ARTHUR GUSCHIN — Ricercatore presso il Centro studi sull’acquacoltura Akvaplan-Niva, in Norvegia, in precedenza è stato analista senior alla Scuola di studi internazionali S. Rajaratnam (Rsis) di Singapore, ricercatore ospite presso l’Istituto nordico di studi asiatici in Danimarca e consulente per questioni artiche per il Centro di ricerca e sviluppo del Consiglio di stato cinese.
Gli sforzi fatti dalla Cina negli ultimi anni per accrescere la sua presenza nell’Artico possono essere oggi considerati un successo. Fino al 2014 gli osservatori erano sorpresi dalle attività di diplomatici, dirigenti e scienziati cinesi in quell’area e parlavano addirittura di una possibile «minaccia cinese» nell’Artico. Oggi invece la Cina è vista come un attore fondamentale, che fornisce collegamenti forti alla regione e ne spinge lo sviluppo economico. L’ammissione della Cina allo status di osservatore permanente nel Consiglio artico nel 2013 è emblematica della tacita accettazione dell’espansione artica di Pechino. Al tempo stesso il consolidamento di relazioni bilaterali con ogni membro del Consiglio artico ha permesso alla Cina di dare avvio ai suoi sforzi per risolvere le questioni economiche nelle politiche regionali. Nei piani della Cina, l’Islanda è di strategica importanza.
INTERESSE POLITICO
Lo sviluppo e il rafforzamento dei legami di Pechino con Reykjavík devono essere compresi nel contesto del ruolo di partner influente che sta giocando l’Islanda nella trasformazione istituzionale della regione, come dimostrano i recenti successi dei suoi rappresentanti. Nel 2007, il ministro degli Esteri danese Per Stig Møller propugnò l’idea di risolvere i problemi dell’Artico all’interno del piccolo gruppo degli «Arctic five», cioè i cinque paesi che vi si affacciano: Stati Uniti, Russia, Canada, Danimarca e Norvegia. L’Islanda, che non era stata invitata, contestò quegli incontri dichiarando che qualsiasi decisione presa senza la partecipazione di Reykjavík, Helsinki e Stoccolma non sarebbe stata valida. Le proteste servirono: gli Arctic five si riunirono solo due volte, nel 2008 e nel 2010. Da allora il processo decisionale è tornato nelle mani del Consiglio artico. Consapevole della necessità di politiche più incisive, nel 2011 l’Islanda avviò colloqui su accordi di cooperazione nelle attività di ricerca e soccorso marittimo e aeronautico nell’Artico. Fece anche pressioni per creare una segreteria permanente del Consiglio a Tromsø, dove fu nominato direttore Magnús Jóhannesson, esperto funzionario del ministero dell’Ambiente e delle risorse naturali islandese.
Nel 2013, l’Islanda accrebbe il suo status nel dibattito sulla politica della regione ospitando la prima assemblea del Circolo polare artico, una conferenza internazionale in cui fu dedicata particolare attenzione ai protagonisti dell’area Asia-Pacifico: Cina, India, Corea del Sud e Singapore. Il successo della conferenza aiutò Reykjavík ad affermarsi come centro di scambio di opinioni sulle questioni fondamentali dello sviluppo economico, sociale ed ecologico dell’Artico. E la sua autorità fu ulteriormente rafforzata quando ottenne di ospitare l’Assemblea fino al 2017.
Infine, l’Islanda partecipò a un gruppo di lavoro insieme a Russia, Canada e Finlandia da cui nacque il Consiglio economico artico (Aec). L’Aec, tra l’altro, potrebbe diventare una piattaforma per gli investimenti cinesi nella regione, cambiando la posizione di Pechino da attore esterno a principale investitore non locale. Dal momento che la Cina non è rappresentata nell’Aec come membro alla pari, un rapporto di partenariato con Reykjavík potrebbe agevolare le ambizioni estere della Repubblica popolare.
Al di là dei meriti dell’Islanda come efficace facilitatore, l’avvicinamento tra Pechino e Reykjavík è anche un risultato dei complicati rapporti tra Islanda e Unione Europea. Le trattative per l’ingresso dell’Islanda nell’Unione affondarono per il mancato accordo sulle quote di pesca. Nonostante la volontà di Reykjavík di raggiungere un compromesso, Bruxelles sposò la linea dura. L’industria ittica rappresenta oltre il dieci per cento del Pil islandese e una diminuzione della pesca avrebbe effetti devastanti. Di conseguenza, l’Islanda interruppe le trattative (e ritirò temporaneamente la domanda di adesione). Cominciò in seguito a cercare una fonte alternativa di investimenti per dare impulso a un’economia che era stata messa a dura prova dalla crisi del 2008-09.
Pechino approfittò delle tensioni tra Reykjavík e Bruxelles per offrire uno swap di valute per un ammontare di 406 milioni di dollari, sancendo l’inizio di una collaborazione attiva con la nazione artica. In seguito la Cina aumentò il personale nella sua ambasciata locale fino a otto persone. I contatti crescenti tra i due paesi furono coronati da una visita dell’allora primo ministro del Consiglio di Stato Wen Jiabao, nell’aprile del 2012, e la firma di un pacchetto di accordi di cooperazione bilaterale. Un accordo di libero scambio nel 2013 rese l’Islanda il battistrada per gli interessi cinesi nell’Artico e fece passare in secondo piano l’Unione Europea. La fondazione del Simposio di cooperazione artica sino-nordica, la seconda conferenza scientifica internazionale di cui la Cina è membro effettivo, sigillò i rapporti. Vale la pena notare che la parte cinese è rappresentata da cinque centri accademici.
La cooperazione sino-islandese ha permesso a funzionari di Pechino e scienziati specializzati nell’Artico di partecipare e organizzare facilmente simposi internazionali per dimostrare la loro consapevolezza del futuro sviluppo della regione, mentre Reykjavík, da parte sua, si ritrova in un partenariato economico con la seconda economia mondiale.
ECONOMIA E AMBIENTE
La prosperità economica dell’Islanda si basa su tre settori principali: pesca e industria della lavorazione del pesce, produzione di alluminio e ferrolega, e l’utilizzo dell’energia geotermica per riscaldamento ed elettricità. Pechino ha valutato l’utilità economica di questi segmenti e deciso di provare a stabilire una cooperazione, con un occhio ai benefici finanziari e tecnologici.
L’interesse di Pechino nell’applicazione industriale dell’energia geotermica fa parte della strategia per migliorare le condizioni ambientali nella Repubblica popolare. L’utilizzo del carbone come principale combustibile per l’industria e per il riscaldamento domestico ha portato a un diffuso inquinamento dell’aria e ha innescato problemi ambientali che pongono una serie di domande sulle priorità dell’attuale piano quinquennale. Alla fine del 2015 le fonti di energia pulita rappresentavano l’11,4 per cento del fabbisogno energetico della Cina, e saranno il 15 per cento entro il 2020. Al contrario dell’energia eolica e solare, in cui Pechino ha investito in modo massiccio rispettivamente dal 2003 e dal 2011, lo sviluppo dell’energia geotermica non era neanche una possibilità, fino alla visita di Wen Jiabao a Reykjavík. Nel 2006 è stato lanciato il primo progetto pilota a Xianyang, nella provincia dello Shaanxi, che grazie al know-how islandese diventerà presto la città più ecologica nella Repubblica popolare cinese.