HALLDÓR LAXNESS — Premio
Nobel per la letteratura nel 1955, è considerato il grande maestro
della narrativa islandese del Novecento. Viaggiatore infaticabile,
trapiantato in America per anni, è venuto in contatto con le
principali correnti culturali del suo tempo. Le sue opere più
famose sono Gente indipendente
e Il concerto
dei pesci, entrambe pubblicate da
Iperborea, oltre a L’onore della
casa, La
base atomica, Sotto il ghiacciaio e
Sette Maghi.
Con la
contraddittorietà così connaturale agli islandesi, ecco che alcuni
di noi si affannano a proclamare dentro e fuori dal paese, in
particolare nelle pubblicità turistiche e in altre informazioni
rivolte agli stranieri, che l’Islanda è una terra in cui è
possibile vedere una natura incontaminata. Ma è pur vero – e lo sa
chiunque voglia saperlo – che in tutta Europa l’Islanda è l’unica
terra la cui rovina sia totalmente imputabile all’uomo. È stata
devastata nel corso degli ultimi mille anni, mentre l’Europa veniva
sviluppata.
L’uomo, al suo arrivo
qui, ha trovato una landa intatta, fittamente coperta di fragile
vegetazione artica, erica e arbusti vari, in certi punti quasi
boschiva; c’era anche una pletora di piccoli fiori; e paludi dove
crescevano erbe alte, giuncheti e cariceti brulicanti di creaturine
di ogni genere, che attiravano uccelli come accade ai nostri giorni
nella regione del Þjórsá.
Molti indizi fanno
pensare che i primi coloni considerassero la natura islandese come
una preda nella quale avevano appena affondato gli artigli. Il
concetto di bellezza del paesaggio in quella popolazione non
esisteva proprio. E non sarebbe comparso nelle fonti documentarie
fino a mille anni dopo la colonizzazione. L’idea che la natura sia
bella non viene dalla gente di campagna, ma dalla più tarda cultura
urbana, e a noi è arrivata dalla Germania, tramite la Danimarca,
all’epoca dei nostri nonni. E ovviamente la natura risulta bella
soltanto se paragonata a qualcos’altro. Se non esistessero le
campagne coltivate, la natura non sarebbe «bella». La «natura
incontaminata» è bella soltanto adesso, cioè all’epoca in cui viene
contrapposta alle città, dove la gente si è rifugiata perché le
campagne non offrivano sostentamento sufficiente.
Se ci fosse stata
un’era, anche un solo millennio, in cui in Islanda c’era più tepore
e meno vento di adesso, per esempio nell’epoca in cui gli alberi
crescevano fino alle dimensioni del tronco fossile dei Fiordi
Occidentali, che ho visto e che – a quanto ricordo – ha quasi
duecento cerchi, nulla vieterebbe di pensare che anticamente
l’Islanda fosse verde, e che magari sull’altopiano di Sprengisandur
ci fosse una foresta. Del resto ci sono persone che hanno visto una
regione, da verde che era nella loro giovinezza, diventare come lo
Sprengisandur.
È fuor di dubbio che i
venti fossero nemici della vegetazione d’altura già prima della
colonizzazione d’Islanda. Poi è arrivato l’uomo con il suo bestiame
e ha accelerato l’opera del vento facendo pascolare i suoi animali
nell’entroterra coperto di delicate pianticelle a crescita lenta;
gli uomini cercavano un angolino dove vivere tutto per sé e ognuno
per sé. Il bestiame consumava la vegetazione fino alla radice, e il
vento spazzava via il terriccio prima che le erbette a crescita
lenta di questi climi freddi avessero il tempo di
attecchirvi.
Dai toponimi si evince
che quei coloni nutrivano speranze agricole su questa nuova terra;
quando non bruciavano sterpaglie per rendere coltivabile il
terreno, lo facevano per dispetto l’uno verso l’altro, a dar retta
alle antiche saghe. Erano uomini dell’Età del ferro, ma senza
accesso al ferro, e per procurarselo dovevano prima produrre
carbone; a pagarne il prezzo doveva essere, nella fattispecie, la
bassa vegetazione. In più, le piante legnose sono state abbattute
per ricavarne combustibile fino ai giorni nostri. A ogni nuova
generazione queste ferite diventano sempre più il tratto distintivo
dell’Islanda. Ancora oggi viene erosa di anno in anno più terra di
quanta non ne venga aggiunta alle coltivazioni.
Negli ultimi decenni
sono stati dati vari premi da parte della collettività a
coltivatori che hanno bonificato paludi – cioè le aree dalla
vegetazione più vitale d’Islanda – per metterle a prato. Le robuste
radici delle piante di palude tengono insieme il suolo poroso che
l’acqua arricchisce di sostanze vitali, favorendo così la
proliferazione di piccole forme di vita, che a loro volta attirano
gli uccelli. Si sente dire che le paludi sono il polmone d’Islanda.
Quando si bonifica una palude per trasformarla in prato, si
aggrediscono le fragili flora e fauna di questa nazione. La gente
non capisce che le alture aride, le distese sabbiose e altre zone
deserte d’Islanda sono nate proprio perché è stato eroso il prato?
Sarebbe stato stupido, almeno negli ultimi decenni, spingere i
contadini a trasformarle in prati: lo erano già in origine, ed è
stato lo sfruttamento indiscriminato a desertificarle... per poi
varare leggi per proteggere le paludi.
Ora, si potrebbe
ritenere che la rovina della natura stia andando avanti da fin
troppo tempo, e che sia giunto il momento di porvi un freno, e
invece ecco che alle forze distruttive della nazione se ne aggiunge
un’altra, più potente di quelle finora disponibili.
Per «migliorare il
tenore di vita della collettività» è stato ora impiantato, per
conto del ministero dell’Industria, un ufficio chiamato Ente per
l’energia, allo scopo di preparare il terreno a industrie pesanti,
alimentate dalle acque nazionali.
È innegabile che il
denaro entrato nelle casse statali grazie alle industrie pesanti
straniere che operano in Islanda, in particolare con la vendita di
elettricità, potrebbe costituire un piccolo incentivo per la
collettività, ma ancora non succede, perché la vendita di
elettricità alla fonderia di Straumsvík è, a conti fatti, in
perdita; il reddito nazionale che ricaviamo dalla lavorazione
dell’alluminio consiste unicamente negli stipendi degli operai
della fonderia, i quali non sono più numerosi dei braccianti di un
podere islandese medio. Dunque l’industria pesante straniera non ha
alcuna rilevanza per la crescita industriale islandese. La vendita
di elettricità alle grandi imprese straniere è a tutti gli effetti
un affare di Stato, che tocca in misura insignificante il nostro
mercato del lavoro, la produttività e l’esportazione.
Il problema sorge quando
un certo ente che regola le centrali elettriche per conto di
un’eventuale industria pesante dà ai produttori di energia la piena
libertà di grattare il terreno come un toro su un campo appena
arato, e perfino di danneggiare o distruggere i luoghi che, per
fertilità, bellezza naturale o importanza storica, sono
particolarmente cari al popolo islandese e universalmente rinomati
per essere tra i più preziosi tesori del pianeta.
«La gente non capisce che le alture aride, le
distese sabbiose e altre zone deserte d’Islanda sono nate proprio
perché è stato eroso il prato?»
BOTTA E
RISPOSTA
Con «Guerra alla nazione» Laxness intendeva
rispondere a un articolo scritto qualche mese prima da un membro
dell’Ente per l’energia e pubblicato sulla rivista Samvinnan con il titolo «Sulla tutela della natura,
con particolare riguardo allo sviluppo idroelettrico in Islanda».
L’autore, Jakob Björnsson, era lo stesso burocrate che parlò al
convegno internazionale sull’ambiente citato da Laxness e che il
premio Nobel definì un «nemico dell’Islanda». In quell’articolo
Björnsson si lamentava dei tanti veti posti dagli ambientalisti e
sosteneva che lo sfruttamento delle acque islandesi fosse una
questione di massima urgenza. Sulla minaccia al Þjórsárver scrisse:
«A mio giudizio, ogni tentativo discusso per salvare le ricchezze
naturali comporterebbe un costo inaccettabile per la
nazione.»