.»
Sul molo era accatastato del legname. Grigorij vi girò attorno di corsa e lì dietro trovò nascosto Lev, che fumava nervosamente una sigaretta. Era pallido e agitato: una visione rara, dato che anche nelle avversità si mostrava sempre allegro.
«Sono nei guai.»
«Di nuovo.»
«Quelli delle chiatte sono dei bugiardi.»
«E magari anche ladri.»
«Lascia perdere il sarcasmo. Non c"è tempo.»
«Hai ragione. Devi andartene dalla città finché le acque non si calmano.»
Lev soffiò fuori il fumo scuotendo la testa in segno di diniego. «Uno di loro è morto e io sono ricercato per omicidio.»
«Accidenti!» Grigorij sedette su un"asse e si prese la testa fra le mani. «Un omicidio…»
«Trofim è stato ferito gravemente e la polizia lo ha costretto a parlare. Lui ha detto che sono stato io.»
«Come fai a saperlo?»
«Ho visto Fèdor mezz"ora fa.» Fёdor era un poliziotto corrotto di sua conoscenza.
«Una pessima notizia.» «E ce n"è una peggiore. Pinskij ha giurato di prendermi…
per vendicarsi di te.»
Grigorij annuì. «Quello che temevo.»
«Cosa faccio?»
«Devi andare a Mosca. A San Pietroburgo per un po" non sarai al sicuro… forse per sempre.»
«Non so se basta andare a Mosca. Ora la polizia ha il telegrafo.»
Grigorij si rese conto che aveva ragione.
La sirena della nave suonò ancora. Presto le passerelle sarebbero state ritirate.
«Abbiamo soltanto un minuto. Cos"hai intenzione di fare?»
«Potrei andare in America» rispose Lev.
Grigorij lo fissò.
«Potresti darmi il tuo biglietto.»
Non lo aveva neanche preso in considerazione.
Ma Lev continuò con logica spietata. «Se uso i tuoi documenti e il passaporto per entrare negli Stati Uniti, nessuno si accorgerà della differenza.»
Grigorij vide svanire il suo sogno, come quando finiva un film al cinema Soleil sulla prospettiva Nevskij e in sala si accendevano le luci rivelando il mondo reale, con i suoi colori smorti e i pavimenti sudici. «Darti il mio biglietto» ripeté, nel disperato tentativo di rimandare il momento della decisione.
«Mi salveresti la vita.»
Grigorij sapeva di non avere scelta, e rendersene conto gli procurò una fitta al cuore.
Prese i documenti dalla tasca dell"abito buono e glieli porse insieme a tutto il denaro che aveva risparmiato per il viaggio. Poi gli allungò la valigia di cartone con il foro di proiettile.
«Ti manderò i soldi per un altro biglietto» disse Lev infervorato. Grigorij non replicò, ma dall"espressione doveva trapelare il suo scetticismo, perché il fratello insistette: «Puoi contarci, te lo giuro. Risparmierò».
«Va bene.»
Si abbracciarono. «Sei sempre stato buono con me» disse Lev. «Già.»
Lev corse verso la nave. I marinai stavano mollando gli ormeggi. Erano sul punto di ritirare la passerella, ma lui gridò e loro attesero ancora qualche istante.
Salì di volata sul ponte e, appoggiato al parapetto, salutò il fratello con la mano.
Grigorij non riuscì a restituire il saluto. Gli girò le spalle e si allontanò. Udì la sirena della nave, ma non guardò indietro.
Il braccio destro sembrava stranamente leggero senza il peso della valigia.
Ripercorse i moli con lo sguardo fisso sull"acqua nera, profonda; d"un tratto si insinuò nella sua mente il pensiero di buttarsi. Si riscosse; non si sarebbe fatto prendere da idee tanto sciocche. Ciò nonostante era depresso e amareggiato. La vita non gli aveva mai servito una carta vincente.
Attraversò nuovamente il distretto industriale, incapace di consolarsi. Camminava a occhi bassi, senza neppure preoccuparsi della polizia: gli era quasi indifferente se lo arrestavano.
Cosa avrebbe fatto? In quel momento sentiva di non avere la forza di prendere decisioni. Era un bravo operaio e, una volta terminato lo sciopero, sarebbe stato riammesso in fabbrica. Forse era il caso di andare a vedere subito a che punto era la trattativa… ma non se la sentì.
Un"ora dopo si ritrovò nei pressi del bar di Miska. Non aveva intenzione di fermarsi, ma sbirciando all"interno vide Katerina, seduta dove l"aveva lasciata due ore prima, con davanti il bicchiere di tè ormai freddo. Si rese conto che doveva dirle cos"era successo.
Entrò. Non c"era nessuno a eccezione di Miška, che spazzava il pavimento.
Katerina si alzò con aria spaventata. «Perché sei qui? Hai perso la nave?»
«Non esattamente.» Non sapeva come darle la notizia.
«Allora? Lev è morto?»
«No, sta bene. Ma è ricercato per omicidio.»
Lei lo fissò. «Dov"è?»
«È dovuto andare via.»
«Dove?»
Non esisteva un modo indolore per dirglielo. «Mi ha chiesto di dargli il biglietto.»
«Il biglietto?»
«E il passaporto. È andato in America.»
«No!»
Grigorij si limitò ad annuire.
«No!» gridò di nuovo Katerina. «Lui non mi lascerebbe! Non dirlo, non dirlo mai più!»
«Cerca di stare calma.»
Gli diede uno schiaffo in faccia. Era solo una ragazza, e lui quasi non lo avvertì.
«Porco!» strillò. «Sei stato tu a mandarlo via!»
«L"ho fatto per salvargli la vita.»
«Bastardo! Cane! Ti odio! Odio la tua faccia!»
«Niente potrebbe farmi sentire peggio di come mi sento» disse Grigorij, ma lei non lo ascoltava. Si allontanò, ignorando le sue imprecazioni, e mentre usciva la voce di Katerina si affievolì.
Le urla cessarono. Udì dei passi che lo rincorrevano per strada. «Fermati! Fermati, Grigorij, ti prego. Scusami, non voltarmi le spalle.»
Lui si girò.
«Grigorij, ora che Lev se n"è andato devi pensarci tu a me.»
Lui scosse la testa. «Io non ti servo. Gli uomini di questa città faranno la coda per prendersi cura di te.»
«No, invece. C"è una cosa che non sai.»
“Cos"altro?” pensò Grigorij.
«Lev non voleva che te lo dicessi.»
«Continua.»
«Aspetto un bambino.» Katerina scoppiò a piangere.
Grigorij, immobile, cercò di assimilare la notizia. Il figlio di Lev, ovviamente. E
Lev lo sapeva. Eppure se n"era andato in America. «Un bambino» ripeté.
Lei annuì tra le lacrime.
Il figlio di suo fratello. Suo nipote o sua nipote. La sua famiglia.
La cinse con un braccio e la strinse a sé. Scossa dai singhiozzi, lei affondò la faccia nella sua giacca. Le accarezzò i capelli. «Su, non preoccuparti, andrà tutto bene… per te e anche per il tuo bambino.» Sospirò. «Ci sarò io a prendermi cura di voi.»
II
Viaggiare sull"Angelo Gabriele era deprimente anche per un ragazzo dei bassifondi di San Pietroburgo. Esisteva solo una classe, la terza, e i passeggeri erano trattati alla stregua delle merci. La nave
era sporca e malsana, specialmente quando la gente vomitava a causa del mare grosso. Non era possibile lamentarsi con quelli dell"equipaggio perché nessuno di loro parlava russo. Lev non sapeva di quale nazionalità fossero e, con la sua infarinatura di inglese o con il tedesco ancora più scarso, non riusciva a farsi capire.
Qualcuno sosteneva fossero olandesi, un popolo di cui lui non aveva mai sentito parlare.
Malgrado ciò i passeggeri erano ottimisti e l"umore alto. Lev si sentiva libero, come se fosse evaso sfondando le mura di recinzione delle prigioni dello zar. Stava andando in America, dove non c"erano nobili. Quando il mare era calmo, i passeggeri sedevano sul ponte e si raccontavano le storie che avevano sentito su quel paese: l"acqua calda che usciva dai rubinetti, il cuoio di buona qualità anche per gli scarponi degli operai e soprattutto la libertà di praticare qualsiasi religione, entrare in qualsiasi gruppo politico, esprimere in pubblico le proprie idee senza paura della polizia.
Il pomeriggio del decimo giorno Lev stava giocando a carte. Era il mazziere ma perdeva, come tutti tranne Spirya, un ragazzo dall"aria innocente dell"età di Lev, anche lui in viaggio da solo.
«Spirya vince sempre» disse Jakov, un altro giocatore. In effetti Spirya vinceva quando era Lev a dare le carte.
Il piroscafo procedeva lentamente nella nebbia. Il mare era calmo e non si sentiva nulla oltre al rumore cupo dei motori. Lev non era riuscito a scoprire quando sarebbero arrivati. I compagni di viaggio avanzavano ipotesi di vario genere: secondo i meglio informati, dipendeva dalle condizioni del tempo. L"equipaggio era come sempre imperscrutabile.
Al calare della sera, Lev gettò le carte sul tavolo. «Mi avete ripulito» disse. In realtà dentro la camicia nascondeva un sacco di soldi, ma vedeva che gli altri giocatori erano praticamente al verde, tutti tranne Spirya. «Ecco qua» aggiunse.
«Appena arrivo in America mi faccio notare da qualche ricca vecchietta e vado a farle da cane di compagnia nel suo palazzo di marmo.»
Gli altri risero. «Ma perché dovrebbe volerti come cane?» fece Jakov.
«Le vecchiette di notte patiscono il freddo, e lei potrebbe aver bisogno del mio attrezzo per riscaldarsi.»
La partita finì allegramente e i giocatori si separarono.
Spirya andò a poppa e si appoggiò al parapetto a osservare la scia svanire nella nebbia. Lev lo raggiunse. «La mia metà è di sette rubli tondi» esordì.
Spirya tirò fuori di tasca le banconote e gliele allungò facendosi schermo con il corpo, in modo che nessuno potesse vedere il passaggio dei soldi.
Lev intascò le banconote e riempì la pipa.
«Dimmi una cosa, Grigorij.» Era così che Lev aveva detto di chiamarsi, dato che viaggiava con i documenti del fratello. «Cosa faresti se rifiutassi di darti la tua parte?»
Il discorso aveva preso una piega pericolosa. Lev con un gesto lento mise via il tabacco e ripose la pipa spenta nella tasca della giacca. Poi afferrò Spirya per il bavero e, spingendolo contro il parapetto, lo fece piegare all"indietro e sporgere nel vuoto. Spirya era più alto di Lev ma di gran lunga meno forte. «Ti spezzerei il collo e mi prenderei tutti i soldi che ti sei fatto grazie a me.» Lo spinse ancora più in fuori.
«Poi ti farei volare in questo dannatissimo mare.»
Spirya era terrorizzato. «D"accordo! Lasciami andare!»
Lev mollò la presa.
«Gesù!» esclamò Spirya ansimante. «Ti ho fatto solo una domanda.»
Lev accese la pipa. «E io ti ho dato una risposta. Non dimenticartene.»
Spirya si allontanò.
Quando la nebbia si diradò, la terra era ormai in vista. Faceva buio e si scorgevano le luci di una città. Dov"erano? Alcuni dicevano in Canada, altri in Irlanda… Nessuno lo sapeva.
Le luci si avvicinarono e la nave rallentò. Stavano per approdare. Qualcuno disse che erano arrivati in America! Lev pensò che dieci giorni fossero un po" pochi. Ma cosa ne sapeva lui? Rimase accanto al parapetto con la valigia di cartone del fratello e il cuore che batteva forte.
La valigia gli fece venire in mente che ad arrivare in quel momento in America avrebbe dovuto essere Grigorij. Non aveva dimenticato la promessa di mandare al fratello i soldi del biglietto. E quella era una promessa da mantenere. Grigorij gli aveva salvato la vita… di nuovo. “Mi è andata proprio bene ad avere un fratello come lui” pensò.
Sulla nave faceva i soldi, ma non abbastanza in fretta. Gli serviva una grossa vincita: con sette rubli non sarebbe andato da nessuna parte. Ma l"America era una terra di opportunità e là avrebbe costruito la sua fortuna.
Aveva venduto la scacchiera a un ebreo per cinque copechi. La scoperta del foro nella valigia e del proiettile conficcato nella scatola con i pezzi degli scacchi lo aveva intrigato: chissà come mai avevano sparato a Grigorij.
Gli mancava Katerina. Adorava andare in giro sottobraccio a una ragazza come lei, consapevole di suscitare l"invidia degli uomini. Ma ora, in America, avrebbe trovato un sacco di ragazze.
Si chiese se Grigorij sapesse già che Katerina era incinta. Provò una punta di rimpianto: avrebbe mai visto suo figlio? Comunque non era il caso di preoccuparsi di averla lasciata da sola a crescere un bambino; Katerina avrebbe trovato qualcun altro che si sarebbe preso cura di lei. Era una sopravvissuta.
Finalmente, dopo mezzanotte, la nave attraccò. Il molo era scarsamente illuminato e non si vedeva nessuno. I passeggeri sbarcarono con le loro valigie, le scatole e i bauli.
Un membro dell"equipaggio dell"Angelo Gabriele li fece entrare in una baracca dove c"erano alcune panche. «Dovete aspettare qui. Domattina arriveranno quelli dell"immigrazione» spiegò rivelando di conoscere un po" di russo.
Per gente che aveva risparmiato anni e anni, l"arrivo in quel posto costituì una certa delusione. Le donne si sedettero sulle panche e i bambini si misero a dormire, mentre gli uomini attendevano il mattino fumando. Poco dopo udirono un rumore di motori; Lev uscì dalla baracca e vide che la nave aveva mollato gli ormeggi e si stava allontanando lentamente. Forse andava a scaricare altrove le casse di pelli.
Cercò di ricordare cosa gli aveva detto una volta Grigorij a proposito di ciò che sarebbe successo all"arrivo nel nuovo paese. Gli immigranti dovevano sottoporsi a una visita medica: un momento delicato, perché chi non era ritenuto sano veniva rispedito indietro con conseguente spreco di denaro e perdita di ogni speranza. A volte i funzionari dell"immigrazione cambiavano i nomi delle persone per renderli più facilmente pronunciabili dagli americani. Appena fuori dal porto, un rappresentante della famiglia Vyalov li avrebbe accolti per accompagnarli in treno a Buffalo. Là avrebbero trovato lavoro negli alberghi o nelle fabbriche di proprietà di Josef Vyalov.
Lev si chiese quanto distasse Buffalo da New York. Per arrivarci ci voleva un"ora…
o una settimana? Rimpianse di non aver ascoltato il fratello con maggiore attenzione.
Il sole si alzò su una distesa di moli affollati e Lev si sentì nuovamente euforico.
Vide una foresta di alberi e sartiame di antiquate barche a vela e fumaioli di piroscafi; lungo le banchine c"erano grandiosi edifici e baracche fatiscenti, alte gru e tozzi argani; scalette, cordame, carretti. Rivolto verso la terraferma, Lev poteva scorgere fitte file di vagoni ferroviari pieni di carbone, centinaia… no, migliaia, che si dissolvevano in lontananza, a perdita d"occhio. Era deluso che non si vedesse la famosa Statua della Libertà con la fiaccola: doveva essere dietro un promontorio, fuori dalla sua visuale.
Giunsero i portuali: inizialmente a piccoli gruppi, poi una fiumana. Alcune navi partivano, altre arrivavano. Una decina di donne cominciò a scaricare sacchi di patate da un piccolo bastimento di fronte alla baracca.
Lev si chiese quando sarebbero arrivati quelli dell"ufficio immigrazione.
Spirya gli si avvicinò. Sembrava averlo perdonato per il modo in cui l"aveva trattato. «Si sono dimenticati di noi.»
«A quanto pare» disse Lev confuso.
«Hai voglia di fare un giro per trovare qualcuno che parla russo?»
«Buona idea.»
Spirya si rivolse a uno dei più anziani del gruppo. «Andiamo a cercare di capire cosa sta succedendo.»
L"uomo era agitato. «Forse è meglio stare qui come ci hanno detto.»
Lo ignorarono e si avvicinarono alle donne delle patate. Lev sfoderò il suo sorriso più accattivante. «Qualcuna parla russo?»
Una delle più giovani restituì il sorriso, ma nessuna rispose alla sua domanda. Era frustrato: le sue doti di ammaliatore non funzionavano se la gente non lo capiva.
Si incamminò con Spirya nella direzione da cui era arrivata la maggior parte dei lavoratori. Nessuno fece caso a loro. Giunsero a una grande cancellata, la oltrepassarono e si ritrovarono in una
strada di negozi e uffici con un frenetico viavai di automobili, tram elettrici, cavalli e carretti a mano. Quasi a ogni passo Lev si rivolgeva a qualcuno, ma nessuno rispondeva.
Era sconcertato. Che paese era quello in cui chiunque poteva sbarcare da una nave ed entrare in città senza permesso?
Poi un edificio attirò la sua attenzione: aveva l"aspetto di un albergo, ma sui gradini erano seduti due uomini malvestiti, con in testa il berretto da marinaio, intenti a fumare. «Guarda là» disse a Spirya.
«E allora?»
«Penso sia una Casa del marinaio, come quella di San Pietroburgo.»
«Noi non siamo marinai.»
«Ma dentro ci possono essere persone che parlano diverse lingue.»
Entrarono. Una donna dai capelli grigi dietro un bancone disse loro qualcosa.
«Non parliamo americano» rispose Lev nella sua lingua.
«Russi?» fece lei in russo.
Lev annuì.
Si sentì rinfrancato quando la donna li invitò ad avvicinarsi con un gesto della mano.
La seguirono lungo il corridoio in un ufficetto con la finestra che si affacciava sull"acqua. Dietro la scrivania c"era un uomo che Lev giudicò un ebreo russo, anche se non avrebbe saputo spiegarne la ragione. «Parla russo?» gli chiese.
«Io sono russo. Posso esservi utile?»
Lev lo avrebbe abbracciato, invece gli rivolse un sorriso cordiale guardandolo negli occhi. «Dovevano venire a prenderci alla nave e accompagnarci a Buffalo, ma non si è fatto vivo nessuno» spiegò in tono pacato e preoccupato. «Siamo in trecento circa…» Per impietosirlo aggiunse: «… compresi donne e bambini. Pensa di poterci aiutare a trovare il nostro contatto?».
«Buffalo? Ma lei dove pensa di essere?»
«A New York, naturalmente.»
«Questa è Cardiff.»
Lev non aveva mai sentito parlare di Cardiff, tuttavia cominciava a capire. «Quello stupido di un capitano ci ha fatto sbarcare nel posto sbagliato. Come si arriva a Buffalo da qui?»
L"uomo indicò il mare fuori dalla finestra e Lev ebbe la terribile sensazione di sapere cosa stava per sentire.
«Da quella parte» disse l"uomo. «A circa tremila miglia.»
III
Lev si informò sul costo del biglietto da Cardiff a New York e lo convertì in rubli: era dieci volte la somma che nascondeva sotto la camicia.
Represse la rabbia. Erano stati imbrogliati tutti dalla famiglia Vyalov o dal capitano del piroscafo… o più probabilmente da entrambi: insieme era più facile realizzare la truffa. Quei porci avevano rubato tutto il denaro faticosamente risparmiato da Grigorij. Se avesse potuto prendere per il collo il capitano dell"Angelo Gabriele, lo avrebbe strozzato e si sarebbe messo a ridere guardandolo morire.
Comunque non serviva a nulla alimentare sogni di vendetta: la cosa principale era non arrendersi. Avrebbe trovato un lavoro, imparato l"inglese e sarebbe entrato in un giro di gioco d"azzardo d"alto livello. Ci volevano tempo e pazienza. Doveva imparare a essere un po" più simile a Grigorij.
Quella prima notte dormirono tutti sul pavimento della sinagoga. Lev si aggregò agli altri. Gli ebrei di Cardiff non sapevano che alcuni passeggeri erano cristiani, o forse non lo consideravano un problema.
Per la prima volta in vita sua Lev capì il vantaggio di essere ebreo. In Russia gli ebrei erano sottoposti a una vera persecuzione, e lui si era chiesto come mai un certo numero di loro non abbandonasse la propria religione e cambiasse modo di vestire per mescolarsi agli altri; si sarebbero salvati in molti. Ma ora capiva che in qualsiasi angolo del mondo un ebreo poteva trovare qualcuno che lo accogliesse come in una famiglia.
Venne fuori che, prima di loro, altri emigranti russi avevano comprato il biglietto per New York e si erano ritrovati da qualche altra parte. A Cardiff era già successo, e anche in altri porti della Gran Bretagna; siccome moltissimi emigranti russi erano ebrei, per gli anziani della sinagoga era diventata una sorta di routine. Il mattino seguente i viaggiatori abbandonati ricevettero una colazione calda e si fecero cambiare il loro denaro in sterline, scellini e penny; poi furono accompagnati in pensioni dove potevano prendere in affitto una camera a poco prezzo.
Come ogni altra città del mondo, Cardiff aveva migliaia di scuderie. Lev studiò abbastanza parole per poter spiegare che aveva una lunga esperienza in fatto di cavalli, quindi si mise a girare in cerca di un impiego. I potenziali datori di lavoro non ci mettevano molto a intuire che con gli animali lui ci sapeva fare ma, per quanto ben disposti nei suoi confronti, desideravano rivolgergli alcune domande: Lev però non li capiva, quindi non poteva rispondere.
Preso dalla disperazione, si mise a studiare con maggiore impegno e nel giro di qualche giorno riuscì a orientarsi fra i prezzi e a chiedere una birra o del pane.
Tuttavia i datori di lavoro gli ponevano domande complicate, probabilmente sulle esperienze precedenti ed eventuali guai con la giustizia.
Tornò alla Casa del marinaio e spiegò il suo problema al russo dell"ufficetto.
L"uomo gli fornì un indirizzo di Butetown, il quartiere a ridosso del porto, e gli disse di chiedere di Filip Kowal, detto “Kowal il Polacco”. Questi risultò essere un caposquadra con un"infarinatura di molte lingue europee che assumeva stranieri a basso salario. Disse a Lev di farsi trovare con la valigia alle dieci del mattino del lunedì successivo sul piazzale di fronte alla stazione principale.
Lev era così felice che non chiese neppure di quale tipo di lavoro si trattasse.
Si presentò all"appuntamento insieme a circa duecento uomini, soprattutto russi, ma anche tedeschi, polacchi, slavi e persino un africano dalla pelle scura. Si accorse con sollievo che c"erano anche Spirya e Jakov.
Furono intruppati tutti su un treno – i biglietti erano stati pagati da Kowal – che si diresse sbuffando verso nord, attraverso un ridente paesaggio collinoso. Nel verde delle valli tra le alture si estendevano città industriali simili a pozzanghere di acqua scura. Una caratteristica comune a tutte era una torre con due ruote gigantesche in cima. Lev apprese che l"economia della regione si basava sull"estrazione del carbone.
Parecchi dei suoi compagni di viaggio erano minatori; altri avevano esperienza nella lavorazione del metallo e molti erano operai non specializzati.
Scesero dal treno dopo un"ora e uscirono in fila dalla stazione. Lev si rese conto che non si trattava di un lavoro qualsiasi. Molte centinaia di uomini – tutti con il berretto e gli abiti da operaio – erano in attesa nel piazzale. Li accolsero in un silenzio inquietante, poi uno tra la folla gridò qualcosa e gli altri lo imitarono. Lev non aveva idea di cosa stessero dicendo, ma avvertiva chiaramente la loro ostilità. A contenere quella moltitudine al di là di una linea immaginaria c"era un cordone di venti o trenta poliziotti.
«Chi sono?» domandò Spirya spaventato.
«Bassi, muscolosi, faccia dura e mani pulite: direi minatori in sciopero» rispose Lev.
«Hanno l"aria di volerci fare la pelle. Cosa diavolo sta succedendo?»
«Noi siamo crumiri» rispose Lev, cupo.
«Dio ci scampi.»
«Seguitemi!» gridò Kowal il Polacco in diverse lingue, e tutti si misero in marcia lungo la strada principale. La folla continuava a urlare agitando i pugni, ma nessuno sfondò il cordone.
Era la prima volta che Lev si sentiva riconoscente nei confronti della polizia. «È
una cosa orribile.»
«Ora sai cosa vuol dire essere ebreo» fece Jakov.
Si lasciarono alle spalle i minatori inferociti e risalirono la collina lungo strade di casette a schiera: molte, notò Lev, sembravano vuote. Procedettero sotto lo sguardo gelido della gente, però almeno gli insulti erano cessati. Kowal cominciò ad assegnare le case; Lev e Spirya ne ebbero una tutta per loro. Erano sbalorditi. Prima di andarsene, Kowal indicò la torre con le ruote e disse loro di trovarsi all"imboccatura della miniera la mattina successiva alle sei. Quelli che erano minatori avrebbero cavato il carbone, gli altri si sarebbero occupati della manutenzione delle gallerie e delle attrezzature, oppure, come nel caso di Lev, avrebbero badato ai pony.
Lev si guardò attorno nella sua nuova casa: non una reggia, certo, ma pulita e asciutta, con una grande stanza al pianterreno e due al piano superiore. Una camera per ciascuno! Lev non ne aveva mai avuta una tutta per sé. Non c"erano mobili, ma loro erano abituati a dormire per terra, e a giugno non servivano neppure le coperte.
Lev avrebbe evitato volentieri di uscire, ma aveva troppa fame. In casa non c"era niente, così lui e Spirya si incamminarono in cerca di qualcosa da mangiare.
Entrarono trepidanti nel primo pub che trovarono, ma i clienti, più o meno una decina, li incenerirono con lo sguardo. Quando Lev ordinò in inglese: «Due pinte di mezza chiara e mezza scura», il barista lo ignorò.
Scesero giù per la collina verso il centro cittadino e trovarono un bar. Lì almeno la clientela non sembrava avere cattive intenzioni, tuttavia rimasero seduti a un tavolo a osservare per mezz"ora la cameriera che serviva tutti quelli che erano arrivati dopo di loro. Uscirono.
Sarebbe stato difficile vivere in quel posto, si rese conto Lev. Ma non avrebbe dovuto rimanerci a lungo: non appena avesse messo da parte abbastanza denaro, sarebbe andato in America. Nel frattempo, doveva pure mangiare.
I due entrarono in una panetteria. Stavolta Lev era determinato a ottenere ciò che voleva: indicò una rastrelliera di pagnotte e disse in inglese: «Un pane, per favore».
II fornaio finse di non capire.
Lev allungò il braccio sul banco e afferrò una pagnotta. “Adesso” pensò “vediamo come fa a riprendersela.”
«Ehi!» gridò il fornaio, ma rimase dietro il banco.
Lev sorrise. «Quant"è, per favore?»
«Un penny e un quarto» rispose il fornaio accigliato.
Lev mise le monete sul banco. «Grazie infinite.»
Spezzò la pagnotta e ne diede mezza a Spirya; poi, mangiando, proseguirono per il centro. Arrivarono alla stazione, dove la folla si era dispersa. Sul piazzale uno strillone vendeva giornali: stavano andando a ruba e Lev si chiese se fosse successo qualcosa di importante.
Una grossa macchina arrivò veloce, e loro dovettero scansarsi con un balzo.
Lev osservò il passeggero sul sedile posteriore e riconobbe, attonito, la principessa Bea. «Buon Dio!» esclamò. In un baleno la sua mente tornò a Bulovnir e alla vista terrificante del padre che moriva sul patibolo sotto gli occhi di quella donna. Nella sua vita non si era mai sentito terrorizzato come in quel momento. Niente l"avrebbe mai più spaventato tanto: risse per strada, manganelli della polizia e neppure una pistola puntata.
L"auto si fermò davanti all"ingresso della stazione. Mentre la principessa Bea scendeva, lui fu sopraffatto da un senso di odio, disgusto e nausea. Il pane in bocca sembrava diventato ghiaia e lo sputò.
«Cosa succede?» chiese Spirya.
Lev si ricompose. «Quella è una principessa russa. Ha fatto impiccare mio padre quattordici anni fa.»
«Troia. Che diavolo ci fa qui?»
«Ha sposato un lord inglese. Devono vivere qui vicino. Forse la miniera è sua.»
L"autista e una cameriera si affaccendarono attorno ai bagagli. Lev udì Bea rivolgersi in russo alla donna, che rispose nella stessa lingua. Entrarono tutti in stazione, poi la cameriera tornò indietro per comprare il giornale.
Lev le si avvicinò. Si tolse il berretto, fece un profondo inchino e disse in russo:
«Lei deve essere la principessa Bea».
La donna rise, allegra. «Non faccia lo sciocco. Io sono la cameriera, Nina. Lei chi è?»
Lev presentò se stesso e Spirya, poi spiegò perché si trovavano in quel posto e che non riuscivano a comprare da mangiare.
«Sarò di ritorno stasera» disse Nina. «Stiamo andando solo a Cardiff. Venite alla porta della cucina di Ty Gwyn e vi darò un po" di carne fredda. Seguite la strada che esce dalla città in direzione nord finché non arrivate a una grande residenza.»
«Grazie, bella signora.»
«Potrei essere sua madre» ribatté lei. Ciò nonostante gli rivolse un sorriso civettuolo. «Sarà meglio che porti il giornale alla principessa.»
«Cos"è successo di tanto importante?»
«Oh, una notizia dall"estero» disse Nina con noncuranza. «C"è stato un assassinio.
La principessa è terribilmente sconvolta. L"arciduca d"Austria Francesco Ferdinando è stato assassinato in un posto che si chiama Sarajevo.»
«È una cosa spaventosa per una principessa.»
«Già» fece Nina. «Comunque non credo che per gente come noi cambi qualcosa.»
«No. Penso di no» concordò Lev.